Zaccheo: Sorprendersi di sé e rimettere i conti a posto
(Lc 19,1-10)
In che senso bisogna “migliorare” - e cosa devo fare? Oppure siamo segnati per sempre?
Come incontrare Cristo autenticamente? Da cosa scaturisce un percorso da salvati e la sua incomparabile gioia che si riflette nelle opere?
Come posso cambiare vita e dare un colpo d’ali? Più volte ho tentato e non riesco: la felicità è un’illusione?
E... come relazionarsi con gli esclusivisti del sacro e della disciplina [o delle idee in voga]?
Davvero il Volto del Padre ha quei tratti graffianti, spietati, forensi o unilaterali ch’essi proclamano?
La soluzione di Lc è quella di non avere a che fare coi moralismi o l’opinione corrente, perché la testa piena di vento e le manfrine ci risucchierebbero.
Bisogna sorvolare, guardando la realtà da un punto di vista inedito e non soggetto a manipolazioni - quindi cogliendo se stessi, in Cristo.
E non farsi plagiare o intralciare.
Per questo motivo l’episodio è situato a Gerico (ultima tappa dell’Esodo) che un tempo aveva fatto da soglia decisiva alla conquista della Terra Promessa.
Gesù attraversa anche la nostra città (Lc 19,1), per mostrare il volto del Padre, che persino nel [considerato] antipatico, furfante e ricco riesce a scorgere un figlio pieno di risorse.
Zaccheo sono io stesso quando mi lascio coinvolgere dalla gara dell’avere, e perciò divento un caso quasi disperato.
Avendo già molto, potrei probabilmente starmene per i fatti miei. Invece dentro sento un malessere.
L’inquietudine, l’insoddisfazione, mettono in moto: sintomi dell’anima riarsa, indizi da non tacitare.
Il traguardo professionale o ministeriale che avevo in testa forse l’ho raggiunto, ma mi accorgo che sebbene non sia un totalmente fallito, dietro la maschera che indosso resto un angosciato: mi rendo conto di aver smarrito l’obiettivo.
Il mio cuore voleva ben altro, per questo non colgo sintonie radicali con la mia essenza profonda, con l’Oro del mio dna.
Allora devo rimettermi in campo, perché qualcosa nel mio Centro non va - malgrado l’eventuale ruolo conquistato, o gioie parziali.
Non mi sento riuscito, non posso tirare avanti così. Devo smuovermi. Come iniziare?
Il Vangelo ci dice: da una rinnovata Percezione. Bisogna affinare lo sguardo!
Zaccheo vuole «vedere Gesù, chi è» [Lc 19,3 testo greco]: desidera ardentemente capire se Dio è sensibile alle sue ansie.
Benché abiti in ambiente formalmente devoto, la folla attorno non gli consente di avere un minimo rapporto franco e diretto.
La massa dei seguaci consolidati non fa che accentuare lacci e affanno, anche perché nessuno gli avrebbe consentito di salire su una scala o sul tetto della propria abitazione (in quel territorio, tutte senza falde).
Ospitando un pubblico peccatore, si credeva che la stessa abitazione divenisse impura: non poteva nemmeno sfiorarla, né calcare i pioli di una scala esterna; figuriamoci andare in terrazza.
In colui che viene socialmente additato, il problema si accentua, e con esso la convinzione che non ci sia nulla da fare, ormai.
La gente non di rado intralcia la crescita e l’esistenza altrui con fissazioni puriste o ideologiche.
Giudizi gretti che rivelano l’incapacità di accogliere, di ascoltare, comprendere, avanzare, far crescere, promuovere davvero.
Siccome a causa delle saccenti moltitudini non c’è modo per via diretta, bisogna inventarsi qualcosa - anche a costo del disonore d’una corsa avanti [in ambiente orientale, particolarmente disdicevole: v.4].
«Poiché sulla strada principale tutti hanno lo sguardo cattivo che mi fa pentire di esistere - ma voglio vedere coi miei occhi (e non solo farmelo raccontare) - cerco di vedere senza esser visto».
Il sicomoro è un albero molto frondoso - e pensa Zaccheo:
«Siccome dovrei salire ma non mi danno possibilità di raggiungere nessun ripiano (per timore che li contamini) - e poiché gli sguardi sono così cupi da infastidire e ossessionare, mi nascondo da qualche parte… anche nel fogliame... in modo che nessuno mi noti».
Il turbamento indotto dai giudizi è una barriera invalicabile per un rapporto d’amore con nostro Signore. Come regolarsi?
Semplicemente, non bisogna “regolarsi”.
Malgrado la gazzarra attorno, il Maestro vede proprio il piccolo, il disprezzato e mortificato.
Se il mondo severo lo notasse, noterebbe solo una macchia, guarderebbe senza tante sottigliezze
Lo sguardo di Gesù è differente. Non ci mortifica, né fa disperare.
Viene attratto proprio da chi ha persino imbarazzo di sé e disagio di essere notato.
Non solo: lo chiama per nome, e in aramaico «Zachàr» [ebraico «Zakkài»] significa Giusto, Puro!
Mentre tutti ravvisano l’obbrobrio, il Figlio coglie in ciascun malfermo e curioso una purezza innata e le possibilità di bene.
Anche di chi si nasconde.
Mentre le persone chic ti scansano, Dio ti cerca. Anzi, la mèta del suo passaggio è proprio la tua dimora [Lc 19,4: «doveva»].
Il Disegno su di noi è che nessuno si perda, perciò il Signore scorge sapientemente i doni e le occasioni che si celano anche dietro lati in affanno della nostra personalità.
Sembra trasgressivo?
Ma mentre i discepoli rimangono a bocca aperta di fronte allo spettacolo dei sacerdoti paludati e delle magnificenze del Tempio nella città eterna e santa, Cristo vede il gesto insignificante della vedovella (Mc 12,41-44).
Insomma, quando il Signore si trova insieme a chi nella vita è in difficoltà o ha sbagliato, è sempre in basso, perché servitore; non giudice e padrone.
Così nell’episodio dell’adultera [Gv 8,3-11 testo greco], e allo stesso modo guarda anche l’emarginato: dal basso in alto, non viceversa (Lc 19,5).
Anche le buone guide spirituali fanno lo stesso: attratte da chi soffre a causa d’una vita isolata e deturpata perché sotto condanna.
I ridicoli schematismi - quelli che invitano a innalzare impalcature esterne e scalarle - ci procurano un assurdo dispendio di energie
Lo spreco vano di attenzione, facoltà e impegni va ad incidere non solo sullo stile e i dettagli - persino sulle linee portanti della personalità.
Invece Gesù impone a Zaccheo (a tutti noi) di scendere, affinché egli - continuando a trascurare tutte le opinioni - potesse realizzare il suo destino.
Terra promessa che nell’animo già gli palpitava dentro. Senza prima le rinunce, né sforzo ascetico particolare.
«Percepire e scendere» invece di «farsi guardare e salire». Ecco la “regola” non regola, indispensabile.
Essere fedeli a se stessi, all’Amico innato - invece di lasciarsi condizionare dai “migliori” del club [capirai che straordinario beneficio e redenzione!].
Ciò che non è spazzatura di se stessi, accade spontaneamente; avviene senza artifici, né propositi inculcati.
Tutto, aderendo in modo genuino all’impulso dell’Incontro schietto.
Lasciandosi sorprendere: affacciati dal belvedere del «nuovo occhio».
Punto di svolta che trasmette come interiorizzare una vita in crescita, scandita da genesi evolutive - che preparano la Nuova Nascita.
La trasformazione poi avviene a terra, nella vita pratica - smettendo di farsi dire come avrebbe (avremmo) dovuto essere.
Del resto, un’elaborazione arcaica o una configurazione troppo sofisticata, entrambe condite d’esteriorità perbenista - ci farebbero solo ammalare.
Zaccheo non ha voluto assomigliare a nessuno degli attori intorno.
Quindi si è realizzato sul serio - accorgendosi dei suoi e altrui bisogni, spazzando via le banalità dei giudizi e i piagnistei dei luoghi comuni eticisti.
I «piccoli di statura» possono anche essere delle stanghe: nel Vangelo mikròi (v.3) sono gli incipienti, i caratterizzati da scarse conoscenze ed energie.
Coloro che hanno un briciolo di Fede, e ci provano ad affacciarsi in comunità, ma vengono subito messi in riga o in buca.
E spesso rimangono scandalizzati proprio dagli adultoidi: ossia quanti restano appiccicati alla pratica abitudinaria e impersonale - o i sofisticati à la page.
Però non sono quelli i veri discepoli, bensì massa che offusca.
Guarda caso, è gente che adempie, osserva, obbedisce, e dalla vita sì sterilizzata, ma pettegola, condizionante - e sempre di malumore (Lc 19,7).
Sebbene facciano spesso ressa attorno a Gesù, sono lì solo per abitudine, o per timore che scappi e combini qualche sproposito imprevisto - rallegrante i malfermi e fuori del “giro”.
Come con Zaccheo. I diversi dai primi della classe [loro] sono minimi cui tenersi alla larga, quelli che fanno quasi ribrezzo.
Valutati al pari di vermi striscianti, o non adeguati; pertanto indegni di venire considerati.
Invece sono Appelli alla missione, un Richiamo ad approfondire e stare più attenti.
Nell’atteggiarsi, i promotori del proprio look si comportano come fossero sfingi o intoccabili.
E in tal guisa credono l’Eterno proprio nel modo che fa rimanere perplessi.
Sembrano non avere contrasti, ma guarda caso non vedono l’ora di proiettare sui diversi le proprie voglie inespresse.
Perciò vedono colui che si occulta per vergogna di sé - non per recuperarlo, ma per sotterrarlo bene.
Illudendosi così di annientare i loro stessi volti reconditi, che però - sotto la bella reputazione - covano (e cronicizzano).
Chi è dunque Dio (cf. v.3)?
Colui che riposa col piccolo e microbo - deturpato più dal giudizio esterno che dal suo malcostume.
Dentro, i “santi” e non segnati a vita [i “vorrei ma non posso” - immacolati per una questione di perbenismo di facciata] sono uguali uguali a lui.
Una volta fatta l’esperienza della gratuità che sgretola i pregiudizi [devoti o modernissimi] e le sentenze della buoncostume di paese, Cristo ci mette un attimo a cambiarci e moltiplicare il bene.
Il Maestro ha fretta d’incontrare ogni disorientato; proprio come un innamorato perduto.
Sa che abbiamo bisogno di trovare gioia oggi (vv.5.9).
Quindi non frappone il tempo delle pratiche, delle trafile, o adempimenti che dimostrino conversione artificiosa: un Padre simile non sarebbe amabile.
Non susciterebbe trasformazione, né senso di legame e giustizia.
Dice il Tao Tê Ching (xxvii): «Chi ben lega non usa corde né vincoli, eppur non si può sciogliere».
La religione tradizionale guarda il passato e vuole innalzare l’uomo in astratto, badando a concatenazioni esterne puntigliose.
L’ideologia woke contemporanea vaneggia il futuro edonista, situazionalista, relativo, sradicato e disincarnato; senza spina dorsale, senza pensiero profondo, né bene duraturo.
Gesù mira il presente e l’a-capo. Non il fatto distante.
Egli senza condizioni accentua i «sentimenti di appartenenza a una medesima umanità» (cf. Fratelli Tutti n.30).
L’Altissimo punta nel profondo e in basso: desidera condividere la sua Presenza vivificante con l'anomalo e l’isolato.
Ne ha bisogno «subito», anche se i suoi “amici” [non di rado i più “intimi”] ristagnano attorno offesi (Lc 19,7).
Insomma, la Famiglia autentica del Signore non è fatta di persone diffidenti. Egli sta dentro e in mezzo a situazioni di Libertà.
Non osserva prima chi è già introdotto - e chi è ancora fuori. Così ci ridona statura, gratuitamente, senza condizione alcuna.
Certo, nella testa dei capi della religione antica o astratta un Dio tale non vale nulla: non sa neanche distinguere gli “amici-nostri” e i “meriti-miei”.
Le autorità e i fenomeni lo rifiutano, certo. Ma finalmente hanno capito Chi è (v.3).
Anche Zac-euro è stato curato dall’antica cecità: prima vedeva in Dio un notaio, e nel prossimo solo gente da sfruttare - tanto più perché scontrosa, sgradevole, odiosa, insopportabile.
Tutto sommato, il gabelliere era il peggior nemico di un mondo sommerso dal provincialismo, cui volentieri estorceva denaro.
Il super trasgressore si cela dunque alla vista altrui… perché nella scoperta dei codici che lo abitano, non vuole più farsi plagiare.
Desidera un occhio che veda il Volto di Dio e si guardi dentro, senza più zavorre apparentemente ovvie, ma che non gli corrispondono.
Zaccheo non vuole più guardare come e dove guardano gli altri, anzitutto quelli sicuri in sella; branco di disturbanti - che non recuperano e non consentono di riparare.
Essi non fanno realizzare alcun sogno che collimi dentro, e che possa ancora guidarci.
La persona autentica vuole allora incamminarsi sulla “sua” strada.
Rimettendo in discussione le certezze di tutti, fa scendere in campo la personale essenza recondita, il motivo per cui è nato.
Il proprio destino non vuole le certezze esterne, le vicende comuni, i giudizi e gli accadimenti che non gli appartengono davvero.
La visione intima del Zaccheo in noi non è innestata e identificata; neppure quella che avevamo forse scelto, per diventare straricchi.
Ci bastava distogliere la visuale da quello stesso progetto, come dai propositi della religiosità che si adattava, o troppo alternativa (da non sfiorare la carne).
E allontanarci persino dall’idea scontata della vita, che ci eravamo fatti - dentro la solita «angolazione».
Zaccheo [ciascuno] trova libertà solo nel suo “rifugio”.
Nascondendosi, si defila dall’obbligo di apparire. Fugge dalle passerelle conformi all’ambiente.
Palcoscenici ingannatori - perché interferiscono, e chiudono assai più che lo stare con se stessi e con l’unica Relazione fondante.
Nessun altro poteva occuparsene, a parte un Sé superiore, quello dei labirinti interiori che si percorrono in prima persona, i quali si oppongono ai conformismi.
Essi che accentuano la curiosità e il mai visto prima, anche per noi.
Sembrano allontanarci dalla scansione ordinaria dei soliti obbiettivi intermedi. Ma ci somigliano.
Zaccheo comprende che il primo dei suoi compiti era «vegliare», spalancando la percezione elementare (ma non grossolana).
Stimolando processi intuitivi; non spersonalizzanti, né cerebrali.
Senza neppure cambiare mestiere. Senza mandar via le sue emozioni: veri segnali da notare, che lo guidavano all’autenticità della sua sorte.
Cristo ha qualcosa da dirci solo se lo esploriamo senza la scorza delle precomprensioni omologanti: nulla hanno a che fare con Lui e il nostro carattere, in essenza.
Le cose del Padre vanno ricercate, colte, ospitate e comprese come sono - incontrando i disagi.
Senza neppure lottare con sforzo estremo contro i lati di sé che avrebbero dovuto non appartenerci.
È vero: elementi di discernimento raramente insegnati in modo esplicito: ad es. “come cambiare” nome e destino.
Ma il rapporto logorante con “eletti” tanto gretti facilita paradossalmente. Fa cogliere anche ciò che la nostra stessa ostinazione - unica cosa da disturbare - non ci faceva mettere a fuoco e considerare.
Cose mai sospettate, che non “conoscevamo”, mai viste... In realtà, forze che non utilizziamo.
Mentre lo Sconosciuto avanza (vv.1.4-5) affinché le scopriamo insieme a Lui, e le facciamo emergere.
A nostro favore Egli desidera prendere il timone della rotta decisiva che mai avremmo saputo tracciare. E portarci avanti, rigenerarci ancora.
Saremo posti in contatto con il Fuoco della Chiamata primordiale, che tirerà fuori meraviglie proprio dai lati sconosciuti, in penombra; dagli stati profondi e opposti.
Appello per tutti i figli che non vogliono perdersi in superficie, nel giudizio poco ampio di veterani o anteposti che smarriscono le persone, e tutto il popolo.
Interessante che anche nei racconti dei Chassidim riportati da Buber, persino in occasione dell’Annuncio della Torah si raccomandava la ricerca di una sorta di vuoto nelle idee che facesse posto a un altro Eros.
E in particolare di «non sentire più affatto se stessi [ossia la propria formazione e visione del mondo], non essere più che un orecchio che ascolta ciò che il mondo del Verbo dice in Lui. Non appena si cominciano a sentire le proprie parole, si cessi».
Ciò che non piace e mai avremmo scelto, diventa Voce che senza mortificare interroga, e umanizza.
Facendoci scoprire - attraverso gravidanze ininterrotte - la nostra e altrui dimensione piena.
Privi di cappe, faremo scattare quell’energia antica, futura e intelligente che guida al viaggio imprevedibile.
Alla Mèta della Vita totale. Alla Casa che è davvero nostra. Alla Dimora di una vita da salvati, in pienezza di essere.
Tenda che ancora fa emergere la naturalezza spontanea dei fiori che vengono su, senza sfiancarci con sudori artificiosi.
Curata la vista - sia dei pii che del caduto - proprio quello dell’escluso, il peggiore impuro e (anche religiosamente) trasgressore che ci possa essere, diventa l’unico caso recuperabile.
Gesù sgretola l’dea che costituiva la trama della profonda zavorra sacrale archetipa.
Ora nel rapporto da pari a pari col suo Logos fondante, il peccatore si accorge che non è la “perfezione” incontaminata che dà una patente d’immunità per (poi) avere diritto d’incontrare il Padre.
È il rapporto immediato e gratuito col Risorto che lo purifica, abilitando il cuore a godere già qui una vita esponenziale e feconda.
Nessun uomo deve considerarsi un caso disperato, un estraneo alla beatitudine di un nuovo Cielo sulla terra.
Tutto forse possiamo aspettarci, meno che qualcuno ci dica: dentro sei indefettibile, hai la chiave che spalanca il portone che appare serrato...
Se Zaccheo avesse preteso di “migliorare”, intossicandosi secondo un modello culturale, comportamentale e religioso, si sarebbe arenato, divenendo insignificante.
Tutta la vita precedente è stata invece recuperata e reinvestita, da un’Amicizia immediata; senza prima il cliché della “perfezione”.
La persona cruda ma spontanea non si è lasciata prendere in ostaggio da falsi maestri, che lo avrebbero introdotto nelle loro assurde etichette [i codici-labirinto su come si deve “stare al mondo”].
Anche nel caso di questo strozzino, i disagi non sono stati vinti opponendosi, ma accogliendo.
Nel loro accadere dentro, quei malumori hanno stimolato il riconoscimento di un profilo unico; della propria anima così diversa.
Sarebbe stato deleterio combatterla coi muscoli della volontà, e osservanze asettiche, dottrine cerebrali, mortificazioni, ripetizioni a fotocopia.
Quella delle deviazioni indotte da condizionamenti è una cosmesi velenosa per l’anima e per le opere che siamo chiamati a far sgorgare dalla nostra anima irripetibile.
Le altrui convinzioni guidano l’io inferiore fuori dai binari dell’orientamento che profondamente e unicamente gli appartiene.
L’essenza profonda chiama all’immediatezza, più che all’identità. Alla spontaneità (particolare ma colma) del nostro Germe, il quale matura a tappe e balzi, e farà il nostro destino dissimmetrico.
Condurrà però alla vera Mèta: non è «il problema» - come spesso s’immagina.
È tale Nido che dentro non diverge, poi a proteggerci - nell’alleanza con il sé e nell’esuberanza del nostro fiorire.
Condotti a noi stessi, sentiremo la nostra natura anche relazionale, prima soffocata dalla cappa d’un perbenismo omologante, che zampilla di suo.
Adeguarsi a una mentalità e vita religiosa da logica o chiacchiericcio esterni, spersonalizzante o convenzionale, distanzia dall’autentica purificazione e dai salti di qualità che ci equivalgono sul serio.
Essi sì innescano i codici d’una guarigione che si sviluppa non da stati parossistici, né da pratiche tutte uguali. Ma da un faccia a faccia con il nostro nocciolo costituente, colmo di forze benefiche; energetico e passionale.
Con Gesù il nostro divenire non sarà mai in un rapporto banale con ciò che siamo stati o come dovremmo essere: non una concatenazione formale.
Passeremo attraverso Genesi inattese e meravigliose, che sorvolano qualsiasi organigramma di previsioni e sviluppo lineare.
La differenza tra religiosità e Fede?
È esplicita nella vicenda imprevedibile di Zaccheo, che decide di non stare lì dove lo hanno messo, a ricalcare pedissequamente una disciplina impossibile e che non voleva.
Ha capito che non sarebbe stato in grado di “migliorare”: ha scelto di non farsi infettare tutta la vita.
È prima una inquieta insoddisfazione, poi un coinvolgente tentativo di Visione genuina, quindi un semplice Incontro da uomo a uomo, che ha preparato le sue decisioni.
Anche se non siamo considerati “pronti” [da un esperto e dal suo codice], è con immediatezza e senza troppe lotte o lacerazioni interiori che possiamo raggiungere un altro Territorio.
E far cambiare aria anche agli altri, sorelle e fratelli - partendo semplicemente dalla «percezione senza condizioni» di un nuovo Volto di Dio.
Lo scopriremo affatto ficcanaso e arcigno, né paternalista.
Egli trasmette invece quell’assurda autostima che modifica la nostra sorte, e il destino del mondo.
Dove accolti, sorprenderemo noi stessi. E rimetteremo i conti a posto.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Hai uno sguardo personale su Gesù che passa, o lo prendi in prestito dall’opinione di esperti che lacerano l’anima di accuse?
In quale occasione il Cristo ti ha trasmesso un’assurda autostima, che ha aperto nuovi spazi di vita e rimesso i conti a posto?
Antivedere: nuova Estetica che salverà chiesa e mondo
Bisogno di vederlo. Antivedere: pienezza, non bellezza tra le altre
Il cristiano, colui che vuole essere seguace di Cristo, colui che sente il bisogno di stringersi a Lui mediante i vincoli della sua autenticità e della propria certezza, avrà sempre, come uomo, come uomo specialmente del nostro tempo tanto nutrito dell’immagine visiva, il bisogno istintivo di vederlo, Lui, Gesù il Cristo, com’era nel volto, nell’aspetto, nel portamento, nella persona. L’abbiamo detto altra volta. Ma questo desiderio rimane, e ricorre quando sorgono questioni circa l’interpretazione genuina del suo messaggio, e circa il dovere d’uniformare la nostra condotta al suo insegnamento. Non è, del resto, questa aspirazione sempre presente nei personaggi del Vangelo? Prendiamo Zaccheo, nel racconto di S. Luca: «voleva vedere Gesù, chi fosse»; e, piccolo di statura come era, in mezzo alla folla non vi riusciva; salì allora sopra un albero di sicomoro; e di là vide, anzi fu visto dal Signore che lo chiamò e gli disse di discendere volendo Egli essere in quel giorno ospite suo (Luc. 19, 1 ss.).
Ma la fortuna dei contemporanei di Gesù, che lo videro con i loro occhi (Cfr. 1 Io. 1, 1) non è la nostra. Come non è di tutta l’umanità venuta dopo di Lui. Già S. Ireneo, Vescovo di Lione (alla fine del II secolo) avverte che sono apocrife le immagini corporee che fin d’allora si tentava divulgare di Cristo (Adv. Haereses, 1, 25; PG 7, 685). S. Agostino è categorico: «Noi del tutto ignoriamo» quale fosse il volto corporeo di Gesù, come pure quello della Madonna (De Trinit. 8, 5; PL 42, 952). Dobbiamo formarci la figura partendo da elementi comuni alla natura umana e dai riflessi immaginativi che le notizie da noi possedute su di Lui, leggendo il Vangelo o credendo alla sua parola, provocano nel nostro spirito. Arte e pietà si aiutano in questa non facile elaborazione.
Essa non è vana fantasia; è uno sforzo meritevole, e in certo senso indispensabile, per chiunque voglia avere di Cristo un concetto concreto e fedele, che senza mitico artificio si presenta ideale.
Proviamo noi stessi a chiederci: come ci raffiguriamo Cristo Gesù? Cioè: qual è l’aspetto caratteristico di Lui, che risulta dal Vangelo? Come, a prima vista, si presenta Gesù? Una volta ancora le sue stesse parole ci aiutano: «Io sono mite ed umile di cuore» (Matth. 11, 29). Gesù vuol essere guardato così, veduto così. Se noi lo vedessimo, ci apparirebbe così, anche se la visione, che di Lui ci dà l’Apocalisse, riempie di forma e di luce la sua figura celeste (Apoc. 1, 12 , ss.). Questo aspetto dolce, buono e soprattutto umile si impone come essenziale. Meditando si avverte che esso manifesta ed insieme nasconde un mistero fondamentale relativo a Cristo, quello dell’Incarnazione, quello del Dio umile, mistero che governa tutta la vita e tutta la missione di Cristo: «Il Christus humilis è il centro della cristologia» di S. Agostino (Cfr. POKTALIÉ, D. Th. C. 1, II, 2372); e che impronta tutto l’insegnamento evangelico a nostro riguardo: «Che cosa d’altro insegnò, se non questa umiltà? . . . in questa umiltà noi ci possiamo avvicinare a Dio», dice ancora il dottore d’Ippona (En. in Ps. 31, 18; PL 36, 270). Del resto, S. Paolo non ha un termine, che sa di assoluto, quando ci dice che Cristo si è «annientato»: semetipsum exinanivit? (Phil. 2, 7) Gesù è l’uomo buono per eccellenza; ed è per ciò ch’Egli è disceso al livello infimo anche della scala umana; si è fatto bambino, si è fatto povero, si è fatto paziente, si è fatto vittima, affinché nessuno dei suoi fratelli in umanità potesse sentirlo superiore e lontano; si è messo ai piedi di tutti. Egli è per tutti. Egli è di tutti; anzi di ciascuno di noi, al singolare; lo dice San Paolo: «Egli ha amato me e si è sacrificato per me» (Gal. 2, 20).
Non è da stupire se l’iconografia di Cristo abbia sempre cercato d’interpretare questa mansuetudine, questa estrema bontà. L’intelligenza mistica di Lui è arrivata a contemplarlo nel cuore, e a fare, per noi moderni, sentimentali e psicologi, sempre polarizzati verso la metafisica dell’amore, del culto al Sacro Cuore, il focolare ardente e simbolico della devozione e dell’attività cristiana.
Qui sorge, oggi specialmente, un’obiezione: questa immagine di Cristo, che realizza in se stesso la propria parola, cioè le beatitudini della povertà, della mitezza, della non resistenza (Cfr. Matth. 5, 38, ss.), è il Cristo vero? È il Cristo per noi? Dov’è il Cristo Pantocratore, il Cristo forte, il Re dei re, il Signore dei dominanti? (Cfr. Apoc. 19, 11, ss.) Il Cristo riformatore? («Ego autem dico vobis . . .», Matth. 5) il Cristo polemico, con le sue contestazioni (P. es. Matth. 5, 20) e con i suoi anatemi? (Cfr. Matth. 23) Il Cristo liberatore, il Cristo della violenza? (Cfr. Matth. 11, 12) Oggi non si parla del cristianesimo della violenza e della teologia della rivoluzione? Dopo tanto parlare di pace la tentazione della violenza, come suprema affermazione di libertà e di maturità, come unico mezzo di riforma e di redenzione, è così forte che si parla di teologia della violenza e della rivoluzione; e spesso alle eccitanti teorie i fatti, o almeno le tendenze della riscossa al «disordine costituito», corrispondono. Si cerca allora di avere Cristo per sé, e di giustificare certi atteggiamenti disordinati, demagogici e ribelli, con gli atteggiamenti e con le parole di Lui.
Il discorso è di molti. Noi stessi vi abbiamo altre volte accennato. Un solo consiglio per ora. Dinanzi a questa supposta contraddizione fra la figura del Cristo mite e soave, del Cristo buon Pastore, del Cristo crocifisso per amore e la figura del Cristo virile e severo, sdegnato e pugnace, occorrerà riflettere bene, e vedere come stanno le cose nei documenti originari, i Vangeli, il Nuovo Testamento, la Tradizione autentica e coerente, e nella loro genuina interpretazione. Ci sembra doveroso reclamare a tale riguardo onesta attenzione. Specialmente sulla complessità della figura di Cristo: Egli è certamente al tempo stesso mite e forte, com’è al tempo stesso uomo e Dio; e poi sulla vera reazione, non certo politica, non certo anarchica, che l’energia riformatrice di Cristo immette nel mondo decaduto e corrotto; cioè sulle vere speranze ch’Egli propone all’umanità.
Vedremo allora che la figura di Cristo presenta, sì, senza alterare l’incanto della sua misericordiosa dolcezza, anche un aspetto grave e forte, formidabile, se volete, contro la viltà, le ipocrisie, le ingiustizie, le crudeltà, ma non mai disgiunto da una sovrana irradiazione di amore.
Solo l’amore lo definisce Salvatore. E solo per le vie dell’amore lo potremo avvicinare, imitare, inserire nelle nostre anime e nella sempre drammatica vicenda della storia umana.
Sì, potremo vedere Lui, che ha abitato con noi, e ha condiviso la nostra sorte terrena, per infondere in questo il suo vangelo di salvezza, e per predisporci a questa piena salvezza; lo vedremo «pieno di grazia e di verità» (Io. 1, 14).
Fede ed amore sono gli occhi che ora a noi servono per poterlo in qualche modo vedere; cioè antivedere.
(Papa Paolo VI, Udienza Generale 27 gennaio 1971)