don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 26 Maggio 2025 05:21

Sentinelle del mattino

In realtà, è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare. E' Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di seguire un ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna.

Carissimi giovani, in questi nobili compiti non siete soli. Con voi ci sono le vostre famiglie, ci sono le vostre comunità, ci sono i vostri sacerdoti ed educatori, ci sono tanti di voi che nel nascondimento non si stancano di amare Cristo e di credere in Lui. Nella lotta contro il peccato non siete soli: tanti come voi lottano e con la grazia del Signore vincono!

Cari amici, vedo in voi le "sentinelle del mattino" (cfr Is 21,11-12) in quest'alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi venivano convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare, venivano mandati a combattere gli uni contro gli altri. I diversi messianismi secolarizzati, che hanno tentato di sostituire la speranza cristiana, si sono poi rivelati veri e propri inferni. Oggi siete qui convenuti per affermare che nel nuovo secolo voi non vi presterete ad essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace, pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete ad un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti.

Cari giovani del secolo che inizia, dicendo «sì» a Cristo, voi dite «sì» ad ogni vostro più nobile ideale. Io prego perché Egli regni nei vostri cuori e nell'umanità del nuovo secolo e millennio. Non abbiate paura di affidarvi a Lui. Egli vi guiderà, vi darà la forza di seguirlo ogni giorno e in ogni situazione.

[Papa Giovanni Paolo II, Veglia a Tor Vergata, 19 agosto 2000]

Lunedì, 26 Maggio 2025 04:58

Preghiera che domanda Gloria

Dopo l’Ultima Cena, il Signore, «alzati gli occhi al cielo, disse: “Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo – e poi – glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse”» (Gv 17,1.5). Gesù domanda la gloria, una richiesta che sembra paradossale mentre la Passione è alle porte. Di quale gloria si tratta? La gloria nella Bibbia, indica il rivelarsi di Dio, è il segno distintivo della sua presenza salvatrice fra gli uomini. Ora, Gesù è Colui che manifesta in modo definitivo la presenza e la salvezza di Dio. E lo fa nella Pasqua: innalzato sulla croce, è glorificato (cfr Gv 12,23-33). Lì Dio finalmente rivela la sua gloria: toglie l’ultimo velo e ci stupisce come mai prima. Scopriamo infatti che la gloria di Dio è tutta amore: amore puro, folle e impensabile, al di là di ogni limite e misura.

Fratelli e sorelle, facciamo nostra la preghiera di Gesù: chiediamo al Padre di togliere i veli ai nostri occhi perché in questi giorni, guardando al Crocifisso, possiamo accogliere che Dio è amore. Quante volte lo immaginiamo padrone e non Padre, quante volte lo pensiamo giudice severo piuttosto che Salvatore misericordioso! Ma Dio a Pasqua azzera le distanze, mostrandosi nell’umiltà di un amore che domanda il nostro amore. Noi, dunque, gli diamo gloria quando viviamo tutto quel che facciamo con amore, quando facciamo ogni cosa di cuore, come per Lui (cfr Col 3,17). La vera gloria è la gloria dell’amore, perché è l’unica che dà la vita al mondo. Certo, questa gloria è il contrario della gloria mondana, che arriva quando si è ammirati, si è lodati, si è acclamati: quando io sto al centro dell’attenzione. La gloria di Dio, invece, è paradossale: niente applausi, niente audience. Al centro non c’è l’io, ma l’altro: a Pasqua vediamo infatti che il Padre glorifica il Figlio mentre il Figlio glorifica il Padre. Nessuno glorifica sé stesso. Possiamo chiederci oggi, noi: “Qual è la gloria per cui vivo? La mia o quella di Dio? Desidero solo ricevere dagli altri o anche donare agli altri?”.

[Papa Francesco, Udienza Generale 17 aprile 2019]

Domenica, 25 Maggio 2025 20:25

Ascensione del Signore

Domenica, 25 Maggio 2025 03:47

Come una trappola di velluti - o di prove

L’eco delle incomprensioni

(Gv 16,29-33)

 

In Gv le affermazioni del Signore hanno sempre una risonanza di malinteso fra gli uditori.

Dopo l’annuncio della ‘salita’ di Gesù al Padre, qui sembra invece che i discepoli - almeno un poco - lo comprendano.

A breve lo tradiranno; ma ciò non significa non aver intuito nulla.

La chiesa post-pasquale fa esperienza della dialettica di Fede: la chiarisce, l’approfondisce nel tempo, e passo passo l’accetta.

La Vita dell’Eterno si rende presente, si fa più consapevole. La Visione di Fede coglie e anticipa futuro.

Gli apostoli “capiscono” e “credono”, o almeno iniziano a farlo. Ma sono ancora tanto legati a evidenze esterne. Da ciò la fatica del cammino di comprensione, e la diffidenza del Cristo [che ci conosce].

Il nostro è sempre un convincersi parziale, ma gli abbandoni, le remore, i tradimenti, non hanno il potere di affievolire il rapporto del Figlio col Padre e i suoi.

Dio non può essere vinto. Egli è l’unico appoggio: assai più affidabile delle nostre conoscenze, certezze, fievoli sicurezze.

L’incomprensione non fa ostacolo alla relazione di Fede, anzi, se portata a coscienza ne lascia emergere l’Oro; suscita uno scatto, attiva l’intimo acume, un coinvolgimento convinto.

Sorge la «Pace in Lui» (v.33) - propria di colui che è tribolato. Shalôm che non è quietismo, né tregua.

La vittoria della vita sui germi di morte non si può comprendere che nelle prove, in cui emerge ciò che siamo [nell’essere e nell’agire].

La stabilità dell’esistere nello Spirito di Gesù non poggia sulla mancanza di fughe, bensì sul Fondamento autentico, solo divino - quindi poliedrico, tollerante l’onda vitale.

 

Il testo consente di prendere misura delle nostre incomprensioni, dei nostri stessi rifiuti nei confronti dei sonori appelli che la Provvidenza porge.

I tanti richiami danno immediatamente la feconda misura della condizione di precarietà, e lasciano intendere che neppure l’«Eccomi» eventuale si commisura in una progressione.

Le vistose smentite fanno capire che il «Sì» è costantemente in fase germinale.

Insomma, la fiducia spirituale salda non è presuntuosa, bensì incipiente. Né superficiale. Essa è potente nell’impotenza.

La verifica del credere non è solo l’accettazione della Croce - pur improbabile - ma la sua condizione silente e fruttuosa d’Inatteso. Penetrazione della realtà, che vince il mondo (v.33).

Gesù disillude il credere entusiastico dei suoi: sa che preannuncia fughe vergognose, o la stasi più degradante.

Ma nelle difficoltà nessuno è solo. Ogni prova è occasione di riflessione, piena di slancio e crescita misteriosa.

La Fede non è certezza baldanzosa: se autentica, è messa in discussione passo passo.

Non c’è attimo in cui i problemi sono superati.

E unicamente col Dono dello Spirito si può accettare che il Progetto del Padre e l’Opera del Figlio si compiano nella perdita.

I velluti sono illusori.

Si conosce il Padre della vita, il Cielo in noi, solo percorrendo la strada d’una incessante Liberazione: per la cruda e piena comprensione dell’Altissimo manca sempre molto.

 

 

[Lunedì 7.a sett. di Pasqua, 2 giugno 2025]

Domenica, 25 Maggio 2025 03:42

Come una trappola di velluti - o di prove

L’eco delle incomprensioni

(Gv 16,29-33)

 

In Gv le affermazioni del Signore hanno sempre una risonanza di malinteso fra gli uditori.

Dopo l’annuncio della ‘salita’ di Gesù al Padre, qui sembra invece che i discepoli - almeno un poco - lo comprendano.

A breve lo tradiranno; ma ciò non significa non aver intuito nulla.

La chiesa post-pasquale fa esperienza della dialettica di Fede: la chiarisce, l’approfondisce nel tempo, e passo passo l’accetta.

La Vita dell’Eterno si rende presente, si fa più consapevole. La Visione di Fede coglie e anticipa futuro.

Gli apostoli “capiscono” e “credono”, o almeno iniziano a farlo. Ma sono ancora tanto legati a evidenze esterne. Da ciò la fatica del cammino di comprensione, e la diffidenza del Cristo [che ci conosce].

Il nostro è sempre un convincersi parziale, ma gli abbandoni, le remore, i tradimenti, non hanno il potere di affievolire il rapporto del Figlio col Padre e i suoi.

Dio non può essere vinto. Egli è l’unico appoggio: assai più affidabile delle nostre conoscenze, certezze, fievoli sicurezze.

L’incomprensione non fa ostacolo alla relazione di Fede, anzi, se portata a coscienza ne lascia emergere l’Oro; suscita uno scatto, attiva l’intimo acume, un coinvolgimento convinto.

Sorge la «Pace in Lui» (v.33) - propria di colui che è tribolato.

Shalôm che non è quietismo, né tregua; tantomeno risultato del lasciarsi andare - perché ha riscontro [persino nelle rabbie che ci attivano].

La vittoria della vita sui germi di morte non si può comprendere che nelle prove, in cui emerge ciò che siamo [nell’essere e nell’agire].

La stabilità dell’esistere nello Spirito di Gesù non poggia sulla mancanza di fughe, bensì sul Fondamento autentico, solo divino - quindi poliedrico, tollerante l’onda vitale.

 

Il testo consente di prendere misura delle nostre incomprensioni, dei nostri stessi rifiuti nei confronti dei sonori appelli che la Provvidenza porge.

I tanti richiami danno immediatamente la feconda misura della condizione di precarietà, e lasciano intendere che neppure l’«Eccomi» eventuale si commisura in una progressione.

Le vistose smentite fanno capire che il «Sì» è costantemente in fase germinale.

Insomma, la fiducia spirituale salda non è presuntuosa, bensì incipiente. Né superficiale. Essa è potente nell’impotenza.

La verifica del credere non è solo l’accettazione della Croce - pur improbabile - ma la sua condizione silente e fruttuosa d’Inatteso. Penetrazione della realtà, che vince il mondo (v.33).

Gesù disillude il credere entusiastico dei suoi: sa che preannuncia fughe vergognose, o la stasi più degradante.

Ma nelle difficoltà nessuno è solo. Ogni prova è occasione di riflessione, piena di slancio e crescita misteriosa.

La Fede non è certezza baldanzosa: se autentica, è messa in discussione passo passo.

Non c’è attimo in cui i problemi sono superati.

E unicamente col Dono dello Spirito si può accettare che il Progetto del Padre e l’Opera del Figlio si compiano nella perdita.

 

A conclusione di una serie di catechesi a domanda e risposta, Gv incoraggia le sue comunità rattristate da attese snervanti a non temere l’apparente potenza del patto fra religione ufficiale e impero, che sembrava ridicolizzare la Fede dei piccoli e mettere fuori gioco l’impegno di tutti i fratelli in Cristo.

Anche oggi, alcuni “discepoli” pensano di aver capito tutto e si atteggiano a dottori e tuttologi. Ma quando in Gesù sentiamo corrispondenza e si manifesta una luce, è bene sapere: il meglio rimane ancora da svelare.

La Fede cresce nell’esperienza concreta della vita e nella sinergia con la Parola di Dio che ne illumina via via i tratti.

Talora la sua Voce o gli accadimenti possono essere una doccia fredda che spegne lusinghe [si riveleranno fatali, se portate avanti] e gli orgogliosi entusiasmi “infantili” - ingannevoli.

Inizialmente credere nel Crocifisso si lega forse a una corrispondenza spontanea. Ma nel tempo e nella sequela reale, la vita di Fede si delinea sempre meglio, e spegne i finti focolai dell’assenso acerbo: quando la presunzione di sé, delle proprie idee e forze, cade.

Infatti l’essere in Cristo è un motore che ci porta, e via via sbalordisce d’impensabili scoperte: Tesori nascosti dietro lati oscuri. Questo ri-crea l’anima.

Qualcuno tenta di normalizzare la nostra personalità e usarci per sé o il suo clan, ma l’Eterno non entra in alcuno schema culturale, anzi nel tempo li disarma tutti.

Vano è il tentativo comune alle religioni di trasmettere ai semplici ossessioni [datate o modaiole] condite di fantasie isteriche e finte sicurezze.

I devoti abitudinari - quelli da festicciole e parentesi - disorientano non appena s’accorgono che Dio non è un protettore di benedizioni materiali o d’idoli sacrali convenzionali.

Le strutture di peccato subdole, devianti, in Gv sono denominate «mondo» - a dire il connubio apparentemente felice col potere e il tornaconto: una trappola di quietismi, concordismi e velluti illusori.

 

Si conosce il Padre della vita, il Cielo in noi, solo percorrendo la strada d’una incessante Liberazione: per la cruda e piena comprensione dell’Altissimo manca sempre molto.

 

 

 

Stanchezze

 

«La mia mano è il suo sostegno, / il mio braccio è la sua forza» (Sal 88,22). Così pensa il Signore quando dice dentro di sé: «Ho trovato Davide, mio servo, / con il mio santo olio l’ho consacrato» (v. 21). Così pensa il nostro Padre ogni volta che “trova” un sacerdote. E aggiunge ancora: «La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui / … Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, / mio Dio e roccia della mia salvezza”» (vv. 25.27).

E’ molto bello entrare, con il Salmista, in questo soliloquio del nostro Dio. Egli parla di noi, suoi sacerdoti, suoi preti; ma in realtà non è un soliloquio, non parla da solo: è il Padre che dice a Gesù: “I tuoi amici, quelli che ti amano, mi potranno dire in modo speciale: Tu sei mio Padre” (cfr Gv 14,21). E se il Signore pensa e si preoccupa tanto di come potrà aiutarci, è perché sa che il compito di ungere il popolo fedele non è facile, è duro; ci porta alla stanchezza e alla fatica. Lo sperimentiamo in tutte le forme: dalla stanchezza abituale del lavoro apostolico quotidiano fino a quella della malattia e della morte, compreso il consumarsi nel martirio.

La stanchezza dei sacerdoti! Sapete quante volte penso a questo: alla stanchezza di tutti voi? Ci penso molto e prego di frequente, specialmente quando ad essere stanco sono io. Prego per voi che lavorate in mezzo al popolo fedele di Dio che vi è stato affidato, e molti in luoghi assai abbandonati e pericolosi. E la nostra stanchezza, cari sacerdoti, è come l’incenso che sale silenziosamente al Cielo (cfr Sal 140,2; Ap 8,3-4). La nostra stanchezza va dritta al cuore del Padre.

Siate sicuri che la Madonna si accorge di questa stanchezza e la fa notare subito al Signore. Lei, come Madre, sa capire quando i suoi figli sono stanchi e non pensa a nient’altro. “Benvenuto! Riposati, figlio. Dopo parleremo… Non ci sono qui io, che sono tua Madre?” – ci dirà sempre quando ci avviciniamo a Lei (cfr Evangelii gaudium, 286). E a suo Figlio dirà, come a Cana: «Non hanno vino» (Gv 2,3).

Succede anche che, quando sentiamo il peso del lavoro pastorale, ci può venire la tentazione di riposare in un modo qualunque, come se il riposo non fosse una cosa di Dio. Non cadiamo in questa tentazione. La nostra fatica è preziosa agli occhi di Gesù, che ci accoglie e ci fa alzare: “Venite a me quando siete stanchi e oppressi, io vi darò ristoro” (cfr Mt 11,28). Quando uno sa che, morto di stanchezza, può prostrarsi in adorazione, dire: “Basta per oggi, Signore”, e arrendersi davanti al Padre, uno sa anche che non crolla ma si rinnova, perché chi ha unto con olio di letizia il popolo fedele di Dio, il Signore pure lo unge: “cambia la sua cenere in diadema, le sue lacrime in olio profumato di letizia, il suo abbattimento in canti” (cfr Is 61,3).

Teniamo ben presente che una chiave della fecondità sacerdotale sta nel come riposiamo e nel come sentiamo che il Signore tratta la nostra stanchezza. Com’è difficile imparare a riposare! In questo si gioca la nostra fiducia e il nostro ricordare che anche noi siamo pecore e abbiamo bisogno del pastore, che ci aiuti. Possono aiutarci alcune domande a questo proposito.

So riposare ricevendo l’amore, la gratuità e tutto l’affetto che mi dà il popolo fedele di Dio? O dopo il lavoro pastorale cerco riposi più raffinati, non quelli dei poveri ma quelli che offre la società dei consumi? Lo Spirito Santo è veramente per me “riposo nella fatica”, o solo Colui che mi fa lavorare? So chiedere aiuto a qualche sacerdote saggio? So riposare da me stesso, dalla mia auto-esigenza, dal mio auto-compiacimento, dalla mia auto-referenzialità? So conversare con Gesù, con il Padre, con la Vergine e san Giuseppe, con i miei Santi protettori amici per riposarmi nelle loro esigenze – che sono soavi e leggere –, nel loro compiacimento – ad essi piace stare in mia compagnia –, e nei loro interessi e riferimenti – ad essi interessa solo la maggior gloria di Dio – …? So riposare dai miei nemici sotto la protezione del Signore? Vado argomentando e tramando fra me, rimuginando più volte la mia difesa, o mi affido allo Spirito Santo che mi insegna quello che devo dire in ogni occasione? Mi preoccupo e mi affanno eccessivamente o, come Paolo, trovo riposo dicendo: «So in chi ho posto la mia fede» (2 Tm 1,12)?

Ripassiamo un momento, brevemente, gli impegni dei sacerdoti, che oggi la liturgia ci proclama: portare ai poveri la Buona Notizia, annunciare la liberazione ai prigionieri e la guarigione ai ciechi, dare la libertà agli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore. Isaia dice anche curare quelli che hanno il cuore spezzato e consolare gli afflitti.

Non sono compiti facili, non sono compiti esteriori, come ad esempio le attività manuali – costruire un nuovo salone parrocchiale, o tracciare le linee di un campo di calcio per i giovani dell’oratorio…; gli impegni menzionati da Gesù implicano la nostra capacità di compassione, sono impegni in cui il nostro cuore è “mosso” e commosso. Ci rallegriamo con i fidanzati che si sposano, ridiamo con il bimbo che portano a battezzare; accompagniamo i giovani che si preparano al matrimonio e alla famiglia; ci addoloriamo con chi riceve l’unzione nel letto di ospedale; piangiamo con quelli che seppelliscono una persona cara… Tante emozioni… Se noi abbiamo il cuore aperto, questa emozione e tanto affetto affaticano il cuore del Pastore. Per noi sacerdoti le storie della nostra gente non sono un notiziario: noi conosciamo la nostra gente, possiamo indovinare ciò che sta passando nel loro cuore; e il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso e sembra perfino mangiato dalla gente: prendete, mangiate. Questa è la parola che sussurra costantemente il sacerdote di Gesù quando si sta prendendo cura del suo popolo fedele: prendete e mangiate, prendete e bevete… E così la nostra vita sacerdotale si va donando nel servizio, nella vicinanza al Popolo fedele di Dio… che sempre, sempre stanca.

Vorrei ora condividere con voi alcune stanchezze sulle quali ho meditato.

C’è quella che possiamo chiamare “la stanchezza della gente, la stanchezza delle folle”: per il Signore, come per noi, era spossante – lo dice il Vangelo –, ma è una stanchezza buona, una stanchezza piena di frutti e di gioia. La gente che lo seguiva, le famiglie che gli portavano i loro bambini perché li benedicesse, quelli che erano stati guariti, che venivano con i loro amici, i giovani che si entusiasmavano del Rabbì…, non gli lasciavano neanche il tempo per mangiare. Ma il Signore non si seccava di stare con la gente. Al contrario: sembrava che si ricaricasse (cfr. Evangelii gaudium, 11). Questa stanchezza in mezzo alla nostra attività è solitamente una grazia che è a portata di mano di tutti noi sacerdoti (cfr ibid., 279). Che bella cosa è questa: la gente ama, desidera e ha bisogno dei suoi pastori! Il popolo fedele non ci lascia senza impegno diretto, salvo che uno si nasconda in un ufficio o vada per la città con i vetri oscurati. E questa stanchezza è buona, è una stanchezza sana. E’ la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore…, ma con il sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini. Niente a che vedere con quelli che sanno di profumi cari e ti guardano da lontano e dall’alto (cfr ibid., 97). Siamo gli amici dello Sposo, questa è la nostra gioia. Se Gesù sta pascendo il gregge in mezzo a noi non possiamo essere pastori con la faccia acida, lamentosi, né, ciò che è peggio, pastori annoiati. Odore di pecore e sorriso di padri… Sì, molto stanchi, ma con la gioia di chi ascolta il suo Signore che dice: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34).

C’è anche quella che possiamo chiamare “la stanchezza dei nemici”. Il demonio e i suoi seguaci non dormono e, dato che le loro orecchie non sopportano la Parola di Dio, lavorano instancabilmente per zittirla o confonderla. Qui la stanchezza di affrontarli è più ardua. Non solo si tratta di fare il bene, con tutta la fatica che comporta, bensì bisogna difendere il gregge e difendere sé stessi dal male (cfr Evangelii gaudium, 83). Il maligno è più astuto di noi ed è capace di demolire in un momento quello che abbiamo costruito con pazienza durante lungo tempo. Qui occorre chiedere la grazia di imparare a neutralizzare - è un’abitudine importante: imparare a neutralizzare -: neutralizzare il male, non strappare la zizzania, non pretendere di difendere come superuomini ciò che solo il Signore deve difendere. Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza.

E per ultima – ultima perché questa omelia non vi stanchi troppo – c’è anche “la stanchezza di sé stessi” (cfr Evangelii gaudium, 277). E’ forse la più pericolosa. Perché le altre due provengono dal fatto di essere esposti, di uscire da noi stessi per ungere e darsi da fare (siamo quelli che si prendono cura). Invece questa stanchezza, è più auto-referenziale: è la delusione di sé stessi ma non guardata in faccia, con la serena letizia di chi si scopre peccatore e bisognoso di perdono, di aiuto: questi chiede aiuto e va avanti. Si tratta della stanchezza che dà il “volere e non volere”, l’essersi giocato tutto e poi rimpiangere l’aglio e le cipolle d’Egitto, il giocare con l’illusione di essere qualcos’altro. Questa stanchezza mi piace chiamarla “civettare con la mondanità spirituale”. E quando uno rimane solo, si accorge di quanti settori della vita sono stati impregnati da questa mondanità, e abbiamo persino l’impressione che nessun bagno la possa pulire. Qui può esserci una stanchezza cattiva. La parola dell’Apocalisse ci indica la causa di questa stanchezza: «Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore» (2,3-4). Solo l’amore dà riposo. Ciò che non si ama, stanca male, e alla lunga stanca peggio.

L’immagine più profonda e misteriosa di come il Signore tratta la nostra stanchezza pastorale è quella che «avendo amato i suoi…, li amò sino alla fine» (Gv 13,1): la scena della lavanda dei piedi. Mi piace contemplarla come la lavanda della sequela. Il Signore purifica la stessa sequela, Egli si «coinvolge» con noi (Evangelii gaudium, 24), si fa carico in prima persona di pulire ogni macchia, quello smog mondano e untuoso che ci si è attaccato nel cammino che abbiamo fatto nel suo Nome.

Sappiamo che nei piedi si può vedere come va tutto il nostro corpo. Nel modo di seguire il Signore si manifesta come va il nostro cuore. Le piaghe dei piedi, le slogature e la stanchezza, sono segno di come lo abbiamo seguito, di quali strade abbiamo fatto per cercare le sue pecore perdute, tentando di condurre il gregge ai verdi pascoli e alle acque tranquille (cfr ibid., 270). Il Signore ci lava e ci purifica da tutto quello che si è accumulato sui nostri piedi per seguirlo. E questo è sacro. Non permette che rimanga macchiato. Come le ferite di guerra Lui le bacia, così la sporcizia del lavoro Lui la lava.

La sequela di Gesù è lavata dallo stesso Signore affinché ci sentiamo in diritto di essere “gioiosi”, “pieni”, “senza paura né colpa” e così abbiamo il coraggio di uscire e andare “sino ai confini del mondo, a tutte le periferie”, a portare questa buona notizia ai più abbandonati, sapendo che “Lui è con noi, tutti i giorni fino alla fine del mondo”. E per favore, chiediamo la grazia di imparare ad essere stanchi, ma ben stanchi!

[Papa Francesco, omelia del Crisma 2 aprile 2015]

Domenica, 25 Maggio 2025 03:36

Croce: risposta sovrabbondante

Cari fratelli e sorelle,

abbiamo rievocato, nella meditazione, nella preghiera e nel canto, il cammino di Gesù sulla via della Croce: una via che sembrava senza uscita e che invece ha cambiato la vita e la storia dell’uomo, ha aperto il passaggio verso i «cieli nuovi e la nuova terra» (cfr Ap 21,1). Specialmente in questo giorno del Venerdì Santo, la Chiesa celebra, con intima adesione spirituale, la memoria della morte in croce del Figlio di Dio, e nella sua Croce vede l’albero della vita, fecondo di una nuova speranza.

L’esperienza della sofferenza segna l’umanità, segna anche la famiglia; quante volte il cammino si fa faticoso e difficile! Incomprensioni, divisioni, preoccupazione per il futuro dei figli, malattie, disagi di vario genere. In questo nostro tempo, poi, la situazione di molte famiglie è aggravata dalla precarietà del lavoro e dalle altre conseguenze negative provocate dalla crisi economica. Il cammino della Via Crucis, che abbiamo spiritualmente ripercorso questa sera, è un invito per tutti noi, e specialmente per le famiglie, a contemplare Cristo crocifisso per avere la forza di andare oltre le difficoltà. La Croce di Gesù è il segno supremo dell’amore di Dio per ogni uomo, è la risposta sovrabbondante al bisogno che ha ogni persona di essere amata. Quando siamo nella prova, quando le nostre famiglie si trovano ad affrontare il dolore, la tribolazione, guardiamo alla Croce di Cristo: lì troviamo il coraggio per continuare a camminare; lì possiamo ripetere, con ferma speranza, le parole di san Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8,35.37).

Nelle afflizioni e nelle difficoltà non siamo soli; la famiglia non è sola: Gesù è presente con il suo amore, la sostiene con la sua grazia e le dona l’energia per andare avanti. Ed è a questo amore di Cristo che dobbiamo rivolgerci quando gli sbandamenti umani e le difficoltà rischiano di ferire l’unità della nostra vita e della famiglia. Il mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo incoraggia a camminare con speranza: la stagione del dolore e della prova, se vissuta con Cristo, con fede in Lui, racchiude già la luce della risurrezione, la vita nuova del mondo risorto, la pasqua di ogni uomo che crede alla sua Parola.

In quell’Uomo crocifisso, che è il Figlio di Dio, anche la stessa morte acquista nuovo significato e orientamento, è riscattata e vinta, è il passaggio verso la nuova vita: «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Affidiamoci alla Madre di Cristo. Lei che ha accompagnato il suo Figlio sulla via dolorosa, Lei che stava sotto la Croce nell’ora della sua morte, Lei che ha incoraggiato la Chiesa al suo nascere perché viva alla presenza del Signore, conduca i nostri cuori, i cuori di tutte le famiglie attraverso il vasto mysterium passionis verso il mysterium paschale, verso quella luce che prorompe dalla Risurrezione di Cristo e mostra la definitiva vittoria dell’amore, della gioia, della vita, sul male, sulla sofferenza, sulla morte. Amen.

[Papa Benedetto, Via Crucis al Colosseo 6 aprile 2012]

Domenica, 25 Maggio 2025 03:32

Non abbiate paura

13. Per i credenti e per le persone di buona volontà la grande sfida in questo nostro tempo è sostenere una comunicazione veritiera e libera, che contribuisca a consolidare il progresso integrale del mondo. A tutti è chiesto di saper coltivare un attento discernimento e una costante vigilanza, maturando una sana capacità critica di fronte alla forza persuasiva dei mezzi di comunicazione.

Anche in questo campo i credenti in Cristo sanno di poter contare sull'aiuto dello Spirito Santo. Aiuto ancor più necessario se si considera quanto amplificate possano risultare le difficoltà intrinseche della comunicazione a causa delle ideologie, del desiderio di guadagno e di potere, delle rivalità e dei conflitti tra individui e gruppi, come pure a motivo delle umane fragilità e dei mali sociali. Le moderne tecnologie aumentano in maniera impressionante la velocità, la quantità e la portata della comunicazione, ma non favoriscono altrettanto quel fragile scambio tra mente e mente, tra cuore e cuore, che deve caratterizzare ogni comunicazione al servizio della solidarietà e dell'amore.

Nella storia della salvezza Cristo si è presentato a noi come «comunicatore» del Padre: «Dio, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,2). Parola eterna fatta carne, Egli, nel comunicarsi, manifesta sempre rispetto per coloro che ascoltano, insegna la comprensione della loro situazione e dei loro bisogni, spinge alla compassione per la loro sofferenza e alla risoluta determinazione nel dire loro quello che hanno bisogno di sentire, senza imposizioni o compromessi, inganno o manipolazione. Gesù insegna che la comunicazione è un atto morale: «L'uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive. Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio, poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato» (Mt 12,35-37).

14. L'apostolo Paolo ha un chiaro messaggio per quanti sono impegnati nella comunicazione sociale — politici, comunicatori professionisti, spettatori: «Bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri [...] Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano» (Ef 4,25.29).

Agli operatori della comunicazione, e specialmente ai credenti che operano in questo importante ambito della società, applico l'invito che fin dall'inizio del mio ministero di Pastore della Chiesa universale ho voluto lanciare al mondo intero: «Non abbiate paura!».

Non abbiate paura delle nuove tecnologie! Esse sono «tra le cose meravigliose» — «inter mirifica» — che Dio ci ha messo a disposizione per scoprire, usare, far conoscere la verità, anche la verità sulla nostra dignità e sul nostro destino di figli suoi, eredi del suo Regno eterno.

Non abbiate paura dell'opposizione del mondo! Gesù ci ha assicurato «Io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33).

Non abbiate paura nemmeno della vostra debolezza e della vostra inadeguatezza! Il divino Maestro ha detto: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Comunicate il messaggio di speranza, di grazia e di amore di Cristo, mantenendo sempre viva, in questo mondo che passa, l'eterna prospettiva del Cielo, prospettiva che nessun mezzo di comunicazione potrà mai direttamente raggiungere: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo: queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1Cor 2,9).

A Maria, che ci ha donato il Verbo della vita e di Lui ha serbato nel cuore le imperiture parole, affido il cammino della Chiesa nel mondo d'oggi. Ci aiuti la Vergine Santa a comunicare con ogni mezzo la bellezza e la gioia della vita in Cristo nostro Salvatore.

[Papa Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica ai responsabili delle comunicazioni sociali, 24 gennaio 2005]

Domenica, 25 Maggio 2025 03:09

Stanchezze

«La mia mano è il suo sostegno, / il mio braccio è la sua forza» (Sal 88,22). Così pensa il Signore quando dice dentro di sé: «Ho trovato Davide, mio servo, / con il mio santo olio l’ho consacrato» (v. 21). Così pensa il nostro Padre ogni volta che “trova” un sacerdote. E aggiunge ancora: «La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui / … Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, / mio Dio e roccia della mia salvezza”» (vv. 25.27).

E’ molto bello entrare, con il Salmista, in questo soliloquio del nostro Dio. Egli parla di noi, suoi sacerdoti, suoi preti; ma in realtà non è un soliloquio, non parla da solo: è il Padre che dice a Gesù: “I tuoi amici, quelli che ti amano, mi potranno dire in modo speciale: Tu sei mio Padre” (cfr Gv 14,21). E se il Signore pensa e si preoccupa tanto di come potrà aiutarci, è perché sa che il compito di ungere il popolo fedele non è facile, è duro; ci porta alla stanchezza e alla fatica. Lo sperimentiamo in tutte le forme: dalla stanchezza abituale del lavoro apostolico quotidiano fino a quella della malattia e della morte, compreso il consumarsi nel martirio.

La stanchezza dei sacerdoti! Sapete quante volte penso a questo: alla stanchezza di tutti voi? Ci penso molto e prego di frequente, specialmente quando ad essere stanco sono io. Prego per voi che lavorate in mezzo al popolo fedele di Dio che vi è stato affidato, e molti in luoghi assai abbandonati e pericolosi. E la nostra stanchezza, cari sacerdoti, è come l’incenso che sale silenziosamente al Cielo (cfr Sal 140,2; Ap 8,3-4). La nostra stanchezza va dritta al cuore del Padre.

Siate sicuri che la Madonna si accorge di questa stanchezza e la fa notare subito al Signore. Lei, come Madre, sa capire quando i suoi figli sono stanchi e non pensa a nient’altro. “Benvenuto! Riposati, figlio. Dopo parleremo… Non ci sono qui io, che sono tua Madre?” – ci dirà sempre quando ci avviciniamo a Lei (cfr Evangelii gaudium, 286). E a suo Figlio dirà, come a Cana: «Non hanno vino» (Gv 2,3).

Succede anche che, quando sentiamo il peso del lavoro pastorale, ci può venire la tentazione di riposare in un modo qualunque, come se il riposo non fosse una cosa di Dio. Non cadiamo in questa tentazione. La nostra fatica è preziosa agli occhi di Gesù, che ci accoglie e ci fa alzare: “Venite a me quando siete stanchi e oppressi, io vi darò ristoro” (cfr Mt 11,28). Quando uno sa che, morto di stanchezza, può prostrarsi in adorazione, dire: “Basta per oggi, Signore”, e arrendersi davanti al Padre, uno sa anche che non crolla ma si rinnova, perché chi ha unto con olio di letizia il popolo fedele di Dio, il Signore pure lo unge: “cambia la sua cenere in diadema, le sue lacrime in olio profumato di letizia, il suo abbattimento in canti” (cfr Is 61,3).

Teniamo ben presente che una chiave della fecondità sacerdotale sta nel come riposiamo e nel come sentiamo che il Signore tratta la nostra stanchezza. Com’è difficile imparare a riposare! In questo si gioca la nostra fiducia e il nostro ricordare che anche noi siamo pecore e abbiamo bisogno del pastore, che ci aiuti. Possono aiutarci alcune domande a questo proposito.

So riposare ricevendo l’amore, la gratuità e tutto l’affetto che mi dà il popolo fedele di Dio? O dopo il lavoro pastorale cerco riposi più raffinati, non quelli dei poveri ma quelli che offre la società dei consumi? Lo Spirito Santo è veramente per me “riposo nella fatica”, o solo Colui che mi fa lavorare? So chiedere aiuto a qualche sacerdote saggio? So riposare da me stesso, dalla mia auto-esigenza, dal mio auto-compiacimento, dalla mia auto-referenzialità? So conversare con Gesù, con il Padre, con la Vergine e san Giuseppe, con i miei Santi protettori amici per riposarmi nelle loro esigenze – che sono soavi e leggere –, nel loro compiacimento – ad essi piace stare in mia compagnia –, e nei loro interessi e riferimenti – ad essi interessa solo la maggior gloria di Dio – …? So riposare dai miei nemici sotto la protezione del Signore? Vado argomentando e tramando fra me, rimuginando più volte la mia difesa, o mi affido allo Spirito Santo che mi insegna quello che devo dire in ogni occasione? Mi preoccupo e mi affanno eccessivamente o, come Paolo, trovo riposo dicendo: «So in chi ho posto la mia fede» (2 Tm 1,12)?

Ripassiamo un momento, brevemente, gli impegni dei sacerdoti, che oggi la liturgia ci proclama: portare ai poveri la Buona Notizia, annunciare la liberazione ai prigionieri e la guarigione ai ciechi, dare la libertà agli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore. Isaia dice anche curare quelli che hanno il cuore spezzato e consolare gli afflitti.

Non sono compiti facili, non sono compiti esteriori, come ad esempio le attività manuali – costruire un nuovo salone parrocchiale, o tracciare le linee di un campo di calcio per i giovani dell’oratorio…; gli impegni menzionati da Gesù implicano la nostra capacità di compassione, sono impegni in cui il nostro cuore è “mosso” e commosso. Ci rallegriamo con i fidanzati che si sposano, ridiamo con il bimbo che portano a battezzare; accompagniamo i giovani che si preparano al matrimonio e alla famiglia; ci addoloriamo con chi riceve l’unzione nel letto di ospedale; piangiamo con quelli che seppelliscono una persona cara… Tante emozioni… Se noi abbiamo il cuore aperto, questa emozione e tanto affetto affaticano il cuore del Pastore. Per noi sacerdoti le storie della nostra gente non sono un notiziario: noi conosciamo la nostra gente, possiamo indovinare ciò che sta passando nel loro cuore; e il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso e sembra perfino mangiato dalla gente: prendete, mangiate. Questa è la parola che sussurra costantemente il sacerdote di Gesù quando si sta prendendo cura del suo popolo fedele: prendete e mangiate, prendete e bevete… E così la nostra vita sacerdotale si va donando nel servizio, nella vicinanza al Popolo fedele di Dio… che sempre, sempre stanca.

Vorrei ora condividere con voi alcune stanchezze sulle quali ho meditato.

C’è quella che possiamo chiamare “la stanchezza della gente, la stanchezza delle folle”: per il Signore, come per noi, era spossante – lo dice il Vangelo –, ma è una stanchezza buona, una stanchezza piena di frutti e di gioia. La gente che lo seguiva, le famiglie che gli portavano i loro bambini perché li benedicesse, quelli che erano stati guariti, che venivano con i loro amici, i giovani che si entusiasmavano del Rabbì…, non gli lasciavano neanche il tempo per mangiare. Ma il Signore non si seccava di stare con la gente. Al contrario: sembrava che si ricaricasse (cfr. Evangelii gaudium, 11). Questa stanchezza in mezzo alla nostra attività è solitamente una grazia che è a portata di mano di tutti noi sacerdoti (cfr ibid., 279). Che bella cosa è questa: la gente ama, desidera e ha bisogno dei suoi pastori! Il popolo fedele non ci lascia senza impegno diretto, salvo che uno si nasconda in un ufficio o vada per la città con i vetri oscurati. E questa stanchezza è buona, è una stanchezza sana. E’ la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore…, ma con il sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini. Niente a che vedere con quelli che sanno di profumi cari e ti guardano da lontano e dall’alto (cfr ibid., 97). Siamo gli amici dello Sposo, questa è la nostra gioia. Se Gesù sta pascendo il gregge in mezzo a noi non possiamo essere pastori con la faccia acida, lamentosi, né, ciò che è peggio, pastori annoiati. Odore di pecore e sorriso di padri… Sì, molto stanchi, ma con la gioia di chi ascolta il suo Signore che dice: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34).

C’è anche quella che possiamo chiamare “la stanchezza dei nemici”. Il demonio e i suoi seguaci non dormono e, dato che le loro orecchie non sopportano la Parola di Dio, lavorano instancabilmente per zittirla o confonderla. Qui la stanchezza di affrontarli è più ardua. Non solo si tratta di fare il bene, con tutta la fatica che comporta, bensì bisogna difendere il gregge e difendere sé stessi dal male (cfr Evangelii gaudium, 83). Il maligno è più astuto di noi ed è capace di demolire in un momento quello che abbiamo costruito con pazienza durante lungo tempo. Qui occorre chiedere la grazia di imparare a neutralizzare - è un’abitudine importante: imparare a neutralizzare -: neutralizzare il male, non strappare la zizzania, non pretendere di difendere come superuomini ciò che solo il Signore deve difendere. Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza.

E per ultima – ultima perché questa omelia non vi stanchi troppo – c’è anche “la stanchezza di sé stessi” (cfr Evangelii gaudium, 277). E’ forse la più pericolosa. Perché le altre due provengono dal fatto di essere esposti, di uscire da noi stessi per ungere e darsi da fare (siamo quelli che si prendono cura). Invece questa stanchezza, è più auto-referenziale: è la delusione di sé stessi ma non guardata in faccia, con la serena letizia di chi si scopre peccatore e bisognoso di perdono, di aiuto: questi chiede aiuto e va avanti. Si tratta della stanchezza che dà il “volere e non volere”, l’essersi giocato tutto e poi rimpiangere l’aglio e le cipolle d’Egitto, il giocare con l’illusione di essere qualcos’altro. Questa stanchezza mi piace chiamarla “civettare con la mondanità spirituale”. E quando uno rimane solo, si accorge di quanti settori della vita sono stati impregnati da questa mondanità, e abbiamo persino l’impressione che nessun bagno la possa pulire. Qui può esserci una stanchezza cattiva. La parola dell’Apocalisse ci indica la causa di questa stanchezza: «Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore» (2,3-4). Solo l’amore dà riposo. Ciò che non si ama, stanca male, e alla lunga stanca peggio.

L’immagine più profonda e misteriosa di come il Signore tratta la nostra stanchezza pastorale è quella che «avendo amato i suoi…, li amò sino alla fine» (Gv 13,1): la scena della lavanda dei piedi. Mi piace contemplarla come la lavanda della sequela. Il Signore purifica la stessa sequela, Egli si «coinvolge» con noi (Evangelii gaudium, 24), si fa carico in prima persona di pulire ogni macchia, quello smog mondano e untuoso che ci si è attaccato nel cammino che abbiamo fatto nel suo Nome.

Sappiamo che nei piedi si può vedere come va tutto il nostro corpo. Nel modo di seguire il Signore si manifesta come va il nostro cuore. Le piaghe dei piedi, le slogature e la stanchezza, sono segno di come lo abbiamo seguito, di quali strade abbiamo fatto per cercare le sue pecore perdute, tentando di condurre il gregge ai verdi pascoli e alle acque tranquille (cfr ibid., 270). Il Signore ci lava e ci purifica da tutto quello che si è accumulato sui nostri piedi per seguirlo. E questo è sacro. Non permette che rimanga macchiato. Come le ferite di guerra Lui le bacia, così la sporcizia del lavoro Lui la lava.

La sequela di Gesù è lavata dallo stesso Signore affinché ci sentiamo in diritto di essere “gioiosi”, “pieni”, “senza paura né colpa” e così abbiamo il coraggio di uscire e andare “sino ai confini del mondo, a tutte le periferie”, a portare questa buona notizia ai più abbandonati, sapendo che “Lui è con noi, tutti i giorni fino alla fine del mondo”. E per favore, chiediamo la grazia di imparare ad essere stanchi, ma ben stanchi!

[Papa Francesco, omelia del Crisma 2 aprile 2015]

Lunedì, 19 Maggio 2025 12:37

6a Domenica di Pasqua (C)

VI Domenica di Pasqua (anno C) [25 Maggio 2025] 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Camminiamo a passi rapidi verso l’Ascensione del Signore e la Pentecoste.  Le parole di Gesù ci preparano ad accogliere lo Spirito Santo, il Paraclito, Parakletos, termine greco intraducibile in una sola parola. 5 volte appare nel N.T. sempre solo in Giovanni e i significati possibili sono: Difensore/Avvocato; Consolatore; Intercessore /Mediatore, Maestro interiore/Spirito di verità. 

*Prima Lettura Dagli Atti degli Apostoli (15, 1-2.22-29)

Le prime comunità cristiane hanno dovuto affrontare fin dall’inizio una grave crisi che per molto tempo ha avvelenato la loro esistenza. Mi spiego: ad Antiochia di Siria, c’erano cristiani di origine ebraica e cristiani di origine pagana e la loro convivenza era diventata sempre più difficile perché troppo diversi erano i loro stili di vita. I cristiani di origine ebraica erano circoncisi e consideravano pagani coloro che non lo sono e nella stessa vita quotidiana tutto li contrapponeva a causa di tutte le pratiche ebraiche alle quali i cristiani di origine pagana non avevano alcuna voglia di sottostare: numerose regole di purificazione, di abluzioni e soprattutto regole molto rigide riguardo all’alimentazione.  Alcuni cristiani di origine ebraica vennero apposta da Gerusalemme per inasprire la disputa, spiegando che al battesimo cristiano erano ammessi solo i giudei e quindi invitavano i pagani prima a diventare giudei (circoncisione compresa) e poi cristiani. Tre le questioni fondamentali: 1.Per vivere l’unità è necessario avere le stesse idee, gli stessi riti, le stesse pratiche? 2. La seconda questione era che i cristiani di ogni origine desideravano essere fedeli a Gesù Cristo, ma concretamente, in cosa consiste questa fedeltà? Se Gesù era ebreo e circonciso questo significa che per diventare cristiani bisogna prima diventare tutti ebrei come lui? Inoltre, è a Israele che Dio ha affidato la missione di essere suo testimone in mezzo all’umanità e quindi bisogna far parte di Israele per entrare nella comunità cristiana? La conclusione era che si doveva essere ebrei prima di diventare cristiani e concretamente si accettava di battezzare i pagani a condizione che prima si ffacessero circoncidere. 3. Terza questione, ancora più grave: la salvezza è data da Dio senza condizioni oppure no? Se non accettando la circoncisione secondo la tradizione di Mosè non si può essere salvati, è come affermare che Dio stesso non può salvare i non-ebrei e siamo noi a decidere al suo posto chi può o non può essere salvato.  Venne convocato il primo concilio di Gerusalemme dove tre erano le posizioni in merito: Paolo voleva l’apertura totale, Pietro era piuttosto esitante e fu Giacomo, vescovo di Gerusalemme, a trovare l’intesa con una doppia decisione: 1. i cristiani di origine ebraica non devono imporre la circoncisione e le pratiche ebraiche ai cristiani di origine pagana; 2. d’altro lato, i cristiani di origine pagana, per rispetto verso i loro fratelli di origine ebraica, si asterranno da ciò che potrebbe disturbare la vita comune, in particolare durante i pasti. L’argomento che prevale su tutto fu il superamento dela logica dell’elezione d’Israele essendo entrati in una nuova tappa della storia: il profeta Gioele aveva ben detto: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato” (Gl 3,5) e Gesù stesso: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato” (Mc 16,16). Chiunque significa tutti, non solo gli ebrei e, ancor più in concreto, essere fedeli a Gesù Cristo non vuol dire necessariamente riprodurre un modello fisso poiché la fedeltà non è semplice ripetizione. La storia mostra che, attraverso le vicissitudini dell’umanità, la Chiesa conserva sempre la capacità di adattamento per restare fedele a Cristo. Infine, è interessante notare che si impongono alla comunità cristiana solo le regole che permettono di mantenere la comunione fraterna e questo viene indicato fin da subito come il modo migliore per essere veramente fedeli a Cristo che disse: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

*Salmo responsoriale (66 (67) 2-3,5,7-8)

Il salmo ci conduce dentro il Tempio di Gerusalemme mentre è in atto una grande celebrazione e al termine i sacerdoti benedicono l’assemblea in modo solenne e i fedeli rispondono: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino tutti i popoli!” Il salmo si presenta come un’alternanza tra le frasi dei sacerdoti, rivolte a volte all’assemblea e a volte a Dio, e le risposte dell’assemblea, che assomigliano a dei ritornelli. La prima frase: “Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto” riprende esattamente il famoso testo del libro dei Numeri che è la prima lettura del 1º gennaio di ogni anno,: “Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli e riferisci loro: Così benedirete gli Israeliti: Direte loro: ‘Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace’. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (Nm 6,24-26). Un testo ideale per desideri e auguri perché la benedizione è augurio di felicità. In effetti, le benedizioni sono sempre formulate al congiuntivo: “che Dio vi benedica, che Dio vi custodisca” eppure Dio non sa fare altro che benedirci, amarci, colmarci in ogni istante. Quando dunque il sacerdote dice “che Dio vi benedica”, non è perché Dio potrebbe non benedirci, ma per suscitare il nostro desiderio  di entrare  nella benedizione che, da parte sua, Dio continuamente ci offre. La stessa cosa quando il sacerdote dice “Il Signore sia con voi”: Dio è sempre con noi e il congiuntivo “sia” esprime la nostra libertà perché non sempre siamo con lui; oppure “Che Dio vi perdoni”: Dio ci perdona sempre ma sta noi accogliere il perdono ed entrare nella riconciliazione che ci propone. Permanenti sono da parte di Dio i desideri di felicità nei nostri confronti come afferma Geremia: «Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). Dio è Amore e tutti i suoi pensieri su di noi non sono altro che desideri di felicità. In questo salmo la risposta dei fedeli è il ritornello: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino tutti i popoli!! Splendida lezione di universalismo: il popolo eletto riflette la benedizione che accoglie per sé stesso sull’intera umanità, mentre l’ultimo versetto è una sintesi di questi due aspetti: “Ci benedica Dio (noi, suo popolo eletto) E lo temano tutti i confini della terra”. Israele non dimentica la sua vocazione/missione al servizio dell’intera umanità e sa che dalla sua fedeltà alla benedizione ricevuta gratuitamente dipende la scoperta dell’amore e della benedizione di Dio da parte di tutta l’umanità.

 

*Seconda Lettura dall’Apocalisse di san Giovanni (21, 10-14.22-23)

Nel brano di domenica scorsa, Giovanni diceva di aver visto la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da presso Dio, pronta per le nozze, come una sposa adorna per il suo sposo. Questa volta la descrive a lungo affascinato dalla sua luce così forte da oscurare il chiarore della luna e perfino quello del sole: somiglia a un gioiello prezioso, una pietra preziosa che scintilla nella luce. E spiega subito la ragione di tale luminosità straordinaria, ripetendo per due volte: “risplendente della gloria di Dio”, “la gloria di Dio la illumina”. Queste due affermazioni, l’una all’inizio e l’altra alla fine del testo, con il procedimento letterario chiamato «inclusione» che serve a mettere in evidenza le frasi comprese tra l’inizio e la fine, indicano ciò che colpisce Giovanni, cioè la gloria di Dio che illumina la città santa che scende da presso di Lui. Un angelo lo ha trasportato su un grande e alto monte e lo tiene per mano mentre gli mostra la città da lontano. Nella mano sinistra l’angelo tiene una canna d’oro che userà per misurare le dimensioni della città. La città è quadrata: il numero quattro e il quadrato sono un simbolo di ciò che è umano e qui indicano che la città è costruita da mano d’uomo, illuminata dalla gloria e dal fulgore della presenza di Dio. Poiché il numero tre evoca Dio, non stupisce che la descrizione della città usi abbondantemente un multiplo di tre e quattro: dodici, che è un modo per dire che l’azione di Dio si manifesta in quest’opera umana. All’epoca di san Giovanni non si concepiva una città senza mura: e questa ne ha, anzi una muraglia grande e alta come la montagna e sappiamo che nella Bibbia, la montagna è il luogo dell’incontro con Dio. Nelle mura sono aperte dodici porte che, secondo il seguito del testo, non si chiudono mai perché tutti possano entrare e nessuno deve trovare una porta chiusa. Le dodici porte, distribuite sui quattro lati del quadrato, tre a Est, tre a Nord, tre a Sud, tre a Ovest, sono sorvegliate da dodici angeli e su ciascuna è scritto il nome di una delle dodici tribù d’Israele. Il popolo d’Israele è stato infatti scelto da Dio per essere la porta attraverso cui tutta l’umanità entrerà nella Gerusalemme definitiva.La muraglia poggia su fondamenta sulle quali sono scritti i nomi dei dodici apostoli dell’Agnello: come in architettura, c’è continuità tra le fondamenta e i muri, così qui c’è continuità tra le dodici tribù d’Israele e i dodici apostoli e questo è un modo per dire che la Chiesa fondata da Cristo realizza pienamente il disegno di Dio che si sviluppa lungo tutta la storia. Entrato, Giovanni rimane sorpreso perché cerca il Tempio, essendo il segno vivente che Dio non abbandonava il suo popolo, ma nella città “non vidi alcun tempio” eppure non resta deluso, perché ormai “il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello. sono il suo tempio”. E continua: “La città non ha bisogno della luce del sole né della luna perché la gloria di Dio la illumina, e la sua lampada è l’Agnello”. Tenendo presente che nel libro della Genesi fin dal primo giorno alla creazione, appare la luce: Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu”, l’affermazione dell’Apocalisse assume tutto il suo peso: la creazione antica è passata: niente più sole, niente più luna perché ormai siamo nella nuova creazione e la presenza di Dio irradia il mondo attraverso Cristo. Gerusalemme conserva il suo nome e indica che è una città costruita da mano d’uomo, un modo per dire che i nostri sforzi per collaborare al progetto di Dio fanno parte della nuova creazione e l’opera umana non sarà distrutta, bensì da Dio trasformata. I cristiani allora destinatari dell’Apocalisse, erano oggetto di disprezzo e spesso perseguitati, avevano bisogno di queste parole di vittoria per sostenere la loro fedeltà e anche a noi fa bene sentire che la Gerusalemme celeste comincia con i nostri umili sforzi di ogni giorno.

*Dal Vangelo secondo Giovanni (14, 23-29)

Riviviamo gli ultimi momenti di Gesù immediatamente prima della Passione: l’ora è grave e si intuisce l’angoscia degli apostoli dalle parole di rassicurazione che più volte Gesù loro rivolge. All’inizio di questo capitolo aveva detto «Non sia turbato il vostro cuore» (v. 1). Il suo lungo discorso fu interrotto da varie domande degli apostoli che rivelavano la loro angoscia e incomprensione. Gesù però resta sereno: lungo tutta la Passione Giovanni lo descrive sovranamente libero; anzi è lui a rassicurare i discepoli mentre annuncia in anticipo ciò che sarebbe accaduto perché quando avverrà, avrebbero creduto. Non solo sa cosa accadrà, ma lo accetta e non cerca di sottrarsi. Annuncia la sua partenzae presentandola come condizione e inizio di una nuova presenza: Me ne vado, ma torno da voi. Questa sua partenza sarà interpretata solo dopo la risurrezione come la Pasqua di Gesù.  Giovanni dice al capitolo 13: “Prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre”: l’evangelista usa volutamente il verbo passare, perché Pasqua significa passaggio e con questo, vuole mettere in parallelo la Passione di Gesù con la liberazione dall’Egitto, rivissuta ad ogni festa ebraica di Pasqua. Se si tratta di liberazione, questa partenza non deve gettare gli apostoli nella tristezza: “Se voi mi amaste, vi rallegrereste, perché vado al Padre” (v.28). Frase sorprendente per i discepoli che vedono il Maestro ormai inseguito dalle autorità religiose, cioè da chi, in nome di Dio, era ritenuto depositario della verità su ciò che riguarda Dio e sono proprio loro i maggiori oppositori di Gesù. I profeti hanno lottato contro ogni ostacolo per mantenere la fede nell’unico Dio che è insieme Dio vicino all’uomo e Dio totalmente Altro, il Santo. Gesù predica un Dio vicino all’uomo, specialmente ai più piccoli, ma dichiara Dio se stesso il che agli occhi degli ebrei, è blasfemia, un’offesa al Dio uno, al Santo. Nel testo di questa domenica, Gesù insiste sul legame che lo unisce al Padre che nomina cinque volte arrivando a parlare al plurale: “Se qualcuno mi ama… noi verremo da lui, e prenderemo dimora presso di lui”. Non è la prima volta che lo afferma: poco prima, a Filippo che gli chiedeva «Mostraci il Padre», ha risposto con tranquillità: «Chi mi ha visto ha visto il Padre» (Gv 14,9), mentre qui ribadisce: “La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato”. Gesù è l’Inviato del Padre, la parola del Padre e d’ora in poi lo Spirito Santo ci farà comprendere questa parola e la custodirà nella memoria dei discepoli. La chiave di questo testo è probabilmente proprio la parola “parola”: ricorre più volte e, a da ciò che precede, si capisce che questa “parola” da custodire è il “comandamento dell’amore”: amatevi gli uni gli altri, ossia mettetevi al servizio gli uni degli altri e, per essere chiaro, Gesù stesso ha dato un esempio concreto lavando i piedi ai discepoli. Essere fedeli alla sua parola significa dunque semplicemente mettersi al servizio degli altri. E il testo di oggi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola”, può tradursi così: Se qualcuno mi ama, si porrà al servizio del prossimo e chi non mi ama rifiuta di mettersi al servizio degli altri, per cui se qualcuno non si mette al servizio degli altri, non è fedele alla parola di Cristo. In questa luce si comprende meglio il ruolo dello Spirito Santo: è lui che ci insegna ad amare, ricordandoci il comandamento dell’amore.  Gesù lo chiama Paraclito, Difensore perché ci protegge e difende da noi stessi dato che il peggiore dei mali è dimenticare che l’essenziale del vangelo consiste nell’amarsi e mettersi al servizio gli uni degli altri. Nell’odierna prima lettura abbiamo visto il Difensore all’opera nella prima comunità in occasione del primo concilio di Gerusalemme dove gravi erano le difficoltà di convivenza tra cristiani di origine ebraica e quelli di origine pagana e lo Spirito d’amore ispirò i discepoli alla volontà di mantenere a ogni costo l’unità.

+Giovanni D’Ercole

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Christians are a priestly people for the world. Christians should make the living God visible to the world, they should bear witness to him and lead people towards him (Pope Benedict)
I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui (Papa Benedetto)
The discovery of the Kingdom of God can happen suddenly like the farmer who, ploughing, finds an unexpected treasure; or after a long search, like the pearl merchant who eventually finds the most precious pearl, so long dreamt of (Pope Francis)
La scoperta del Regno di Dio può avvenire improvvisamente come per il contadino che arando, trova il tesoro insperato; oppure dopo lunga ricerca, come per il mercante di perle, che finalmente trova la perla preziosissima da tempo sognata (Papa Francesco)
Christ is not resigned to the tombs that we have built for ourselves (Pope Francis)
Cristo non si rassegna ai sepolcri che ci siamo costruiti (Papa Francesco)
We must not fear the humility of taking little steps, but trust in the leaven that penetrates the dough and slowly causes it to rise (cf. Mt 13:33) [Pope Benedict]
Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33) [Papa Benedetto]
The disciples, already know how to pray by reciting the formulas of the Jewish tradition, but they too wish to experience the same “quality” of Jesus’ prayer (Pope Francis)
I discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù (Papa Francesco)
Saint John Chrysostom affirms that all of the apostles were imperfect, whether it was the two who wished to lift themselves above the other ten, or whether it was the ten who were jealous of them (“Commentary on Matthew”, 65, 4: PG 58, 619-622) [Pope Benedict]
San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622) [Papa Benedetto]
St John Chrysostom explained: “And this he [Jesus] says to draw them unto him, and to provoke them and to signify that if they would covert he would heal them” (cf. Homily on the Gospel of Matthew, 45, 1-2). Basically, God's true “Parable” is Jesus himself, his Person who, in the sign of humanity, hides and at the same time reveals his divinity. In this manner God does not force us to believe in him but attracts us to him with the truth and goodness of his incarnate Son [Pope Benedict]
Spiega San Giovanni Crisostomo: “Gesù ha pronunciato queste parole con l’intento di attirare a sé i suoi ascoltatori e di sollecitarli assicurando che, se si rivolgeranno a Lui, Egli li guarirà” (Comm. al Vang. di Matt., 45,1-2). In fondo, la vera “Parabola” di Dio è Gesù stesso, la sua Persona che, nel segno dell’umanità, nasconde e al tempo stesso rivela la divinità. In questo modo Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira a Sé con la verità e la bontà del suo Figlio incarnato [Papa Benedetto]
This belonging to each other and to him is not some ideal, imaginary, symbolic relationship, but – I would almost want to say – a biological, life-transmitting state of belonging to Jesus Christ (Pope Benedict)
Questo appartenere l’uno all’altro e a Lui non è una qualsiasi relazione ideale, immaginaria, simbolica, ma – vorrei quasi dire – un appartenere a Gesù Cristo in senso biologico, pienamente vitale (Papa Benedetto)

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