don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Giovedì, 21 Novembre 2024 00:00

Festa di Cristo Re dell’Universo

XXXIV Domenica Tempo Ordinario (anno B)  [24 Novembre 2024]

 

Prima lettura Dn 7,13-14

*Una scena di incoronazione

Il profeta Daniele descrive una  scena di incoronazione  “nelle nubi del cielo”, ovvero nel mondo di Dio con  un “figlio d’uomo” (in ebraico significa semplicemente un essere umano) che si avvicina al Vegliardo, che pochi versetti prima (v.9) descrive seduto su un trono: si comprende che è Dio. Il Figlio d’uomo avanza per essere consacrato re: “gli furono dati potere, gloria e regno…il suo è un potere eterno che non finirà mai”, regalità universale ed eterna che però non conquista con la forza e, come precisa Daniele, non si avvicina verso il trono di Dio di sua iniziativa. Questa domenica si ferma qui la lettura, ma per meglio capire occorre andare un po’ oltre e si comprende che questo “figlio d’uomo” non è un individuo bensì un popolo: “Io, Daniele, mi sentii agitato nell'animo..mi accostai a uno dei vicini e gli domandai il vero significato di tutte queste cose ed egli me ne diede questa spiegazione: "Le quattro grandi bestie rappresentano quattro re, che sorgeranno dalla terra; ma i santi dell'Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per sempre, in eterno"(vv15-18). In alcuni versetti più avanti ripete: “Allora il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell'Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e gli obbediranno" (v27). Questo figlio d’uomo è dunque “il popolo dei santi dell’Altissimo” che, nel linguaggio biblico, significa Israele e nell’epoca delle persecuzioni, è il piccolo resto fedele. Siamo nel momento più doloroso della persecuzione di Antioco Epifane intorno al 165 a.C.  quando restò veramente solo un piccolo gruppo. Quando Daniele afferma che il popolo dei santi dell’Altissimo riceverà il regno, intende incoraggiarlo a resistere perché presto avverrà la liberazione definitiva e, dato che poco dopo Antioco Epifane fu cacciato, la sua profezia venne interpretata da alcuni Giudei riferita al Messia- Re atteso, che non sarebbe stato un individuo particolare, bensì un popolo. Quando secoli dopo nacque Gesù, pur se tutti in Israele attendevano il Messia, non tutti lo immaginavano allo stesso modo: alcuni attendevano un uomo, altri un Messia collettivo chiamato appunto “il piccolo Resto d’Israele” (espressione del profeta Amos 9.11-15), o “il figlio d’uomo” in riferimento al profeta Daniele. Gesù è il solo (nessun altro lo fa) a utilizzare più di 80 volte nei vangeli l’espressione “Figlio dell’uomo” che viene sulle nubi del cielo riferendola a sé stesso, ma i suoi contemporanei non potevano riconoscere nel Gesù di Nazareth, il carpentiere, il Messia cioè “il popolo dei santi dell’Altissimo”. Inoltre,  Gesù modifica in maniera sostanziale la definizione perché rifacendosi a Daniele afferma: “Allora…si vedrà il Figlio dell’uomo venire, circondato da nubi, nella pienezza della potenza e della gloria” (Mc 13, 26), e sempre nel vangelo di Marco aggiunge:“Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno” (Mc 9, 31). Solo dopo la risurrezione i discepoli capiranno che il titolo di Figlio dell’uomo sulle nubi del cielo si attribuisce a Gesù, perché lui è insieme uomo e Dio, il primogenito della nuova umanità, il Capo che fa di noi un unico Corpo e, alla fine della storia, saremo  come “un solo uomo, innestati in lui e quindi  “il popolo dei santi dell’Altissimo”. Mentre Daniele diceva un “Figlio d’uomo” Gesù lo modifica in “Figlio dell’uomo””: figlio d’uomo significava “un uomo”, mentre figlio dell’uomo indica “l’Umanità” e dunque “Figlio dell’Uomo” significa l’Umanità. Attribuendo a sé stesso questo titolo, Cristo si rivela il portatore del destino di tutta l’umanità realizzando il progetto della creazione divina, fare cioè dell’umanità un solo popolo: “Dio creò l'uomo a sua immagine…maschio e femmina li creò… disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gn 1, 27-28). Per san Paolo Gesù è il nuovo Adamo: ”Come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm5,12-21; 1Cor. 15,21-22, 45-49), mentre nel IV vangelo colpisce sempre la frase di Piato “Ecce homo, Ecco l’uomo” (19,5).

 

*Salmo responsoriale 92/93 (1,2,5)

*Noi proclamiamo Dio nostro Re 

Proclamando Cristo Re affermiamo la nostra fede/speranza con il coraggio di realizzare il suo regno, certi che risorgendo ha sconfitto la morte e perdonando gli uccisori ha distrutto l’odio. Mentre però osiamo dire che Cristo è già re, tutto nel mondo sembra andare al contrario: la morte uccide, l’odio dilaga in tutte le sue forme di violenza e di ingiustizia. Il salmo 92/93 proclama la vittoria di Dio sul mondo malgrado le apparenze e anche gli Ebrei celebrano Dio Re avendo la stessa fede e speranza nell’attesa del “Giorno” di Dio. Nel proclamare però la sua vittoria sulle forze del Male si basano sull’esperienza dell’Esodo adorando Dio che liberando Israele ha offerto la sua Alleanza, mentre noi cristiani poggiandoci sulla risurrezione di Cristo. Per cantare la regalità di Dio questo salmo guarda al modello dell’incoronazione dei re: nella sala del trono il nuovo re, investito del mantello regale, sedeva sul trono e, firmata la carta d’intronizzazione, entrava in possesso del palazzo reale. A questo punto il popolo gridava “Viva il Re,” acclamazione che in ebraico si chiama «térouah» ed era all’origine un grido di vittoria contro il nemico. In questo salmo il re acclamato è Dio e più di altri merita la terouah perché ha sconfitto le forze del male: “Il Signore regna, si riveste di maestà, si cinge di forza”: questi sono gli abiti del Creatore.  L’espressione ebraica: “Ha cinto la sua forza” evoca lil gesto di legarsi un vestito ai fianchi, come fa il vasaio con il grembiule per lavorare l’argilla”.  Cantando che il suo trono “é stabile da sempre, dall’eternità tu sei “il salmo accenna per contrasto agli idoli che sono alla portata di tutti ed evoca la fragilità dei regni terreni, in particolare dei re di Israele, alcuni dei quali hanno regnato pochi anni, persino pochi giorni. Nell’intero salmo Dio è proclamato Re dal creato perché domina le forze delle acque spesso indomabili per l’uomo: “più del fragore di acque impetuose, più potente dei flutti del mare, potente nell’alto è il Signore” (v.4). I flutti del mare richiamano il Mar dei Giunchi (in ebraico Yam Suf, e suf significa canna o giunco)) identificato con il Mar Rosso, che Dio fece attraversare dal suo popolo. Da allora la fedeltà del Signore non si è mai spenta come ben esprime il versetto 5: “Degni di fede tutti i tuoi insegnamenti”. L’espressione: “degni di fede” in altre versioni viene resa con “immutabili”, parola che ha la stessa radice di Amen ed evoca fedeltà, stabilità, verità, immutabilità, fermezza. Questa é la fedeltà di Dio verso il suo popolo, di cui era simbolo il Tempio di Gerusalemme, icona della presenza di Dio e riflesso della sua santità: “La santità si addice alla tua casa”. Nabucodosonor II conquistò Gerusalemme e abbatté il Tempio di Salomone deportando gran parte della popolazione in Babilonia, e distrutto il regno di Giuda nel 586 a.C., non ci furono più re in Israele perché l’ultimo fu Sedecia catturato, accecato e portato in esilio. Da quel momento l’espressione: “La santità si addice alla tua casa” celebrava la sovranità di Dio nell’attesa del Re-Messia, immagine fedele di Dio.  Ogni anno, durante la Festa delle Capanne (in autunno), questo salmo veniva ripreso per celebrare in anticipo il compimento di tutta la storia, l’Alleanza definitiva, le Nozze tra Dio e l’Umanità: infatti Israele con l’intera umanità condivideranno un giorno la regalità del Messia, come la Regina siede accanto al Re.

 

Seconda Lettura Ap. 1,5-8

*Colui che è, che era e che viene

 “Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti, il sovrano dei re della terra”: le frasi di questo breve testo, che è l’inizio dell’Apocalisse, sono dense ed evocano tutto il mistero di Cristo e ogni parola ne rivela un aspetto. “Gesù” è il nome di un uomo di Nazaret e significa “Dio salva”; “Cristo” indica il Messia ricolmo dello Spirito di Dio; “il testimone fedele” si collega alle parole di Gesù a Pilato che oggi ascoltiamo nel vangelo: “Io sono nato e venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità”. L’affermazione: “il primogenito dei morti” racchiude la fede dei primi cristiani che vedevano in Gesù, uomo mortale come tutti, il primogenito di una lunga serie, risuscitato da Dio per guidare tutti i suoi fratelli e la frase: “il lsovrano dei re della terra ”rafforza il concetto di Messia che ha posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi, come canta il Salmo 109/110. Dato che nell’Apocalisse i numeri sono simbolici e le espressioni ternarie sono riservate a Dio, le tre qualifiche: “testimone fedele, primogenito dei morti, sovrano dei re della terra” attribuite a Gesù affermano che egli è Dio. La seconda frase riprende e amplifica la prima: “A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen”. Ci sono qui i tradizionali principi della fede: l’amore di Cristo per tutti gli uomini; il dono della sua vita significato dall’espressione “sangue versato” per riscattarci dal male mentre l’affermazione: “Ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre” indica che in Cristo si è compiuta la promessa “Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” contenuta nel libro dell’Esodo (19, 6).  Nella terza frase: “Ecco, egli viene con le nubi” è il Figlio dell’uomo, di cui parla Daniele nella prima lettura, che avanza verso il trono di Dio per ricevere la regalità universale. La prima dimensione della sua regalità è il trionfo. La seconda dimensione è quella della sofferenza: ”Ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto ”, chiara allusione alla croce e al colpo di lancia del soldato (Gv.19,33-34). Qui san Giovanni fa riferimento alla profezia di Zaccaria: “io riverserò sulla casa di Davide e Gerusalemme uno spirito di benevolenza …  volgeranno lo sguardo verso colui che hanno trafitto...faranno lutto per lui, come per un figlio unico…. lo piangeranno come un primogenito… una sorgente sgorgherà…come rimedio al peccato e all’impurità”. ( Zc 12, 10; 13, 1).  Con lo spirito di benevolenza Dio trasformerà il cuore umano e volgendo lo sguardo verso colui che hanno trafitto, gli uomini vedranno un innocente ucciso ingiustamente in evidente contrasto con le autorità religiose dell’epoca. Osservando il Messia crocifisso d’improvviso gli occhi e i cuori si apriranno e, quando il cuore di tutti gli uomini sarà trasformato, Cristo sarà Re perché è l’apertura del cuore a introdurci nella grazia e nella pace dell’eternità in Dio: “Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi sin dalla creazione del mondo” (Mt 25, 34). Infine, l’’espressione finale  della seconda lettura: “Colui che è, che era e che viene” (v. 8) è una delle traduzioni del nome di Dio (YHVH, Es 3, 14) nei commenti giudaici (Targum di Gerusalemme). 

 

Vangelo Gv. 18, 33b-37

*Dunque tu sei re?

Il vangelo di Giovanni è l’unico a riferire il lungo dialogo tra Pilato e Gesù, un testo di notevole interesse per la Festa di Cristo Re perché rare sono nei vangeli le affermazioni sulla regalità di Cristo e soltanto durante la sua passione Gesù dichiara apertamente di essere re.  Durante la vita pubblica ogni volta che volevano farlo re si ritirava, quando pubblicizzavano i suoi miracoli imponeva il silenzio e questo persino dopo la Trasfigurazione. Solo ora che è incatenato e condannato a morte afferma di essere re, ossia nel momento meno indicato secondo i calcoli umani.  Indubbiamente ha un modo alternativo di concepire la regalità e lo ha spiegato ai discepoli: i capi dominano sulle nazioni, ma così non deve avvenire per voi; se qualcuno vuole essere grande sia vostro servitore, se vuole essere il primo sia il servo di tutti, imitando il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto (cioè liberazione) per la moltitudine (cf. Mc 10, 42-45). E’ durante l’interrogatorio di Pilato che egli si dichiara il re dell’umanità, proprio quindi nel momento in cui dà la sua vita per noi mostrando che sua unica ambizione regale è il servizio. A ben vedere nel dialogo tra Pilato, alto rappresentante dell’impero romano e un condannato a morte si capovolgono le parti: non è Pilato a giudicarlo ma è Cristo a giudicare il mondo e il potere romano finirà per riconoscere Cristo vero re. Gesù è stato catturato perché i capi religiosi, impauriti dal suo successo, agirono con menzogna paventando la loro distruzione con l’arrivo dei romani: “Se lo lasciamo fare verranno i romani e ci distruggeranno”. E’ un assassinio che nasce dalla volontà della regnante casta sacerdotale mentre per Pilato Gesù non rappresentava alcun pericolo. Oggi leggiamo nel vangelo di Giovanni il primo interrogatorio di Pilato: “Sei tu il re dei Giudei?” In questo processo non è il giudice a fare domande all’imputato ma l’inverso e la sentenza sarà emessa dall’imputato. Infatti Gesù non risponde, ma domanda. “Dici questo da te oppure altri ti hanno parlato di me?”. E Pilato: “Che cosa hai fatto?  Gesù replica: “Il mio regno non è di questo mondo”. Pilato insiste: “Dunque tu sei re?” e Gesù: “Tu lo dici” nel senso che se tu lo stai affermando (su legeis) hai capito bene e quindi lo proclami. Si tratta però di un regno diverso da tutti quelli terreni difesi da soldati e basati sul potere, sul dominio e sulla menzogna. Il mio invece è il regno della verità che non conta su nessun’altra difesa che la verità: “Per questo io sono nato e sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” e aggiunge: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità”. E conclude: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. Non dice: “Chi ha la verità”, ma “chi è dalla verità” poiché la verità non è una dottrina da possedere bensì lo stile di vita del credente. Nella seconda lettura tratta dall’Apocalisse, Giovanni afferma che Gesù è il “testimone fedele”, il “Figlio unigenito pieno di grazia e verità, come già leggiamo nel  Prologo del suo Vangelo (Gv1,14). Se Pilato, figlio del mondo greco-romano, pone la domanda “Che cos’è la verità?” (Gv18,38), gli ebrei, invece, sapevano fin dall’inizio dell’Alleanza con Dio che la verità è Dio stesso.  La verità nella Bibbia significa “salda fedeltà” di Dio ed ha in ebraico la stessa radice di “Amen” che significa stabile, fedele, vero, come appare oggi nel Salmo responsoriale 92/93. La Verità è Dio stesso per cui nessuno può pretendere di possederla ma è indispensabile ascoltarla e lasciarsi istruire da essa (cf. Gv 8, 47). Solo Dio può dirci “Ascolta”, come  nella Torah ripete continuamente: “Shema Israël”.  

 

Qualche a Testimonianza su Cristo Re dell’universo: 

*Sant’Agostino, nel sermone sul Salmo 2, scrive: “Cristo non ha regno temporale, ma regna nei cuori degli uomini. Il suo trono è la croce, il suo scettro è l’amore, e la sua corona è fatta di spine. È un re che non conquista con le armi, ma con la verità e la giustizia.”

*A san Nicola Cabasilas ortodosso (XIV secolo) si attribuisce questa frase: “Cristo regna perché ha conquistato il nostro cuore, non con la violenza, ma con il sacrificio. La sua croce è il suo trono, e dalla croce egli giudica il mondo con amore, offrendo la vita eterna a chi si sottomette alla sua volontà divina.”

*Santa Caterina da Siena, nella sua opera “Il Dialogo della Divina Provvidenza” scrive: 

“Cristo è dolce re, perché il suo regno non è fondato sull’orgoglio né sulla forza, ma sull’amore e sull’umiltà. Egli ha fatto della sua carne un ponte tra cielo e terra, perché l’uomo potesse attraversarlo e giungere al regno eterno. La sua corona è di spine, segno dell’amore con cui ha preso su di sé le pene dei suoi sudditi; il suo trono è la croce, da cui ha governato con misericordia e giustizia.”

*Dietrich Bonhoeffer pastore protestante nel suo libro “Discepolato” scrive: “Cristo è il Re che porta la croce, e il suo regno è il regno della croce. Chi lo segue entra nella sua signoria non con potenza o gloria, ma con l’umiltà di colui che accetta il peso del proprio giogo. Cristo regna su di noi perché ha scelto di morire per noi, e in questo è la nostra vera libertà.”

*G.K. Chesterton nel suo libro “Ortodossia” scrive: “Cristo non solo è un re, ma il re dei paradossi. La sua corona è fatta di spine, eppure è la più gloriosa; il suo trono è la croce, eppure è il più elevato; il suo potere si manifesta nella resa, eppure nessuno ha mai regnato con maggiore autorità. Egli è il re che trasforma il dolore in gioia e la morte in vita.”

 

Buona solennità di Cristo Re dell’universo a voi tutti !

+ Giovanni D’Ercole

Martedì, 19 Novembre 2024 11:50

Gesù e Pilato: Verità sul Re e sull’uomo

Mercoledì, 13 Novembre 2024 20:41

XXXIII Domenica Tempo Ordinario (anno B)

Dio ti benedica! Da qualche settimana ho scelto di offrire non  un’omelia ma un servizio a coloro che desiderano: presento le letture bibliche della domenica per aiutare la comprensione del testo biblico con breve commento a partire sempre dalla parola di Dio. Spero possa esserti utile: se lo desideri fammelo sapere e ti ringrazio per l’attenzione. « La Parola di Dio è un sentiero in salita, più ci si impegna, più si avanza verso la luce » (parafrasi da san Giovanni della Croce) « Ogni versetto della Bibbia è come un gradino: leggerlo è facile, viverlo è la vera sfida della fede (parafrasi da «la Scala del Paradiso » di san Giovanni Climaco). Ogni settimana manderò il testo il mercoledìì sera o il giovedì mattina per aver il tempo di leggere e meditare.

Ecco quello di domenica prossima.

 

XXXIII Domenica Tempo Ordinario (anno B) 

Commento delle letture [17 Novembre 2024]

 

*Prima Lettura dal Libro del Profeta Daniele 12, 1-3

 *Nella tormenta della persecuzione nasce la fede nella risurrezione 

Il libro di Daniele prende il nome non dall’autore ma dal protagonista, il profeta Daniele vissuto in Babilonia durante gli anni degli ultimi re dell’impero neobabilonese ed è stato scritto durante la rivoluzione dei Maccabei (II secolo a.C.). Nel testo odierno ci sono almeno due importanti affermazioni. Prima di tutto, Daniele conforta i suoi contemporanei che attraversavano un periodo difficile. Quando dice: “Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai”, parla al futuro, ma è solo in apparenza perché si era sotto occupazione e persecuzione. Non potevano circolare libri di opposizione e quindi finge di parlare del passato o del futuro, ma in verità del presente e i lettori capiscono e traggono il conforto di cui hanno bisogno. A regnare, dopo le conquiste di Alessandro Magno e i primi successori piuttosto tolleranti, è Antioco Epifane, tristemente celebre per la terribile persecuzione contro gli ebrei. Si pose al centro del Tempio come un dio e gli ebrei dovevano scegliere: sottomettersi o restare fedeli alla propria fede, affrontando la tortura e la morte. Alcuni si piegarono, ma molti rimasero fedeli e furono uccisi. Daniele dice loro che Michele, il capo degli Angeli, veglia su di loro e se ora stanno vivendo la sconfitta e l’orrore del terrore, sono però vincitori in una battaglia che si svolge sia sulla terra che in cielo: l’esercito celeste ha già vinto. La storia umana è una gigantesca lotta di cui già si conosce il vincitore, e questo concerne in particolare il popolo dell’Alleanza. 

Al messaggio di conforto per i vivi Daniele unisce un riferimento a chi si è sacrificato per non tradire il Dio vivente. Siccome Dio non abbandona chi muore per lui, chi muore così risorgerà. La parola “resurrezione”, che oggi fa parte del nostro vocabolario, allora era praticamente sconosciuta. Per secoli, la questione della resurrezione individuale non si poneva essendo l’interesse rivolto al popolo e non all’individuo, al presente e al futuro del popolo e non al destino dell’individuo. Nella storia d’Israele l’interesse per il destino della persona è emerso come conquista e progresso durante l’esilio collegato all’idea di responsabilità individuale. Occorre sempre ricordare che la fede nel Dio fedele matura con gli eventi della storia e Israele comprende sempre più che Dio desidera il bene dell’uomo e mai lo abbandona. L’esperienza dell’Alleanza ha dunque alimentato la fede d’Israele e si è compreso che, se Dio vuole l’uomo libero da ogni schiavitù, non può lasciarlo nelle catene della morte. Verità esplosa quando alcuni credenti hanno sacrificato la vita per Dio e la loro morte è diventata fonte di fede nella vita eterna. Si comprese così che i martiri risorgeranno per la vita eterna: “Molti di coloro che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni per la vita eterna e gi altri alla vergogna e per l’infamia eterna”. Il libro di Daniele considera la resurrezione solo per i giusti, ma in seguito si giungerà a capire che la resurrezione è promessa a tutta l’umanità composta di essere umani buoni e cattivi e anzi nessuno è totalmente buono o cattivo. Infine solo quando ci si lascia illuminare dalla certezza che Dio ci ama, possiamo capire che vivremo per sempre.

 

Salmo responsoriale 15 (16), 5.8, 9-10, 11

*Il grande impegno a immagine del levita 

Nel salmo 15(16), di cui oggi meditiamo solo alcuni versetti, appare tutto semplice quando ci si rifugia in Dio perché solo in lui è il nostro bene. Al versetto 5 leggiamo: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” e continua “la mia eredità è stupenda” (v.6) per poi affermare che “per questo gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa sicuro perché non abbandonerai la mia vita negli inferi né lascerai che il tuo fedele vedrà la fossa” (v.8,9,10). In realtà, sotto apparenze assai semplici, il salmo 15/16 traduce la lotta terribile della fedeltà alla vera fede: esattamente lo stesso invito di Daniele a non rinnegare la fede nonostante la persecuzione del re Antioco Epifane. La lotta per la fedeltà segna Israele fin dall’inizio, da quando Mosè durante l’esodo percepì il rischio dell’idolatria: si pensi all’episodio del vitello d’oro quando il popolo convinse Aronne a costruirlo (Es. 32). Entrati poi nella terra di Canaan (tra il XV e il XIII secolo a.C.), restò il pericolo dell’idolatria nel vedere che tutto andava male. La guerra, la carestia, l’epidemia suscitarono la voglia di contare su due sicurezze: Il Signore e Baal perché, nelle difficoltà si è tentati di ricorrere a ogni dio possibile e immaginabile. Lo fece il re Acaz, nell’VIII secolo sacrificando suo figlio agli idoli, e suo nipote Manasse cinquant’anni dopo. Per questo i profeti hanno lottano contro l’idolatria che è la peggiore delle schiavitù. Questo salmo traduce dunque sotto forma di preghiera la predicazione dei profeti: vi risuona l’invito ai credenti a seguire la predicazione, e nel contempo è supplica a Dio affinché aiuti tutti a resistere nel tempo della prova. Utile sarebbe leggere anche i versetti non presenti in questa domenica (vv.1-4) dove tra l’altro si dice che “agli idoli del paese, agli dei potenti andava tutto il mio favore. Moltiplicarono le loro pene quelli che corrono dietro a un dio straniero” per poi affermare “Io non spanderò le loro libagioni di sangue, né pronuncerò con le mie labbra i loro nomi”. Insomma, occorre rivolgersi solo al Dio dell’Alleanza essendo l’unico in grado di guidare il suo popolo nel difficile cammino della libertà. Con i secoli si è compreso che il Dio d’Israele è l’unico Dio per l’intera umanità. Se c’è un’esclusività per Israele è perché egli l’ha scelto gratuitamente e gli si è rivelato come l’unico vero Signore. Tocca a Israele rispondere a questa vocazione legandosi esclusivamente a lui e, così facendo, adempirà la sua missione di testimone dell’unico Dio di fronte alle altre nazioni. Per esprimere tale missione, Israele in questo salmo si paragona a un levita: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice, nelle tue mani è la mia vita” (v.5). Si allude alla singolare condizione dei leviti che, al tempo della spartizione della Terra Promessa tra le tribù dei discendenti di Giacobbe, i membri della tribù di Levi non avevano ricevuto parte del territorio e quindi la loro parte era la Casa di Dio (il Tempio), il servizio di Dio. Tutta la loro vita era consacrata al servizio del culto; il loro sostentamento era garantito dalle decime e da una parte dei raccolti e delle carni offerte in sacrificio. Israele è nel cuore dell’umanità come i leviti sono il cuore d’Israele, entrambi chiamati al diretto servizio del Signore, fonte di gioia. Tenendo presente la prima lettura che parla della risurrezione dei corpi (Dn 12), si comprende che l’eternità di cui si parla in questo salmo non riguarda la risurrezione individuale perché il vero soggetto di tutti i salmi non è mai un individuo ma l’intero Israele  sicuro di sopravvivere essendo l’eletto del Dio vivente. E il versetto 10: “Tu non abbandonerai la mia vita negli inferi né lascerai che il tuo fedele veda la fossa” non esprime la fede nella risurrezione individuale, ma è un appello alla sopravvivenza del popolo. Certamente quando il profeta Daniele (prima lettura) annunciava la fede nella risurrezione dei morti, questo versetto aveva tale senso; in seguito Gesù ed ora tutti noi possiamo dire fiduciosi che il nostro cuore esulta e l’anima è in festa perché il Signore non ci abbandona alla morte, ma anzi alla sua destra, ci attende un’eternità di gioia.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei 10, 11-14. 18

 Gesù libera l’umanità dalla fatalità del peccato 

La lettera agli Ebrei, come e più degli altri testi del Nuovo Testamento, mira a far capire che Gesù è l’atteso Messia-sacerdote per cui di conseguenza il sacerdozio ebraico è superato. Terminato il ruolo dei sacerdoti dell’Antica Alleanza, nella Nuova Alleanza l’unico sacerdote è Cristo. Ma quali sono le caratteristiche dei sacerdoti dell’A.T. confrontandole con Cristo? L’autore focalizza due punti: la liturgia dei sacerdoti dell’Antico Testamento era quotidiana e offrivano sempre gli stessi sacrifici; Gesù, invece, ha offerto un sacrificio unico. Il culto dei sacerdoti ebrei era inefficace, poiché i sacrifici non avevano il potere di eliminare i peccati, mentre, con l’unico suo sacrificio, Gesù ha eliminato una volta per tutte il peccato del mondo. Ci sono qui affermazioni che per l’ambiente giudaico-cristiano dell’epoca erano importanti come ad esempio l’espressione “eliminare i peccati” perché la parola “peccato” torna più volte in questo testo. L’esperienza dice che dopo la morte/risurrezione di Cristo continuano a esistere i peccati nel mondo per cui affermare che Gesù ha tolto il peccato del mondo significa far rimarcare che il peccato non costituisce più una fatalità perché, grazie al dono dello Spirito Santo, possiamo vincerlo. Inoltre leggendo che “con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati” occorre capire che il termine “perfetto” non riveste un significato morale, ma esprime compimento, completamento. Siamo stati cioè condotti da Cristo al nostro compimento; grazie a lui siamo diventati uomini e donne liberi: liberi di non ricadere nell’odio, nella violenza, nella gelosia; liberi di vivere come figli e figlie di Dio e come fratelli e sorelle. Nella celebrazione eucaristica continuiamo a dire “Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. Questo fa pensare al profeta Geremia (31, 31-33) che profetizza: “Ecco, verranno giorni - oracolo del Signore – nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova… porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore”, oppure a Ezechiele (36, 26-27): “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi”. I primi cristiani sapevano che bisogna lasciarsi condurre dallo Spirito Santo, ma condizione essenziale è restare uniti a Cristo come i tralci alla vite.  Leggiamo ancora nel testo: “Cristo…si è assiso per sempre alla destra di Dio e attende ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi” (vv12-14). L’espressione “assiso alla destra di Dio” in Israele era da secoli un titolo regale. Il giorno dell’incoronazione, quando prendeva possesso del suo trono, il nuovo re si sedeva alla destra di Dio e in questo contesto dire che “Gesù Cristo si è assiso per sempre alla destra di Dio” vuol dire che Gesù è il vero Re-Messia atteso. Tale concetto è rafforzato da ciò che segue: “Egli attende ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi”. La tradizione era che sui gradini dei troni dei re s’incidevano o scolpivano figure di uomini incatenati che rappresentavano i nemici del regno e il re salendo i gradini del trono li calpestava, schiacciando simbolicamente i suoi nemici e questo non era gratuita crudeltà bensì garanzia di sicurezza per i sudditi. Si trovano segni di queste figure nei troni di Tutankhamon (scoperti nel 1922 dall’archeologo Howard Carter nella Valle dei Re in Egitto) mentre in Israele, resta, come sola traccia citata nel Salmo 109/110, ciò che il profeta pronunciava da parte di Dio per il re nel rito dell’incoronazione: “Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi”. Se Cristo è davvero il Messia, l’atteso re eterno discendente di Davide, il vecchio mondo è ormai finito. Un’ultima precisazione: perché si dice: “il sacrificio della messa”?  Nella Lettera agli Ebrei leggiamo: “Ora, dove c’è il perdono non c’è più offerta (il sacrificio) per il peccato”. Il termine sacrificio resta anche se, con Cristo, il suo significato è cambiato: per lui, “sacrificare” (sacrum facere, compiere un atto sacro) non significa uccidere uno o mille animali, ma vivere nell’amore e dare la vita per i fratelli, come già nell’VIII secolo a.C. affermava il profeta Osea: “Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti.» (6, 6).

 

*Vangelo secondo san Marco (13, 24-32)

Gesù usa qui lo stile apocalittico 

Nel vangelo di Marco Gesù ora cambia stile e si avvicina nei suoi discorsi alla letteratura della divinazione che allora era molto in voga. Tutte le religioni si ponevano gli stessi interrogativi: L’umanità andrà irrimediabilmente in rovina oppure trionferà il Bene? Come sarà la fine del mondo e chi sarà il vincitore? Si utilizzavano le stesse immagini di sconvolgimenti cosmici, eclissi di sole o di luna, personaggi celesti, angeli o demoni. Gli ebrei prima e poi i cristiani presero in prestito questo stile inserendovi però il messaggio evangelico, cioè la rivelazione divina. Per questo, nella Bibbia, questo stile letterario viene chiamato “apocalittico” perché porta una “rivelazione” da parte di Dio: letteralmente il verbo greco apocaliptõ significa rivelare, nel senso di “sollevare il velo che copre la storia dell’umanità”. All’epoca era come un linguaggio cifrato, in codice: si parla di sole, stelle, luna e di come tutto ciò sarà sconvolto anche se poi si vuol dire tutt’altro. E’ la vittoria di Dio e dei suoi figli nel grande combattimento contro il male che portano avanti fin dall’origine del mondo. Ecco la specificità della fede giudeo-cristiana per cui è un errore usare il termine apocalisse per parlare di eventi spaventosi perché nel linguaggio della fede ebraica e cristiana è esattamente il contrario. Rivelare il mistero di Dio non tende a spaventare l’umanità, bensì a incoraggiare gli uomini ad affrontare ogni crisi della storia sollevando l’angolo del velo che copre la storia per tenere salda la speranza. Già i profeti nell’A.T., per annunciare il giorno della vittoria definitiva di Dio contro ogni forza del male, utilizzavano le medesime immagini. Troviamo in Gioele (2, 10-11): “La terra trema, il cielo si scuote, il sole e la luna si oscurano e le stelle cessano di brillare. Il Signore fa udire la sua voce dinanzi alla sua schiera. Molto grande è il suo esercito, potente nell’eseguire i suoi ordini. Grande è il giorno del Signore, davvero terribile: chi potrà sostenerlo?”. Consiglio di leggere anche questi altri del profeta Gioele (3, 1-5 e 4, 15-16) e di Isaia (12, 1-2). Non sono racconti per incutere terrore, ma per annunciare la vittoria del Dio che ci ama. Il messaggio è sempre questo: Dio avrà l’ultima parola perché, come scrive Isaia, il male sarà distrutto e il Signore punirà i malvagi per i loro crimini (cf.13, 10); è lo stesso Isaia che, qualche versetto prima (cap.12,2), annunciava la salvezza dei figli di Dio: “Ecco, Dio è la mia salvezza; io avrò fiducia, non avrò timore, perché mia forza e mio canto è il Signore; egli è stato la mia salvezza.” Queste parole, nelle quali risuona lode e fede in Dio come Salvatore insieme a un profondo senso di sicurezza e fiducia nella protezione divina, fanno parte di un canto di ringraziamento che celebra la liberazione e il sostegno che Dio offre al suo popolo. Nello stile apocalittico, annunciare la fede è assicurare che Dio è il padrone della storia e un giorno il male scomparirà. Per questo, più che “fine del mondo”, sarebbe meglio “trasformazione del mondo” o meglio “rinnovamento del mondo”. Tutto questo emerge nel vangelo di Marco di questa domenica con una precisazione: la vittoria definitiva di Dio contro il male, avviene solo in Gesù Cristo. Nel vangelo si è a pochi giorni dalla Pasqua e Gesù ricorre a questo linguaggio perché il combattimento tra lui e le forze del male è ormai al suo culmine. Per capire il messaggio di Gesù, possiamo ricorrere al vangelo di Giovanni, quando alla conclusione del suo lungo discorso agli apostoli afferma: ”Vi ho detto queste parole perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio, io ho vinto il mondo» (Gv 16, 33). E la parabola del fico che mette le foglie, ben s’inserisce in questo messaggio, tenendo presente che la chiave per capire è l’aggettivo “vicino”, “vicina”: i segni preannunciano solo la vicinanza della fine, quindi attenti ai falsi profeti che vedono ora la fine del mondo. Occorre invece vigilare e pregare perché la vicinanza della fine è per ogni generazione - e quest’invito è presente in tutto il Vangelo.

Buona Domenica a tutti!

+Giovanni D’Ercole

(Lc 20,27-40)

 

La sconfitta della morte è il destino crudele che ha ottenebrato la mente di tutte le civiltà.

Ma se Dio ci crea e chiama incessantemente per entrare in dialogo con noi, poi cosa rimane? La mèta di tutte le nostre agitazioni è una fossa?

I Sadducei vogliono ridicolizzare la dottrina della risurrezione cara ai farisei e - sembra - anche a Gesù.

Tuttavia il Maestro non applica categorie di questo mondo, provvisorie, a dimensioni che vanno oltre.

Anche i legami vanno concepiti nel rilievo della realtà divina.

I membri della classe sacerdotale non credevano a un’altra vita, e nella Torah pareva loro che non ci fosse alcuna nota sulla risurrezione.

Insomma concepivano la relazione con Dio nella dimensione della vita sulla terra.

In effetti i Farisei credevano alla risuscitazione dei morti in senso molto banale: una sorta di miglioramento e sublimazione delle (medesime) condizioni di essere naturale.

Per loro la vita dell’aldilà non era che un prolungamento accentuato, nobilitato e imbellito di questa nostra forma d’esistere.

Invece la vita «nell’era quella» [v.35 testo greco] non è un esistere potenziato, ma una condizione indescrivibile e nuova - come di comunicazione diretta. Paragonabile all’immediatezza dell’amore.

Il corpo decade, si ammala e va incontro alla dissoluzione: è un ciclo naturale.

‘Risurrezione della carne’ designa l’accesso a un’esistenza intima di Relazione pura, nella nostra debolezza e precarietà, assunte.

Gli evangelisti usano due termini per indicare la differenza tra queste forme di vita: (traslitterando) Bìos e Zoe Aiònios [Vita dell’Eterno] che non ha a che vedere con la realtà solo biologica [v.36: «uguali agli angeli»].

La vita «nell’era quella» non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, bensì una condizione indescrivibile e nuova - appunto, come di ‘comunicazione diretta’.

Paragonabile al tu per tu d’Amicizia: un ‘essere-con e per’ gli altri; prontamente, ovunque.

Collimante al modo di esistere degli Angeli: essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma da Dio stesso.

«A proposito del Roveto...» - ribatte Gesù. Egli ammutolisce pure i Sadducei facendoli riflettere; e trae il fondamento della Risurrezione (ma come la intende Lui) proprio da Esodo.

Così mostra che già nella Legge c’è una presentazione di Dio incompatibile con un destino d’umanità votata allo sterminio.

Il Padre non cerca il dialogo coi figli per poi farli cadere sul più bello.

Sin dalla creazione Egli si bea di passeggiare con l’uomo, e sin dai patriarchi cerca empatia con noi. Il suo Amore non abbandona.

 

Nella mentalità religiosa arcaica l’Altissimo prendeva nome dalla regione o dalle alture nei suoi confini [es. Baal di Gad, Baal di Saphon, Baal di Peor, etc.].

Il Dio d’Israele già dal Primo Testamento lega il suo cuore all’uomo - non più a un territorio: è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe.

Il Padre della vita suscita ogni intesa, Alleanze, e se l’alleato potesse essere annientato la stessa identità divina verrebbe sgretolata.

Tutte le Scritture lo attestano: è un Dio di viventi, non della polvere o del nulla.

Questo il motivo per cui chiamiamo «defunti» i nostri cari scomparsi - non “morti”.

 

 

[Sabato 33.a sett. T.O.  23 novembre 2024]

Martedì, 12 Novembre 2024 03:28

Sette Mariti, come Angeli

E Dio che lega il suo cuore all’umanità

(Lc 20,27-40)

 

La sconfitta della morte è il destino crudele che ha ottenebrato la mente di tutte le civiltà, infondendo disorientamento e angoscia di pensieri sul senso della vita, sul motivo per cui ciascuno di noi esiste.

Se Dio ci crea e chiama incessantemente, per entrare in dialogo con noi, poi cosa rimane? La mèta di tutte le nostre agitazioni è una fossa?

I Sadducei vogliono ridicolizzare la dottrina della risurrezione cara ai Farisei e - sembra - anche a Gesù.

Egli però riteneva che il Padre era ben altro che un Vivente… il quale infine si metteva a risuscitare cadaveri!

[È il motivo per cui chiamiamo «defunti» i nostri cari scomparsi - non “morti”].

Nella mentalità semitica la norma del ‘levirato’ era specchio di un’idea fiacca dell’esistenza dopo la morte - relegata alla semplice continuità del nome.

I membri della classe sacerdotale non credevano a un’altra vita: predicavano la religione che serviva a ottenere benedizioni per esistere su questa terra in modo agiato - e tanto loro bastava.

Insomma concepivano la relazione con Dio nella dimensione della vita sulla terra.

I sadducei il loro “paradiso” se l’erano già costruito in città e fuori.

Le loro ampie ville con corte interna e piscina privata per le abluzioni erano proprio sulla collina dirimpetto al Tempio di Gerusalemme, dalla parte opposta del Monte degli Ulivi (ossia verso ovest).

Le loro seconde case - dove passavano l’inverno - erano a Gerico.

Anche per interesse diretto nell’attività sacrificale che svolgevano, ritenevano comunque che i testi profetici non avessero dignità di Scrittura sacra: solo la Legge rispecchiava la volontà di Dio.

E nella Torah sembrava loro che non ci fosse alcuna nota sulla risurrezione dei morti.

Così tentano d’incastrare anche Gesù, con un paradosso costruito ad arte, per evidenziare le contraddizioni di questa credenza - apparsa solo dal 2° sec. a.C. nel libro di Daniele e in Maccabei.

Essi la ritenevano assurda - quindi intendevano screditare il «Maestro» [termine con cui lo designano per metterlo in ridicolo: v.28].

In effetti l’appiglio c’era, perché i Farisei credevano alla risuscitazione nel senso banale. Una sorta di accentuazione, miglioramento o sublimazione delle (medesime) condizioni di vita - e legami - naturali.

Quindi non una forma definitiva, senza confini, qualitativamente indistruttibile.

In sostanza, nel ‘mondo di là’ ognuno avrebbe goduto completamente degli affetti famigliari e di clan della precedente forma di vita - e così via.

‘L’aldilà’ non doveva essere che un prolungamento sublimato, nobilitato e imbellito di questo nostro modo di esistere; senza malattie, sofferenze, problemi vari.

[Insomma, vita solo progredita; forse come ci è stata un tempo trasmessa da catechisti volenterosi... ma poco attenti alla Parola di Dio].

Così appunto i sadducei - conservatori - che accettavano unicamente il Pentateuco - ove sostenevano appunto che non si accenna a un’altra vita, ulteriore.

In tal guisa, essi avevano gioco facile a smascherare la fragilità di quella credenza popolare, cui i leaders del fariseismo erano viceversa legati.

Tuttavia il Maestro non applica categorie di questo mondo, provvisorie, a dimensioni che vanno oltre.

Anche i legami vanno concepiti nel rilievo della realtà divina.

 

Nell’ambiente latino, tuttora, il modo d’intendere la Risurrezione risente non poco delle modalità rappresentative della tradizione pittorica.

Leggendo le raffigurazioni cui siamo abituati… notiamo che subito il Risorto mette a terra i gendarmi e spaventa tutti.

Esce dal sepolcro con il vessillo di vittoria, forte e muscoloso. Irrompe come tornando di qua per battere gli avversari.

Pretese descrittive e naturalistiche che non rendono merito alla Fede e quasi ridicolizzano i Vangeli.

Viceversa, nelle icone orientali la Risurrezione è intesa e figurata in modo sostanziale, misterico: la Discesa agli Inferi.

Non è un trionfo di Dio, che s’impone al mondo. Egli non ne ha bisogno alcuno.

Piuttosto l’evento teologico resta a sostegno della vittoria dei suoi figli, i quali ricevono vita direttamente dal Padre.

Ecco il riscatto della donna e dell’uomo qualunque [Adamo ed Eva] che vengono tratti dai sepolcri dalla forza divina - non naturale - del Cristo Risorto.

Il mondo definitivo stravolge l’idea dello Sheôl e lo scardina totalmente, sgombrando il buio - e quel grande dramma dell’umanità.

 

Si entra nel mondo di Dio; non si torna di qua - magari per vivere meglio: ringiovaniti e sani invece che malati, in villa con giardino piuttosto che in monolocale.

 

La vita «nell’era quella» [v.35 testo greco] non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, ma una condizione indescrivibile e nuova - come di comunicazione diretta.

Paragonabile all’immediatezza dell’amore: un essere-con e per gli altri. Collimante al modo di esistere degli Angeli (v.36): essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma da Dio stesso.

 

Il corpo decade, si ammala e va incontro alla dissoluzione: è un ciclo naturale.

“Risurrezione della carne” designa l’accesso a un’esistenza intima di Relazione pura, all’intimità stessa di Dio - nella nostra debolezza e precarietà, assunte.

Ovviamente non si può credere di venire introdotti nella Condizione Divina se durante il corso terreno non abbiamo sperimentato un costante vettore esistenziale morte-risurrezione.

È l’esperienza del guadagno nella sconfitta; in particolare, la scoperta di una vita impensabile, che ci ha fatto trasalire di Felicità. Per lo Stupore: nella provvidenziale trasmutazione dei nostri lati deboli e oscuri, da fiacche parvenze a punti di forza.

Diventati evolutivi, forse il meglio di noi.

 

Gli evangelisti usano due termini per indicare la differenza tra queste due forme di essere: (traslitterando dal greco) Bìos, e Zoè Aiònios.

La Zoe, Vita stessa dell’Eterno, è acutamente relazionale e sperimentabile - ma non ha a che vedere con l’esistenza biologica e la nostra carcassa [«uguali agli angeli» v.36].

Ciò che non muore non è il dna del corpo, bensì il dna celeste, che abbiamo ricevuto in dono dal Padre.

L’Oro divino ci abita e - se vogliamo - può affiorare già, in un’esistenza piena, di realizzazione della propria Vocazione, in clima di Comunione.

La vita «nell’era quella» non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, bensì una condizione indescrivibile e nuova - appunto, come di comunicazione diretta.

Paragonabile al tu per tu d’Amicizia: un essere-con e per gli altri; con prontezza, ovunque.

Collimante al modo di esistere degli Angeli: essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma appunto da Dio stesso.

 

«A proposito del Roveto...» - ribatte Gesù.

Egli ammutolisce pure i sadducei, facendoli riflettere, trattandoli da incompetenti.

Trae infatti il fondamento della “dottrina” della Risurrezione [ma come la intende Lui] proprio dal libro dell’Esodo.

Così mostra che sin dai rotoli della Legge c’è una presentazione dell’Eterno incompatibile col destino di un’umanità votata allo sterminio.

Il Padre non cerca il dialogo coi figli per poi farli cadere sul più bello.

Sin dalla creazione Egli si bea di passeggiare con l’uomo, e sin dai patriarchi cerca empatia con noi.

Il suo Amore non abbandona.

 

Nella mentalità religiosa arcaica ogni santuario prendeva nome dalla divinità, specificata dal suo territorio o dalle alture nei suoi confini [es. Baal di Gad, Baal di Saphon, Baal di Peor, etc.].

Un brutto vizio pagano che purtroppo abbiamo ereditato.

Il Dio d’Israele già dal Primo Testamento lega il suo cuore all’uomo - non più a un territorio: il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».

Ai tre Patriarchi era stato possibile avere discendenza, non per concatenazione naturale.

In quella mentalità, unica possibilità di perpetuare la vita di generazione in generazione era di poter trasmettere il proprio nome al primogenito maschio.

Ciò era accaduto invece per intervento dall’alto, mentre le mogli erano sterili [matriarche infertili: Sara, Rebecca, Rachele, a lungo senza eredi].

 

Il Padre della vita suscita ogni intesa, Alleanze, e se l’alleato potesse essere annientato la stessa identità divina verrebbe sgretolata.

Tutte le Scritture lo attestano: è un Dio di viventi - non di morti (della polvere, dell’inconsistenza, del nulla).

Martedì, 12 Novembre 2024 03:21

Nel Suo Nome, il nostro Nome

I sadducei riconoscevano dal canone dell’Antico Testamento solo i cinque Libri di Mosè e in questi non appare la risurrezione; perciò la negavano. Il Signore, proprio da questi cinque Libri dimostra la realtà della risurrezione e dice: Voi non sapete che Dio si chiama Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe? (cfr Mt 22,31-32). Quindi, Dio prende questi tre e proprio nel suo nome essi diventano il nome di Dio. Per capire chi è questo Dio si devono vedere queste persone che sono diventate il nome di Dio, un nome di Dio, sono immersi in Dio. E così vediamo che chi sta nel nome di Dio, chi è immerso in Dio, è vivo, perché Dio – dice il Signore – è un Dio non dei morti, ma dei vivi, e se è Dio di questi, è Dio dei vivi; i vivi sono vivi perché stanno nella memoria, nella vita di Dio. E proprio questo succede nel nostro essere battezzati: diventiamo inseriti nel nome di Dio, così che apparteniamo a questo nome e il Suo nome diventa il nostro nome e anche noi potremo, con la nostra testimonianza – come i tre dell’Antico Testamento –, essere testimoni di Dio, segno di chi è questo Dio, nome di questo Dio.

Quindi, essere battezzati vuol dire essere uniti a Dio; in un’unica, nuova esistenza apparteniamo a Dio, siamo immersi in Dio stesso.

[Papa Benedetto, Lectio 11 giugno 2012]

Martedì, 12 Novembre 2024 03:16

Sulla teologia del corpo

1. Riprendiamo quest’oggi, dopo una pausa piuttosto lunga, le meditazioni tenute già da tempo e che abbiamo definito riflessioni sulla teologia del corpo.

Nel continuare, conviene, questa volta, riportarci alle parole del Vangelo, in cui Cristo fa riferimento alla risurrezione: parole che hanno un’importanza fondamentale per intendere il matrimonio nel senso cristiano e anche "la rinuncia" alla vita coniugale "per il regno dei cieli".

La complessa casistica dell’Antico Testamento nel campo matrimoniale non soltanto spinse i Farisei a recarsi da Cristo per porgli il problema dell’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19,3-9 ; Mc 10,2-12 ) ma anche, un’altra volta, i Sadducei, per interrogarlo sulla legge del cosiddetto levirato (questa legge, contenuta nel Dt 25,7-10 , riguarda i fratelli che abitavano sotto lo stesso tetto. Se uno di essi moriva senza lasciare figli, il fratello del defunto doveva prendere in moglie la vedova del fratello morto. Il bambino nato da questo matrimonio era riconosciuto figlio del defunto, affinché non fosse estinta la sua stirpe e venisse conservata in famiglia l’eredità [cf. Dt 3,9-4,12 ]). Tale colloquio è riportato concordemente dai sinottici (cf. Mt 22,24-30 ; Mc 12,18-27 ; Lc 20,27-40 ). Sebbene tutte e tre le redazioni siano quasi identiche, tuttavia si notano tra loro alcune differenze lievi, ma, nello stesso tempo, significative. Poiché il colloquio è riferito in tre versioni, quelle di Matteo, Marco e Luca, si richiede un’analisi più approfondita, in quanto esso comprende contenuti che hanno un significato essenziale per la teologia del corpo.

Accanto agli altri due importanti colloqui, cioè: quello in cui Cristo fa riferimento al "principio" (cf. Mt 19,3-9 ; Mc 10,2-12 ), e l’altro in cui si richiama all’intimità dell’uomo (al "cuore"), indicando il desiderio e la concupiscenza della carne come sorgente del peccato (cf. Mt 5,27-32 ), il colloquio, che ci proponiamo ora di sottoporre ad analisi, costituisce, direi, la terza componente del trittico delle enunciazioni di Cristo stesso: trittico di parole essenziali e costitutive per la teologia del corpo. In questo colloquio Gesù si richiama alla risurrezione, svelando così una dimensione completamente nuova del mistero dell’uomo.

2. La rivelazione di questa dimensione del corpo, stupenda nel suo contenuto – e pur collegata col Vangelo riletto nel suo insieme e fino in fondo – emerge nel colloquio con i Sadducei, "i quali affermano che non c’è risurrezione" (1); essi sono venuti da Cristo per esporgli un argomento che – a loro giudizio – convalida la ragionevolezza della loro posizione. Tale argomento doveva contraddire "l’ipotesi della risurrezione". Il ragionamento dei Sadducei è il seguente: "Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che se muore il fratello di uno e lascia la moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie per dare discendenti al fratello" ( Mc 12,19 ). I Sadducei si richiamano qui alla cosiddetta legge del levirato (cf. Dt 25,5-10 ), e riallacciandosi alla prescrizione di questa antica legge, presentano il seguente "caso": "C’erano sette fratelli: il primo prese moglie e morì senza lasciare discendenza; allora la prese il secondo, ma morì senza lasciare discendenza; e il terzo ugualmente, e nessuno dei sette lasciò discendenza. Infine, dopo tutti morì anche la donna. Nella risurrezione, quando risorgeranno, a chi di loro apparterrà la donna? Poiché in sette l’hanno avuta come moglie" ( Mc 12,20-23 . I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio.

3. La risposta di Cristo è una delle risposte-chiave del Vangelo, in cui viene rivelata – appunto a partire dai ragionamenti puramente umani e in contrasto con essi – un’altra dimensione della questione, cioè quella che corrisponde alla sapienza e alla potenza di Dio stesso. Analogamente, ad esempio, si era presentato il caso della moneta del tributo con l’immagine di Cesare e del rapporto corretto fra ciò che nell’ambito della potestà è divino e ciò che è umano ("di Cesare") (cf. Mt 22,15-22 ). Questa volta Gesù risponde così: "Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio? Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli" ( Mc 12,24-25 ). Questa è la risposta basilare del "caso", cioè al problema che vi è racchiuso. Cristo, conoscendo le concezioni dei Sadducei, ed intuendo le loro autentiche intenzioni, riprende, in seguito, il problema della possibilità della risurrezione, negata dai Sadducei stessi: "A riguardo poi dei morti che devono risorgere, non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti, ma dei viventi" ( Mc 12,26-27 ). Come si vede, Cristo cita lo stesso Mosè a cui hanno fatto riferimento i Sadducei, e termina con l’affermare: "Voi siete in grande errore" ( Mc 12,27 ).

4. Questa affermazione conclusiva, Cristo la ripete anche una seconda volta. Infatti la prima volta la pronunciò all’inizio della sua esposizione. Disse allora: "Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio": così leggiamo in Matteo ( Mt 22,29 ). E in Marco: "Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio?" ( Mc 12,24 ). Invece, la stessa risposta di Cristo, nella versione di Luca ( Lc 20,27-36 ), è priva di accento polemico, di quel "siete in grande errore". D’altronde egli proclama la stessa cosa in quanto introduce nella risposta alcuni elementi che non si trovano né in Matteo né in Marco. Ecco il testo: "Gesù risponde: i figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito: e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio" ( Lc 20,34-36 ). Riguardo alla possibilità stessa della risurrezione, Luca – come i due altri sinottici – si riferisce a Mosè, ossia al passo del Libro dell’Esodo 3,2-6, in cui infatti si narra che il grande legislatore dell’Antica Alleanza aveva udito dal roveto, che "ardeva nel fuoco e non si consumava", le seguenti parole: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe" ( Es 3,6 ). Nello stesso luogo, quando Mosè aveva chiesto il nome di Dio, aveva udito la risposta: "Io sono colui che sono" ( Es 3,14 ).

Così dunque, parlando della futura risurrezione dei corpi, Cristo si richiama alla potenza stessa del Dio vivente.

 

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 11 novembre 1981]

Martedì, 12 Novembre 2024 03:09

Nuovo genere di vita

A pochi giorni di distanza dalla solennità di Tutti i Santi e dalla Commemorazione dei fedeli defunti, la Liturgia di questa domenica ci invita ancora a riflettere sul mistero della risurrezione dei morti. Il Vangelo (cfr Lc 20,27-38) presenta Gesù a confronto con alcuni sadducei, i quali non credevano nella risurrezione e concepivano il rapporto con Dio solo nella dimensione della vita terrena. E quindi, per mettere in ridicolo la risurrezione e in difficoltà Gesù, gli sottopongono un caso paradossale e assurdo: una donna che ha avuto sette mariti, tutti fratelli tra loro, i quali uno dopo l’altro sono morti. Ed ecco allora la domanda maliziosa rivolta a Gesù: quella donna, nella risurrezione, di chi sarà moglie (v. 33)?

Gesù non cade nel tranello e ribadisce la verità della risurrezione, spiegando che l’esistenza dopo la morte sarà diversa da quella sulla terra. Egli fa capire ai suoi interlocutori che non è possibile applicare le categorie di questo mondo alle realtà che vanno oltre e sono più grandi di ciò che vediamo in questa vita. Dice infatti: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito» (vv. 34-35). Con queste parole, Gesù intende spiegare che in questo mondo viviamo di realtà provvisorie, che finiscono; invece nell’aldilà, dopo la risurrezione, non avremo più la morte come orizzonte e vivremo tutto, anche i legami umani, nella dimensione di Dio, in maniera trasfigurata. Anche il matrimonio, segno e strumento dell’amore di Dio in questo mondo, risplenderà trasformato in piena luce nella comunione gloriosa dei santi in Paradiso.

I “figli del cielo e della risurrezione” non sono pochi privilegiati, ma sono tutti gli uomini e tutte le donne, perché la salvezza portata da Gesù è per ognuno di noi. E la vita dei risorti sarà simile a quella degli angeli (cfr v. 36), cioè tutta immersa nella luce di Dio, tutta dedicata alla sua lode, in un’eternità piena di gioia e di pace. Ma attenzione! La risurrezione non è solo il fatto di risorgere dopo la morte, ma è un nuovo genere di vita che già sperimentiamo nell’oggi; è la vittoria sul nulla che già possiamo pregustare. La risurrezione è il fondamento della fede e della speranza cristiana! Se non ci fosse il riferimento al Paradiso e alla vita eterna, il cristianesimo si ridurrebbe a un’etica, a una filosofia di vita. Invece il messaggio della fede cristiana viene dal cielo, è rivelato da Dio e va oltre questo mondo. Credere alla risurrezione è essenziale, affinché ogni nostro atto di amore cristiano non sia effimero e fine a sé stesso, ma diventi un seme destinato a sbocciare nel giardino di Dio, e produrre frutti di vita eterna.

La Vergine Maria, regina del cielo e della terra, ci confermi nella speranza della risurrezione e ci aiuti a far fruttificare in opere buone la parola del suo Figlio seminata nei nostri cuori.

[Papa Francesco, Angelus 6 novembre 2016]

Piccola Casa di Dio? Non si mercanteggia più

(Lc 19,45-48)

 

L’insegnamento di Gesù nel luogo sacro viene presentato da Lc come duraturo: «stava insegnando ogni giorno» (v.47). Argomento preponderante: la Grazia.

Così nel tempo impariamo la convivialità: incoraggiati a dialogare con la nostra personale, irripetibile Vocazione, che avvince perché corrisponde davvero.

E l’intima convinzione è sola, incomparabile, preziosa energia di valenza trasformatrice - che porta a non recedere da se stessi, né soprassedere la realtà dei fratelli.

Piuttosto induce a fare Esodo, esplorare nuove condizioni dell’essere, trasfigurare la percezione in azione beata.

 

Cacciando i falsi amici della religiosità, il Signore non si orienta tanto a risarcire la purezza del Luogo, né a rabberciare e riproporre lo smalto del sobrio culto originario - come pur volevano i Profeti.

Rende un servizio santo non al Dio antico, bensì alla gente - da quel sistema [o groviglio] resa totalmente inconsapevole della propria dignità vocazionale: solo incatenata, munta, e tosata.

La prima Tenda di Dio è dunque l’umanità stessa, il suo cuore pulsante - non uno spazio delimitato:

Entrato in Gerusalemme, il Maestro prende possesso della Casa celeste - che non è il Tempio, bensì il Popolo.

Non insegna a entrare in armature abitudinarie e formali accette al contorno, ma distanti dalle persone.

Piuttosto, stimola a non frenare la nostra vera natura con delle cappe di costume, secondo le quali “non è mai abbastanza”.

Il nostro mondo interno non va istericamente considerato alla stregua di un pericoloso estraneo.

Le radici innate e la nostra energia naturale hanno il diritto di fiorire e prevalere sulle maniere o idee comuni: sono traccia sperimentale del Divino.

In esse sussiste un legame Personale, che vince ogni tarlo.

Bisogna dunque cambiare approccio. È Lui stesso il punto essenziale del culto all’Eterno.

In tale luce di Persona nella sua Persona, ciascuno può abbracciare proposte che non sono altrui e intruse; che non risulteranno zavorra.

 

Il fantasmagorico culmine antico sta diventando periferia, sta decadendo. E a ritrovarsi, facciamo difficoltà.

Occasione da non perdere per procedere in modo vivo e singolare, in sintonia con un sempre nuovo insegnamento sull’Amore inedito, che prende il nostro passo.

È l’Appello bruciante de «il Monte», che centra sulla ‘passione’: proprio sul Desiderio.

Non più un severo richiamo ai “no” delle grandi apparenze - ma finalmente Ascolto della Voce nell’anima, che stupisce (v.48).

Autentico sacro del tempio.

 

Con ciò che non corrisponde, anche dal punto di vista culturale, sociale e spirituale, non si mercanteggia più.

 

 

[Venerdì 33.a sett. T.O.  22 novembre 2024]

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The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che continua a vedere malgrado tutto (Papa Francesco)
Deus dilexit mundum! God observes the depths of the human heart, which, even under the surface of sin and disorder, still possesses a wonderful richness of love; Jesus with his gaze draws it out, makes it overflow from the oppressed soul. To Jesus, therefore, nothing escapes of what is in men, of their total reality, in which good and evil are (Pope Paul VI)
Deus dilexit mundum! Iddio osserva le profondità del cuore umano, che, anche sotto la superficie del peccato e del disordine, possiede ancora una ricchezza meravigliosa di amore; Gesù col suo sguardo la trae fuori, la fa straripare dall’anima oppressa. A Gesù, dunque, nulla sfugge di quanto è negli uomini, della loro totale realtà, in cui sono il bene e il male (Papa Paolo VI)
People dragged by chaotic thrusts can also be wrong, but the man of Faith perceives external turmoil as opportunities
Un popolo trascinato da spinte caotiche può anche sbagliare, ma l’uomo di Fede percepisce gli scompigli esterni quali opportunità

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