Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
1. Al termine di questa solenne Celebrazione in onore di Tutti i Santi, il nostro sguardo si volge verso l'alto. La festa odierna ci ricorda che noi siamo fatti per il Cielo, dove la Madonna è già giunta e ci attende.
La vita cristiana è camminare quaggiù col cuore rivolto verso l'Alto, verso la Casa del Padre celeste. Così hanno camminato i santi e così, in primo luogo, ha fatto la Vergine Madre del Signore. Il Giubileo ci richiama a questa dimensione essenziale della santità: la condizione di pellegrini, che cercano ogni giorno il Regno di Dio confidando nella divina Provvidenza. Questa è l'autentica speranza cristiana, che non ha nulla a che vedere col fatalismo né con la fuga dalla storia. Al contrario, è stimolo all'impegno concreto, guardando a Cristo, Dio fatto uomo, che ci apre la via del Cielo.
2. In questa prospettiva ci disponiamo a celebrare domani la Commemorazione di tutti i fedeli defunti. Ci rechiamo spiritualmente presso le tombe dei nostri cari, che ci hanno preceduto con il segno della fede e che attendono il sostegno della nostra preghiera. Assicuro un ricordo per quanti, nel corso di quest'anno, hanno perso la vita; specialmente penso alle vittime dell'umana violenza: possa ciascuno trovare nel seno di Dio la sospirata pace.
3. In questa luce, Maria ci appare ancor più quale Regina dei Santi e Madre della nostra speranza. E' a Lei che ci rivolgiamo, perché ci guidi sulla via della santità e ci assista in ogni momento della vita, adesso e nell'ora della nostra morte.
[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 1 novembre 2000]
La solennità di Tutti i Santi è la “nostra” festa: non perché noi siamo bravi, ma perché la santità di Dio ha toccato la nostra vita. I santi non sono modellini perfetti, ma persone attraversate da Dio. Possiamo paragonarli alle vetrate delle chiese, che fanno entrare la luce in diverse tonalità di colore. I santi sono nostri fratelli e sorelle che hanno accolto la luce di Dio nel loro cuore e l’hanno trasmessa al mondo, ciascuno secondo la propria “tonalità”. Ma tutti sono stati trasparenti, hanno lottato per togliere le macchie e le oscurità del peccato, così da far passare la luce gentile di Dio. Questo è lo scopo della vita: far passare la luce di Dio, e anche lo scopo della nostra vita.
Infatti, oggi nel Vangelo Gesù si rivolge ai suoi, a tutti noi, dicendoci «Beati» (Mt 5,3). È la parola con cui inizia la sua predicazione, che è “vangelo”, buona notizia perché è la strada della felicità. Chi sta con Gesù è beato, è felice. La felicità non sta nell’avere qualcosa o nel diventare qualcuno, no, la felicità vera è stare col Signore e vivere per amore. Voi credete questo? La felicità vera non sta nell’avere qualcosa o nel diventare qualcuno; la felicità vera è stare con il Signore e vivere per amore. Credete questo? Dobbiamo andare avanti, per credere a questo. Allora, gli ingredienti per la vita felice si chiamano beatitudini: sono beati i semplici, gli umili che fanno posto a Dio, che sanno piangere per gli altri e per i propri sbagli, restano miti, lottano per la giustizia, sono misericordiosi verso tutti, custodiscono la purezza del cuore, operano sempre per la pace e rimangono nella gioia, non odiano e, anche quando soffrono, rispondono al male con il bene.
Ecco le beatitudini. Non richiedono gesti eclatanti, non sono per superuomini, ma per chi vive le prove e le fatiche di ogni giorno, per noi. Così sono i santi: respirano come tutti l’aria inquinata dal male che c’è nel mondo, ma nel cammino non perdono mai di vista il tracciato di Gesù, quello indicato nelle beatitudini, che sono come la mappa della vita cristiana. Oggi è la festa di quelli che hanno raggiunto la meta indicata da questa mappa: non solo i santi del calendario, ma tanti fratelli e sorelle “della porta accanto”, che magari abbiamo incontrato e conosciuto. Oggi è una festa di famiglia, di tante persone semplici e nascoste che in realtà aiutano Dio a mandare avanti il mondo. E ce ne sono tanti, oggi! Ce ne sono tanti. Grazie a questi fratelli e sorelle sconosciuti che aiutano Dio a portare avanti il mondo, che vivono tra di noi; salutiamoli tutti con un bell’applauso!
Anzitutto – dice la prima beatitudine – sono «poveri in spirito» (Mt 5,3). Che cosa significa? Che non vivono per il successo, il potere e il denaro; sanno che chi accumula tesori per sé non arricchisce davanti a Dio (cfr Lc 12,21). Credono invece che il Signore è il tesoro della vita, e l’amore al prossimo l’unica vera fonte di guadagno. A volte siamo scontenti per qualcosa che ci manca o preoccupati se non siamo considerati come vorremmo; ricordiamoci che non sta qui la nostra beatitudine, ma nel Signore e nell’amore: solo con Lui, solo amando si vive da beati.
Vorrei infine citare un’altra beatitudine, che non si trova nel Vangelo, ma alla fine della Bibbia e parla del termine della vita: «Beati i morti che muoiono nel Signore» (Ap 14,13). Domani saremo chiamati ad accompagnare con la preghiera i nostri defunti, perché godano per sempre del Signore. Ricordiamo con gratitudine i nostri cari e preghiamo per loro.
La Madre di Dio, Regina dei Santi e Porta del Cielo, interceda per il nostro cammino di santità e per i nostri cari che ci hanno preceduto e sono già partiti per la Patria celeste.
[Papa Francesco, Angelus 1 novembre 2017]
Fine degli orpelli: inzeppati - o liberi
(Lc 14,1-6)
La Bibbia presenta sovente la Salvezza sotto l’immagine di un convito al quale Dio stesso partecipa a fianco dell’uomo.
Qui si allude in modo specifico all’assemblea dei convocati a spezzare il Pane [«per mangiare pane»: v.1] - scena ancora dominata da giudaizzanti.
In apparenza, la superficie è tranquilla. Motivo in più perché il Signore (dispettosissimo) getti il sassolino, a rimodularne i lati soporiferi.
La sua schiettezza sbalordisce ancora, e sconcerta ogni quietismo.
Strano che un idropico possa essere entrato in casa di un fariseo - ma significativo, nel senso del richiamo evangelico.
Nella dimora del dirigente [all’antica, o alla moda “approvata” che sia] l’umanità ospite è inzeppata di tritumi vagamente spirituali - non della Fede luminosa e vivente.
Lì ci si muove a fatica.
Nell’assemblea qualcuno non si tiene in piedi; è zeppo dentro... di cose da eliminare prima possibile - o non ce la farà.
Ma è solo la domanda di Gesù che fa subito pulizia degli inutili eccessi.
Dentro il pozzo del v.5 è come se fosse caduto non un asino o un bue, ma un fratello o un figlio, e noi stessi.
Insomma: le scuse del legalismo o delle maniere conformi neppure sfiorano il Padre, mentre i leaders presenti non sanno che parola proferire.
Neanche concepiscono vagamente la Volontà di Dio come Amore che interviene prontamente, che si coinvolge per le vulnerabilità o eccentricità.
Invece il Figlio - e chiunque lo renda Presente - afferra per mano l'umanità malferma, nella sua Unicità. E ne guarisce il limite.
Ma Egli si attiva non per appiccicarsela dietro [come avrebbero fatto i direttori del tempo] bensì per renderla più leggera, in grado di respirare e non solo di comprimersi.
Una pennellata spietata questa di Lc, che rimarca la differenza tra “insegnamento” vuoto - sebbene in forma religiosa - e ‘azione di Fede’ legata alla vita concreta (v.3).
Eh sì: proprio agli “esperti” mancava «il gusto di riconoscere l’altro [...] di essere se stesso e di essere diverso» (FT, 217-218).
Insomma, anche l’originalità o il dolore arrivano a noi per generare occhi giusti; per insegnarci a vivere. Per ricordare che siamo chiamati a nascere ancora, ben oltre l’idea di ‘perfezione’.
In tal guisa, non possiamo contare solo sul contesto, sull’approvazione esterna; realtà spesso prive di passione umanizzante.
C’è un ‘fuoco’ che vive dentro di noi, una Chiamata per Nome che sa smaltire le zavorre inutili, altrui. Esse ci calpestano e inquinano; dunque vanno poste sullo sfondo e sorvolate.
Il nostro viaggio nello Spirito - anche nel luogo di culto ufficiale - è un itinerario inedito, verso la realizzazione personale.
Non possiamo allontanarci dalla Meta che ci appartiene.
In tal guisa, ogni dolore durerà poco, e sarà d’insegnamento: lì stiamo semplicemente partorendo l’essenzialità che ci abita.
Balzo pasquale della Libertà.
[Venerdì 30.a sett. T.O. 31 ottobre 2025]
Fine di un ordine sacro: inzeppati - o liberi
(Lc 14,1-6)
La Bibbia presenta sovente la Salvezza sotto l’immagine di un convito al quale Dio stesso partecipa a fianco dell’uomo.
Qui si allude in modo specifico all’assemblea dei convocati a spezzare il Pane [«per mangiare pane»: v.1 testo greco] - scena ancora dominata da tradizionalisti o conformisti giudaizzanti.
In apparenza, la superficie è tranquilla. Motivo in più perché il Signore (dispettosissimo) getti il sassolino, a rimodularne i lati soporiferi.
Dov’Egli si fa presente sul serio - financo nei luoghi deputati al sereno svolgimento dei Sacramenti, nulla resta come prima.
La sua schiettezza sbalordisce ancora, e sconcerta ogni quietismo.
Strano che un idropico possa essere entrato in casa di un fariseo - ma significativo, nel senso del richiamo evangelico.
Nella dimora del dirigente [all’antica, o alla moda “approvata” che sia], l’umanità ospite è inzeppata di tritumi vagamente spirituali - non della Fede luminosa e vivente.
Lì ci si muove a fatica.
Nell’assemblea (guarda caso) qualcuno non si tiene in piedi; è zeppo dentro... di cose da eliminare prima possibile - o non ce la farà.
Ma è solo la domanda di Gesù che fa subito pulizia degli inutili eccessi inoculati goccia a goccia dalle false guide, nei malcapitati.
Dentro il pozzo del v.5 è come se fosse caduto non un asino o un bue, ma un fratello o un figlio, e noi stessi.
Insomma: le scuse del legalismo religioso [antico o à la page] e delle buone maniere neppure sfiorano il Padre.
I leaders presenti non sanno che parola proferire: in realtà, non hanno nulla da dire (a chiunque).
Neanche concepiscono vagamente la Volontà di Dio come Amore che interviene prontamente, che si coinvolge per le nostre vulnerabilità o eccentricità.
Direbbe di loro Papa Francesco, nella sua terza enciclica: «abituati a girare lo sguardo, passare accanto, ignorare le situazioni» (Fratelli Tutti, n.64).
Invece il Figlio - e chiunque lo renda Presente - afferra per mano l'umanità malferma, nella sua Unicità. E ne guarisce il limite.
Ma Egli si attiva non per appiccicarsela dietro [come avrebbero fatto i direttori del tempo] bensì per renderla più leggera, in grado di respirare e non solo di comprimersi.
Umanità liberata, finalmente autonoma - capace di tracciare un cammino sulle proprie gambe; anche se poi risultasse “distante”.
Una pennellata spietata, questa di Lc, che rimarca la differenza tra “insegnamento” vuoto - sebbene in forma religiosa - e ‘azione di Fede’ legata alla vita concreta (v.3).
Nella scelta fra bene reale della persona e nomea del gruppo [la cricca dominante] Gesù non ha dubbio alcuno.
Invece, per i grandi devoti e direttori, il dare a credere, o il prestigio dell’istituzione, e la “consuetudine” della dottrina, nonché le grandi idee sofisticate... sono tutta la vita.
Il Maestro ancora oggi non tace, e ridicolizza l’incoerenza personale di alcuni maestri di teologia che fatte salve le apparenze, nel privato si sentono esentati da tutto.
E infatti, proprio agli “esperti” talora manca «il gusto di riconoscere l’altro [...] di essere se stesso e di essere diverso» (FT, 217-218).
Teologia sì ma dell’Incarnazione. Il sale della vita non sono le permanenze: meglio eliminare i pesi inutili.
Nelle nostre assemblee ci sono dei credenti ingenui e praticanti, ma poco consapevoli, piuttosto sprovveduti e malguidati.
Potremmo dire: fedeli considerati bicchieri da riempire, devoti destinati al signorsì e non esprimere se stessi: valutati senza personalità spirituale di rilievo.
Essi non sono accolti come Dono, piuttosto trascurati; ammantati di pensieri, pratiche e obiettivi altrui.
Per alcuni responsabili di comunità… fanno solo numero.
Proviamo a parafrasare Giovanni Paolo II (Dives in Misericordia nn.12-13) ma in riferimento, appunto, alla figura dell’idropico.
Ci sono anime - di ogni denominazione cristiana - che temono di restare vittime di oppressione, e si celano.
Sono prive di libertà interiore, della possibilità di esternare il loro carattere vocazionale, di esprimere ciò di cui sono convinti.
Non si sentono di farsi guidare dalla voce della coscienza, che pure intimamente indica la retta via da seguire.
Per timore di ritorsioni o beffe, ovvero mancata consapevolezza, preferiscono un soggiornamento pacifico, in tutti gli ambiti di vita.
Esprimersi in modo spontaneo, naturale e sano potrebbe risultare scomodo - poco in sintonia col programma di domesticazione locale.
Così, mentre i manipolatori tendono a servirsene senza scrupolo, i semplici continuano a collocarsi in posizione subalterna.
Neppure lontanamente immaginano o sono educati a considerarsi depositari di una Perla preziosa irripetibile per l’opera di Salvezza.
Subiscono quotidianamente una sorta di tortura che li ingorga di idee esterne, di osservanze che non corrispondono all’anima e al loro diritto a verità e libertà.
Insomma, come illustra la pericope evangelica, la Chiesa assume il rischio educativo e fa trapelare il senso del ‘Cristo in azione’ solo quando accosta le persone malferme alle fonti della coscienza e della “carne” personale.
Insomma, anche l’originalità o il dolore arrivano a noi per generare occhi giusti; per insegnarci a vivere. Per ricordare che siamo chiamati a nascere ancora, ben oltre l’idea di ‘perfezione’.
In tal guisa, non possiamo contare solo sul contesto, sull’approvazione esterna; realtà spesso prive di passione umanizzante.
C’è un ‘fuoco’ che vive dentro di noi, una Chiamata per Nome che sa smaltire le zavorre inutili, altrui. Esse ci calpestano e inquinano; dunque vanno poste sullo sfondo e sorvolate.
Il nostro viaggio nello Spirito - anche nel luogo di culto ufficiale - è un itinerario inedito, verso la realizzazione personale.
Non possiamo allontanarci dalla Meta che ci appartiene.
In tal guisa, ogni dolore durerà poco, e sarà d’insegnamento: lì stiamo semplicemente partorendo l’essenzialità che ci abita.
Il passaggio dal senso religioso alla vita di Fede reca con sé il balzo pasquale della Libertà.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come descriveresti il tuo passaggio dalla religiosità alla Fede?
Ti sei depurato dagli orpelli inculcati, che affaticavano la tua personalità essenziale?
Ti sei liberato dei pensieri sofisticatissimi che sorvolano la “carne”?
Hai fatto il balzo pasquale della libertà?
La lettura, lo studio e la meditazione della Parola devono poi sfociare in una vita di coerente adesione a Cristo ed ai suoi insegnamenti.
Avverte San Giacomo: "Siate di quelli che mettono in pratica la Parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la Parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla" (1,22-25). Chi ascolta la parola di Dio e ad essa fa costante riferimento poggia la propria esistenza su un saldo fondamento. "Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica – dice Gesù - è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia" (Mt 7,24): non cederà alle intemperie.
Costruire la vita su Cristo, accogliendone con gioia la parola e mettendone in pratica gli insegnamenti: ecco, giovani del terzo millennio, quale dev’essere il vostro programma!
[Papa Benedetto, Messaggio per la XXI GMG, 9 aprile 2006]
11. L'uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire. I mezzi tecnici a disposizione della civiltà odierna celano, infatti, non soltanto la possibilità di un'autodistruzione per via di un conflitto militare, ma anche la possibilità di un soggiogamento «pacifico» degli individui, degli àmbiti di vita, di società intere e di nazioni, che per qualsiasi motivo possono riuscire scomodi per coloro i quali dispongono dei relativi mezzi e sono pronti a servirsene senza scrupolo. Si pensi anche alla tortura, tuttora esistente nel mondo, esercitata sistematicamente dall'autorità come strumento di dominio o di sopraffazione politica, e impunemente praticata dai subalterni. Così dunque, accanto alla coscienza della minaccia biologica, cresce la coscienza di un'altra minaccia che ancor più distrugge ciò che è essenzialmente umano, ciò che è intimamente collegato con la dignità della persona, con il suo diritto alla verità e alla libertà.
13. La Chiesa vive una vita autentica, quando professa e proclama la misericordia - il più stupendo attributo del Creatore e del Redentore - e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore di cui essa è depositaria e dispensatrice.
[Papa Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia]
«Il brano del Vangelo che abbiamo ascoltato è dal capitolo quattordicesimo di Luca» ha spiegato il Papa, facendo notare che «quasi tutto il capitolo, meno un pezzo alla fine, è intorno a un pranzo, è a tavola, e tutte le cose che accadono lì accadono a tavola». Ecco perciò «l’idea del banchetto alla fine del capitolo», nella parabola raccontata da Gesù in particolare nei versetti 15-24 proposti dalla liturgia del giorno.
Riferendosi all’inizio del capitolo, il Pontefice ha fatto presente che «Gesù si recò a pranzo a casa di un capo dei farisei che lo aveva invitato: Gesù accettava sempre». Ma, «appena entrato, vide un ammalato di idropisìa e subito va a guarirlo: Gesù sempre vuole guarirci, a tutti noi». Però, ha ricordato il Papa, «era sabato, c’erano tutti i dottori della legge lì e chiede il permesso: “Si può guarire il sabato?”». E «questi che mai, mai dicevano quello che pensavano — erano ipocriti — hanno taciuto».
Gesù guarì quell’uomo malato.
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 07/11/2018]
XXX Domenica Tempo Ordinario (anno C) [26 Ottobre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Ancora un insegnamento sulla preghiera da Gesù nel vangelo e che insegnamento!
Prima Lettura dal libro del Siracide (35, 15b-17.20-22a)
“Dio non giudica dall’apparenza” (Sir 35) Il libro del Siracide, scritto da Ben Sira verso il 180 a.C. a Gerusalemme, nasce in un tempo di pace e di apertura culturale sotto il dominio greco. Tuttavia, questa apparente serenità nasconde un rischio: il contatto tra cultura ebraica e greca minaccia la purezza della fede, e Ben Sira intende trasmettere l’eredità religiosa d’Israele nella sua integrità. La fede ebraica, infatti, non è una teoria, ma un’esperienza di alleanza con il Dio vivente, scoperto progressivamente attraverso le sue opere. Dio non è un’idea umana, ma una rivelazione sorprendente, perché “Dio è Dio e non un uomo” (Os 11,9). Il testo centrale afferma che Dio non giudica secondo le apparenze: mentre gli uomini guardano l’esterno, Dio guarda il cuore. Egli ascolta la preghiera del povero, dell’oppresso, dell’orfano e della vedova, e – in un’immagine meravigliosa – “le lacrime della vedova scorrono sulle guance di Dio”, segno della sua misericordia che vibra di compassione. Ben Sira insegna che la vera preghiera nasce dalla precarietà: quando l’uomo si scopre povero e senza appoggi, il suo cuore si apre davvero a Dio. La precarietà e la preghiera sono della stessa famiglia: solo chi riconosce la propria debolezza prega con sincerità. Infine, il saggio ammonisce che non sono i sacrifici esteriori a piacere a Dio, ma un cuore puro e disposto al bene: Ciò che piace al Signore è anzitutto che ci si tenga lontano dal male. Il Signore è un giudice giusto, che non fa preferenza di persone, ma guarda alla verità del cuore. In sintesi, Ben Sira ci ricorda che Dio non giudica dall’apparenza ma dal cuore, che la preghiera autentica nasce dalla povertà, e che la misericordia divina si manifesta nella sua vicinanza compassionevole ai piccoli e agli umili.
Salmo Responsoriale (33/34, 2-3, 16.18, 19.23)
Ecco un altro salmo alfabetico, cioè ogni versetto segue l’ordine delle lettere dell’alfabeto ebraico. Questo indica che la vera sapienza consiste nel confidare in Dio in tutto, dalla A alla Z. Il testo fa eco alla prima lettura del Siracide, che incoraggiava gli ebrei del II secolo a mantenere la purezza della fede di fronte alle seduzioni della cultura greca.Il tema centrale è la scoperta di un Dio vicino all’uomo, soprattutto a chi soffre: “Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato.” È una delle rivelazioni più grandi della Bibbia: Dio non è un essere distante o geloso, ma un Padre che ama e partecipa al dolore dell’uomo. Ben Sira diceva poeticamente che “le nostre lacrime scorrono sulle guance di Dio”: immagine della sua misericordia tenera e compassionevole. Questa rivelazione si radica nel cammino di Israele. Al tempo di Mosè, i popoli pagani immaginavano dèi rivali e invidiosi. La Genesi corregge questa visione, mostrando che il sospetto verso Dio è un veleno, simbolizzato dal serpente. Israele, attraverso i profeti, ha compreso progressivamente che Dio è un Padre che accompagna, libera e consola, il “Dio-con-noi” (Emmanuele). Il roveto ardente (Es 3) è il fondamento di questa fede: “Ho visto la miseria del mio popolo, ho udito il suo grido, conosco le sue sofferenze” Qui Dio si rivela come Colui che vede, ascolta e agisce. Egli non resta spettatore, ma suscita in Mosè e nei suoi figli la forza di liberare, trasformando la sofferenza in speranza e impegno. Il salmo riflette questa esperienza: il popolo, dopo aver conosciuto la prova, proclama la lode: “Benedirò il Signore in ogni tempo” perché ha fatto esperienza di un Dio che ascolta, libera, guarda, salva e redime. Il nome “YHWH” il “Signore” indica proprio la presenza costante di Dio accanto al suo popolo. Infine, il testo insegna che nella prova non solo è lecito, ma necessario gridare a Dio: Egli è attento al nostro grido e risponde, non sempre eliminando la sofferenza, ma rendendosi presente, risvegliando la fiducia, e donando la forza per affrontare il male. In sintesi, il salmo e la riflessione che lo accompagna ci consegnano tre certezze: Dio è vicino a chi soffre e ascolta il grido dei poveri.La sua presenza non toglie il dolore, ma lo illumina e lo trasforma in speranza. La vera fede nasce dalla fiducia in questo Dio che vede, ascolta, libera e accompagna l’uomo in ogni tempo.
Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (4, 6-8.16-18)
“Il buon combattimento” (2Tm 4,6-18). Il testo presenta l’ultimo testamento spirituale di san Paolo, scritto mentre si trova in prigione a Roma, consapevole che presto sarà giustiziato. Le lettere a Timoteo, anche se forse composte o completate da un discepolo, contengono qui le sue parole autentiche di addio, intrise di fede e di serenità. Paolo descrive la sua imminente morte con il verbo greco analuein, che significa “sciogliere le funi”, “levare l’ancora”, “smontare la tenda”: immagini che evocano la partenza per un nuovo viaggio, quello verso l’eternità. Guardandosi indietro, l’apostolo fa il bilancio della sua vita usando la metafora sportiva della corsa e del combattimento: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.” Come un atleta che non si arrende, Paolo è arrivato al traguardo e sa che riceverà la “corona di giustizia”, la ricompensa promessa a tutti i fedeli. Non si vanta di sé, perché questa corona non è un privilegio personale, ma un dono offerto a tutti coloro che hanno desiderato con amore la manifestazione di Cristo. Il “giudice giusto”, Dio, non guarda le apparenze ma il cuore — come insegnava il Siracide — e donerà la gloria non solo a Paolo, ma a tutti coloro che vivono nella speranza dell’avvento del Signore. La vita dell’apostolo è stata una corsa costante verso la manifestazione gloriosa di Cristo, orizzonte della sua fede e del suo servizio. Egli riconosce che la forza per perseverare non viene da lui, ma da Dio stesso: “Il Signore mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del vangelo e tutte le genti l’ascoltassero”. Questa forza divina ha sostenuto la sua missione, rendendolo capace di annunciare Cristo fino alla fine. Paolo spiega che la vita cristiana non è una competizione, ma una corsa condivisa, in cui ciascuno è chiamato a correre al proprio ritmo, con lo stesso desiderio ardente della venuta di Cristo. Nella lettera a Tito aveva definito i cristiani come coloro che “attendono la beata speranza e la manifestazione del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” — parole che la liturgia ripete ogni giorno nella Messa. Nel momento della prova, Paolo confessa anche la solitudine dell’apostolo: La prima volta che ho presentato la mia difesa, nessuno mi ha sostenuto; tutti mi hanno abbandonato. Che ciò non sia loro imputato(v.16). Come Gesù sulla croce e Stefano al momento della lapidazione, egli perdona e trasforma l’abbandono in un’esperienza di intima comunione con il Signore, che diventa la sua unica forza e consolazione. Paolo è il povero di cui parla Ben Sira, quello che Dio ascolta e consola, colui le cui lacrime scorrono sulle guance di Dio. Le sue parole finali rivelano la speranza che supera la morte: “Così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, salverà nel suo regno” (v 17-18). Non parla della liberazione fisica – sa che la morte è imminente – ma della liberazione spirituale, dal pericolo più grande: perdere la fede, smettere di combattere. Il Signore lo ha custodito nella fedeltà e gli ha donato la perseveranza fino alla fine. Per Paolo, la morte non è una sconfitta, ma una traversata verso la gloria. È la nascita alla vera vita, l’ingresso nel Regno dove canterà per sempre: “A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.”
In sintesi: Il testo ci presenta Paolo come modello del credente fedele fino alla fine. Vive la morte come partenza verso Dio, non come fine. Guarda alla vita come a una corsa sostenuta dalla grazia. Riconosce che la forza e la perseveranza vengono dal Signore. Comprende che la ricompensa è promessa a tutti coloro che desiderano l’avvento di Cristo. Perdona chi lo abbandona e trova la presenza di Dio nella solitudine e nella debolezza. Vede la morte come passaggio nella gloria del Regno. La “buona battaglia” di Paolo diventa così la lotta di ogni cristiano: rimanere fedele, nella prova, fino a correre l’ultimo tratto con lo sguardo fisso su Cristo, fonte di forza, di pace e di speranza.
*Dal Vangelo secondo Luca (18, 9-14)
Una piccola osservazione preliminare prima di entrare nel testo: Luca ci dice chiaramente che si tratta di una parabola… dunque non dobbiamo immaginare che tutti i farisei o tutti i pubblicani del tempo di Gesù fossero come quelli qui descritti. Nessun fariseo, nessun pubblicano corrispondeva perfettamente a questo ritratto: Gesù in realtà ci presenta due atteggiamenti interiori, molto tipici e semplificati, per far risaltare la morale della storia. Egli vuole farci riflettere sulla nostra stessa attitudine, perché probabilmente ci riconosceremo ora nell’uno, ora nell’altro, secondo i giorni. Passiamo alla parabola: la scorsa domenica Luca ci aveva già proposto un insegnamento sulla preghiera; la parabola della vedova e del giudice ingiusto ci insegnava a pregare senza scoraggiarci mai. Oggi, invece, è un pubblicano a essere proposto come esempio. Quale rapporto – si dirà – può esserci tra una vedova povera e un pubblicano ricco? Non è certo il conto in banca il punto in questione, ma le disposizioni del cuore. La vedova è povera e costretta ad umiliarsi davanti a un giudice che la ignora; il pubblicano, forse benestante, porta però sulle spalle il peso della cattiva reputazione, che è un’altra forma di povertà. I pubblicani erano malvisti, e spesso non senza motivo: vivevano infatti in un periodo di occupazione romana, e lavoravano al servizio dell’occupante. Erano considerati dei “collaboratori”. Inoltre, si occupavano di un tema sensibile in ogni epoca: le tasse. Roma fissava la somma dovuta, e i pubblicani la anticipavano, ricevendo poi pieni poteri per recuperarla dai concittadini… spesso con largo margine di guadagno. Quando Zaccheo prometterà a Gesù di restituire quattro volte tanto a chi aveva frodato, il sospetto è confermato. Perciò, quando il pubblicano nella parabola non osa alzare gli occhi al cielo e si batte il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, forse dice soltanto la pura verità. Essere veri davanti a Dio, riconoscere la propria fragilità: ecco la vera preghiera. È questa sincerità che lo rende “giusto” al ritorno a casa, dice Gesù. I farisei, al contrario, godevano di ottima reputazione: la loro fedeltà scrupolosa alla Legge, il digiuno due volte a settimana (più di quanto la Legge richiedesse!), le elemosine regolari, tutto esprimeva il loro desiderio di piacere a Dio. E tutto ciò che il fariseo dice nella sua preghiera è vero: non inventa nulla. Ma, in realtà, non prega. Si contempla. Si guarda con compiacenza: non ha bisogno di nulla, non chiede nulla. Fa il bilancio dei suoi meriti — e ne ha molti! — ma Dio non ragiona in termini di merito: il suo amore è gratuito, e tutto ciò che chiede è che ci fidiamo di Lui. Immaginiamo un giornalista all’uscita del Tempio che intervista i due uomini: Signor pubblicano, cosa si aspettava da Dio entrando nel Tempio? Sì, mi aspettavo qualcosa. E l’ha ricevuto? Sì, e anche di più. E lei, signor fariseo? No, non ho ricevuto nulla… Un attimo di silenzio, poi aggiunge: Ma non mi aspettavo nulla, del resto. La frase conclusiva della parabola riassume tutto: “Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato.” Gesù non vuole presentare Dio come un contabile morale, che distribuisce premi e castighi. Egli constata una verità profonda: chi si esalta, cioè chi si crede più grande di ciò che è, come il fariseo, chiude il cuore e guarda gli altri dall’alto in basso. Ma chi si crede superiore perde la ricchezza degli altri e si isola da Dio, che non forza mai la porta del cuore. Si resta così com’eravamo, con la nostra “giustizia” umana, così diversa da quella divina. Al contrario, chi si umilia, chi si riconosce piccolo e povero, vede negli altri una superiorità, e può attingere alla loro ricchezza. Come dice san Paolo: “Considerate gli altri superiori a voi stessi.” E ciò è vero: ogni persona che incontriamo ha qualcosa che noi non abbiamo. Questo sguardo apre il cuore e permette a Dio di riempirci del suo dono. Non si tratta di complesso d’inferiorità, ma di verità del cuore. È proprio quando riconosciamo di non essere “brillanti” che può cominciare la grande avventura con Dio. In fondo, questa parabola è una magnifica illustrazione della prima beatitudine: “Beati i poveri di cuore, perché di essi è il Regno dei cieli.”
+ Giovanni D’Ercole
Fine di un ordine “sacro”
(Lc 13,31-35)
Il contesto in cui Gesù vive è minaccioso: il potere [anche delle corti di periferia dell’Impero] era assoluto e non rendeva conto a nessuno della gestione spicciola.
Ma l’edificazione del Regno di Dio non dipende da alcuna autorizzazione di governanti rapaci, sul territorio delle province.
Chi vuole adempiere la propria missione non può accontentare le «volpi» che usurpano il potere.
Si tratta di piccoli e dannosi parassiti di situazione, ma svelti - pur non essendo grandi fiere roboanti come nella corte romana e senatoriale.
Col suo atteggiamento scaltro, il re Erode (astuto collaborazionista) era riuscito ad assicurarsi il dominio per diversi decenni, e una vita senza scossoni.
Ogni villaggio della Palestina era presidiato da funzionari e delatori del sovrano, nonché praticanti e subordinati della religione popolare ufficiale [anche farisei, che appunto Gesù rimanda al mittente: v.32].
Antipa riusciva sempre a galleggiare sulle situazioni e starsene in pace.
Ma dopo essersi illuso di aver sistemato il Battista e con lui la sua scuola, eccolo di nuovo allarmato per il sorgere d’un pericolo maggiore.
Il giovane Rabbi diffondeva fiducia profonda non nei forti, bensì nei malfermi. In tal guisa, operava in profondità nelle coscienze, e sembrava potesse surclassare persino i Profeti.
Se dal centro del potere sul territorio erano precipitosamente sopraggiunti gli ispettori (v.31), Gesù doveva averla fatta proprio grossa. Così dimostrando totale libertà da condizionamenti.
Pertanto il successo del suo pensiero avrebbe potuto suscitare disordini nell’assetto del sistema.
Ma i messi di Dio non fuggono dal rischio. Non lo fanno per dovere, ma per fedeltà a se stessi, e per il fatto che sono attratti da una Visione che appartiene a tutti: riescono a cogliere e presentire che i dolori del parto genereranno nuove Nascite.
Insomma, Gesù e i suoi intimi svolgono un’esistenza segnata da una sorta di attrazione della croce - per Amore che va sino in fondo e non disdegna i confronti.
Gerusalemme era centro del popolo dei figli di Dio, “eletti” [solo] per dispiegare il volto del Padre.
Vocazione della città santa era non quella di consegnarsi a una volpe (v.32) bensì farsi chioccia [v.34: propriamente, «gallina»] che non chiude ma allarga le ali per i suoi piccoli, radunando tutti gli innocenti.
Certo, il loro sentimento per le sorti di una patria che si lascia andare alle vanità, all’ideologia di potere e al suo “vantaggio”, intraprendendo il binario dell’autodistruzione, fa piangere di dolore.
Tuttavia - pur defenestrato dalla sua Casa nella città santa, nonché dal cuore di chi pretende solo quietismi - in Cristo il Popolo autentico di amici si riproporrà (v.35) anche sulla via dell’insuccesso.
Non colonizzando le fisionomie, bensì in modo semplice, ma non unilaterale: inclusivo. Dilatando l’orizzonte e distaccando dagli orpelli.
Deviandoci dall’astuzia di Erode e di tutte le «volpi» (v.32).
[Giovedì 30.a sett. T.O. 30 ottobre 2025]
The Church invites believers to regard the mystery of death not as the "last word" of human destiny but rather as a passage to eternal life (Pope John Paul II)
La Chiesa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna (Papa Giovanni Paolo II)
The saints: they are our precursors, they are our brothers, they are our friends, they are our examples, they are our lawyers. Let us honour them, let us invoke them and try to imitate them a little (Pope Paul VI)
I santi: sono i precursori nostri, sono i fratelli, sono gli amici, sono gli esempi, sono gli avvocati nostri. Onoriamoli, invochiamoli e cerchiamo di imitarli un po’ (Papa Paolo VI)
Man rightly fears falling victim to an oppression that will deprive him of his interior freedom, of the possibility of expressing the truth of which he is convinced, of the faith that he professes, of the ability to obey the voice of conscience that tells him the right path to follow [Dives in Misericordia, n.11]
L'uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire [Dives in Misericordia, n.11]
We find ourselves, so to speak, roped to Jesus Christ together with him on the ascent towards God's heights (Pope Benedict)
Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio (Papa Benedetto)
Church is a «sign». That is, those who looks at it with a clear eye, those who observes it, those who studies it realise that it represents a fact, a singular phenomenon; they see that it has a «meaning» (Pope Paul VI)
La Chiesa è un «segno». Cioè chi la guarda con occhio limpido, chi la osserva, chi la studia si accorge ch’essa rappresenta un fatto, un fenomeno singolare; vede ch’essa ha un «significato» (Papa Paolo VI)
Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]
Li consideriamo insieme, non solo perché nelle liste dei Dodici sono sempre riportati l'uno accanto all'altro (cfr Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13), ma anche perché le notizie che li riguardano non sono molte, a parte il fatto che il Canone neotestamentario conserva una lettera attribuita a Giuda Taddeo [Papa Benedetto]
Bernard of Clairvaux coined the marvellous expression: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis - God cannot suffer, but he can suffer with (Spe Salvi, n.39)
Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire (Spe Salvi, n.39)
Pride compromises every good deed, empties prayer, creates distance from God and from others. If God prefers humility it is not to dishearten us: rather, humility is the necessary condition to be raised (Pope Francis)
La superbia compromette ogni azione buona, svuota la preghiera, allontana da Dio e dagli altri. Se Dio predilige l’umiltà non è per avvilirci: l’umiltà è piuttosto condizione necessaria per essere rialzati (Papa Francesco)
A “year” of grace: the period of Christ’s ministry, the time of the Church before his glorious return, an interval of our life (Pope Francis)
don Giuseppe Nespeca
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