Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Per la festa dell’Ascensione, la prima lettura e il Salmo sono comuni agli anni A, B, C mentre cambiano la seconda lettura e il vangelo
*Prima Lettura dagli Atti degli Apostoli (1,1-11)
Questi primi versetti degli Atti degli Apostoli richiamano la conclusione del vangelo di Luca, anch’esso indirizzato a un certo Teofilo ed è interessante notare che l’uno inizi là dove l’altro finisce, cioè con il racconto dell’Ascensione di Gesù, anche se le due narrazioni non combaciano perfettamente come si nota leggendo i testi dell’Anno C. Il vangelo narra la missione e la predicazione di Gesù, gli Atti degli Apostoli si dedicano all’attività missionaria degli apostoli, da cui il titolo. Il vangelo di Luca inizia e termina a Gerusalemme, cuore del mondo ebraico e della Prima Alleanza; gli Atti partono da Gerusalemme, perché la Nuova Alleanza prosegue la Prima ma si concludono a Roma, crocevia di tutte le strade del mondo e la Nuova Alleanza travalica i confini di Israele. Per Luca è chiaro che questa espansione è frutto dello Spirito Santo, l’ispiratore degli apostoli dalla Pentecoste, tanto che gli Atti sono spesso chiamati “il vangelo dello Spirito”. Gesù, dopo il battesimo, si preparò alla sua missione con quaranta giorni di deserto, così egli prepara la Chiesa a questa nuova fase missionaria apparendo agli apostoli per quaranta giorni e “parlando delle cose riguardanti il regno di Dio”. Infatti, “mentre si trovava a tavola con loro”, dunque durante ancora un’ultima cena, da agli apostoli alcune istruzioni che si riassumono in: un ordine, una promessa e un invio in missione.
L’ordine: non allontanarsi da Gerusalemme, ma attendere l’adempimento della promessa del Padre che deve compiersi a Gerusalemme dato che tutta la predicazione dei profeti, soprattutto d’Isaia, attribuisce a Gerusalemme un ruolo centrale nel progetto di Dio (cf Is 60,1-3; 62,1-2). La promessa: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo”. Anche questo era noto agli apostoli, che ricordavano la profezia di Gioele: «Spanderò il mio spirito su ogni creatura» (Gl 3,1), e le profezie di Zaccaria: (Za 13,1; 12,10), e di Ezechiele: «Spanderò su di voi acqua purificatrice e sarete purificati… Metterò in voi uno spirito nuovo… Metterò in voi il mio spirito» (Ez 36,25-27). Quado gli apostoli chiedono “se questo è il tempo nel quale ricostruirà il regno per Israele” mostrano di aver compreso che è sorto “il Giorno del Signore” e il progetto di Dio domanda ora la collaborazione dell’uomo: Con Cristo infatti è giunto il Salvatore promesso, ora tocca alla libertà umana accoglierlo e per questo è necessario l’annuncio da parte degli apostoli. Da qui la missione responsabile degli apostoli che ricevono lo Spirito Santo: “Riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni… fino ai confini della terra”. Il piano che il libro degli Atti segue è infatti questo: anzitutto l’annuncio a Gerusalemme, poi in tutta la Giudea con la Samaria e infine deve diffondersi fino ai confini del mondo. Come al mattino di Pasqua due uomini in vesti splendenti avevano destato le donne dicendo: “Perché cercate il Vivente tra i morti? Non è qui, è risorto”, così, il giorno dell’Ascensione, “due uomini in bianche vesti” fanno lo stesso con gli apostoli: “Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (1,11). Gesù tornerà, ne siamo certi, e lo proclamiamo in ogni eucaristia quando diciamo “Nella beata speranza dell’avvento di Gesù Cristo nostro Salvatore”. Infine nna nube sottrae Gesù alla vista umana: cessa la sua presenza carnale per inaugurare quella spirituale. Segno visibile di questa presenza di Dio è la nube già presente nel passaggio del Mar Rosso (Es 13,21) e nella Trasfigurazione (Lc 9,34).
NOTA. Non si possono ricostruire esattamente gli eventi tra la Risurrezione e l’Ascensione. Nei testi di Luca (vangelo e Atti) la narrazione è sostanzialmente identica: Gesù parte da Betania e porta i discepoli sul Monte degli Ulivi raccomandando di non lasciare Gerusalemme finché non abbiano ricevuto lo Spirito Santo. L’unica differenza riguarda la durata: nel vangelo sembra che l’Ascensione avvenga la sera stessa di Pasqua, mentre negli Atti è chiarito che tra Pasqua e Ascensione trascorrono quaranta giorni — da qui la festa quaranta giorni dopo. Negli altri vangeli si trova poco sull’Ascensione: Matteo non ne parla affatto, riferisce solo l’apparizione alle donne e l’invio in Galilea (Mt 28,18-20). Giovanni narra diverse apparizioni, ma omette l’Ascensione. Marco menziona l’Ascensione brevemente alla fine (Mc 16,19). Le differenze dimostrano che i vangeli non mirano a un resoconto geografico preciso ma a sottolineare aspetti teologici: Matteo insiste sulla Galilea, Luca su Gerusalemme. Infatti, è a Gerusalemme che Gesù aveva ordinato di attendere lo Spirito: “Ecco io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24,49).
*Salmo responsoriale (46 (47),2-3,6-7,8-9)
In questo salmo Israele canta e acclama Dio non solo come suo re, ma come re di tutta la terra. Prima dell’esilio a Babilonia nessun re di Israele aveva immaginato che Dio potesse essere il Signore dell’intero universo e perciò il salmo data di un’epoca tarda della storia d’Israele. Dio è il re d’Israele e per questo in Israele il re non deteneva ogni potere perché il vero re era Dio stesso. Il re non poteva disporre della legge a suo piacimento e, come tutti, doveva sottomettersi alla Torah, vale a dire alle norme che Dio aveva dato a Mosè sul Sinai. Anzi, secondo il libro del Deuteronomio, egli doveva leggere l’intera Legge ogni giorno e, anche seduto sul trono, non era (in linea di principio) che un esecutore degli ordini di Dio, a lui trasmessi dai profeti. Nei Libri dei Re, i re domandano il parere del profeta in carica prima di intraprendere una campagna militare o, nel caso di Davide, prima di iniziare la costruzione del Tempio così che i profeti intervenivano liberamente nella vita dei re, criticando con forza le loro azioni. Una tale concezione della sovranità di Dio fu persino un ostacolo all’istituzione della monarchia, come avvenne quando il profeta Samuele, al tempo dei Giudici, reagì con forza verso i capi delle tribù che chiedevano un re per essere come tutte le altre nazioni. Desiderare di essere come gli altri popoli, quando si è il popolo eletto da Dio e in alleanza con Lui, era qualcosa di blasfemo e, se Samuele cedette alle pressioni, non mancò di avvertire però della rovina che stavano procurando a se stessi. Quando consacrò il primo re, Saul, si premurò di precisare che questi diventava il custode del patrimonio di Dio perché il popolo rimaneva il popolo di Dio, non del re, e il re stesso era solo un servitore di Dio. Durante gli anni della monarchia, i profeti furono incaricati di ricordare ai re questa verità essenziale. Si comprende allora che in onore di Dio questo salmo utilizza il vocabolario che altrove era riservato ai re. Anche “terribile” è un’espressione tipica del gergo di corte che va inteso così: il re (Dio) non spaventa i suoi sudditi, ma li rassicura e per questo si avvertono i nemici che il “nostro re” sarà invincibile. Il Dio re dell’universo, “il grande re su tutta la terra” (v. 3), acclamato in ogni verso del salmo è proprio il Dio del Sinai, il “Signore” e a questa festa tutti i popoli partecipano: “Popoli tutti battete le mani, acclamate Dio con grida di gioia!” così che la dimensione universale pervade profondamente il salmo fino a dire “Dio regna sulle genti” (v. 9) riconoscendolo come unico Dio dell’intero universo.
NOTA. La vera scoperta del monoteismo avvenne soltanto con l’esilio babilonese: fino ad allora Israele non era monoteista nel senso pieno del termine, bensì monolatra, ossia riconosceva come proprio un solo Dio—quello dell’Alleanza del Sinai—ma ammetteva che i popoli confinanti avessero ciascuno il proprio dio, sovrano nella loro terra e difensore in battaglia. Questo salmo fu dunque probabilmente composto dopo il ritorno dall’esilio non nella sala del trono, ma nel Tempio ricostruito di Gerusalemme, in un contesto liturgico in cui si evocava il grande progetto di Dio sull’umanità, anticipando il giorno in cui finalmente Dio sarà riconosciuto come Padre di ogni bene. Noi cristiani facciamo nostro questo salmo e l’espressione “ascende Dio tra le acclamazioni” sembra ben adatta per l’odierna celebrazione dell’Ascensione di Gesù. Tributando a Cristo re dell’universo questo splendido omaggio, anticipiamo il canto che nell’ultimo giorno i figli di Dio finalmente riuniti intoneranno insieme: “Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia”.
*Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (9, 24-28 ; 10,19-23)
Nella prima parte di questo testo l’autore medita sul mistero di Cristo; nella seconda ne ricava le conseguenze per la vita di fede con l’intento di rassicurare i suoi lettori, i cristiani di origine ebraica, che provavano una certa nostalgia del culto antico dato che nella pratica cristiana non c’è più il tempio, né più sacrifici di sangue e si domandavano se davvero fosse questo ciò che Dio vuole. L’autore ripercorre tutti i riti e le realtà della religione ebraica dimostrando che sono ormai superati. Ttratta soprattutto del Tempio, chiamato santuario, e chiarisce che bisogna distinguere il vero santuario in cui Dio dimora — il cielo stesso — dal tempio costruito dagli uomini, che ne è solo una pallida immagine. Gli ebrei erano giustamente orgogliosi del Tempio di Gerusalemme, ma non dimenticavano che ogni costruzione umana, per definizione, resta debole, imperfetta e destinata a perire. Inoltre, nessuno in Israele sosteneva che si potesse rinchiudere la presenza di Dio in un edificio, per quanto maestoso. Lo aveva già detto il primo costruttore del Tempio, il re Salomone: “Forse che Dio dimorerebbe sulla terra? I cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere; figuriamoci questa Casa che io ho edificato!” (1 Re 8,27). Per i cristiani il vero Tempio — il luogo dell’incontro con Dio — non è più un edificio, perché l’Incarnazione del Verbo ha cambiato tutto. Il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo è Cristo, il Dio fatto uomo e san Giovanni lo spiegha quando narra Gesù che caccia dal Tempio i cambiamonete e venditori di animali. A coloro che gli chiesero: “Quale segno ci mostrerai per fare questo?”, (cioè «in nome di chi fai questa rivoluzione? rispose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo ristabilirò”. Solo dopo la risurrezione i discepoli capiranno che parlava del suo corpo (Gv 2,13-21). Qui, nella Lettera agli Ebrei, si afferma la stessa cosa: solo restando innestati in Cristo, nutriti del suo corpo, entriamo nel mistero del Dio che “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo” (Eb 9,24). Questo avvenne con la morte di Cristo rendendo chiara la centralità della Croce nel mistero cristiano, come confermano tutti gli autori del Nuovo Testamento. L’autore della Lettera agli Ebrei precisa più avanti che il culmine dell’offerta della vita di Cristo è la sua morte ma il suo sacrificio abbraccia l’intera sua esistenza non solo quindi la sua Passione (cp10). Nel passo che leggiamo oggi l’attenzione si concentra sul sacrificio della Passione, contrapposto a quello che ogni anno offriva il sommo sacerdote nel Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur). Entrava da solo nel Santo dei Santi, pronunciava l’indicibile nome di Dio (YHVH), spargeva il sangue di un toro per i propri peccati e quello di un capro per quelli del popolo, rinnovando così solennemente l’Alleanza e, quando usciva, il popolo sapeva che i suoi peccati erano perdonati. Quell’alleanza andava rinnovata ogni anno, invece la nuova Alleanza stabilita con il Padre è definitiva in Cristo crocifisso e risorto. Sulla croce si rivela il vero volto di Dio, che ci ama fino all’estremo, padre di ognuno di noi per cui non c’è più da temere il giudizio di Dio. Quando nel Credo proclamiamo che Gesù verrà a giudicare i vivi e i morti, sappiamo che, in Dio giudizio significa salvezza, come leggiamo qui: “Cristo dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato a coloro che lo aspettano per la loro salvezza” (Eb 9,28). Questa certezza della fede ci permette di vivere il rapporto con Dio in piena serenità e azione di grazie. Ma è importante testimoniarlo, come ci esorta questo testo: “Continuiamo senza esitare a professare la nostra speranza, perché Colui che ha promesso è fedele» (Eb. 10,23). Gesù Cristo è “il sommo sacerdote dei beni futuri” (Eb 9,11).
*Dal Vangelo secondo san Luca (24, 46-53)
I sinottici, Matteo, Marco, Luca si differenziano nel racconto dell’Ascensione del Signore,
Matteo lo colloca su un monte in Galilea, dove Gesù aveva fissato il suo appuntamento con gli apostoli; Marco non fornisce alcuna indicazione geografica; Luca, al contrario, situa l’evento sul Monte degli Ulivi verso Betania. In tal modo conclude il vangelo là dove era iniziato, a Gerusalemme: la città santa del popolo eletto da cui la rivelazione del Dio unico si era irradiata al mondo; la città del tempio-segno della presenza di Dio fra gli uomini. Ma anche la città dell’adempimento della salvezza per mezzo della morte e risurrezione di Cristo, e la città del dono dello Spirito. Infine la città da cui deve irradiarsi sull’universo l’ultima rivelazione e Luca fa risuonare nelle nostre orecchie le parole di Gesù: “Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26). Ciò che è nuovo qui, rispetto alle tre profezie della sua passione pronunciate da Gesù prima degli eventi e alle due affermazioni subito dopo la risurrezione e sul cammino di Emmaus, è la conclusione della frase, che assume la forma di un invio missionario degli apostoli: “ Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni (Lc 24, 46-49) Per i primi cristiani era difficile spiegare quale passo delle Scritture aveva annunciato le sofferenze del Messia e la sua risurrezione il terzo giorno; fra gli ultimi profeti dell’Antico Testamento erano molto più diffuse le profezie sulla conversione di tutte le nazioni, cominciando da Gerusalemme, come leggiamo in Geremia: “In quel giorno chiameranno Gerusalemme trono del Signore; tutte le nazioni vi si troveranno affluire, al nome del Signore, a Gerusalemme» (3,17); e nel terzo Isaia: “La casa mia sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli” (56,7); “Di luna in luna, di sabato in sabato, verrà ogni creatura a prostrarsi davanti a me” (66,23). Zaccaria poi sviluppa questo tema: “In quel giorno molte nazioni si raccoglieranno al Signore e saranno per me un popolo” (Za 2,15), “Molti popoli e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a cercare il Signore degli eserciti” (8,22).Gli esegeti affermano che, anche se queste riflessioni sono presenti in numerosi salmi, furono soprattutto i canti del Servo nei DeuteroIsaia (Is 42; 49; 50; 52-53) a ispirare la meditazione degli evangelisti e a chiarire l’espressione di Gesù “Bisognava che:::” perché in questi quattro cantici emerge la figura del Messia sofferente e glorificato e l’annuncio del bene per tutte le nazioni: “Io, il Signore”, ti ho chiamato con giustizia, ti ho preso per mano, ti ho formato; ti ho fatto alleanza del popolo, luce delle nazioni» (Is 42,6);
“Il giusto, mio servo, giustificherà le moltitudini” (Is 53,11). Questa conclusione del vangelo di Luca assume dunque i toni della liturgia: Gesù, vero sommo sacerdote, benedice i suoi e li invia nel mondo e il popolo adora e rende grazie: “Alzate le mani, li benedisse. E mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24, 50-53). Il vangelo di Luca si chiude tornando al suo inizio, quando Zaccaria, sacerdote dell’Antica Alleanza, aveva udito l’annuncio della salvezza di Dio (Lc 1,5-19 e l’ultima immagine che i discepoli custodirono del Maestro è un gesto di benedizione. Per questo si capisce perché tornano a Gerusalemme con grande gioia. In quest’immagine conclusiva è racchiuso il mistero della luce e della gioia dell’Ascensione, una partenza che non è abbandono, ma certezza di una presenza diversa, invisibile ma ancor più potente ed efficace.
+Giovanni D’Ercole
L’eco delle incomprensioni
(Gv 16,29-33)
In Gv le affermazioni del Signore hanno sempre una risonanza di malinteso fra gli uditori.
Dopo l’annuncio della ‘salita’ di Gesù al Padre, qui sembra invece che i discepoli - almeno un poco - lo comprendano.
A breve lo tradiranno; ma ciò non significa non aver intuito nulla.
La chiesa post-pasquale fa esperienza della dialettica di Fede: la chiarisce, l’approfondisce nel tempo, e passo passo l’accetta.
La Vita dell’Eterno si rende presente, si fa più consapevole. La Visione di Fede coglie e anticipa futuro.
Gli apostoli “capiscono” e “credono”, o almeno iniziano a farlo. Ma sono ancora tanto legati a evidenze esterne. Da ciò la fatica del cammino di comprensione, e la diffidenza del Cristo [che ci conosce].
Il nostro è sempre un convincersi parziale, ma gli abbandoni, le remore, i tradimenti, non hanno il potere di affievolire il rapporto del Figlio col Padre e i suoi.
Dio non può essere vinto. Egli è l’unico appoggio: assai più affidabile delle nostre conoscenze, certezze, fievoli sicurezze.
L’incomprensione non fa ostacolo alla relazione di Fede, anzi, se portata a coscienza ne lascia emergere l’Oro; suscita uno scatto, attiva l’intimo acume, un coinvolgimento convinto.
Sorge la «Pace in Lui» (v.33) - propria di colui che è tribolato. Shalôm che non è quietismo, né tregua.
La vittoria della vita sui germi di morte non si può comprendere che nelle prove, in cui emerge ciò che siamo [nell’essere e nell’agire].
La stabilità dell’esistere nello Spirito di Gesù non poggia sulla mancanza di fughe, bensì sul Fondamento autentico, solo divino - quindi poliedrico, tollerante l’onda vitale.
Il testo consente di prendere misura delle nostre incomprensioni, dei nostri stessi rifiuti nei confronti dei sonori appelli che la Provvidenza porge.
I tanti richiami danno immediatamente la feconda misura della condizione di precarietà, e lasciano intendere che neppure l’«Eccomi» eventuale si commisura in una progressione.
Le vistose smentite fanno capire che il «Sì» è costantemente in fase germinale.
Insomma, la fiducia spirituale salda non è presuntuosa, bensì incipiente. Né superficiale. Essa è potente nell’impotenza.
La verifica del credere non è solo l’accettazione della Croce - pur improbabile - ma la sua condizione silente e fruttuosa d’Inatteso. Penetrazione della realtà, che vince il mondo (v.33).
Gesù disillude il credere entusiastico dei suoi: sa che preannuncia fughe vergognose, o la stasi più degradante.
Ma nelle difficoltà nessuno è solo. Ogni prova è occasione di riflessione, piena di slancio e crescita misteriosa.
La Fede non è certezza baldanzosa: se autentica, è messa in discussione passo passo.
Non c’è attimo in cui i problemi sono superati.
E unicamente col Dono dello Spirito si può accettare che il Progetto del Padre e l’Opera del Figlio si compiano nella perdita.
I velluti sono illusori.
Si conosce il Padre della vita, il Cielo in noi, solo percorrendo la strada d’una incessante Liberazione: per la cruda e piena comprensione dell’Altissimo manca sempre molto.
[Lunedì 7.a sett. di Pasqua, 2 giugno 2025]
L’eco delle incomprensioni
(Gv 16,29-33)
In Gv le affermazioni del Signore hanno sempre una risonanza di malinteso fra gli uditori.
Dopo l’annuncio della ‘salita’ di Gesù al Padre, qui sembra invece che i discepoli - almeno un poco - lo comprendano.
A breve lo tradiranno; ma ciò non significa non aver intuito nulla.
La chiesa post-pasquale fa esperienza della dialettica di Fede: la chiarisce, l’approfondisce nel tempo, e passo passo l’accetta.
La Vita dell’Eterno si rende presente, si fa più consapevole. La Visione di Fede coglie e anticipa futuro.
Gli apostoli “capiscono” e “credono”, o almeno iniziano a farlo. Ma sono ancora tanto legati a evidenze esterne. Da ciò la fatica del cammino di comprensione, e la diffidenza del Cristo [che ci conosce].
Il nostro è sempre un convincersi parziale, ma gli abbandoni, le remore, i tradimenti, non hanno il potere di affievolire il rapporto del Figlio col Padre e i suoi.
Dio non può essere vinto. Egli è l’unico appoggio: assai più affidabile delle nostre conoscenze, certezze, fievoli sicurezze.
L’incomprensione non fa ostacolo alla relazione di Fede, anzi, se portata a coscienza ne lascia emergere l’Oro; suscita uno scatto, attiva l’intimo acume, un coinvolgimento convinto.
Sorge la «Pace in Lui» (v.33) - propria di colui che è tribolato.
Shalôm che non è quietismo, né tregua; tantomeno risultato del lasciarsi andare - perché ha riscontro [persino nelle rabbie che ci attivano].
La vittoria della vita sui germi di morte non si può comprendere che nelle prove, in cui emerge ciò che siamo [nell’essere e nell’agire].
La stabilità dell’esistere nello Spirito di Gesù non poggia sulla mancanza di fughe, bensì sul Fondamento autentico, solo divino - quindi poliedrico, tollerante l’onda vitale.
Il testo consente di prendere misura delle nostre incomprensioni, dei nostri stessi rifiuti nei confronti dei sonori appelli che la Provvidenza porge.
I tanti richiami danno immediatamente la feconda misura della condizione di precarietà, e lasciano intendere che neppure l’«Eccomi» eventuale si commisura in una progressione.
Le vistose smentite fanno capire che il «Sì» è costantemente in fase germinale.
Insomma, la fiducia spirituale salda non è presuntuosa, bensì incipiente. Né superficiale. Essa è potente nell’impotenza.
La verifica del credere non è solo l’accettazione della Croce - pur improbabile - ma la sua condizione silente e fruttuosa d’Inatteso. Penetrazione della realtà, che vince il mondo (v.33).
Gesù disillude il credere entusiastico dei suoi: sa che preannuncia fughe vergognose, o la stasi più degradante.
Ma nelle difficoltà nessuno è solo. Ogni prova è occasione di riflessione, piena di slancio e crescita misteriosa.
La Fede non è certezza baldanzosa: se autentica, è messa in discussione passo passo.
Non c’è attimo in cui i problemi sono superati.
E unicamente col Dono dello Spirito si può accettare che il Progetto del Padre e l’Opera del Figlio si compiano nella perdita.
A conclusione di una serie di catechesi a domanda e risposta, Gv incoraggia le sue comunità rattristate da attese snervanti a non temere l’apparente potenza del patto fra religione ufficiale e impero, che sembrava ridicolizzare la Fede dei piccoli e mettere fuori gioco l’impegno di tutti i fratelli in Cristo.
Anche oggi, alcuni “discepoli” pensano di aver capito tutto e si atteggiano a dottori e tuttologi. Ma quando in Gesù sentiamo corrispondenza e si manifesta una luce, è bene sapere: il meglio rimane ancora da svelare.
La Fede cresce nell’esperienza concreta della vita e nella sinergia con la Parola di Dio che ne illumina via via i tratti.
Talora la sua Voce o gli accadimenti possono essere una doccia fredda che spegne lusinghe [si riveleranno fatali, se portate avanti] e gli orgogliosi entusiasmi “infantili” - ingannevoli.
Inizialmente credere nel Crocifisso si lega forse a una corrispondenza spontanea. Ma nel tempo e nella sequela reale, la vita di Fede si delinea sempre meglio, e spegne i finti focolai dell’assenso acerbo: quando la presunzione di sé, delle proprie idee e forze, cade.
Infatti l’essere in Cristo è un motore che ci porta, e via via sbalordisce d’impensabili scoperte: Tesori nascosti dietro lati oscuri. Questo ri-crea l’anima.
Qualcuno tenta di normalizzare la nostra personalità e usarci per sé o il suo clan, ma l’Eterno non entra in alcuno schema culturale, anzi nel tempo li disarma tutti.
Vano è il tentativo comune alle religioni di trasmettere ai semplici ossessioni [datate o modaiole] condite di fantasie isteriche e finte sicurezze.
I devoti abitudinari - quelli da festicciole e parentesi - disorientano non appena s’accorgono che Dio non è un protettore di benedizioni materiali o d’idoli sacrali convenzionali.
Le strutture di peccato subdole, devianti, in Gv sono denominate «mondo» - a dire il connubio apparentemente felice col potere e il tornaconto: una trappola di quietismi, concordismi e velluti illusori.
Si conosce il Padre della vita, il Cielo in noi, solo percorrendo la strada d’una incessante Liberazione: per la cruda e piena comprensione dell’Altissimo manca sempre molto.
Stanchezze
«La mia mano è il suo sostegno, / il mio braccio è la sua forza» (Sal 88,22). Così pensa il Signore quando dice dentro di sé: «Ho trovato Davide, mio servo, / con il mio santo olio l’ho consacrato» (v. 21). Così pensa il nostro Padre ogni volta che “trova” un sacerdote. E aggiunge ancora: «La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui / … Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, / mio Dio e roccia della mia salvezza”» (vv. 25.27).
E’ molto bello entrare, con il Salmista, in questo soliloquio del nostro Dio. Egli parla di noi, suoi sacerdoti, suoi preti; ma in realtà non è un soliloquio, non parla da solo: è il Padre che dice a Gesù: “I tuoi amici, quelli che ti amano, mi potranno dire in modo speciale: Tu sei mio Padre” (cfr Gv 14,21). E se il Signore pensa e si preoccupa tanto di come potrà aiutarci, è perché sa che il compito di ungere il popolo fedele non è facile, è duro; ci porta alla stanchezza e alla fatica. Lo sperimentiamo in tutte le forme: dalla stanchezza abituale del lavoro apostolico quotidiano fino a quella della malattia e della morte, compreso il consumarsi nel martirio.
La stanchezza dei sacerdoti! Sapete quante volte penso a questo: alla stanchezza di tutti voi? Ci penso molto e prego di frequente, specialmente quando ad essere stanco sono io. Prego per voi che lavorate in mezzo al popolo fedele di Dio che vi è stato affidato, e molti in luoghi assai abbandonati e pericolosi. E la nostra stanchezza, cari sacerdoti, è come l’incenso che sale silenziosamente al Cielo (cfr Sal 140,2; Ap 8,3-4). La nostra stanchezza va dritta al cuore del Padre.
Siate sicuri che la Madonna si accorge di questa stanchezza e la fa notare subito al Signore. Lei, come Madre, sa capire quando i suoi figli sono stanchi e non pensa a nient’altro. “Benvenuto! Riposati, figlio. Dopo parleremo… Non ci sono qui io, che sono tua Madre?” – ci dirà sempre quando ci avviciniamo a Lei (cfr Evangelii gaudium, 286). E a suo Figlio dirà, come a Cana: «Non hanno vino» (Gv 2,3).
Succede anche che, quando sentiamo il peso del lavoro pastorale, ci può venire la tentazione di riposare in un modo qualunque, come se il riposo non fosse una cosa di Dio. Non cadiamo in questa tentazione. La nostra fatica è preziosa agli occhi di Gesù, che ci accoglie e ci fa alzare: “Venite a me quando siete stanchi e oppressi, io vi darò ristoro” (cfr Mt 11,28). Quando uno sa che, morto di stanchezza, può prostrarsi in adorazione, dire: “Basta per oggi, Signore”, e arrendersi davanti al Padre, uno sa anche che non crolla ma si rinnova, perché chi ha unto con olio di letizia il popolo fedele di Dio, il Signore pure lo unge: “cambia la sua cenere in diadema, le sue lacrime in olio profumato di letizia, il suo abbattimento in canti” (cfr Is 61,3).
Teniamo ben presente che una chiave della fecondità sacerdotale sta nel come riposiamo e nel come sentiamo che il Signore tratta la nostra stanchezza. Com’è difficile imparare a riposare! In questo si gioca la nostra fiducia e il nostro ricordare che anche noi siamo pecore e abbiamo bisogno del pastore, che ci aiuti. Possono aiutarci alcune domande a questo proposito.
So riposare ricevendo l’amore, la gratuità e tutto l’affetto che mi dà il popolo fedele di Dio? O dopo il lavoro pastorale cerco riposi più raffinati, non quelli dei poveri ma quelli che offre la società dei consumi? Lo Spirito Santo è veramente per me “riposo nella fatica”, o solo Colui che mi fa lavorare? So chiedere aiuto a qualche sacerdote saggio? So riposare da me stesso, dalla mia auto-esigenza, dal mio auto-compiacimento, dalla mia auto-referenzialità? So conversare con Gesù, con il Padre, con la Vergine e san Giuseppe, con i miei Santi protettori amici per riposarmi nelle loro esigenze – che sono soavi e leggere –, nel loro compiacimento – ad essi piace stare in mia compagnia –, e nei loro interessi e riferimenti – ad essi interessa solo la maggior gloria di Dio – …? So riposare dai miei nemici sotto la protezione del Signore? Vado argomentando e tramando fra me, rimuginando più volte la mia difesa, o mi affido allo Spirito Santo che mi insegna quello che devo dire in ogni occasione? Mi preoccupo e mi affanno eccessivamente o, come Paolo, trovo riposo dicendo: «So in chi ho posto la mia fede» (2 Tm 1,12)?
Ripassiamo un momento, brevemente, gli impegni dei sacerdoti, che oggi la liturgia ci proclama: portare ai poveri la Buona Notizia, annunciare la liberazione ai prigionieri e la guarigione ai ciechi, dare la libertà agli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore. Isaia dice anche curare quelli che hanno il cuore spezzato e consolare gli afflitti.
Non sono compiti facili, non sono compiti esteriori, come ad esempio le attività manuali – costruire un nuovo salone parrocchiale, o tracciare le linee di un campo di calcio per i giovani dell’oratorio…; gli impegni menzionati da Gesù implicano la nostra capacità di compassione, sono impegni in cui il nostro cuore è “mosso” e commosso. Ci rallegriamo con i fidanzati che si sposano, ridiamo con il bimbo che portano a battezzare; accompagniamo i giovani che si preparano al matrimonio e alla famiglia; ci addoloriamo con chi riceve l’unzione nel letto di ospedale; piangiamo con quelli che seppelliscono una persona cara… Tante emozioni… Se noi abbiamo il cuore aperto, questa emozione e tanto affetto affaticano il cuore del Pastore. Per noi sacerdoti le storie della nostra gente non sono un notiziario: noi conosciamo la nostra gente, possiamo indovinare ciò che sta passando nel loro cuore; e il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso e sembra perfino mangiato dalla gente: prendete, mangiate. Questa è la parola che sussurra costantemente il sacerdote di Gesù quando si sta prendendo cura del suo popolo fedele: prendete e mangiate, prendete e bevete… E così la nostra vita sacerdotale si va donando nel servizio, nella vicinanza al Popolo fedele di Dio… che sempre, sempre stanca.
Vorrei ora condividere con voi alcune stanchezze sulle quali ho meditato.
C’è quella che possiamo chiamare “la stanchezza della gente, la stanchezza delle folle”: per il Signore, come per noi, era spossante – lo dice il Vangelo –, ma è una stanchezza buona, una stanchezza piena di frutti e di gioia. La gente che lo seguiva, le famiglie che gli portavano i loro bambini perché li benedicesse, quelli che erano stati guariti, che venivano con i loro amici, i giovani che si entusiasmavano del Rabbì…, non gli lasciavano neanche il tempo per mangiare. Ma il Signore non si seccava di stare con la gente. Al contrario: sembrava che si ricaricasse (cfr. Evangelii gaudium, 11). Questa stanchezza in mezzo alla nostra attività è solitamente una grazia che è a portata di mano di tutti noi sacerdoti (cfr ibid., 279). Che bella cosa è questa: la gente ama, desidera e ha bisogno dei suoi pastori! Il popolo fedele non ci lascia senza impegno diretto, salvo che uno si nasconda in un ufficio o vada per la città con i vetri oscurati. E questa stanchezza è buona, è una stanchezza sana. E’ la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore…, ma con il sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini. Niente a che vedere con quelli che sanno di profumi cari e ti guardano da lontano e dall’alto (cfr ibid., 97). Siamo gli amici dello Sposo, questa è la nostra gioia. Se Gesù sta pascendo il gregge in mezzo a noi non possiamo essere pastori con la faccia acida, lamentosi, né, ciò che è peggio, pastori annoiati. Odore di pecore e sorriso di padri… Sì, molto stanchi, ma con la gioia di chi ascolta il suo Signore che dice: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34).
C’è anche quella che possiamo chiamare “la stanchezza dei nemici”. Il demonio e i suoi seguaci non dormono e, dato che le loro orecchie non sopportano la Parola di Dio, lavorano instancabilmente per zittirla o confonderla. Qui la stanchezza di affrontarli è più ardua. Non solo si tratta di fare il bene, con tutta la fatica che comporta, bensì bisogna difendere il gregge e difendere sé stessi dal male (cfr Evangelii gaudium, 83). Il maligno è più astuto di noi ed è capace di demolire in un momento quello che abbiamo costruito con pazienza durante lungo tempo. Qui occorre chiedere la grazia di imparare a neutralizzare - è un’abitudine importante: imparare a neutralizzare -: neutralizzare il male, non strappare la zizzania, non pretendere di difendere come superuomini ciò che solo il Signore deve difendere. Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza.
E per ultima – ultima perché questa omelia non vi stanchi troppo – c’è anche “la stanchezza di sé stessi” (cfr Evangelii gaudium, 277). E’ forse la più pericolosa. Perché le altre due provengono dal fatto di essere esposti, di uscire da noi stessi per ungere e darsi da fare (siamo quelli che si prendono cura). Invece questa stanchezza, è più auto-referenziale: è la delusione di sé stessi ma non guardata in faccia, con la serena letizia di chi si scopre peccatore e bisognoso di perdono, di aiuto: questi chiede aiuto e va avanti. Si tratta della stanchezza che dà il “volere e non volere”, l’essersi giocato tutto e poi rimpiangere l’aglio e le cipolle d’Egitto, il giocare con l’illusione di essere qualcos’altro. Questa stanchezza mi piace chiamarla “civettare con la mondanità spirituale”. E quando uno rimane solo, si accorge di quanti settori della vita sono stati impregnati da questa mondanità, e abbiamo persino l’impressione che nessun bagno la possa pulire. Qui può esserci una stanchezza cattiva. La parola dell’Apocalisse ci indica la causa di questa stanchezza: «Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore» (2,3-4). Solo l’amore dà riposo. Ciò che non si ama, stanca male, e alla lunga stanca peggio.
L’immagine più profonda e misteriosa di come il Signore tratta la nostra stanchezza pastorale è quella che «avendo amato i suoi…, li amò sino alla fine» (Gv 13,1): la scena della lavanda dei piedi. Mi piace contemplarla come la lavanda della sequela. Il Signore purifica la stessa sequela, Egli si «coinvolge» con noi (Evangelii gaudium, 24), si fa carico in prima persona di pulire ogni macchia, quello smog mondano e untuoso che ci si è attaccato nel cammino che abbiamo fatto nel suo Nome.
Sappiamo che nei piedi si può vedere come va tutto il nostro corpo. Nel modo di seguire il Signore si manifesta come va il nostro cuore. Le piaghe dei piedi, le slogature e la stanchezza, sono segno di come lo abbiamo seguito, di quali strade abbiamo fatto per cercare le sue pecore perdute, tentando di condurre il gregge ai verdi pascoli e alle acque tranquille (cfr ibid., 270). Il Signore ci lava e ci purifica da tutto quello che si è accumulato sui nostri piedi per seguirlo. E questo è sacro. Non permette che rimanga macchiato. Come le ferite di guerra Lui le bacia, così la sporcizia del lavoro Lui la lava.
La sequela di Gesù è lavata dallo stesso Signore affinché ci sentiamo in diritto di essere “gioiosi”, “pieni”, “senza paura né colpa” e così abbiamo il coraggio di uscire e andare “sino ai confini del mondo, a tutte le periferie”, a portare questa buona notizia ai più abbandonati, sapendo che “Lui è con noi, tutti i giorni fino alla fine del mondo”. E per favore, chiediamo la grazia di imparare ad essere stanchi, ma ben stanchi!
[Papa Francesco, omelia del Crisma 2 aprile 2015]
Cari fratelli e sorelle,
abbiamo rievocato, nella meditazione, nella preghiera e nel canto, il cammino di Gesù sulla via della Croce: una via che sembrava senza uscita e che invece ha cambiato la vita e la storia dell’uomo, ha aperto il passaggio verso i «cieli nuovi e la nuova terra» (cfr Ap 21,1). Specialmente in questo giorno del Venerdì Santo, la Chiesa celebra, con intima adesione spirituale, la memoria della morte in croce del Figlio di Dio, e nella sua Croce vede l’albero della vita, fecondo di una nuova speranza.
L’esperienza della sofferenza segna l’umanità, segna anche la famiglia; quante volte il cammino si fa faticoso e difficile! Incomprensioni, divisioni, preoccupazione per il futuro dei figli, malattie, disagi di vario genere. In questo nostro tempo, poi, la situazione di molte famiglie è aggravata dalla precarietà del lavoro e dalle altre conseguenze negative provocate dalla crisi economica. Il cammino della Via Crucis, che abbiamo spiritualmente ripercorso questa sera, è un invito per tutti noi, e specialmente per le famiglie, a contemplare Cristo crocifisso per avere la forza di andare oltre le difficoltà. La Croce di Gesù è il segno supremo dell’amore di Dio per ogni uomo, è la risposta sovrabbondante al bisogno che ha ogni persona di essere amata. Quando siamo nella prova, quando le nostre famiglie si trovano ad affrontare il dolore, la tribolazione, guardiamo alla Croce di Cristo: lì troviamo il coraggio per continuare a camminare; lì possiamo ripetere, con ferma speranza, le parole di san Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8,35.37).
Nelle afflizioni e nelle difficoltà non siamo soli; la famiglia non è sola: Gesù è presente con il suo amore, la sostiene con la sua grazia e le dona l’energia per andare avanti. Ed è a questo amore di Cristo che dobbiamo rivolgerci quando gli sbandamenti umani e le difficoltà rischiano di ferire l’unità della nostra vita e della famiglia. Il mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo incoraggia a camminare con speranza: la stagione del dolore e della prova, se vissuta con Cristo, con fede in Lui, racchiude già la luce della risurrezione, la vita nuova del mondo risorto, la pasqua di ogni uomo che crede alla sua Parola.
In quell’Uomo crocifisso, che è il Figlio di Dio, anche la stessa morte acquista nuovo significato e orientamento, è riscattata e vinta, è il passaggio verso la nuova vita: «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Affidiamoci alla Madre di Cristo. Lei che ha accompagnato il suo Figlio sulla via dolorosa, Lei che stava sotto la Croce nell’ora della sua morte, Lei che ha incoraggiato la Chiesa al suo nascere perché viva alla presenza del Signore, conduca i nostri cuori, i cuori di tutte le famiglie attraverso il vasto mysterium passionis verso il mysterium paschale, verso quella luce che prorompe dalla Risurrezione di Cristo e mostra la definitiva vittoria dell’amore, della gioia, della vita, sul male, sulla sofferenza, sulla morte. Amen.
[Papa Benedetto, Via Crucis al Colosseo 6 aprile 2012]
13. Per i credenti e per le persone di buona volontà la grande sfida in questo nostro tempo è sostenere una comunicazione veritiera e libera, che contribuisca a consolidare il progresso integrale del mondo. A tutti è chiesto di saper coltivare un attento discernimento e una costante vigilanza, maturando una sana capacità critica di fronte alla forza persuasiva dei mezzi di comunicazione.
Anche in questo campo i credenti in Cristo sanno di poter contare sull'aiuto dello Spirito Santo. Aiuto ancor più necessario se si considera quanto amplificate possano risultare le difficoltà intrinseche della comunicazione a causa delle ideologie, del desiderio di guadagno e di potere, delle rivalità e dei conflitti tra individui e gruppi, come pure a motivo delle umane fragilità e dei mali sociali. Le moderne tecnologie aumentano in maniera impressionante la velocità, la quantità e la portata della comunicazione, ma non favoriscono altrettanto quel fragile scambio tra mente e mente, tra cuore e cuore, che deve caratterizzare ogni comunicazione al servizio della solidarietà e dell'amore.
Nella storia della salvezza Cristo si è presentato a noi come «comunicatore» del Padre: «Dio, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,2). Parola eterna fatta carne, Egli, nel comunicarsi, manifesta sempre rispetto per coloro che ascoltano, insegna la comprensione della loro situazione e dei loro bisogni, spinge alla compassione per la loro sofferenza e alla risoluta determinazione nel dire loro quello che hanno bisogno di sentire, senza imposizioni o compromessi, inganno o manipolazione. Gesù insegna che la comunicazione è un atto morale: «L'uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive. Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio, poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato» (Mt 12,35-37).
14. L'apostolo Paolo ha un chiaro messaggio per quanti sono impegnati nella comunicazione sociale — politici, comunicatori professionisti, spettatori: «Bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri [...] Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano» (Ef 4,25.29).
Agli operatori della comunicazione, e specialmente ai credenti che operano in questo importante ambito della società, applico l'invito che fin dall'inizio del mio ministero di Pastore della Chiesa universale ho voluto lanciare al mondo intero: «Non abbiate paura!».
Non abbiate paura delle nuove tecnologie! Esse sono «tra le cose meravigliose» — «inter mirifica» — che Dio ci ha messo a disposizione per scoprire, usare, far conoscere la verità, anche la verità sulla nostra dignità e sul nostro destino di figli suoi, eredi del suo Regno eterno.
Non abbiate paura dell'opposizione del mondo! Gesù ci ha assicurato «Io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33).
Non abbiate paura nemmeno della vostra debolezza e della vostra inadeguatezza! Il divino Maestro ha detto: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Comunicate il messaggio di speranza, di grazia e di amore di Cristo, mantenendo sempre viva, in questo mondo che passa, l'eterna prospettiva del Cielo, prospettiva che nessun mezzo di comunicazione potrà mai direttamente raggiungere: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo: queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1Cor 2,9).
A Maria, che ci ha donato il Verbo della vita e di Lui ha serbato nel cuore le imperiture parole, affido il cammino della Chiesa nel mondo d'oggi. Ci aiuti la Vergine Santa a comunicare con ogni mezzo la bellezza e la gioia della vita in Cristo nostro Salvatore.
[Papa Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica ai responsabili delle comunicazioni sociali, 24 gennaio 2005]
«La mia mano è il suo sostegno, / il mio braccio è la sua forza» (Sal 88,22). Così pensa il Signore quando dice dentro di sé: «Ho trovato Davide, mio servo, / con il mio santo olio l’ho consacrato» (v. 21). Così pensa il nostro Padre ogni volta che “trova” un sacerdote. E aggiunge ancora: «La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui / … Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, / mio Dio e roccia della mia salvezza”» (vv. 25.27).
E’ molto bello entrare, con il Salmista, in questo soliloquio del nostro Dio. Egli parla di noi, suoi sacerdoti, suoi preti; ma in realtà non è un soliloquio, non parla da solo: è il Padre che dice a Gesù: “I tuoi amici, quelli che ti amano, mi potranno dire in modo speciale: Tu sei mio Padre” (cfr Gv 14,21). E se il Signore pensa e si preoccupa tanto di come potrà aiutarci, è perché sa che il compito di ungere il popolo fedele non è facile, è duro; ci porta alla stanchezza e alla fatica. Lo sperimentiamo in tutte le forme: dalla stanchezza abituale del lavoro apostolico quotidiano fino a quella della malattia e della morte, compreso il consumarsi nel martirio.
La stanchezza dei sacerdoti! Sapete quante volte penso a questo: alla stanchezza di tutti voi? Ci penso molto e prego di frequente, specialmente quando ad essere stanco sono io. Prego per voi che lavorate in mezzo al popolo fedele di Dio che vi è stato affidato, e molti in luoghi assai abbandonati e pericolosi. E la nostra stanchezza, cari sacerdoti, è come l’incenso che sale silenziosamente al Cielo (cfr Sal 140,2; Ap 8,3-4). La nostra stanchezza va dritta al cuore del Padre.
Siate sicuri che la Madonna si accorge di questa stanchezza e la fa notare subito al Signore. Lei, come Madre, sa capire quando i suoi figli sono stanchi e non pensa a nient’altro. “Benvenuto! Riposati, figlio. Dopo parleremo… Non ci sono qui io, che sono tua Madre?” – ci dirà sempre quando ci avviciniamo a Lei (cfr Evangelii gaudium, 286). E a suo Figlio dirà, come a Cana: «Non hanno vino» (Gv 2,3).
Succede anche che, quando sentiamo il peso del lavoro pastorale, ci può venire la tentazione di riposare in un modo qualunque, come se il riposo non fosse una cosa di Dio. Non cadiamo in questa tentazione. La nostra fatica è preziosa agli occhi di Gesù, che ci accoglie e ci fa alzare: “Venite a me quando siete stanchi e oppressi, io vi darò ristoro” (cfr Mt 11,28). Quando uno sa che, morto di stanchezza, può prostrarsi in adorazione, dire: “Basta per oggi, Signore”, e arrendersi davanti al Padre, uno sa anche che non crolla ma si rinnova, perché chi ha unto con olio di letizia il popolo fedele di Dio, il Signore pure lo unge: “cambia la sua cenere in diadema, le sue lacrime in olio profumato di letizia, il suo abbattimento in canti” (cfr Is 61,3).
Teniamo ben presente che una chiave della fecondità sacerdotale sta nel come riposiamo e nel come sentiamo che il Signore tratta la nostra stanchezza. Com’è difficile imparare a riposare! In questo si gioca la nostra fiducia e il nostro ricordare che anche noi siamo pecore e abbiamo bisogno del pastore, che ci aiuti. Possono aiutarci alcune domande a questo proposito.
So riposare ricevendo l’amore, la gratuità e tutto l’affetto che mi dà il popolo fedele di Dio? O dopo il lavoro pastorale cerco riposi più raffinati, non quelli dei poveri ma quelli che offre la società dei consumi? Lo Spirito Santo è veramente per me “riposo nella fatica”, o solo Colui che mi fa lavorare? So chiedere aiuto a qualche sacerdote saggio? So riposare da me stesso, dalla mia auto-esigenza, dal mio auto-compiacimento, dalla mia auto-referenzialità? So conversare con Gesù, con il Padre, con la Vergine e san Giuseppe, con i miei Santi protettori amici per riposarmi nelle loro esigenze – che sono soavi e leggere –, nel loro compiacimento – ad essi piace stare in mia compagnia –, e nei loro interessi e riferimenti – ad essi interessa solo la maggior gloria di Dio – …? So riposare dai miei nemici sotto la protezione del Signore? Vado argomentando e tramando fra me, rimuginando più volte la mia difesa, o mi affido allo Spirito Santo che mi insegna quello che devo dire in ogni occasione? Mi preoccupo e mi affanno eccessivamente o, come Paolo, trovo riposo dicendo: «So in chi ho posto la mia fede» (2 Tm 1,12)?
Ripassiamo un momento, brevemente, gli impegni dei sacerdoti, che oggi la liturgia ci proclama: portare ai poveri la Buona Notizia, annunciare la liberazione ai prigionieri e la guarigione ai ciechi, dare la libertà agli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore. Isaia dice anche curare quelli che hanno il cuore spezzato e consolare gli afflitti.
Non sono compiti facili, non sono compiti esteriori, come ad esempio le attività manuali – costruire un nuovo salone parrocchiale, o tracciare le linee di un campo di calcio per i giovani dell’oratorio…; gli impegni menzionati da Gesù implicano la nostra capacità di compassione, sono impegni in cui il nostro cuore è “mosso” e commosso. Ci rallegriamo con i fidanzati che si sposano, ridiamo con il bimbo che portano a battezzare; accompagniamo i giovani che si preparano al matrimonio e alla famiglia; ci addoloriamo con chi riceve l’unzione nel letto di ospedale; piangiamo con quelli che seppelliscono una persona cara… Tante emozioni… Se noi abbiamo il cuore aperto, questa emozione e tanto affetto affaticano il cuore del Pastore. Per noi sacerdoti le storie della nostra gente non sono un notiziario: noi conosciamo la nostra gente, possiamo indovinare ciò che sta passando nel loro cuore; e il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso e sembra perfino mangiato dalla gente: prendete, mangiate. Questa è la parola che sussurra costantemente il sacerdote di Gesù quando si sta prendendo cura del suo popolo fedele: prendete e mangiate, prendete e bevete… E così la nostra vita sacerdotale si va donando nel servizio, nella vicinanza al Popolo fedele di Dio… che sempre, sempre stanca.
Vorrei ora condividere con voi alcune stanchezze sulle quali ho meditato.
C’è quella che possiamo chiamare “la stanchezza della gente, la stanchezza delle folle”: per il Signore, come per noi, era spossante – lo dice il Vangelo –, ma è una stanchezza buona, una stanchezza piena di frutti e di gioia. La gente che lo seguiva, le famiglie che gli portavano i loro bambini perché li benedicesse, quelli che erano stati guariti, che venivano con i loro amici, i giovani che si entusiasmavano del Rabbì…, non gli lasciavano neanche il tempo per mangiare. Ma il Signore non si seccava di stare con la gente. Al contrario: sembrava che si ricaricasse (cfr. Evangelii gaudium, 11). Questa stanchezza in mezzo alla nostra attività è solitamente una grazia che è a portata di mano di tutti noi sacerdoti (cfr ibid., 279). Che bella cosa è questa: la gente ama, desidera e ha bisogno dei suoi pastori! Il popolo fedele non ci lascia senza impegno diretto, salvo che uno si nasconda in un ufficio o vada per la città con i vetri oscurati. E questa stanchezza è buona, è una stanchezza sana. E’ la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore…, ma con il sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini. Niente a che vedere con quelli che sanno di profumi cari e ti guardano da lontano e dall’alto (cfr ibid., 97). Siamo gli amici dello Sposo, questa è la nostra gioia. Se Gesù sta pascendo il gregge in mezzo a noi non possiamo essere pastori con la faccia acida, lamentosi, né, ciò che è peggio, pastori annoiati. Odore di pecore e sorriso di padri… Sì, molto stanchi, ma con la gioia di chi ascolta il suo Signore che dice: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34).
C’è anche quella che possiamo chiamare “la stanchezza dei nemici”. Il demonio e i suoi seguaci non dormono e, dato che le loro orecchie non sopportano la Parola di Dio, lavorano instancabilmente per zittirla o confonderla. Qui la stanchezza di affrontarli è più ardua. Non solo si tratta di fare il bene, con tutta la fatica che comporta, bensì bisogna difendere il gregge e difendere sé stessi dal male (cfr Evangelii gaudium, 83). Il maligno è più astuto di noi ed è capace di demolire in un momento quello che abbiamo costruito con pazienza durante lungo tempo. Qui occorre chiedere la grazia di imparare a neutralizzare - è un’abitudine importante: imparare a neutralizzare -: neutralizzare il male, non strappare la zizzania, non pretendere di difendere come superuomini ciò che solo il Signore deve difendere. Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza.
E per ultima – ultima perché questa omelia non vi stanchi troppo – c’è anche “la stanchezza di sé stessi” (cfr Evangelii gaudium, 277). E’ forse la più pericolosa. Perché le altre due provengono dal fatto di essere esposti, di uscire da noi stessi per ungere e darsi da fare (siamo quelli che si prendono cura). Invece questa stanchezza, è più auto-referenziale: è la delusione di sé stessi ma non guardata in faccia, con la serena letizia di chi si scopre peccatore e bisognoso di perdono, di aiuto: questi chiede aiuto e va avanti. Si tratta della stanchezza che dà il “volere e non volere”, l’essersi giocato tutto e poi rimpiangere l’aglio e le cipolle d’Egitto, il giocare con l’illusione di essere qualcos’altro. Questa stanchezza mi piace chiamarla “civettare con la mondanità spirituale”. E quando uno rimane solo, si accorge di quanti settori della vita sono stati impregnati da questa mondanità, e abbiamo persino l’impressione che nessun bagno la possa pulire. Qui può esserci una stanchezza cattiva. La parola dell’Apocalisse ci indica la causa di questa stanchezza: «Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore» (2,3-4). Solo l’amore dà riposo. Ciò che non si ama, stanca male, e alla lunga stanca peggio.
L’immagine più profonda e misteriosa di come il Signore tratta la nostra stanchezza pastorale è quella che «avendo amato i suoi…, li amò sino alla fine» (Gv 13,1): la scena della lavanda dei piedi. Mi piace contemplarla come la lavanda della sequela. Il Signore purifica la stessa sequela, Egli si «coinvolge» con noi (Evangelii gaudium, 24), si fa carico in prima persona di pulire ogni macchia, quello smog mondano e untuoso che ci si è attaccato nel cammino che abbiamo fatto nel suo Nome.
Sappiamo che nei piedi si può vedere come va tutto il nostro corpo. Nel modo di seguire il Signore si manifesta come va il nostro cuore. Le piaghe dei piedi, le slogature e la stanchezza, sono segno di come lo abbiamo seguito, di quali strade abbiamo fatto per cercare le sue pecore perdute, tentando di condurre il gregge ai verdi pascoli e alle acque tranquille (cfr ibid., 270). Il Signore ci lava e ci purifica da tutto quello che si è accumulato sui nostri piedi per seguirlo. E questo è sacro. Non permette che rimanga macchiato. Come le ferite di guerra Lui le bacia, così la sporcizia del lavoro Lui la lava.
La sequela di Gesù è lavata dallo stesso Signore affinché ci sentiamo in diritto di essere “gioiosi”, “pieni”, “senza paura né colpa” e così abbiamo il coraggio di uscire e andare “sino ai confini del mondo, a tutte le periferie”, a portare questa buona notizia ai più abbandonati, sapendo che “Lui è con noi, tutti i giorni fino alla fine del mondo”. E per favore, chiediamo la grazia di imparare ad essere stanchi, ma ben stanchi!
[Papa Francesco, omelia del Crisma 2 aprile 2015]
Pasqua, Ascensione. (Ci sono prove che Vive)
Qual è il destino, la traiettoria di una vita spesa nella fedeltà a una vocazione profetica? L’esito terreno di Gesù - il Figlio fedele - sembrerebbe quello dei falliti d’ogni tempo.
Allora vale la pena essere se stessi? Non sarebbe più costruttivo regolarsi sulla base di convenienze personali e opportunismi di gruppo?
Insomma, con la Pasqua e Ascensione di Gesù, cosa è cambiato?
La gente continua come prima a viaggiare o stare ferma, a comprare e vendere, a lavorare o fare festa, a gioire o piangere...
Ma come in un paesaggio caratterizzato da nebbie, all’improvviso sorge il sole e vediamo profili netti, godiamo della brillantezza di colori, persino delle sfumature.
Una Visione più nitida, nell’esperienza di Fede.
La Pasqua celebra una gioia: è la festa di coloro che si rendono conto che le sconfitte non restano lati oscuri. Nascondono Gemme sproporzionate.
Del nostro passaggio rimane una fioritura piena. E non è vero che una vita distrutta o vessata sia sciupata o finisca male, lasciandoci orfani.
Piuttosto, essa acuisce l’ascolto e tutta la percezione. Così impariamo ad accogliere l’oggettivo degli altri e la loro-nostra irripetibilità.
Apprendiamo a dialogare con la cruda realtà e anzitutto con noi stessi; così finalmente onorare Dio rispettandoci in modo integrale.
Nelle icone orientali la Pasqua è raffigurata come Discesa agli Inferi: vittoria della donna e dell’uomo comuni [riportati alla vita].
Ancora nelle icone, il Mistero dell’Ascensione è raffigurato con due angeli in bianche vesti che indicano agli apostoli il nimbo glorioso del Signore, seduto in trono.
Come dire: contemplate dove è giunta una vita sprecata secondo gli uomini, ma realizzata secondo il Padre.
Obbedire alla nostra vocazione senza compromessi e in modo integrale può sembrare imprudente, temerario. Invece è pieno rispetto di sé, e ci conduce alla nostra Patria.
La natura delle nostre fibre animate dall’Amico interiore fa appello non a traguardi sociali da raggiungere, ma a ciò che siamo davvero - e il nostro Nome profondo dispiegato nel cammino di Fede accompagna infallibilmente alla Culla.
Lasciarsi influenzare e diventare esterni è perdere se stessi e smarrire la Guida, rovinando la completezza dell’essere.
Malgrado l’apparente fallimento e i rimproveri che l’inedito personale e sociale suscita, ascoltando quel Fuoco inestinguibile che ci abita, realizziamo la vita in modo integrale.
Se l'attenzione non è sullo scenario di ciò che attorno accade, trasaliamo per la nuova consapevolezza d’una genesi in atto della nostra personalità e missione: un prototipo e modalità di noi stessi che stanno misteriosamente fiorendo, e hanno valore.
A meno che non ci lasciamo condizionare e soverchiare da interferenze o calcoli esterni e circostanze dattorno, avvertiamo che c’è già un binario caratterizzante il quale chiama da dentro.
Ci si accorge che possiamo stare con noi stessi e crescere senza preclusioni d’inatteso, né codici già comunemente paradigmatici, perché Dio si esprime creando rinnovati cieli dentro di noi e sulla terra.
Il Cielo: decollare senz’allontanarsi. Non siamo soli. E il meglio deve ancora Venire.
P.S. Oggi più che mai siamo nell’era delle vetrine sociali, che palesano ogni aspetto della storia e della cronaca anche private.
Quando valorizziamo l’aspetto dell’anima che comunica con le scorze dei target, la tagliamo o squilibriamo con pensieri dominanti lasciando che venga plagiata da manipolatori - anche spirituali.
Ma il cuore che smarrisce l’Intero non traccia più il sentiero che canta il nostro Seme. Esso pretende di esprimersi. Altrimenti procedemmo a vanvera o a cliché.
Insomma, non siamo un giudizio, un’opinione, una crisi, un ricordo, bensì inventori di strade che attingono a un’acqua sempre sorgiva.
Non a un pozzo, né ad una palude, dove tutto è già accaduto, ma a una Sorgente.
[Ascensione del Signore, 1 giugno 2025]
Ascensione del Signore: non siamo orfani
(At 1,1-11)
Al termine del suo Vangelo Lc colloca l’Ascensione di Gesù nel medesimo giorno di Pasqua, a Betania e nell’atto perenne del benedirci (Lc 24,50-51) - con una forma di presentazione comprensibile secondo le conoscenze cosmologiche del tempo.
Lo stesso dicasi in At 1, dove il medesimo redattore situa l’evento dopo quaranta giorni [simbolo della continuità con l’insegnamento di Gesù: v.3] e sul Monte detto degli Ulivi (cf. v.12).
Certo, sul Calvario Gesù aveva promesso allo sventurato che lo chiama per nome: «Oggi con me sarai nel Paradiso» (Lc 23,43).
L'evangelista e autore degli Atti degli Apostoli non vuole trasmettere informazioni, bensì un insegnamento in favore delle sorti missionarie delle sue chiese - fisicamente prive del Maestro.
Lc desidera scuotere e sciogliere i dubbi affiorati nelle comunità, anzitutto circa il senso del passaggio di consegne ai discepoli, quindi della sua Presenza operante nello Spirito (vv.8.16).
Egli illumina i seguaci di terza generazione sul mistero della Pasqua del Signore, usando immagini e un genere letterario comprensibili ai suoi contemporanei, provenienti per lo più dal mondo pagano.
In un clima di attesa viva, gli scrittori apocalittici annunciavano imminente l’avvento del Regno di Dio. E nella mentalità comune l’effusione dello Spirito portava con sé l’inaugurazione del tempo ultimo.
Da tale convinzione scaturiva la speranza di una Manifestazione subitanea (limitata a Israele).
Il Veniente e il suo nuovo ordine di cose sarebbero giunti fra sconvolgimenti cosmici: diluvio, terremoti, fuoco purificatore dal cielo, risurrezione dei giusti e inizio di un mondo finalmente appagante.
Anche in alcuni fedeli si stava creando un clima di esaltazione, il quale però confliggeva con la morte del Maestro e il ritardo della sua apparizione gloriosa attesa.
Ogni speculazione sulla prossimità della fine del mondo antico si risolveva in un fiasco.
Ciò fino a esporsi a facili ironie [2Pt 3,4: «Diranno: Dov’è la sua venuta, che Egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione»].
Ma intanto in tutte le comunità si ripeteva «Vieni Signore!» (Marana tha). Però gli anni passavano e gli eventi scorrevano come prima.
La vita quotidiana - come quella dell’impero - non sembrava cambiare granché.
In tale situazione deludente, che interrogava i membri di comunità circa lo spessore della Fede, Lc si rende conto dell’equivoco: la Risurrezione ha segnato l’inizio del Regno, non la conclusione della storia.
Il mondo nuovo non si edifica attraverso scorciatoie, eventi repentini, situazioni immediate, o per procura - né sorge immaginando particolarismi, che viceversa andavano sgretolati.
I tempi erano e sono sempre lunghi, e l’impegno ricomincia da zero ogni giorno: nessuna facile età dell’oro; nessun personaggio definitivamente risolutore, garante dell’ordine e del benessere - come il Messia atteso.
Per correggere le false aspettative (i coloriti racconti degli apocrifi sono decisamente fantasiosi) At descrive l’evento d’intronizzazione regale [Ef 1,20-22; Ef 4,8-10; ebraico-cultuale in Eb 9,24-28.10,19-21; cf. Sal 110, messianico per eccellenza] in modo sobrio, e lo introduce con il dialogo fra Gesù Risorto e gli Apostoli.
La loro domanda era quella che risuonava sulle labbra dei discepoli al volgere del primo secolo: «Quando?» (v.6).
Il senso del testo: ciò non è importante, bisogna solo non perdere di vista la condizione divina del giudicato dagli uomini ma assunto a sé dal Padre.
A Dio non interessano i dibattiti e le curiosità: conta unicamente la missione universale affidata (vv.7-8).
L’esatto contrario di quanto avveniva in alcune realtà cristiane, dove alcuni avevano addirittura iniziato a trascurare i doveri di ogni giorno.
Si noti che il Risorto si rivolge ai suoi durante lo spezzare del Pane (cf. v.4) - mentre la scena dell’Ascensione si sposta al Monte degli Ulivi (vv.9-11.12).
Lc adopera quale sfondo narrativo l’icona biblica del rapimento di Elia (2Re 2,9-15) per indicare che Cristo effonde il suo Spirito e abilita i fratelli a proseguirne la missione nel mondo.
Infatti il libro dei Re narra delle opere dell’allievo Eliseo: esse avevano ricalcato le medesime del maestro, Elia.
La scenografia grandiosa usata dell'autore degli Atti non deve confondere: è per chiarire il senso del passaggio di consegne e dell’invio.
La vittoria del Risorto è il suo popolo in uscita: tale resta l’accesso alla gloria del Padre.
Nel Primo Testamento la Nube (v.9) indicava la presenza divina in un certo luogo.
Lc impiega tale immagine per indicare che la vita di Gesù non è stata fallimentare, bensì accolta da Dio.
Il mondo di Dio [i due in bianche vesti, gli stessi al sepolcro nel giorno di Pasqua: Lc 24,4-6] lo proclama in verità Signore - sebbene condannato dalle autorità come malfattore, peccatore, maledetto.
I «due uomini» (Lc 24,4) sono probabilmente Mosè ed Elia - come nella Trasfigurazione (Lc 9,30) - ossia la Legge e i Profeti, testimoni fondamentali che Cristo è l’Inviato da Dio.
Lo sguardo rivolto al cielo (vv.10-11) è invece quello dei discepoli che ancora sperano forse in un “ritorno” [termine mai adoperato nei Vangeli] di Gesù, affinché riprenda la sua opera violentemente interrotta.
Ma il messaggio «dal cielo» (v.11) chiarisce che non sarà Lui a portare a compimento il suo stesso Sogno.
Dopo i quaranta giorni [v.3: nel linguaggio del giudaismo, tempo simbolico necessario alla preparazione del discepolo] i seguaci ne hanno ricevuto lo Spirito, la forza interiore arricchita dal discernimento.
Ciò a una condizione, ben compresa dalle icone orientali, le quali nel mistero dell’Ascensione raffigurano appunto due angeli biancovestiti che indicano agli apostoli il nimbo glorioso del Signore.
Come nel racconto del rapimento di Elia, è necessario che i discepoli «vedano» dove è finita una vita donata - anche disprezzata dagli uomini, eppur benedetta dal Padre.
Quindi ne vale la pena.
In tal guisa, bisogna che ciascuno la smetta di rivolgere il nasino all’insù, estraniandosi dal mondo: costi quel che costi.
Infatti, possibile solo... «Se mi vedrai» (2Re 2,10).
Nello Spirito, la Visione-Fede riempie di Cielo i nostri occhi: stacca dai giudizi della religiosità banale; dona l’intelligenza delle pieghe della storia, l’impulso per affrontare la vita faccia a faccia, la comprensione della strabiliante fecondità della Croce; la capacità di cogliere, attivare e anticipare futuro.
Da ciò deriva la «grande gioia» (Lc 24,52) degli apostoli, altrimenti incomprensibile dopo un commiato.
«Cari fratelli e sorelle, il Signore, aprendoci la via del Cielo, ci fa pregustare già su questa terra la vita divina. Un autore russo del Novecento, nel suo testamento spirituale, scriveva: “Osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, … intrattenetevi … col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete” (N. Valentini - L. Žák [a cura], Pavel A. Florenskij. Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, Milano 2000, p. 418)».
[Papa Benedetto, Regina Coeli 16 maggio 2010]
Ascensione del Signore
(Lc 24,46-53)
Lc interpreta la Risurrezione come compimento della Prima Alleanza (vv.44-45): tutta la storia d’Israele [come le tappe d’un cammino] riceve senso e culmine in Cristo, chiave delle Scritture.
Ora la Pasqua si espande nell’invio dello Spirito (v.49) ed è attestata nella Missione ecclesiale (vv.47-48).
La venuta dello Spirito condensa ed espande la Via del Signore. “Salendo” al Padre, il Figlio ci dona la forza di percorrerla, ed essa diventa nostra.
In particolare, la Missione è testimonianza della vicenda del Cristo; e di un cambiamento di mentalità e perdono possibili, aperti al mondo.
Tutti ricevono la grazia di percorsi che guidano alla riconciliazione con gli uomini e alla comunione con Dio. Infatti l’accento cade sulla figura di Gesù benedicente (vv.50-51).
“Ascensione” sta a dire la profondità della Pasqua, mèta dello sviluppo della storia: il messaggio del Signore e la verità della sua vicenda non sono un momento del passato.
Dall’altezza dei cieli (che appunto non ci trae dalla storia) al cammino quotidiano: il vissuto del Cristo si fa radice profonda e giudizio, fondamento e humus, verità e traguardo della nostra vicenda.
L’Ascensione (non dal mondo, ma col mondo) glorifica l'umanità. Essa raffigura la dimensione cosmica e universale della Risurrezione - nuovo modo del Cielo che Viene nello spazio dell’uomo, evento perenne.
Qual è dunque il destino di una vita spesa nella fedeltà a una vocazione profetica? L’esito terreno di Gesù - il Figlio fedele - sembrerebbe quello dei falliti d’ogni tempo e di qualsiasi cultura, filosofia o religione.
Allora vale la pena essere se stessi? Non sarebbe più costruttivo regolarsi sulla base di convenienze personali e opportunismi di cerchia?
La Pasqua celebra una gioia: è la festa di coloro che si rendono conto che le disfatte non restano lati oscuri, inutili. Nascondono Gemme sproporzionate.
Del nostro passaggio rimane una fioritura piena. E non è vero che una vita vilipesa dai prepotenti sia sciupata o finisca male.
Nelle icone orientali la Pasqua è raffigurata come Discesa agli Inferi del Cristo: vittoria della donna e dell’uomo comuni (Adamo ed Eva tratti su dai rispettivi sepolcri).
Ancora nelle icone, il Mistero dell’Ascensione è raffigurato con due angeli in bianche vesti che indicano agli apostoli il nimbo glorioso del Signore, seduto in trono.
Come a dire: contemplate dove è giunta una vita sprecata secondo gli uomini ma realizzata secondo il Padre.
Obbedire alla nostra Vocazione senza compromessi e in modo integrale può sembrare imprudente e temerario. Invece è pieno rispetto di sé, e valutazione istintiva che ci porta alla nostra Patria.
La natura delle nostre fibre animate dall’Amico interiore fa appello non a traguardi sociali da raggiungere, ma a ciò che siamo davvero - e la naturalezza profonda dispiegata nel cammino di Fede conduce infallibilmente alla Culla che ci corrisponde.
Lasciarsi influenzare e diventare esterni è perdere la guida, rovinando l’interezza dell’essere in tutti quegli aspetti che il pensiero conformista considera sbagliati e invece dovranno prima o poi scendere in campo per affrontare la vita reale e completarci - anche d’inedito.
Malgrado l’apparente fallimento e i rimproveri che l’inconsueto personale (e sociale o ecclesiale) suscita, ascoltando la nostra Chiamata per Nome e quel Fuoco inestinguibile che ci abita, realizziamo noi stessi e gli altri.
Se l'attenzione non è sullo scenario di ciò che un tempo è stato o attorno accade, trasaliamo per la nuova consapevolezza d’una genesi in atto della nostra personalità e missione: un prototipo e modalità di noi stessi che stanno misteriosamente fiorendo e hanno valore.
A meno che non ci lasciamo condizionare da interferenze, soverchiare dal plagio di realtà consolidate - o calcolo di circostanze - avvertiamo che c’è un binario caratterizzante che chiama.
Ci accorgiamo di poter stare con noi stessi e crescere senza preclusioni d’inatteso o criteri già comunemente paradigmatici, perché Dio non si esprime emanando normative saccenti, ma creando rinnovati cieli dentro di noi e già sulla terra.
Il suo linguaggio è irripetibile per ciascuno: la vita nello Spirito non è questione di essere retrogradi oppure scapicollo - tifoserie infeconde.
Insomma, con la Pasqua e Ascensione di Gesù cosa è cambiato? Apparentemente nulla, perché la gente continua come prima a viaggiare o stare ferma, a comprare e vendere, a lavorare o fare festa, a gioire o piangere. La realtà è quella.
Ma come in un paesaggio caratterizzato da nebbie... d’improvviso sorge il sole e vediamo profili netti, godiamo della brillantezza di colori, persino delle sfumature. S’infrange l’isolamento personale e quello del campanile.
Infatti [prendiamo ad esempio il finale di Lc (che appare sconsolato)]: dopo che Gesù ha tentato di condurre i suoi all’Esodo di Betania (la comunità senza finti padroni delle cose di Dio; composta di soli fratelli e sorelle - addirittura coordinata da una donna, Marta) essi ritornano volentieri al culto antico, del Tempio.
Spontaneamente, gli apostoli avrebbero trovato un compromesso con l’istituzione stagnante sulla quale il Signore si era pronunciato con espressioni durissime - e che l’aveva fatto fuori con soddisfazione.
È il motivo per cui il Tempo di Pasqua non termina come forse ci si attenderebbe con l’Ascensione, ma a Pentecoste: la scoperta di un Tesoro e una Vampa vitale da non trattenere, bensì universale.
Ma intanto questa oscillazione fra un dentro e un fuori - uno stare seduti (Lc 24,49: testo greco) e un partire - ci trasmette il giusto ritmo del Cielo.
Cielo che aiuta a rientrare in se stessi ed evitare l’illusione omologante delle mode o di un club qualsiasi - non ci appartengono.
Insomma, in queste solennità pasquali siamo chiamati a scoprire periferie, regni lontani, altri modi di stare in campo... ma forse prima a svelare una radice di mistero, in quei lati nascosti di noi - o celati dall’ombra - che devono emergere per completare la personalità.
Emancipiamo dalla povertà di pensiero dell’era solita (ratificata) attorno: vale anche per il conformismo spirituale, che dall’energia paludosa dell’identificazione rassicurante vuole a tutti i costi balzare nell’esperienza piena della Fede personale.
Anche oggi in un mondo che restringe i giovani in chat e sempre più lontano dalla realtà e dalla natura, vogliamo acuire l’ascolto e tutta la percezione (che sviluppano il carattere, il desiderio di coesistere, la gioia di vivere).
Impariamo ad allargare gli ambiti, ad accogliere l’oggettivo degli altri, ma nella loro-nostra irripetibilità, accentuando i codici del mondo interno: non possiamo giocarci la vita per una missione ipotetica, ma per un’identità forte sì - e che non si sgretola al primo smottamento.
L’anima si orienta verso la sua utopia (non più ristretta) e si lascia fecondare da quell’immaginazione che prima si nutre del reale totale e poi si tuffa nei grandi ideali, persino eroici - o a punta di spillo.
Apprendiamo a dialogare con l’umano concreto e integrale: il prossimo e noi stessi. Così finalmente onorare Dio rispettandoci a tutto tondo; accettando fragilità, insicurezze e timori: interamente nostri.
Ascendere è ritrovare il Cielo in noi e nell’umanità: decollare senz’allontanarsi.
Pasqua, Ascensione. Decollare senz’allontanarsi
Ci sono prove che Vive
Qual è il destino di una vita spesa nella fedeltà a una vocazione profetica?
L’esito terreno di Gesù - il Figlio fedele - sembrerebbe quello dei falliti d’ogni tempo e di qualsiasi cultura, filosofia o religione.
Allora vale la pena essere se stessi?
Non sarebbe più costruttivo regolarsi sulla base di convenienze personali e opportunismi di gruppo?
La Pasqua celebra una gioia: è la festa di coloro che si rendono conto che le sconfitte non restano lati oscuri. Nascondono Gemme sproporzionate.
Del nostro passaggio rimane una fioritura piena. E non è vero che una vita distrutta sia sciupata o finisca male.
Nelle icone orientali la Pasqua è raffigurata come Discesa agli Inferi: vittoria della donna e dell’uomo comuni.
Ancora nelle icone, il Mistero dell’Ascensione è in genere raffigurato con due angeli in bianche vesti che indicano agli Apostoli il nimbo glorioso del Signore, seduto in trono.
Come a dire: contemplate dove è giunta una vita sprecata secondo gli uomini ma realizzata secondo il Padre.
Obbedire alla nostra Chiamata senza compromessi e in modo integrale può sembrare imprudente e temerario. Invece è pieno rispetto di sé, e ci porta alla nostra Patria.
La natura delle nostre fibre animate dall’Amico interiore fa appello non a traguardi sociali da raggiungere, ma a ciò che siamo davvero.
E la nostra identità profonda dispiegata nel cammino di Fede conduce infallibilmente alla Culla dell’essere.
Lasciarsi influenzare e diventare esterni è perdere la guida, rovinando la completezza delle capacità innate.
Malgrado l’apparente fallimento e i rimproveri che l’inedito personale e sociale suscita, ascoltando la nostra Chiamata per Nome e quel Fuoco inestinguibile che ci abita, realizziamo la vita.
Oggi più che mai siamo nell’era delle vetrine sociali, che palesano ogni aspetto della storia e della cronaca anche personali.
Ma il tronco, i rami, i fiori, i germogli e i frutti nascono dalle radici. Esse vivono ben nascoste.
Il nostro Cielo è intrecciato alla nostra terra e alla nostra polvere: sta dentro e in basso, non dietro le nuvole.
Se non c’è tempo per un’accurata percezione e un’intima riflessione, manca il modo di rinascere alla Novità di Dio.
Su tutte le pieghe dell’andare, anche spirituale, diventiamo sempre più sensibili ai commenti e giudizi che giungono in tempo reale.
Diventati membri a pieno titolo della società dell’epidermide, perdiamo la meridiana, spesso la capacità di evolvere e far crescere gli altri.
Non rinvenendo il lato segreto che c’inabita, scoraggiamo.
Perdendo lo sguardo nei meandri del giudizio diffuso e tutto esteriore, si smarrisce la capacità di gestazione del Gesù personale, e non lo si partorisce più.
Al massimo lo si farà assomigliare a una sua paradigmatica parvenza; magari convincendo che sia effettivamente quello, tutto esteriore.
In tal guisa, il Signore diventa un Gesù parere degli altri, dattorno; del gruppo, degli stendardi patronali; o quello della “diretta” [il parere di chi fa audience].
Se valorizziamo l’aspetto dell’anima che comunica con le scorze dei target, la tagliamo o squilibriamo con pensieri dominanti, lasciando che venga plagiata da manipolatori - anche spirituali.
Ma il cuore che perde l’intero non guida più l’anima in ciò che caratterizza la Vocazione e il nostro Seme.
L’intimo pretende di esprimersi. Ovvero procedemmo a vanvera, o a cliché.
Manon siamo un giudizio, un’opinione, una crisi, un ricordo, bensì inventori di strade che attingono a un’acqua sempre sorgiva.
Non a un pozzo, né ad una palude, dove tutto è già accaduto - ma a una Sorgente.
Se l'attenzione non è sullo scenario conformista di ciò che un tempo è stato o attorno accade, trasaliamo per la nuova consapevolezza d’una genesi in atto.
Una ri-nascita della nostra personalità e missione: un prototipo e modalità di noi stessi che stanno misteriosamente fiorendo e hanno valore.
A meno che non ci lasciamo condizionare e soverchiare da interferenze culturali o calcolo di circostanze, avvertiamo che c’è un binario caratterizzante che ci chiama.
Ci si accorge che possiamo stare con noi stessi e crescere senza preclusioni d’inatteso, o codici già comunemente paradigmatici.
Perché Dio non si esprime emanando normative tuttologhe, ma creando rinnovati cieli dentro di noi e già sulla terra.
Insomma, con la Pasqua e Ascensione di Gesù cosa è cambiato?
Apparentemente nulla, perché la gente continua come prima a viaggiare o stare ferma, a comprare e vendere, a lavorare o fare festa, a gioire o piangere...
Eppure, come in un paesaggio caratterizzato da nebbie, d’improvviso sorge il sole e vediamo profili netti, godiamo della brillantezza di colori, persino delle sfumature.
Si acuisce l’ascolto e tutta la percezione.
Impariamo ad accogliere l’oggettivo degli altri e la loro-nostra irripetibilità.
Apprendiamo a dialogare con la realtà e anzitutto con noi stessi; così finalmente ad onorare l’Eterno, rispettandoci in modo integrale.
Il Cielo: decollare senz’allontanarsi. Non siamo soli. E il meglio deve ancora Venire.
All this helps us not to let our guard down before the depths of iniquity, before the mockery of the wicked. In these situations of weariness, the Lord says to us: “Have courage! I have overcome the world!” (Jn 16:33). The word of God gives us strength [Pope Francis]
Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza [Papa Francesco]
The Ascension does not point to Jesus’ absence, but tells us that he is alive in our midst in a new way. He is no longer in a specific place in the world as he was before the Ascension. He is now in the lordship of God, present in every space and time, close to each one of us. In our life we are never alone (Pope Francis)
L’Ascensione non indica l’assenza di Gesù, ma ci dice che Egli è vivo in mezzo a noi in modo nuovo; non è più in un preciso posto del mondo come lo era prima dell’Ascensione; ora è nella signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, vicino ad ognuno di noi. Nella nostra vita non siamo mai soli (Papa Francesco)
The Magnificat is the hymn of praise which rises from humanity redeemed by divine mercy, it rises from all the People of God; at the same time, it is a hymn that denounces the illusion of those who think they are lords of history and masters of their own destiny (Pope Benedict)
Il Magnificat è il canto di lode che sale dall’umanità redenta dalla divina misericordia, sale da tutto il popolo di Dio; in pari tempo è l’inno che denuncia l’illusione di coloro che si credono signori della storia e arbitri del loro destino (Papa Benedetto)
This unknown “thing” is the true “hope” which drives us, and at the same time the fact that it is unknown is the cause of all forms of despair and also of all efforts, whether positive or destructive, directed towards worldly authenticity and human authenticity (Spe Salvi n.12)
Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo (Spe Salvi n.12)
«When the servant of God is troubled, as it happens, by something, he must get up immediately to pray, and persevere before the Supreme Father until he restores to him the joy of his salvation. Because if it remains in sadness, that Babylonian evil will grow and, in the end, will generate in the heart an indelible rust, if it is not removed with tears» (St Francis of Assisi, FS 709)
«Il servo di Dio quando è turbato, come capita, da qualcosa, deve alzarsi subito per pregare, e perseverare davanti al Padre Sommo sino a che gli restituisca la gioia della sua salvezza. Perché se permane nella tristezza, crescerà quel male babilonese e, alla fine, genererà nel cuore una ruggine indelebile, se non verrà tolta con le lacrime» (san Francesco d’Assisi, FF 709)
Wherever people want to set themselves up as God they cannot but set themselves against each other. Instead, wherever they place themselves in the Lord’s truth they are open to the action of his Spirit who sustains and unites them (Pope Benedict)
Dove gli uomini vogliono farsi Dio, possono solo mettersi l’uno contro l’altro. Dove invece si pongono nella verità del Signore, si aprono all’azione del suo Spirito che li sostiene e li unisce (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
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