Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Zaccheo: Sorprendersi di sé e rimettere i conti a posto
(Lc 19,1-10)
In che senso bisogna “migliorare” - e cosa devo fare? Oppure siamo segnati per sempre?
Come incontrare Cristo autenticamente? Da cosa scaturisce un percorso da salvati e la sua incomparabile gioia che si riflette nelle opere?
Come posso cambiare vita e dare un colpo d’ali? Più volte ho tentato e non riesco: la felicità è un’illusione?
E... come relazionarsi con gli esclusivisti del sacro e della disciplina [o delle idee in voga]?
Davvero il Volto del Padre ha quei tratti graffianti, spietati, forensi o unilaterali ch’essi proclamano?
La soluzione di Lc è quella di non avere a che fare coi moralismi o l’opinione corrente, perché la testa piena di vento e le manfrine ci risucchierebbero.
Bisogna sorvolare, guardando la realtà da un punto di vista inedito e non soggetto a manipolazioni - quindi cogliendo se stessi, in Cristo.
E non farsi plagiare o intralciare.
Per questo motivo l’episodio è situato a Gerico (ultima tappa dell’Esodo) che un tempo aveva fatto da soglia decisiva alla conquista della Terra Promessa.
Gesù attraversa anche la nostra città (Lc 19,1), per mostrare il volto del Padre, che persino nel [considerato] antipatico, furfante e ricco riesce a scorgere un figlio pieno di risorse.
Zaccheo sono io stesso quando mi lascio coinvolgere dalla gara dell’avere, e perciò divento un caso quasi disperato.
Avendo già molto, potrei probabilmente starmene per i fatti miei. Invece dentro sento un malessere.
L’inquietudine, l’insoddisfazione, mettono in moto: sintomi dell’anima riarsa, indizi da non tacitare.
Il traguardo professionale o ministeriale che avevo in testa forse l’ho raggiunto, ma mi accorgo che sebbene non sia un totalmente fallito, dietro la maschera che indosso resto un angosciato: mi rendo conto di aver smarrito l’obiettivo.
Il mio cuore voleva ben altro, per questo non colgo sintonie radicali con la mia essenza profonda, con l’Oro del mio dna.
Allora devo rimettermi in campo, perché qualcosa nel mio Centro non va - malgrado l’eventuale ruolo conquistato, o gioie parziali.
Non mi sento riuscito, non posso tirare avanti così. Devo smuovermi. Come iniziare?
Il Vangelo ci dice: da una rinnovata Percezione. Bisogna affinare lo sguardo!
Zaccheo vuole «vedere Gesù, chi è» [Lc 19,3 testo greco]: desidera ardentemente capire se Dio è sensibile alle sue ansie.
Benché abiti in ambiente formalmente devoto, la folla attorno non gli consente di avere un minimo rapporto franco e diretto.
La massa dei seguaci consolidati non fa che accentuare lacci e affanno, anche perché nessuno gli avrebbe consentito di salire su una scala o sul tetto della propria abitazione (in quel territorio, tutte senza falde).
Ospitando un pubblico peccatore, si credeva che la stessa abitazione divenisse impura: non poteva nemmeno sfiorarla, né calcare i pioli di una scala esterna; figuriamoci andare in terrazza.
In colui che viene socialmente additato, il problema si accentua, e con esso la convinzione che non ci sia nulla da fare, ormai.
La gente non di rado intralcia la crescita e l’esistenza altrui con fissazioni puriste o ideologiche.
Giudizi gretti che rivelano l’incapacità di accogliere, di ascoltare, comprendere, avanzare, far crescere, promuovere davvero.
Siccome a causa delle saccenti moltitudini non c’è modo per via diretta, bisogna inventarsi qualcosa - anche a costo del disonore d’una corsa avanti [in ambiente orientale, particolarmente disdicevole: v.4].
«Poiché sulla strada principale tutti hanno lo sguardo cattivo che mi fa pentire di esistere - ma voglio vedere coi miei occhi (e non solo farmelo raccontare) - cerco di vedere senza esser visto».
Il sicomoro è un albero molto frondoso - e pensa Zaccheo:
«Siccome dovrei salire ma non mi danno possibilità di raggiungere nessun ripiano (per timore che li contamini) - e poiché gli sguardi sono così cupi da infastidire e ossessionare, mi nascondo da qualche parte… anche nel fogliame... in modo che nessuno mi noti».
Il turbamento indotto dai giudizi è una barriera invalicabile per un rapporto d’amore con nostro Signore. Come regolarsi?
Semplicemente, non bisogna “regolarsi”.
Malgrado la gazzarra attorno, il Maestro vede proprio il piccolo, il disprezzato e mortificato.
Se il mondo severo lo notasse, noterebbe solo una macchia, guarderebbe senza tante sottigliezze
Lo sguardo di Gesù è differente. Non ci mortifica, né fa disperare.
Viene attratto proprio da chi ha persino imbarazzo di sé e disagio di essere notato.
Non solo: lo chiama per nome, e in aramaico «Zachàr» [ebraico «Zakkài»] significa Giusto, Puro!
Mentre tutti ravvisano l’obbrobrio, il Figlio coglie in ciascun malfermo e curioso una purezza innata e le possibilità di bene.
Anche di chi si nasconde.
Mentre le persone chic ti scansano, Dio ti cerca. Anzi, la mèta del suo passaggio è proprio la tua dimora [Lc 19,4: «doveva»].
Il Disegno su di noi è che nessuno si perda, perciò il Signore scorge sapientemente i doni e le occasioni che si celano anche dietro lati in affanno della nostra personalità.
Sembra trasgressivo?
Ma mentre i discepoli rimangono a bocca aperta di fronte allo spettacolo dei sacerdoti paludati e delle magnificenze del Tempio nella città eterna e santa, Cristo vede il gesto insignificante della vedovella (Mc 12,41-44).
Insomma, quando il Signore si trova insieme a chi nella vita è in difficoltà o ha sbagliato, è sempre in basso, perché servitore; non giudice e padrone.
Così nell’episodio dell’adultera [Gv 8,3-11 testo greco], e allo stesso modo guarda anche l’emarginato: dal basso in alto, non viceversa (Lc 19,5).
Anche le buone guide spirituali fanno lo stesso: attratte da chi soffre a causa d’una vita isolata e deturpata perché sotto condanna.
I ridicoli schematismi - quelli che invitano a innalzare impalcature esterne e scalarle - ci procurano un assurdo dispendio di energie
Lo spreco vano di attenzione, facoltà e impegni va ad incidere non solo sullo stile e i dettagli - persino sulle linee portanti della personalità.
Invece Gesù impone a Zaccheo (a tutti noi) di scendere, affinché egli - continuando a trascurare tutte le opinioni - potesse realizzare il suo destino.
Terra promessa che nell’animo già gli palpitava dentro. Senza prima le rinunce, né sforzo ascetico particolare.
«Percepire e scendere» invece di «farsi guardare e salire». Ecco la “regola” non regola, indispensabile.
Essere fedeli a se stessi, all’Amico innato - invece di lasciarsi condizionare dai “migliori” del club [capirai che straordinario beneficio e redenzione!].
Ciò che non è spazzatura di se stessi, accade spontaneamente; avviene senza artifici, né propositi inculcati.
Tutto, aderendo in modo genuino all’impulso dell’Incontro schietto.
Lasciandosi sorprendere: affacciati dal belvedere del «nuovo occhio».
Punto di svolta che trasmette come interiorizzare una vita in crescita, scandita da genesi evolutive - che preparano la Nuova Nascita.
La trasformazione poi avviene a terra, nella vita pratica - smettendo di farsi dire come avrebbe (avremmo) dovuto essere.
Del resto, un’elaborazione arcaica o una configurazione troppo sofisticata, entrambe condite d’esteriorità perbenista - ci farebbero solo ammalare.
Zaccheo non ha voluto assomigliare a nessuno degli attori intorno.
Quindi si è realizzato sul serio - accorgendosi dei suoi e altrui bisogni, spazzando via le banalità dei giudizi e i piagnistei dei luoghi comuni eticisti.
I «piccoli di statura» possono anche essere delle stanghe: nel Vangelo mikròi (v.3) sono gli incipienti, i caratterizzati da scarse conoscenze ed energie.
Coloro che hanno un briciolo di Fede, e ci provano ad affacciarsi in comunità, ma vengono subito messi in riga o in buca.
E spesso rimangono scandalizzati proprio dagli adultoidi: ossia quanti restano appiccicati alla pratica abitudinaria e impersonale - o i sofisticati à la page.
Però non sono quelli i veri discepoli, bensì massa che offusca.
Guarda caso, è gente che adempie, osserva, obbedisce, e dalla vita sì sterilizzata, ma pettegola, condizionante - e sempre di malumore (Lc 19,7).
Sebbene facciano spesso ressa attorno a Gesù, sono lì solo per abitudine, o per timore che scappi e combini qualche sproposito imprevisto - rallegrante i malfermi e fuori del “giro”.
Come con Zaccheo. I diversi dai primi della classe [loro] sono minimi cui tenersi alla larga, quelli che fanno quasi ribrezzo.
Valutati al pari di vermi striscianti, o non adeguati; pertanto indegni di venire considerati.
Invece sono Appelli alla missione, un Richiamo ad approfondire e stare più attenti.
Nell’atteggiarsi, i promotori del proprio look si comportano come fossero sfingi o intoccabili.
E in tal guisa credono l’Eterno proprio nel modo che fa rimanere perplessi.
Sembrano non avere contrasti, ma guarda caso non vedono l’ora di proiettare sui diversi le proprie voglie inespresse.
Perciò vedono colui che si occulta per vergogna di sé - non per recuperarlo, ma per sotterrarlo bene.
Illudendosi così di annientare i loro stessi volti reconditi, che però - sotto la bella reputazione - covano (e cronicizzano).
Chi è dunque Dio (cf. v.3)?
Colui che riposa col piccolo e microbo - deturpato più dal giudizio esterno che dal suo malcostume.
Dentro, i “santi” e non segnati a vita [i “vorrei ma non posso” - immacolati per una questione di perbenismo di facciata] sono uguali uguali a lui.
Una volta fatta l’esperienza della gratuità che sgretola i pregiudizi [devoti o modernissimi] e le sentenze della buoncostume di paese, Cristo ci mette un attimo a cambiarci e moltiplicare il bene.
Il Maestro ha fretta d’incontrare ogni disorientato; proprio come un innamorato perduto.
Sa che abbiamo bisogno di trovare gioia oggi (vv.5.9).
Quindi non frappone il tempo delle pratiche, delle trafile, o adempimenti che dimostrino conversione artificiosa: un Padre simile non sarebbe amabile.
Non susciterebbe trasformazione, né senso di legame e giustizia.
Dice il Tao Tê Ching (xxvii): «Chi ben lega non usa corde né vincoli, eppur non si può sciogliere».
La religione tradizionale guarda il passato e vuole innalzare l’uomo in astratto, badando a concatenazioni esterne puntigliose.
L’ideologia woke contemporanea vaneggia il futuro edonista, situazionalista, relativo, sradicato e disincarnato; senza spina dorsale, senza pensiero profondo, né bene duraturo.
Gesù mira il presente e l’a-capo. Non il fatto distante.
Egli senza condizioni accentua i «sentimenti di appartenenza a una medesima umanità» (cf. Fratelli Tutti n.30).
L’Altissimo punta nel profondo e in basso: desidera condividere la sua Presenza vivificante con l'anomalo e l’isolato.
Ne ha bisogno «subito», anche se i suoi “amici” [non di rado i più “intimi”] ristagnano attorno offesi (Lc 19,7).
Insomma, la Famiglia autentica del Signore non è fatta di persone diffidenti. Egli sta dentro e in mezzo a situazioni di Libertà.
Non osserva prima chi è già introdotto - e chi è ancora fuori. Così ci ridona statura, gratuitamente, senza condizione alcuna.
Certo, nella testa dei capi della religione antica o astratta un Dio tale non vale nulla: non sa neanche distinguere gli “amici-nostri” e i “meriti-miei”.
Le autorità e i fenomeni lo rifiutano, certo. Ma finalmente hanno capito Chi è (v.3).
Anche Zac-euro è stato curato dall’antica cecità: prima vedeva in Dio un notaio, e nel prossimo solo gente da sfruttare - tanto più perché scontrosa, sgradevole, odiosa, insopportabile.
Tutto sommato, il gabelliere era il peggior nemico di un mondo sommerso dal provincialismo, cui volentieri estorceva denaro.
Il super trasgressore si cela dunque alla vista altrui… perché nella scoperta dei codici che lo abitano, non vuole più farsi plagiare.
Desidera un occhio che veda il Volto di Dio e si guardi dentro, senza più zavorre apparentemente ovvie, ma che non gli corrispondono.
Zaccheo non vuole più guardare come e dove guardano gli altri, anzitutto quelli sicuri in sella; branco di disturbanti - che non recuperano e non consentono di riparare.
Essi non fanno realizzare alcun sogno che collimi dentro, e che possa ancora guidarci.
La persona autentica vuole allora incamminarsi sulla “sua” strada.
Rimettendo in discussione le certezze di tutti, fa scendere in campo la personale essenza recondita, il motivo per cui è nato.
Il proprio destino non vuole le certezze esterne, le vicende comuni, i giudizi e gli accadimenti che non gli appartengono davvero.
La visione intima del Zaccheo in noi non è innestata e identificata; neppure quella che avevamo forse scelto, per diventare straricchi.
Ci bastava distogliere la visuale da quello stesso progetto, come dai propositi della religiosità che si adattava, o troppo alternativa (da non sfiorare la carne).
E allontanarci persino dall’idea scontata della vita, che ci eravamo fatti - dentro la solita «angolazione».
Zaccheo [ciascuno] trova libertà solo nel suo “rifugio”.
Nascondendosi, si defila dall’obbligo di apparire. Fugge dalle passerelle conformi all’ambiente.
Palcoscenici ingannatori - perché interferiscono, e chiudono assai più che lo stare con se stessi e con l’unica Relazione fondante.
Nessun altro poteva occuparsene, a parte un Sé superiore, quello dei labirinti interiori che si percorrono in prima persona, i quali si oppongono ai conformismi.
Essi che accentuano la curiosità e il mai visto prima, anche per noi.
Sembrano allontanarci dalla scansione ordinaria dei soliti obbiettivi intermedi. Ma ci somigliano.
Zaccheo comprende che il primo dei suoi compiti era «vegliare», spalancando la percezione elementare (ma non grossolana).
Stimolando processi intuitivi; non spersonalizzanti, né cerebrali.
Senza neppure cambiare mestiere. Senza mandar via le sue emozioni: veri segnali da notare, che lo guidavano all’autenticità della sua sorte.
Cristo ha qualcosa da dirci solo se lo esploriamo senza la scorza delle precomprensioni omologanti: nulla hanno a che fare con Lui e il nostro carattere, in essenza.
Le cose del Padre vanno ricercate, colte, ospitate e comprese come sono - incontrando i disagi.
Senza neppure lottare con sforzo estremo contro i lati di sé che avrebbero dovuto non appartenerci.
È vero: elementi di discernimento raramente insegnati in modo esplicito: ad es. “come cambiare” nome e destino.
Ma il rapporto logorante con “eletti” tanto gretti facilita paradossalmente. Fa cogliere anche ciò che la nostra stessa ostinazione - unica cosa da disturbare - non ci faceva mettere a fuoco e considerare.
Cose mai sospettate, che non “conoscevamo”, mai viste... In realtà, forze che non utilizziamo.
Mentre lo Sconosciuto avanza (vv.1.4-5) affinché le scopriamo insieme a Lui, e le facciamo emergere.
A nostro favore Egli desidera prendere il timone della rotta decisiva che mai avremmo saputo tracciare. E portarci avanti, rigenerarci ancora.
Saremo posti in contatto con il Fuoco della Chiamata primordiale, che tirerà fuori meraviglie proprio dai lati sconosciuti, in penombra; dagli stati profondi e opposti.
Appello per tutti i figli che non vogliono perdersi in superficie, nel giudizio poco ampio di veterani o anteposti che smarriscono le persone, e tutto il popolo.
Interessante che anche nei racconti dei Chassidim riportati da Buber, persino in occasione dell’Annuncio della Torah si raccomandava la ricerca di una sorta di vuoto nelle idee che facesse posto a un altro Eros.
E in particolare di «non sentire più affatto se stessi [ossia la propria formazione e visione del mondo], non essere più che un orecchio che ascolta ciò che il mondo del Verbo dice in Lui. Non appena si cominciano a sentire le proprie parole, si cessi».
Ciò che non piace e mai avremmo scelto, diventa Voce che senza mortificare interroga, e umanizza.
Facendoci scoprire - attraverso gravidanze ininterrotte - la nostra e altrui dimensione piena.
Privi di cappe, faremo scattare quell’energia antica, futura e intelligente che guida al viaggio imprevedibile.
Alla Mèta della Vita totale. Alla Casa che è davvero nostra. Alla Dimora di una vita da salvati, in pienezza di essere.
Tenda che ancora fa emergere la naturalezza spontanea dei fiori che vengono su, senza sfiancarci con sudori artificiosi.
Curata la vista - sia dei pii che del caduto - proprio quello dell’escluso, il peggiore impuro e (anche religiosamente) trasgressore che ci possa essere, diventa l’unico caso recuperabile.
Gesù sgretola l’dea che costituiva la trama della profonda zavorra sacrale archetipa.
Ora nel rapporto da pari a pari col suo Logos fondante, il peccatore si accorge che non è la “perfezione” incontaminata che dà una patente d’immunità per (poi) avere diritto d’incontrare il Padre.
È il rapporto immediato e gratuito col Risorto che lo purifica, abilitando il cuore a godere già qui una vita esponenziale e feconda.
Nessun uomo deve considerarsi un caso disperato, un estraneo alla beatitudine di un nuovo Cielo sulla terra.
Tutto forse possiamo aspettarci, meno che qualcuno ci dica: dentro sei indefettibile, hai la chiave che spalanca il portone che appare serrato...
Se Zaccheo avesse preteso di “migliorare”, intossicandosi secondo un modello culturale, comportamentale e religioso, si sarebbe arenato, divenendo insignificante.
Tutta la vita precedente è stata invece recuperata e reinvestita, da un’Amicizia immediata; senza prima il cliché della “perfezione”.
La persona cruda ma spontanea non si è lasciata prendere in ostaggio da falsi maestri, che lo avrebbero introdotto nelle loro assurde etichette [i codici-labirinto su come si deve “stare al mondo”].
Anche nel caso di questo strozzino, i disagi non sono stati vinti opponendosi, ma accogliendo.
Nel loro accadere dentro, quei malumori hanno stimolato il riconoscimento di un profilo unico; della propria anima così diversa.
Sarebbe stato deleterio combatterla coi muscoli della volontà, e osservanze asettiche, dottrine cerebrali, mortificazioni, ripetizioni a fotocopia.
Quella delle deviazioni indotte da condizionamenti è una cosmesi velenosa per l’anima e per le opere che siamo chiamati a far sgorgare dalla nostra anima irripetibile.
Le altrui convinzioni guidano l’io inferiore fuori dai binari dell’orientamento che profondamente e unicamente gli appartiene.
L’essenza profonda chiama all’immediatezza, più che all’identità. Alla spontaneità (particolare ma colma) del nostro Germe, il quale matura a tappe e balzi, e farà il nostro destino dissimmetrico.
Condurrà però alla vera Mèta: non è «il problema» - come spesso s’immagina.
È tale Nido che dentro non diverge, poi a proteggerci - nell’alleanza con il sé e nell’esuberanza del nostro fiorire.
Condotti a noi stessi, sentiremo la nostra natura anche relazionale, prima soffocata dalla cappa d’un perbenismo omologante, che zampilla di suo.
Adeguarsi a una mentalità e vita religiosa da logica o chiacchiericcio esterni, spersonalizzante o convenzionale, distanzia dall’autentica purificazione e dai salti di qualità che ci equivalgono sul serio.
Essi sì innescano i codici d’una guarigione che si sviluppa non da stati parossistici, né da pratiche tutte uguali. Ma da un faccia a faccia con il nostro nocciolo costituente, colmo di forze benefiche; energetico e passionale.
Con Gesù il nostro divenire non sarà mai in un rapporto banale con ciò che siamo stati o come dovremmo essere: non una concatenazione formale.
Passeremo attraverso Genesi inattese e meravigliose, che sorvolano qualsiasi organigramma di previsioni e sviluppo lineare.
La differenza tra religiosità e Fede?
È esplicita nella vicenda imprevedibile di Zaccheo, che decide di non stare lì dove lo hanno messo, a ricalcare pedissequamente una disciplina impossibile e che non voleva.
Ha capito che non sarebbe stato in grado di “migliorare”: ha scelto di non farsi infettare tutta la vita.
È prima una inquieta insoddisfazione, poi un coinvolgente tentativo di Visione genuina, quindi un semplice Incontro da uomo a uomo, che ha preparato le sue decisioni.
Anche se non siamo considerati “pronti” [da un esperto e dal suo codice], è con immediatezza e senza troppe lotte o lacerazioni interiori che possiamo raggiungere un altro Territorio.
E far cambiare aria anche agli altri, sorelle e fratelli - partendo semplicemente dalla «percezione senza condizioni» di un nuovo Volto di Dio.
Lo scopriremo affatto ficcanaso e arcigno, né paternalista.
Egli trasmette invece quell’assurda autostima che modifica la nostra sorte, e il destino del mondo.
Dove accolti, sorprenderemo noi stessi. E rimetteremo i conti a posto.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Hai uno sguardo personale su Gesù che passa, o lo prendi in prestito dall’opinione di esperti che lacerano l’anima di accuse?
In quale occasione il Cristo ti ha trasmesso un’assurda autostima, che ha aperto nuovi spazi di vita e rimesso i conti a posto?
Antivedere: nuova Estetica che salverà chiesa e mondo
Bisogno di vederlo. Antivedere: pienezza, non bellezza tra le altre
Il cristiano, colui che vuole essere seguace di Cristo, colui che sente il bisogno di stringersi a Lui mediante i vincoli della sua autenticità e della propria certezza, avrà sempre, come uomo, come uomo specialmente del nostro tempo tanto nutrito dell’immagine visiva, il bisogno istintivo di vederlo, Lui, Gesù il Cristo, com’era nel volto, nell’aspetto, nel portamento, nella persona. L’abbiamo detto altra volta. Ma questo desiderio rimane, e ricorre quando sorgono questioni circa l’interpretazione genuina del suo messaggio, e circa il dovere d’uniformare la nostra condotta al suo insegnamento. Non è, del resto, questa aspirazione sempre presente nei personaggi del Vangelo? Prendiamo Zaccheo, nel racconto di S. Luca: «voleva vedere Gesù, chi fosse»; e, piccolo di statura come era, in mezzo alla folla non vi riusciva; salì allora sopra un albero di sicomoro; e di là vide, anzi fu visto dal Signore che lo chiamò e gli disse di discendere volendo Egli essere in quel giorno ospite suo (Luc. 19, 1 ss.).
Ma la fortuna dei contemporanei di Gesù, che lo videro con i loro occhi (Cfr. 1 Io. 1, 1) non è la nostra. Come non è di tutta l’umanità venuta dopo di Lui. Già S. Ireneo, Vescovo di Lione (alla fine del II secolo) avverte che sono apocrife le immagini corporee che fin d’allora si tentava divulgare di Cristo (Adv. Haereses, 1, 25; PG 7, 685). S. Agostino è categorico: «Noi del tutto ignoriamo» quale fosse il volto corporeo di Gesù, come pure quello della Madonna (De Trinit. 8, 5; PL 42, 952). Dobbiamo formarci la figura partendo da elementi comuni alla natura umana e dai riflessi immaginativi che le notizie da noi possedute su di Lui, leggendo il Vangelo o credendo alla sua parola, provocano nel nostro spirito. Arte e pietà si aiutano in questa non facile elaborazione.
Essa non è vana fantasia; è uno sforzo meritevole, e in certo senso indispensabile, per chiunque voglia avere di Cristo un concetto concreto e fedele, che senza mitico artificio si presenta ideale.
Proviamo noi stessi a chiederci: come ci raffiguriamo Cristo Gesù? Cioè: qual è l’aspetto caratteristico di Lui, che risulta dal Vangelo? Come, a prima vista, si presenta Gesù? Una volta ancora le sue stesse parole ci aiutano: «Io sono mite ed umile di cuore» (Matth. 11, 29). Gesù vuol essere guardato così, veduto così. Se noi lo vedessimo, ci apparirebbe così, anche se la visione, che di Lui ci dà l’Apocalisse, riempie di forma e di luce la sua figura celeste (Apoc. 1, 12 , ss.). Questo aspetto dolce, buono e soprattutto umile si impone come essenziale. Meditando si avverte che esso manifesta ed insieme nasconde un mistero fondamentale relativo a Cristo, quello dell’Incarnazione, quello del Dio umile, mistero che governa tutta la vita e tutta la missione di Cristo: «Il Christus humilis è il centro della cristologia» di S. Agostino (Cfr. POKTALIÉ, D. Th. C. 1, II, 2372); e che impronta tutto l’insegnamento evangelico a nostro riguardo: «Che cosa d’altro insegnò, se non questa umiltà? . . . in questa umiltà noi ci possiamo avvicinare a Dio», dice ancora il dottore d’Ippona (En. in Ps. 31, 18; PL 36, 270). Del resto, S. Paolo non ha un termine, che sa di assoluto, quando ci dice che Cristo si è «annientato»: semetipsum exinanivit? (Phil. 2, 7) Gesù è l’uomo buono per eccellenza; ed è per ciò ch’Egli è disceso al livello infimo anche della scala umana; si è fatto bambino, si è fatto povero, si è fatto paziente, si è fatto vittima, affinché nessuno dei suoi fratelli in umanità potesse sentirlo superiore e lontano; si è messo ai piedi di tutti. Egli è per tutti. Egli è di tutti; anzi di ciascuno di noi, al singolare; lo dice San Paolo: «Egli ha amato me e si è sacrificato per me» (Gal. 2, 20).
Non è da stupire se l’iconografia di Cristo abbia sempre cercato d’interpretare questa mansuetudine, questa estrema bontà. L’intelligenza mistica di Lui è arrivata a contemplarlo nel cuore, e a fare, per noi moderni, sentimentali e psicologi, sempre polarizzati verso la metafisica dell’amore, del culto al Sacro Cuore, il focolare ardente e simbolico della devozione e dell’attività cristiana.
Qui sorge, oggi specialmente, un’obiezione: questa immagine di Cristo, che realizza in se stesso la propria parola, cioè le beatitudini della povertà, della mitezza, della non resistenza (Cfr. Matth. 5, 38, ss.), è il Cristo vero? È il Cristo per noi? Dov’è il Cristo Pantocratore, il Cristo forte, il Re dei re, il Signore dei dominanti? (Cfr. Apoc. 19, 11, ss.) Il Cristo riformatore? («Ego autem dico vobis . . .», Matth. 5) il Cristo polemico, con le sue contestazioni (P. es. Matth. 5, 20) e con i suoi anatemi? (Cfr. Matth. 23) Il Cristo liberatore, il Cristo della violenza? (Cfr. Matth. 11, 12) Oggi non si parla del cristianesimo della violenza e della teologia della rivoluzione? Dopo tanto parlare di pace la tentazione della violenza, come suprema affermazione di libertà e di maturità, come unico mezzo di riforma e di redenzione, è così forte che si parla di teologia della violenza e della rivoluzione; e spesso alle eccitanti teorie i fatti, o almeno le tendenze della riscossa al «disordine costituito», corrispondono. Si cerca allora di avere Cristo per sé, e di giustificare certi atteggiamenti disordinati, demagogici e ribelli, con gli atteggiamenti e con le parole di Lui.
Il discorso è di molti. Noi stessi vi abbiamo altre volte accennato. Un solo consiglio per ora. Dinanzi a questa supposta contraddizione fra la figura del Cristo mite e soave, del Cristo buon Pastore, del Cristo crocifisso per amore e la figura del Cristo virile e severo, sdegnato e pugnace, occorrerà riflettere bene, e vedere come stanno le cose nei documenti originari, i Vangeli, il Nuovo Testamento, la Tradizione autentica e coerente, e nella loro genuina interpretazione. Ci sembra doveroso reclamare a tale riguardo onesta attenzione. Specialmente sulla complessità della figura di Cristo: Egli è certamente al tempo stesso mite e forte, com’è al tempo stesso uomo e Dio; e poi sulla vera reazione, non certo politica, non certo anarchica, che l’energia riformatrice di Cristo immette nel mondo decaduto e corrotto; cioè sulle vere speranze ch’Egli propone all’umanità.
Vedremo allora che la figura di Cristo presenta, sì, senza alterare l’incanto della sua misericordiosa dolcezza, anche un aspetto grave e forte, formidabile, se volete, contro la viltà, le ipocrisie, le ingiustizie, le crudeltà, ma non mai disgiunto da una sovrana irradiazione di amore.
Solo l’amore lo definisce Salvatore. E solo per le vie dell’amore lo potremo avvicinare, imitare, inserire nelle nostre anime e nella sempre drammatica vicenda della storia umana.
Sì, potremo vedere Lui, che ha abitato con noi, e ha condiviso la nostra sorte terrena, per infondere in questo il suo vangelo di salvezza, e per predisporci a questa piena salvezza; lo vedremo «pieno di grazia e di verità» (Io. 1, 14).
Fede ed amore sono gli occhi che ora a noi servono per poterlo in qualche modo vedere; cioè antivedere.
(Papa Paolo VI, Udienza Generale 27 gennaio 1971)
Cominciamo dall’acqua – come appare logico per molti versi. L’acqua è simbolo ambivalente: di vita, ma anche di morte; lo sanno bene le popolazioni colpite da alluvioni e maremoti. Ma l’acqua è anzitutto elemento essenziale per la vita. Venezia è detta la “Città d’acqua”. Anche per voi che vivete a Venezia questa condizione ha un duplice segno, negativo e positivo: comporta molti disagi e, al tempo stesso, un fascino straordinario. L’essere Venezia “città d’acqua” fa pensare ad un celebre sociologo contemporaneo, che ha definito “liquida” la nostra società, e così la cultura europea: una cultura “liquida”, per esprimere la sua “fluidità”, la sua poca stabilità o forse la sua assenza di stabilità, la mutevolezza, l’inconsistenza che a volte sembra caratterizzarla. E qui vorrei inserire la prima proposta: Venezia non come città “liquida” – nel senso appena accennato –, ma come città “della vita e della bellezza”. Certo, è una scelta, ma nella storia bisogna scegliere: l’uomo è libero di interpretare, di dare un senso alla realtà, e proprio in questa libertà consiste la sua grande dignità. Nell’ambito di una città, qualunque essa sia, anche le scelte di carattere amministrativo culturale ed economico dipendono, in fondo, da questo orientamento fondamentale, che possiamo chiamare “politico” nell’accezione più nobile e più alta del termine. Si tratta di scegliere tra una città “liquida”, patria di una cultura che appare sempre più quella del relativo e dell’effimero, e una città che rinnova costantemente la sua bellezza attingendo dalle sorgenti benefiche dell’arte, del sapere, delle relazioni tra gli uomini e tra i popoli.
[Papa Benedetto, Incontro con il mondo della cultura… Venezia 8 maggio 2011]
Gratitudine e gioia sono perciò i sentimenti che caratterizzano questo nostro incontro. Esso si svolge nello spazio sacro, colmo di arte e di memoria, della Basilica di San Marco, dove la fede e la creatività umana hanno dato origine ad una eloquente catechesi per immagini. Il Servo di Dio Albino Luciani, che fu vostro indimenticabile Patriarca, così descrisse la sua prima visita in questa Basilica, da giovane sacerdote: “Mi trovai immerso in un fiume di luce … Finalmente potevo vedere e godere con i miei occhi tutto lo splendore di un mondo di arte e di bellezza unico e irripetibile, il cui fascino ti penetra nel profondo” (Io sono il ragazzo del mio Signore, Venezia-Quarto d’Altino, 1998). Questo tempio è immagine e simbolo della Chiesa di pietre vive, che siete voi, cristiani di Venezia.
“Oggi devo fermarmi a casa tua. In fretta scese e l’accolse” (Lc 19,5-6). Quante volte, durante la Visita pastorale, avete ascoltato e meditato queste parole, rivolte da Gesù a Zaccheo! Esse sono state il motivo conduttore dei vostri incontri comunitari, offrendovi uno stimolo efficace ad accogliere Gesù Risorto, via sicura per trovare pienezza di vita e felicità. Infatti, l’autentica realizzazione dell’uomo e la sua vera gioia non si trovano nel potere, nel successo, nel denaro, ma soltanto in Dio, che Gesù Cristo ci fa conoscere e ci rende vicino. E’ questa l’esperienza di Zaccheo. Egli, secondo la mentalità corrente, ha tutto: potere e denaro. Può dirsi un “uomo arrivato”: ha fatto carriera, ha raggiunto ciò che voleva e potrebbe dire, come il ricco stolto della parabola evangelica, “anima mia hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divertiti” (Lc 12,19). Per questo il suo desiderio di vedere Gesù è sorprendente. Che cosa lo spinge a ricercare l’incontro con Lui? Zaccheo si rende conto che quanto possiede non gli basta, sente il desiderio di andare oltre. Ed ecco che Gesù, il profeta di Nazaret, passa da Gerico, la sua città. Di Lui gli è giunta l’eco di alcune parole inconsuete: beati i poveri, i miti, gli afflitti, gli affamati di giustizia. Parole per lui strane, ma forse proprio per questo affascinanti e nuove. Vuole vedere questo Gesù. Ma Zaccheo, seppure ricco e potente, è piccolo di statura. Perciò corre avanti, sale su un albero, un sicomoro. Non gli importa di esporsi al ridicolo: ha trovato un modo per rendere possibile l’incontro. E Gesù arriva, alza lo sguardo verso di lui, lo chiama per nome: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5). Nulla è impossibile a Dio! Da questo incontro scaturisce per Zaccheo una vita nuova: accoglie Gesù con gioia, scoprendo finalmente la realtà che può riempire veramente e pienamente la sua vita. Ha toccato con mano la salvezza, ormai non è più quello di prima e come segno di conversione si impegna a donare metà dei suoi beni ai poveri e a restituire il quadruplo a chi aveva derubato. Ha trovato il vero tesoro, perché il Tesoro, che è Gesù, ha trovato lui!
Amata Chiesa che sei in Venezia! Imita l’esempio di Zaccheo e vai oltre! Supera e aiuta l’uomo di oggi a superare gli ostacoli dell’individualismo, del relativismo; non lasciarti mai trarre verso il basso dalle mancanze che possono segnare le comunità cristiane. Sforzati di vedere da vicino la persona di Cristo, che ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Come successore dell’Apostolo Pietro, visitando in questi giorni la vostra terra, ripeto a ciascuno di voi: non abbiate paura di andare controcorrente per incontrare Gesù, di puntare verso l’alto per incrociare il suo sguardo. Nel “logo” di questa mia Visita pastorale è rappresentata la scena di Marco che consegna il Vangelo a Pietro, tratta da un mosaico di questa Basilica. Oggi, simbolicamente, vengo a riconsegnare il Vangelo a voi, figli spirituali di san Marco, per confermarvi nella fede e incoraggiarvi dinanzi alle sfide del momento presente. Avanzate fiduciosi nel sentiero della nuova evangelizzazione, nel servizio amorevole dei poveri e nella testimonianza coraggiosa all’interno delle varie realtà sociali. Siate consapevoli d’essere portatori di un messaggio che è per ogni uomo e per tutto l’uomo; un messaggio di fede, di speranza e di carità.
[Papa Benedetto, chiusura della visita pastorale Venezia 8 maggio 2011]
1. "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 5).
San Luca, nel Vangelo che abbiamo appena ascoltato, ci mostra l’incontro di Gesù con un uomo chiamato Zaccheo, capo dei pubblicani, molto ricco. Dato che era basso di statura, salì su un albero per vedere Cristo. Udì allora le parole del Maestro: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Gesù aveva notato il gesto di Zaccheo: interpretò il suo desiderio e anticipò l’invito. Destò perfino la meraviglia di qualcuno il fatto che Gesù andasse a trovare un peccatore. Zaccheo, felice per la visita “accolse pieno di gioia Cristo” (cfr Lc 19, 6), cioè aprì generosamente la porta della sua casa e del suo cuore all’incontro con il Salvatore.
3. “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri” ( Lc 19, 8). Desidero tornare alla lettura dal Vangelo di San Luca: Cristo “la luce del mondo” (cfr Gv 8, 12), ha portato la sua luce nella casa di Zaccheo, e in modo particolare nel suo cuore. Grazie alla vicinanza di Gesù, delle sue parole e del suo insegnamento comincia a compiersi la trasformazione del cuore di quest’uomo. Già sulla soglia della propria casa Zaccheo dichiara: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituirò quattro volte tanto” (Lc 19, 8). Sull’esempio di Zaccheo vediamo come Cristo rischiari le tenebre della coscienza umana. Alla sua luce si allargano gli orizzonti dell’esistenza: uno comincia a rendersi conto degli altri uomini e delle loro necessità. Nasce il senso del legame con l'altro, la consapevolezza della dimensione sociale dell’uomo e di conseguenza il senso della giustizia. “Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità - insegna San Paolo (Ef 5, 9). La svolta verso l’altro uomo, verso il prossimo, costituisce uno dei principali frutti di una conversione sincera. L’uomo esce fuori dal suo egoistico “essere per se stesso” e si volge verso gli altri, sente il bisogno di “essere per gli altri”, di essere per i fratelli.
Una tale dilatazione del cuore nell’incontro con Cristo è il pegno della salvezza, come mostra il seguito del colloquio con Zaccheo: “Gesù gli rispose: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa (...) il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto»” (Lc 19, 9-10).
Anche oggi, la descrizione che Luca fa dell’evento che ebbe luogo a Gerico, non ha perso di importanza. Porta con sé l’esortazione da parte di Cristo, che “è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (1 Cor 1, 30). E come una volta di fronte a Zaccheo, così in questo istante Cristo si presenta davanti all’uomo del nostro secolo. Sembra presentare a ciascuno separatamente la sua proposta: “Oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 5).
Cari Fratelli e Sorelle, importante è questo «oggi». Costituisce come un sollecito. Nella vita ci sono delle questioni talmente importanti e talmente urgenti che non possono essere posticipate e non possono essere lasciate per il domani. Devono essere affrontate già oggi. Esclama il Salmista: “Ascoltate oggi la sua voce: «Non indurite il cuore»” (Sal 94[95], 8). “Il lamento dei poveri” (Gb 34, 28) di tutto il mondo si alza incessantemente da questa terra e giunge a Dio. E’ il grido dei bambini, delle donne, degli anziani, dei profughi, di chi ha subito torto, delle vittime di guerra, dei disoccupati. I poveri sono anche in mezzo a noi: i senza casa, i mendicanti, gli affamati, i disprezzati, i dimenticati dalle perone più care e dalla società, i degradati e gli umiliati, le vittime di vari vizi. Molti di essi tentano perfino di nascondere la loro miseria umana, ma bisogna saperli riconoscere. Ci sono anche persone sofferenti negli ospedali, i bambini orfani oppure i giovani che sperimentano le difficoltà e i problemi della loro età.
4. “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5, 3).
Sin dall’inizio della sua attività messianica, parlando nella sinagoga di Nazaret, Gesù disse: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4, 18). Riteneva i poveri i più privilegiati eredi del regno. Ciò significa che soltanto “i poveri in spirito” sono in grado di ricevere il regno di Dio con tutto il cuore. L’incontro di Zaccheo con Gesù mostra che anche un uomo ricco può diventare partecipe della beatitudine di Cristo per i poveri in spirito.
Povero in spirito è colui che è disposto ad usare con generosità la propria ricchezza a favore di chi è nel bisogno. In tal caso si vede che non è attaccato a quelle ricchezze. Si vede che comprende bene l’essenziale finalità di esse. I beni materiali infatti sono per servire gli altri, specialmente chi si trova nella necessità. La Chiesa ammette la proprietà personale di questi beni, se vengono usati a questo fine.
Oggi ricordiamo Sant’Edvige regina. E’ conosciuta la sua generosità verso i poveri. Benché fosse ricca, non dimenticava gli indigenti. E’ per noi esempio e modello, come bisogna vivere e mettere in pratica l’insegnamento di Cristo sull’amore e sulla misericordia e rendersi simili a colui che, come dice San Paolo “essendo ricco si è fatto povero per noi, perché diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà” (cfr 2 Cor 8, 9).
“Beati i poveri in spirito”. E’ il grido di Cristo che oggi dovrebbe ascoltare ogni cristiano, ogni uomo credente. C’è tanto bisogno di uomini poveri in spirito, cioè aperti ad accogliere la verità e la grazia, aperti alle grandi cose di Dio; di uomini dal cuore grande che non si lasciano incantare dallo splendore delle ricchezze di questo mondo e non permettono che esse abbiano il dominio sui loro cuori. Sono veramente forti, perché colmi della ricchezza della grazia di Dio. Vivono nella consapevolezza di ricevere da Dio incessantemente e senza fine.
“Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” (At 3, 6) - con queste parole gli Apostoli Pietro e Giovanni rispondono alla richiesta dello zoppo dello storpio. Gli donarono il sommo bene che egli avrebbe potuto desiderare. Poveri trasmisero al povero la più grande ricchezza: nel nome di Cristo gli restituirono la salute. Mediante ciò confessarono la verità che attraverso le generazioni è la parte dei confessori di Cristo.
Ecco i poveri in spirito, senza possedere essi stessi né argento né oro, grazie a Cristo hanno un potere maggiore di quello che possono dare tutte le ricchezze del mondo.
Davvero, sono felici e beati questi uomini, perché ad essi appartiene il regno dei cieli. Amen.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia Elk 8 giugno 1999]
Il Vangelo di oggi ci presenta un fatto accaduto a Gerico, quando Gesù giunse in città e fu accolto dalla folla (cfr Lc 19,1-10). A Gerico viveva Zaccheo, il capo dei “pubblicani”, cioè degli esattori delle tasse. Zaccheo era un ricco collaboratore degli odiati occupanti romani, uno sfruttatore del suo popolo. Anche lui, per curiosità, voleva vedere Gesù, ma la sua condizione di pubblico peccatore non gli permetteva di avvicinarsi al Maestro; per di più, era piccolo di statura, e per questo sale su un albero di sicomoro, lungo la strada dove Gesù doveva passare.
Quando arriva vicino a quell’albero, Gesù alza lo sguardo e gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (v. 5). Possiamo immaginare lo stupore di Zaccheo! Ma perché Gesù dice «devo fermarmi a casa tua»? Di quale dovere si tratta? Sappiamo che il suo dovere supremo è attuare il disegno del Padre su tutta l’umanità, che si compie a Gerusalemme con la sua condanna a morte, la crocifissione e, al terzo giorno, la risurrezione. E’ il disegno di salvezza della misericordia del Padre. E in questo disegno c’è anche la salvezza di Zaccheo, un uomo disonesto e disprezzato da tutti, e perciò bisognoso di convertirsi. Infatti il Vangelo dice che, quando Gesù lo chiamò, «tutti mormoravano: “E’ entrato in casa di un peccatore!”» (v. 7). Il popolo vede in lui un furfante, che si è arricchito sulla pelle del prossimo. E se Gesù avesse detto: “Scendi, tu, sfruttatore, traditore del popolo! Vieni a parlare con me per regolare i conti!”. Di sicuro il popolo avrebbe fatto un applauso. Invece incominciarono a mormorare: “Gesù va a casa di lui, del peccatore, dello sfruttatore”.
Gesù, guidato dalla misericordia, cercava proprio lui. E quando entra in casa di Zaccheo dice: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (vv. 9-10). Lo sguardo di Gesù va oltre i peccati e i pregiudizi. E questo è importante! Dobbiamo impararlo. Lo sguardo di Gesù va oltre i peccati e i pregiudizi; vede la persona con gli occhi di Dio, che non si ferma al male passato, ma intravede il bene futuro; Gesù non si rassegna alle chiusure, ma apre sempre, sempre apre nuovi spazi di vita; non si ferma alle apparenze, ma guarda il cuore. E qui ha guardato il cuore ferito di quest’uomo: ferito dal peccato della cupidigia, da tante cose brutte che aveva fatto questo Zaccheo. Guarda quel cuore ferito e va lì.
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che Dio continua a vedere malgrado tutto, malgrado tutti i suoi sbagli. Questo può provocare una sorpresa positiva, che intenerisce il cuore e spinge la persona a tirare fuori il buono che ha in sé. È il dare fiducia alle persone che le fa crescere e cambiare. Così si comporta Dio con tutti noi: non è bloccato dal nostro peccato, ma lo supera con l’amore e ci fa sentire la nostalgia del bene. Tutti abbiamo sentito questa nostalgia del bene dopo uno sbaglio. E così fa il nostro Padre Dio, così fa Gesù. Non esiste una persona che non ha qualcosa di buono. E questo guarda Dio per tirarla fuori dal male.
La Vergine Maria ci aiuti a vedere il buono che c’è nelle persone che incontriamo ogni giorno, affinché tutti siano incoraggiati a far emergere l’immagine di Dio impressa nel loro cuore. E così possiamo gioire per le sorprese della misericordia di Dio! Il nostro Dio, che è il Dio delle sorprese!
[Papa Francesco, Angelus 30 ottobre 2016]
Breve Commento Letture [10.11.24]
*Prima lettura 1 Re 17,10-16
Il profeta Elia si trova lontano dalla sua terra, a Sarepta, città della costa fenicia, che all’epoca faceva parte del regno di Sidone e non del regno d’Israele. Siamo nel IX.mo secolo a. c., il re Acab aveva sposato la regina Gezabele (verso l’870), non dunque una figlia d’Israele, ma figlia del re di Sidone per attuare una politica di alleanza, esponendosi però al grave rischio dell’apostasia, perché Gezabele reca con sé usanze, preghiere, statue e i sacerdoti del culto di Baal, dio della fertilità, della pioggia, del fulmine e del vento. Il re Acab, persona molto debole, finisce così per tradire la sua religione e costruisce persino un tempio di Baal. Elia e gli ebrei fedeli provano vergogna per il tradimento della loro fede conoscendo bene il primo comandamento: “Non avrai altri dei all’infuori di me!”, che è l’a. b. c. della fede ebraica: Dio solo è Dio, tutti gli altri idoli non servono a nulla. Elia si oppone a Gezabele e, per provare la falsità degli idoli, subentrando proprio allora una forte siccità in Israele, lancia la sfida: voi ritenete Baal il dio della pioggia, ma io proverò che solo il Dio d’Israele è l’unico vero Dio, padrone di tutto, della pioggia e della siccità. Lo svolgimento di questa sfida avrà luogo, ma l’odierno testo si ferma a questo punto. Avvertito da Dio, Elia profetizza che ci saranno anni di dura siccità e, seguendo un comando divino, si rifugia presso il torrente Kerith, a est del Giordano (1 Re 17, 3-4). La siccità perdura, il torrente si prosciuga e Dio gli ordina di recarsi nella lontana Sarepta dove incontra una povera vedova alla quale, come povero mendicante, domanda “un pezzo di pane”. La donna gli confessa che non ha più pane, perché le resta solo una manciata di farina in una giara con un po’ d’olio in un orcio; raccoglierà due pezzi di legna per preparare una focaccia per lei e il figlio, la mangeranno e poi si prepareranno a morire. Il profeta le ricorda che Dio tutto può e l’invita a preparare per lui un “piccolo pane” e poi condividerà quanto resta con il figlio. Assicura che il Dio d’Israele interverrà: la giara di farina non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà fino al giorno in cui il Signore farà piovere. E così avvenne:”la giara di farina non si esaurì e l’orcio dell’olio non si svuotò”. La storia della vedova di Sarepta è analoga a quella della vedova che, come leggiamo oggi nel vangelo, nel Tempio di Gerusalemme dona a Dio tutti i suoi spiccioli, chiaro esempio di una fede semplice che si priva di tutto a si fida della parola del Dio d’Israele. Chiaro il messaggio: mentre Israele ricade nell’idolatria, una donna vedova straniera e pagana viene gratificata dal Signore per la sua grande fede. C’è inoltre un dettaglio da evidenziare: la vedova ha sentito Dio ordinarle personalmente di provvedere al profeta e questo mostra che la parola di Dio risuona dove e come vuole, anche fra i pagani. A quest’episodio si riferirà Gesù parlando ai suoi compaesani a Nazaret (Lc 4, 25-26). In verità nei testi tardivi dell’Antico Testamento (e il primo libro dei Re ne fa parte), i pagani vengono citati spesso come esempio per indicare che la salvezza è promessa all’intera umanità non essendo riservata solo a Israele. Insomma, Dio è sollecito verso chi si affida a lui e la grande lezione di questo episodio biblico è che la sollecitudine del Signore non tradisce mai chi si fida di lui.
*Salmo 145 (146), 5-6a, 6c-7ab, 8bc-9a, 9b-10
Israele con questo salmo canta la propria storia rendendo grazie a Dio per la sua protezione costante. “Oppressi, afflitti, affamati”, il popolo ha conosciuto l’oppressione in Egitto dalla quale fu liberato “con mano forte e braccio teso” come più tardi avverrà dalla deportazione a Babilonia e questo salmo fu scritto proprio al ritorno dall’esilio da Babilonia, forse per la dedicazione del Tempio restaurato dopo la sua distruzione del 587 a.C. dalle truppe del re di Babilonia, Nabucodonosor. in effetti, cinquant’anni dopo (nel 538 a.C.), Ciro, re di Persia, sconfisse Babilonia, autorizzò gli ebrei a rientrare in patria e a ricostruire il Tempio la cui dedicazione venne celebrata con gioia e fervore come leggiamo nel libro di Esdra: “I figli di Israele, i sacerdoti, i leviti e il resto dei deportati fecero con gioia la dedicazione di questa Casa di Dio” (Esd 6, 16). Un salmo dunque intriso della gioia del ritorno in patria perché, ancora una volta, Dio ha mostrato fedeltà all’Alleanza con il suo popolo del quale è il padre, il vendicatore, il suo “redentore”. Rileggendo la propria storia, Israele può testimoniare che Dio l’ha sempre accompagnato nella sua lotta per la libertà: “Il SIGNORE fa giustizia agli oppressi, rialza gli afflitti”. Israele ha conosciuto la fame, nel deserto, durante l’Esodo e Dio ha mandato la manna e le quaglie per il suo cibo: “Agli affamati dà il pane” e solo dopo ha compreso che Dio sempre riscatta gli afflitti, guarisce i malati, solleva i piccoli e gli emarginati, apre gli occhi ai ciechi e si rivela progressivamente, tramite i suoi profeti, al suo popolo che lo cerca: “Dio ama i giusti”. In questo canto si noti l’insistenza sul nome “Signore” che qui traduce il famoso NOME di Dio rivelato a Mosè sul Sinai, nel roveto ardente: sono le quattro consonanti YHVH (due inspirate e due ispirate) che indicano la presenza permanente, attiva, liberante di Dio nella vita del suo popolo (Es.3, 13-15). Inoltre nella Bibbia l’espressione “il tuo Dio” è un richiamo all’Alleanza con il popolo eletto: Alleanza alla quale il Signore non è mai venuto meno e la preghiera di Israele è rivolta al futuro per cui quando evoca il passato è per rafforzare la sua attesa e la speranza. Dio comunicò il suo nome a Mosè sul Sinai in due modi. Anzitutto con le impronunciabili quattro consonanti, YHVH, che ritroviamo spesso nella Bibbia, in particolare in questo salmo e che si traduce con “il Signore”. Esiste però una formula più elaborata, “Ehiè asher ehiè” che in italiano si rende sia con “Io sono chi sono”, oppure “Io sarò chi sarò”, un modo di esprimere l’eterna presenza di Dio accanto al suo popolo. L’insistenza sul futuro, “per sempre” rafforza l’impegno del popolo che, con questo salmo, non solo riconosce l’opera di Dio a favore d’Israele, ma vuole darsi una linea di condotta: se Dio ha agito così verso noi, dobbiamo a nostra volta fare altrettanto, diventando i primi testimoni dell’amore che il Signore nutre per i poveri e gli esclusi, amore che, attraverso Israele, intende diffondere al mondo intero. La Legge di Mosè e dei Profeti fu scritta per educare il popolo a conformarsi progressivamente alla misericordia di Dio e, per tale ragione, prevedeva numerose regole di protezione per le vedove, gli orfani, gli stranieri volendo fare di Israele un popolo libero e rispettoso della libertà altrui. Infine, i richiami dei profeti si concentrano su due punti (che forse ci sorprendono): una lotta accanita contro l’idolatria, (come fece Elia) e gli appelli alla giustizia e alla cura per gli altri, fino ad arrivare a far dire a Dio: “È la misericordia che voglio, non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olocausti” (Os 6, 6); o ancora: “Ti è stato detto, o uomo, ciò che è bene, ciò che il Signore esige da te: nient’altro che rispettare il diritto, amare la fedeltà e camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6, 8). Leggiamo infine nel libro di Ben Sira: “Le lacrime della vedova scorrono sulle guance di Dio” (Si 35, 18). Per Israele le lacrime di tutti coloro che soffrono scorrono sulle guance di Dio…e se siamo vicini a Dio, dovrebbero scorrere anche sulle nostre guance!
*Seconda Lettura Ebr. 9, 24-28
L’autore della lettera agli Ebrei, che ci accompagna da qualche domenica, si rivolge a cristiani di origine ebraica che forse provano nostalgia per l’antico culto mentre nella pratica cristiana non ci sono più templi né sacrifici cruenti. L’autore, volendo provare che tutto ormai è superato, riprende una per una le realtà e le pratiche della religione ebraica. Parla soprattutto del Tempio, definito il “santuario” e precisa che una cosa è il vero santuario, nel quale Dio risiede, cioè il cielo stesso, altro è il tempio costruito dagli uomini che del vero santuario è solo pallida copia. Gli ebrei erano particolarmente fieri, a ragione, del magnifico Tempio di Gerusalemme, ma non dimenticavano che ogni costruzione umana resta umana e quindi, debole, imperfetta, peritura. Inoltre, nessuno in Israele pretendeva di racchiudere la presenza di Dio in un tempio, per quanto immenso, come già il primo costruttore del Tempio di Gerusalemme, il re Salomone affermava: “Davvero Dio potrebbe abitare sulla terra? I cieli stessi e i cieli dei cieli non possono contenerti! Quanto meno questa Casa che ho costruito.” (1 Re 8,27). Per i cristiani, il vero Tempio, il luogo dove si incontra Dio, non è un edificio perché l’Incarnazione di Cristo ha cambiato tutto: ora il luogo di incontro tra Dio e l’uomo è Gesù Cristo, il Dio fatto uomo. L’evangelista Giovanni narra che Gesù si è permesso di cacciare dall’area del Tempio i cambiavalute e i mercanti di bestiame per i sacrifici spiegando poi: “Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo risusciterò” e i discepoli capirono, dopo la Risurrezione, che il Il Tempio di cui parlava era il suo corpo. (Cf. Gv 2,13-21). Nel brano odierno della Lettera agli Ebrei si dice la stessa cosa: rimaniamo innestati in Gesù Cristo, nutriamoci del suo corpo, così siamo messi alla presenza di Dio in nostro favore. Con la sua morte Cristo evidenzia il ruolo centrale della croce nel mistero cristiano e poco più avanti (Eb 10), l’autore preciserà che la morte di Cristo è solo il culmine di una vita interamente offerta e che quando si parla del suo sacrificio, bisogna intendere “l’atto sacro che fu tutta la sua vita” e non solo le ore della sua Passione. Per il momento, il testo che abbiamo davanti agli occhi parla della Passione di Cristo e del suo sacrificio, senza ulteriori dettagli. Oppone il sacrificio di Cristo a quello offerto dal sommo sacerdote di Israele, nel giorno di Yom Kippur (“Giorno del Perdono”) quando il sommo sacerdote, entrato da solo nel Santo dei Santi, pronunciava il Nome sacro (YHVH) e spargeva il sangue di un toro (per i propri peccati) e quello di un capro (per i peccati del popolo), rinnovando solennemente l’Alleanza con Dio. All’uscita del sommo sacerdote dal Santo dei Santi, il popolo, raccolto fuori, sapeva che i suoi peccati erano perdonati. Ma questo rinnovamento dell’Alleanza era precario, e si doveva ripetere ogni anno, invece l’Alleanza che Gesù Cristo ha concluso con il Padre in nostro nome è perfetta e definitiva: sul Volto di Cristo in croce, i credenti scoprono il vero Volto di Dio che ama i suoi fino alla fine. Ormai non possiamo più ingannarci; Dio è Padre nostro perché Padre di Gesù e nel Cristo possiamo vivere nell’Alleanza che Dio ci propone: la Nuova Alleanza in Cristo e non c’è più spazio per la paura del giudizio di Dio perché professando “Gesù ritornerà per giudicare i vivi e i morti” (nel nostro Credo), proclamiamo che il termine “giudizio” è sinonimo di salvezza: “il Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, non più per il peccato, ma per la salvezza di coloro che lo attendono” ed è giusto affermare che Gesù Cristo è “il sommo sacerdote della felicità che viene”, come l’autore afferma nel cap. 9,11, testo che si proclama nella festa del Corpo e del Sangue di Cristo, nell’anno B.
*Vangelo Marco 12, 38-44
“Guardatevi dagli scribi…” Siamo alla conclusione del 12mo capitolo e ci avviamo verso la fine del vangelo di Marco, con il racconto della Passione e Resurrezione di Cristo. Gesù dispensa gli ultimi consigli agli apostoli: ha già detto loro di aver fede in Dio e “tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà” (11, 22-24). Aggiungerà poi: “Badate che nessuno vi inganni” (13,5), mentre ora esorta a stare attenti agli scribi (12,38) utilizzando il linguaggio dei profeti per stigmatizzare alcune loro attitudini senza che questo significhi una totale condanna del loro operato. All’epoca gli scribi erano molto considerati perché commentavano e interpretavano la Scrittura e predicavano, sedevano nel Sinedrio, il tribunale permanente di Gerusalemme che si riuniva nei locali del Tempio due volte a settimana; si tratta dunque di laici che avevano frequentato lo studio della Legge di Mosè in scuole specializzate, diventando esperti e alcuni tra loro venivano chiamati “dottori della legge” per cui rispettando loro si rispettava la Legge stessa. Tanto rispetto faceva montare la testa ad alcuni che esigevano i primi posti nelle sinagoghe, dando le spalle alle Tavole della Legge e rivolti verso pubblico. Nell’odierno vangelo Gesù rende omaggio allo scriba che aveva risposto saggiamente: “Non sei lontano dal Regno di Dio.” (12,34), ma aggiunge una critica più generale reagendo all’ostilità che alcuni scribi, fin dall’inizio della sua vita pubblica, gli hanno mostrato invidia e gelosia. Appare chiara nel vangelo di Marco una crescente sfiducia di Cristo nei loro confronti dato che la loro gelosia diventa odio fino a progettare di uccidere Gesù dopo la cacciata dei mercanti dal Tempio. I capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani lo assediano mentre cammina nel Tempio chiedendogli con quale autorità insegni e compia i miracoli (11,27-28) e vedremo durante la passione lo stesso Pilato rendersene conto, come annota san Marco: “Pilato sapeva che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia” (15,10). Gesù però non si lascia impressionare dal loro odio e rimprovera loro qualcosa di molto più grave e cioè che sfruttano la loro posizione esigendo di essere pagati dalle povere vedove quando queste domandano consigli giuridici: “divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa” (12,40). E’ a questo punto che appare una povera vedova (12, 42-43) in totale indigenza (12,44) perché, non avendo diritto all’eredità del marito, dipendeva dalla carità pubblica. Essa si avvicina per deporre due spiccioli e Gesù la indica come esempio ai discepoli: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno offerto del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quanto aveva per vivere” (12, 43-44). L’evangelista non fa commenti, ma si capisce che la fiducia della vedova sarà ricompensata. Naturale il parallelo con la vedova di Sarepta: come lei offrì ad Elia le sue ultime provviste, questa vedova depone tutti i suoi risparmi nel Tempio spogliandosi di tutto. Gesù invita a rifiutare il modello dell’ostentazione di alcuni scribi con la sete di onori e privilegi, ed esorta a imitare la generosità, umile e discreta, della “vedova povera” che lascia tutto ciò che ha nel Tempio. Diversi Padri della Chiesa l’hanno interpretato come un potente simbolo di fede umile e generosa e di carità autentica, non perché dona molto ma perché offre tutto ciò che ha per vivere, fidandosi di Dio. Questo racconto, oltre ad essere una lezione di carità e fiducia, è pure un richiamo all’autentica giustizia sociale, dove l’amore per Dio deve tradursi sempre in attenzione, aiuto e amore ai bisognosi.
Le nostre cecità, tra senso religioso e Fede
(Lc 18,35-43)
Il cieco senza nome e accovacciato ai bordi ci rappresenta: non è biologicamente cieco, ma uno che si regola a casaccio.
Non riesce a «guardare in su» [il verbo-chiave ai vv.41-43 è «aná-blèpein»] perché non coltiva ideali; si accontenta di quel che passa il contorno, che lo anestetizza.
Conseguenza: le vittime di un’ideologia indolente possono confondere il Figlio di Dio che dona tutto di sé e trasmette vitalità, con il ‘figlio di Davide’ (vv.38-39) - che non dà, bensì toglie vita.
L’equivoco ha pesanti conseguenze.
Inizialmente ogni cercatore di Dio rischia di scambiare il Signore con un superuomo e capitano fenomenale che benedice e favorisce gli amici ad es. nelle loro aspettative di tranquillità, noncuranza e stasi mediocre.
Un bel difetto di vista, perché s’invertono affatto i criteri dell’esistenza sapiente e solida - rischiando di conficcarla in una pozzanghera; al massimo, trascinarla rasoterra.
Se ci si ritrova a questo livello di miopia, meglio «sollevare lo sguardo» ripiegato sul proprio ombelico, per piccinerie da tornaconto a breve.
Chi non “vede bene” diventa uomo abitudinario, viene accompagnato agli stessi posti ogni giorno dalle medesime persone.
Sta fermo, «seduto» (v.35) ai margini di una strada dove la gente procede e non si limita come lui a sopravvivere rassegnata, senza scatti.
Tali impacciati per scelta - tutto si attendono dal riconoscimento altrui; vivono solo di questua. E non fanno che ripetere parole e gesti sempre identici.
Il loro orizzonte a portata di mano non consente di entrare nel flusso della Via, dove le persone si danno da fare edificando, evolvendo, esprimendo se stesse, provvedendo ai fratelli meno fortunati.
Una esistenza trascinata ai margini di qualsiasi interesse che non sia il proprio neghittoso sacchetto.
Vivono del movimento altrui; campano di piccole benevolenze e opinioni barattate da chi passa, per svogliatezza mai riesaminate e fatte proprie.
La Parola del Nazareno [nel linguaggio dei Vangeli l’epiteto “essere di Nazaret” significava “rivoluzionario, testa calda, sovversivo”] fa scattare lo svogliato.
Il contatto personale con Gesù ha corretto lo sguardo, gli ha fatto recuperare l’ottica ideale - trasmettendo un modello diametralmente opposto di uomo riuscito.
Insomma, Gesù corregge la miopia inerte di chi è affezionato al suo ‘posto’.
Religiosità o Fede personale: è scelta dirimente. Per partire via da lì, reinventarsi la vita, abbandonare il mantello [cf. Mc 10,50] sul quale si raccoglievano commenti e oboli comuni.
Aprendo gli occhi e «sollevandoli», come farebbe un uomo già divino. Intascando null’altro che perle di luce, invece di elemosine.
In tal guisa, il Vangelo invita a uno sguardo prospettico, che non si adatta.
Anche l’enciclica Fratelli Tutti propone visuali che suscitano decisione e azione: occhi nuovi, energetici, visionari, temerari, ricolmi di ‘passaggio’ e Speranza.
Su strade fangose ci si può sporcare e si è incerti, ma vi possiamo procedere in contezza: sulla via che ci appartiene; nel movimento del Sacerdozio di Cristo.
Con ‘percezione’ sana.
[Lunedì 33.a sett. T.O. 18 novembre 2024]
Il movimento del sacerdozio di Cristo
(Lc 18,35-43)
L’enciclica Fratelli Tutti invita a uno sguardo prospettico, che non si adatta.
Papa Francesco propone visuali che suscitano decisione e azione: occhi nuovi, energetici, visionari, temerari, ricolmi di “passaggio” e Speranza.
Essa «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. [...] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (n.55) [cit. da un Saluto ai giovani de L’Avana, settembre 2015].
Affranto, Paolo VI ammetteva:
«Sì, vi sono molti cristiani mediocri; e non solo perché sono deboli o mancanti di formazione, ma perché vogliono essere mediocri e perché hanno le loro così dette buone ragioni del giusto mezzo, del ne quid nimis, quasi che il Vangelo fosse una scuola d’indolenza morale, o quasi che esso autorizzasse servire al conformismo. Non è ipocrisia? Incoerenza? Relativismo secondo il vento che tira?» [passim].
Sembra il ritratto della vita scadente e cieca che talora ci coglie: “nulla di troppo”, “mai l’eccessivo”.
Una sorta di esistenza alla don Abbondio, a contrasto del quale Manzoni delinea l’icona dell’uomo di Fede - che appunto spicca sul mediocre devoto - nella solenne e decisa figura del cardinal Federigo.
Prelato che invece «ebbe a combattere co’ galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne’ limiti, cioè ne’ loro limiti».
Non il qualunquismo rassicurato d’un pio vigliacco e situazionalista, che finge di non vedere, si accontenta della sua nicchia da mezza tacca; si siede nell’aia scadente del minimo sindacale, si barcamena e non s’espone.
Il passo di Lc è un insegnamento che trae spunto dalle primissime forme di liturgia battesimale riservate ai nuovi credenti, chiamati photismòi-illuminati [coloro che dal buio della vita pagana aprivano finalmente gli occhi alla Luce].
Il brano illustra cosa accade a una persona quando incontra Cristo e ne riceve l’orientamento esistenziale: abbandona le posizioni consolidate ma non personalmente rielaborate, e diviene testimone critico.
La narrazione è impostata sul confronto tra sguardi materiali verso il basso (come quelli dei pagani o dei seguaci arroganti) e sguardi aperti, in grado di sollevare l’occhio dell’uomo da pastoie di sembianti, abitudinarietà e potenze esteriori o interiori distruttive.
La comparazione fa affiorare ciò che conta nella vita, quel che ha peso e non viene spazzato via dagli impedimenti d’una spiritualità vuota, rapita o attratta da brame epidermiche; imbrigliate su falsarighe di ruoli sociali o conformismi culturali e spirituali - da consuetudini ereditate ma non vagliate.
Insomma: il Signore ci vuol far comprendere che il conformismo all’ambiente e la vuota devozione inculcano un intendere paludoso, esanime, poco rilevante.
Cosa dunque è necessario per «vedere» con la percezione di Dio, oltre le apparenze, e risollevarsi da una grigia vita di elemosine, letteralmente a terra? E come curare la visuale di chi non si raccapezza?
Anche i “vicini” hanno aspettative più o meno chiare su come entrare nel Movimento del sacerdozio di Cristo.
I discepoli stessi sono suggestionati da una folla spesso qualunquista attorno che si attende ben poco, se non quiete, svago e favori; e che preme perché si entri «ne’ loro limiti».
Il cieco senza nome e accovacciato ai bordi ci rappresenta: non è biologicamente cieco, ma uno che si regola a casaccio.
Non riesce a «guardare in su» [il verbo-chiave ai vv.41-43 è «aná-blèpein»] perché non coltiva ideali; si accontenta di quel che passa il contorno, che lo anestetizza.
Condizionato da falsi maestri e guide spirituali approssimative, anch’egli è bloccato da uno spirito di letargo che punta la sua esistenza a ribasso.
Conseguenza: le vittime di un’ideologia indolente possono confondere il Figlio di Dio che dona tutto di sé e trasmette vitalità, con il figlio di Davide (v.38) - che non dà, bensì toglie vita.
Gesù somiglia e rimanda al Padre, non a un sovrano abile e svelto, che sa addomesticare le masse [figura di uno stile di dominio subdolo o violento, e di continua rivalsa].
L’equivoco ha pesanti conseguenze.
Inizialmente ogni cercatore di Dio rischia di scambiare il Signore con un superuomo e capitano fenomenale che benedice e favorisce gli amici nelle loro aspettative di tranquillità, noncuranza e stasi mediocre.
Un bel difetto di vista, perché s’invertono affatto i criteri dell’esistenza sapiente e solida - rischiando di conficcarla in una pozzanghera; al massimo, trascinarla rasoterra.
Se ci si ritrova a questo livello di miopia, meglio «sollevare lo sguardo» ripiegato sul proprio ombelico, per piccinerie da tornaconto a breve.
Chi non “vede bene” diventa uomo abitudinario, viene accompagnato agli stessi posti ogni giorno dalle medesime persone.
Sta fermo, «seduto» (v.35) ai margini di una strada dove la gente procede e non si limita come lui a sopravvivere rassegnata, senza scatti.
[Mentre scrivevo un mio prof del liceo, persona di gran fede e dinamismo - mi ha inviato un proverbio indiano: «se davanti a te vedi tutto grigio, sposta l’elefante»].
Tali impacciati per scelta - tutto si attendono dal riconoscimento altrui; vivono solo di questua. E non fanno che ripetere parole e gesti sempre identici.
Il loro orizzonte a portata di mano non consente di entrare nel flusso della Via, dove le persone si danno da fare edificando, evolvendo, esprimendo se stesse, provvedendo ai fratelli meno fortunati.
Una esistenza trascinata ai margini di qualsiasi interesse che non sia il proprio neghittoso sacchetto.
Eppure sono dotati d’uno spiccato senso religioso antico; ma proprio per questo - mancando del balzo di Fede - centrati su di sé e sulle idee che sono state trasmesse.
Vivono del movimento altrui; campano di piccole benevolenze e opinioni barattate da chi passa, per svogliatezza mai riesaminate e fatte proprie.
La Parola del Nazareno [nel linguaggio dei Vangeli l’epiteto “essere di Nazaret” significava “rivoluzionario, testa calda, sovversivo”] fa scattare lo svogliato.
La sua nuova attitudine diventa piuttosto quella del “neonato”. Si adopera in un modello di vita industrioso, creativo, pratico - avveniristico.
Risorge dinamico, sbarazzandosi degli stracci sui quali si attendeva che altri deponessero qualcosa in suo favore.
L’abito vecchio finisce nella polvere - gettato lontano come nelle antiche liturgie battesimali: a qualsiasi età intraprende, surclassando sicurezze di piccolo cabotaggio.
Cambia vita, la guarda in faccia; sebbene sappia di complicarsela, rendendola impegnativa e controcorrente.
Il contatto personale con Gesù ha corretto lo sguardo, gli ha fatto recuperare l’ottica ideale.
In tal guisa, egli comprendere il senso primordiale e rigenerante - anzi, ricreante - della Novità di Dio.
L’Incontro faccia a faccia gli ha trasmesso un modello diametralmente opposto di uomo riuscito; non sottomesso al tatticismo.
Insomma, Gesù corregge la miopia inerte di chi è affezionato al suo posto.
“Il vento che tira” c’infonde un letale veleno: quello rinunciatario dell’identificarci-e-assomigliare, che fa rima con l’arrenderci e invecchiare.
La guarigione da tale cecità non può essere un... Miracolo! Religiosità o Fede: è scelta dirimente.
Significa adattarsi pigramente alle mode di circostanza o al vestito vecchio dei comportamenti già “detti” e solite amicizie, aspettando solo qualche soluzione-fulmine che non coinvolga troppo...
Ovvero partire via da lì, reinventarsi la vita, abbandonare il mantello [cf. Mc 10,50] sul quale si raccoglievano commenti e oboli comuni.
Aprendo gli occhi e «sollevandoli», come farebbe un uomo già divino. Intascando null’altro che perle di luce, invece di elemosine.
Su strade fangose ci si può sporcare e si è incerti, ma vi possiamo procedere in contezza: sulla via che ci appartiene; nel movimento del sacerdozio di Cristo. Con percezione sana.
Infatti - come in questo episodio - non di rado i Vangeli insistono sul criterio (devotamente assurdo) che il nemico di Dio non sia il peccato, bensì la vita media e passiva dell’ormai identificato e piazzato.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
L’incontro con Cristo ti ha tolto come un velo dagli occhi? Hai colto l’occasione per nascere come uomo nuovo, e sollevare lo sguardo? O rimani miope e inerte?
Il Passaggio della Pasqua
Un giorno Gesù, avvicinandosi alla città di Gerico, compì il miracolo di ridare la vista a un cieco che mendicava lungo la strada (cfr Lc 18,35-43). Oggi vogliamo cogliere il significato di questo segno perché tocca anche noi direttamente. L’evangelista Luca dice che quel cieco era seduto sul bordo della strada a mendicare (cfr v. 35). Un cieco a quei tempi – ma anche fino a non molto tempo fa – non poteva che vivere di elemosina. La figura di questo cieco rappresenta tante persone che, anche oggi, si trovano emarginate a causa di uno svantaggio fisico o di altro genere. E’ separato dalla folla, sta lì seduto mentre la gente passa indaffarata, assorta nei propri pensieri e in tante cose...E la strada, che può essere un luogo di incontro, per lui invece è il luogo della solitudine. Tanta folla che passa...E lui è solo.
E’ triste l’immagine di un emarginato, soprattutto sullo sfondo della città di Gerico, la splendida e rigogliosa oasi nel deserto. Sappiamo che proprio a Gerico giunse il popolo di Israele al termine del lungo esodo dall’Egitto: quella città rappresenta la porta d’ingresso nella terra promessa. Ricordiamo le parole che Mosè pronuncia in quella circostanza: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nella tua terra» (Dt 15,7.11). E’ stridente il contrasto tra questa raccomandazione della Legge di Dio e la situazione descritta dal Vangelo: mentre il cieco grida invocando Gesù, la gente lo rimprovera per farlo tacere, come se non avesse diritto di parlare. Non hanno compassione di lui, anzi, provano fastidio per le sue grida. Quante volte noi, quando vediamo tanta gente nella strada – gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare – sentiamo fastidio. Quante volte, quando ci troviamo davanti a tanti profughi e rifugiati, sentiamo fastidio. È una tentazione che tutti noi abbiamo. Tutti, anch’io! È per questo che la Parola di Dio ci ammonisce ricordandoci che l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi, impediscono di vedere i fratelli e non permettono di riconoscere in essi il Signore. Indifferenza e ostilità. E a volte questa indifferenza e ostilità diventano anche aggressione e insulto: “ma cacciateli via tutti questi!”, “metteteli in un’altra parte!”. Quest’aggressione è quello che faceva la gente quando il cieco gridava: “ma tu vai via, dai, non parlare, non gridare”.
Notiamo un particolare interessante. L’Evangelista dice che qualcuno della folla spiegò al cieco il motivo di tutta quella gente dicendo: «Passa Gesù, il Nazareno!» (v. 37). Il passaggio di Gesù è indicato con lo stesso verbo con cui nel libro dell’Esodo si parla del passaggio dell’angelo sterminatore che salva gli Israeliti in terra d’Egitto (cfr Es 12,23). È il “passaggio” della pasqua, l’inizio della liberazione: quando passa Gesù, sempre c’è liberazione, sempre c’è salvezza! Al cieco, quindi, è come se venisse annunciata la sua pasqua. Senza lasciarsi intimorire, il cieco grida più volte verso Gesù riconoscendolo come il Figlio di Davide, il Messia atteso che, secondo il profeta Isaia, avrebbe aperto gli occhi ai ciechi (cfr Is 35,5). A differenza della folla, questo cieco vede con gli occhi della fede. Grazie ad essa la sua supplica ha una potente efficacia. Infatti, all’udirlo, «Gesù si fermò e ordinò che lo conducessero da lui» (v. 40). Così facendo Gesù toglie il cieco dal margine della strada e lo pone al centro dell’attenzione dei suoi discepoli e della folla. Pensiamo anche noi, quando siamo stati in situazioni brutte, anche situazioni di peccato, com’è stato proprio Gesù a prenderci per mano e a toglierci dal margine della strada e donarci la salvezza. Si realizza così un duplice passaggio. Primo: la gente aveva annunciato una buona novella al cieco, ma non voleva avere niente a che fare con lui; ora Gesù obbliga tutti a prendere coscienza che il buon annuncio implica porre al centro della propria strada colui che ne era escluso. Secondo: a sua volta, il cieco non vedeva, ma la sua fede gli apre la via della salvezza, ed egli si ritrova in mezzo a quanti sono scesi in strada per vedere Gesù. Fratelli e sorelle, Il passaggio del Signore è un incontro di misericordia che tutti unisce intorno a Lui per permettere di riconoscere chi ha bisogno di aiuto e di consolazione. Anche nella nostra vita Gesù passa; e quando passa Gesù, e io me ne accorgo, è un invito ad avvicinarmi a Lui, a essere più buono, a essere un cristiano migliore, a seguire Gesù.
Gesù si rivolge al cieco e gli domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (v. 41). Queste parole di Gesù sono impressionanti: il Figlio di Dio ora sta di fronte al cieco come un umile servo. Lui, Gesù, Dio, dice: “Ma cosa vuoi che io ti faccia? Come tu vuoi che io ti serva?” Dio si fa servo dell’uomo peccatore. E il cieco risponde a Gesù non più chiamandolo “Figlio di Davide”, ma “Signore”, il titolo che la Chiesa fin dagli inizi applica a Gesù Risorto. Il cieco chiede di poter vedere di nuovo e il suo desiderio viene esaudito: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (v. 42). Egli ha mostrato la sua fede invocando Gesù e volendo assolutamente incontrarlo, e questo gli ha portato in dono la salvezza. Grazie alla fede ora può vedere e, soprattutto, si sente amato da Gesù. Per questo il racconto termina riferendo che il cieco «cominciò a seguirlo glorificando Dio» (v. 43): si fa discepolo. Da mendicante a discepolo, anche questa è la nostra strada: tutti noi siamo mendicanti, tutti. Abbiamo bisogno sempre di salvezza. E tutti noi, tutti i giorni, dobbiamo fare questo passo: da mendicanti a discepoli. E così, il cieco si incammina dietro al Signore entrando a far parte della sua comunità. Colui che volevano far tacere, adesso testimonia ad alta voce il suo incontro con Gesù di Nazaret, e «tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio» (v. 43). Avviene un secondo miracolo: ciò che è accaduto al cieco fa sì che anche la gente finalmente veda. La stessa luce illumina tutti accomunandoli nella preghiera di lode. Così Gesù effonde la sua misericordia su tutti coloro che incontra: li chiama, li fa venire a sé, li raduna, li guarisce e li illumina, creando un nuovo popolo che celebra le meraviglie del suo amore misericordioso. Lasciamoci anche noi chiamare da Gesù, e lasciamoci guarire da Gesù, perdonare da Gesù, e andiamo dietro Gesù lodando Dio. Così sia!
[Papa Francesco, Udienza Generale 15 giugno 2016]
Questi figli prediletti del Padre celeste sono come il cieco del Vangelo, Bartimeo, che “sedeva lungo la strada a mendicare” (Mc 10,46), alle porte di Gerico. Proprio per quella strada passa Gesù Nazareno. E’ la strada che conduce a Gerusalemme, dove si consumerà la Pasqua, la sua Pasqua sacrificale, alla quale il Messia va incontro per noi. E’ la strada del suo esodo che è anche il nostro: l’unica via che conduce alla terra della riconciliazione, della giustizia e della pace. Su quella via il Signore incontra Bartimeo, che ha perduto la vista. Le loro vie si incrociano, diventano un’unica via. “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”, grida il cieco con fiducia. Replica Gesù: “Chiamatelo!”, e aggiunge: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Dio è luce e creatore della luce. L’uomo è figlio della luce, fatto per vedere la luce, ma ha perso la vista, e si trova costretto a mendicare. Accanto a lui passa il Signore, che si è fatto mendicante per noi: assetato della nostra fede e del nostro amore. “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Dio sa, ma chiede; vuole che sia l’uomo a parlare. Vuole che l’uomo si alzi in piedi, che ritrovi il coraggio di domandare ciò che gli spetta per la sua dignità. Il Padre vuole sentire dalla viva voce del figlio la libera volontà di vedere di nuovo la luce, quella luce per la quale lo ha creato. “Rabbunì, che io veda di nuovo!”. E Gesù a lui: “Va’, la tua fede ti ha salvato. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada” (Mc 10,51-52).
“Va’, la tua fede ti ha salvato” (Mc 10,52). Sì, la fede in Gesù Cristo – quando è bene intesa e praticata – guida gli uomini e i popoli alla libertà nella verità, o, per usare le tre parole del tema sinodale, alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Bartimeo che, guarito, segue Gesù lungo la strada, è immagine dell’umanità che, illuminata dalla fede, si mette in cammino verso la terra promessa. Bartimeo diventa a sua volta testimone della luce, raccontando e dimostrando in prima persona di essere stato guarito, rinnovato, rigenerato. Questo è la Chiesa nel mondo: comunità di persone riconciliate, operatrici di giustizia e di pace; “sale e luce” in mezzo alla società degli uomini e delle nazioni.
La Chiesa, comunità che segue Cristo sulla via dell’amore, ha una forma sacerdotale. La categoria del sacerdozio, come chiave interpretativa del mistero di Cristo e, di conseguenza, della Chiesa, è stata introdotta nel Nuovo Testamento dall’Autore della Lettera agli Ebrei. La sua intuizione prende origine dal Salmo 110, citato nel brano odierno, là dove il Signore Dio, con solenne giuramento, assicura al Messia: “Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (v. 4). Riferimento che ne richiama un altro, tratto dal Salmo 2, nel quale il Messia annuncia il decreto del Signore che dice di lui: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato” (v. 7). Da questi testi deriva l’attribuzione a Gesù Cristo del carattere sacerdotale, non in senso generico, bensì “secondo l’ordine di Melchisedek”, vale a dire il sacerdozio sommo ed eterno, di origine non umana ma divina. Se ogni sommo sacerdote “è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio” (Eb 5,1), solo Lui, il Cristo, il Figlio di Dio, possiede un sacerdozio che si identifica con la sua stessa Persona, un sacerdozio singolare e trascendente, da cui dipende la salvezza universale. Questo suo sacerdozio Cristo l’ha trasmesso alla Chiesa mediante lo Spirito Santo; pertanto la Chiesa ha in se stessa, in ogni suo membro, in forza del Battesimo, un carattere sacerdotale. Ma – qui c’è un aspetto decisivo – il sacerdozio di Gesù Cristo non è più primariamente rituale, bensì esistenziale. La dimensione del rito non viene abolita, ma, come appare chiaramente nell’istituzione dell’Eucaristia, prende significato dal Mistero pasquale, che porta a compimento i sacrifici antichi e li supera. Nascono così contemporaneamente un nuovo sacrificio, un nuovo sacerdozio ed anche un nuovo tempio, e tutti e tre coincidono con il Mistero di Gesù Cristo. Unita a Lui mediante i Sacramenti, la Chiesa prolunga la sua azione salvifica, permettendo agli uomini di essere risanati mediante la fede, come il cieco Bartimeo. Così la Comunità ecclesiale, sulle orme del suo Maestro e Signore, è chiamata a percorrere decisamente la strada del servizio, a condividere fino in fondo la condizione degli uomini e delle donne del suo tempo, per testimoniare a tutti l’amore di Dio e così seminare speranza.
[Papa Benedetto, omelia per la chiusura del Sinodo speciale per l’Africa 25 ottobre 2009]
L’odierna lettura del Vangelo […] ci ricorda l’episodio della guarigione del cieco di Gerico. Il Vangelo rivela anche il suo nome: Bartimeo, e ricostruisce la sua supplica-grido: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me” (Mc 10, 47). Infine riferisce la sua commovente supplica: “Rabbuni, che io riabbia la vista” (Mc 10,51). E la risposta di Gesù non si fa attendere: “Va’, la tua fede ti ha salvato” (Mc 10,52).
Ecco, uno di quei segni che Gesù di Nazaret compiva durante il suo ministero pubblico. È, questo, un segno particolarmente eloquente: ridonando la vista al cieco, Gesù getta luce sulla sua vita. L’intera missione di Cristo è piena di questo senso: Egli getta luce divina sulla vita umana per mezzo del Vangelo. Alla luce delle parole di Cristo la vita umana acquista senso: il senso ultimo, che illumina anche le diverse sfere di questa vita terrena.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 27 ottobre 1991]
Un invito a non mettere «all’asta la nostra carta d’identità» cristiana, a non uniformarci allo spirito del mondo, che quando riesce a prevalere porta all’apostasia e alla persecuzione. Lo ha individuato Papa Francesco commentando la liturgia della parola di lunedì mattina, 16 novembre, durante la consueta celebrazione della messa nella cappella di Casa Santa Marta.
Il Pontefice ha dedicato la sua riflessione interamente alla prima lettura, tratta dal primo libro dei Maccabei (1,10-15.41-43.54-57 62-64), riassumendone i contenuti «con tre parole: mondanità, apostasia, persecuzione». Rileggendolo, Francesco ha fatto notare «che il brano incomincia così: “In quei giorni uscì una radice perversa”». E ha spiegato come «l’immagine della radice che è sotto terra, non si vede, sembra non fare male, ma poi cresce e mostra, fa vedere, la propria realtà» negativa, sia presente anche nella lettera agli Ebrei, il cui «autore ammoniva i suoi nello stesso modo: “Che non spunti né cresca in mezzo a voi alcuna radice velenosa, che provochi mali e ne contagi tanti”».
In proposito il Papa ha descritto «la fenomenologia della radice», la quale «cresce, sempre cresce», anche quando — come nel caso del brano preso in esame — può sembrare una «radice ragionevole: “Andiamo e stringiamo un’alleanza con le nazioni che ci stanno attorno; perché tante differenze? Perché da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali. Andiamo da loro, siamo uguali”». E così, ha proseguito nella descrizione, «alcuni del popolo presero l’iniziativa e andarono dal re che diede loro facoltà di introdurre le istituzioni delle nazioni. Dove? Nel popolo eletto, cioè nella Chiesa di quel momento».
Ma, ha subito avvertito Francesco, in quell’azione «c’è la mondanità. Facciamo ciò che fa il mondo, lo stesso: mettiamo all’asta la nostra carta d’identità; siamo uguali a tutti». Proprio come gli uomini di Israele, i quali «incominciarono a fare questo: costruirono un ginnasio a Gerusalemme, secondo le usanze delle nazioni, le usanze pagane; cancellarono i segni della circoncisione, cioè rinnegarono la fede, e si allontanarono dalla santa alleanza; si unirono alle nazioni e si vendettero per fare il male». Ma, ha messo in guardia il Pontefice, proprio «questo, che sembrava tanto ragionevole, — “siamo come tutti, siamo normali” — diventò la distruzione». Perché, ha ribadito, «questa è la mondanità. Questo è il cammino della mondanità, di quella radice velenosa, perversa».
Al riguardo Francesco ha confidato come lo abbia sempre colpito il fatto «che il Signore, nell’ultima cena pregasse per l’unità dei suoi e chiedesse al Padre che li liberasse da ogni spirito del mondo, da ogni mondanità, perché la mondanità distrugge l’identità; la mondanità porta al pensiero unico, non c’è differenza».
E la prima conseguenza di ciò è l’apostasia. Il Papa lo ha dimostrato proseguendo la rilettura del brano: «Poi il re prescrisse in tutto il suo regno che tutti formassero un solo popolo — il pensiero unico, la mondanità — e ciascuno abbandonasse le proprie usanze. Tutti i popoli si adeguarono agli ordini del re; anche molti israeliti accettarono il suo culto: sacrificarono agli idoli e profanarono il sabato». Dunque «l’apostasia. Cioè, la mondanità ti porta al pensiero unico e all’apostasia. Non sono permesse, non ci sono permesse le differenze». Finiamo col diventare «tutti uguali. E nella storia della Chiesa, nella storia abbiamo visto, penso a un caso, che alle feste religiose è stato cambiato il nome — il Natale del Signore ha un altro nome — per cancellare l’identità».
Inoltre non bisogna dimenticare, sembra voler dire la lettura, che all’apostasia segue la persecuzione. «Il re — ha continuato il Pontefice — innalzò sull’altare un abominio di devastazione. Anche nelle vicine città di Giuda eressero altari e bruciarono incenso sulle porte delle case e nelle piazze; stracciavano i libri della legge che riuscivano a trovare e li gettavano nel fuoco. Se, presso qualcuno, veniva trovato il libro dell’alleanza e se qualcuno obbediva alla legge, la sentenza del re lo condannava a morte». Ecco appunto «la persecuzione», che «incomincia da una radice» anche «piccola, e finisce nell’abominazione della desolazione». Del resto, «questo è l’inganno della mondanità». E perciò nell’ultima cena Gesù domandava al Padre: «Non ti chiedo di toglierli dal mondo, ma custodiscili dal mondo», ovvero «da questa mentalità, da questo umanismo, che viene a prendere il posto dell’uomo vero, Gesù Cristo»; da questa mondanità «che viene a toglierci l’identità cristiana e ci porta al pensiero unico: “Tutti fanno così, perché noi no?”».
Ecco allora l’attualità del brano odierno, che «di questi tempi, ci deve far pensare» a com’è la nostra identità. Occorre chiedersi: «È cristiana o mondana? O mi dico cristiano perché da bambino sono stato battezzato o sono nato in un Paese cristiano, dove tutti sono cristiani?». Secondo Francesco è necessario trovare una risposta a tali domande, poiché «la mondanità che entra lentamente», poi «cresce, si giustifica e contagia». Come? «Cresce come quella radice» citata nella lettura; «si giustifica — “facciamo come tutta la gente, non siamo tanto differenti” — cerca sempre una giustificazione, e alla fine contagia, e tanti mali vengono da lì».
Al termine dell’omelia il Papa ha evidenziato come tutta «la liturgia, in questi ultimi giorni dell’anno liturgico», ci faccia pensare a queste cose, e in particolare oggi ci dica «nel nome del Signore: guardatevi dalle radici velenose, dalle radici perverse che ti portano lontano dal Signore e ti fanno perdere la tua identità cristiana». Si tratta insomma di un’esortazione a tenersi alla larga «dalla mondanità» e a chiedere nella preghiera, in particolare, che la Chiesa sia custodita «da ogni forma di mondanità. Che la Chiesa sempre abbia l’identità disposta da Gesù Cristo; che tutti noi abbiamo l’identità» ricevuta nel battesimo; «e che questa identità non venga buttata fuori» solo per voler «essere come tutti, per motivi di “normalità». In definitiva, ha concluso Francesco, «che il Signore ci dia la grazia di mantenere e custodire la nostra identità cristiana contro lo spirito di mondanità che sempre cresce, si giustifica e contagia».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 16-17/11/2015]
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che continua a vedere malgrado tutto (Papa Francesco)
Deus dilexit mundum! God observes the depths of the human heart, which, even under the surface of sin and disorder, still possesses a wonderful richness of love; Jesus with his gaze draws it out, makes it overflow from the oppressed soul. To Jesus, therefore, nothing escapes of what is in men, of their total reality, in which good and evil are (Pope Paul VI)
Deus dilexit mundum! Iddio osserva le profondità del cuore umano, che, anche sotto la superficie del peccato e del disordine, possiede ancora una ricchezza meravigliosa di amore; Gesù col suo sguardo la trae fuori, la fa straripare dall’anima oppressa. A Gesù, dunque, nulla sfugge di quanto è negli uomini, della loro totale realtà, in cui sono il bene e il male (Papa Paolo VI)
People dragged by chaotic thrusts can also be wrong, but the man of Faith perceives external turmoil as opportunities
Un popolo trascinato da spinte caotiche può anche sbagliare, ma l’uomo di Fede percepisce gli scompigli esterni quali opportunità
O Lord, let my faith be full, without reservations, and let penetrate into my thought, in my way of judging divine things and human things (Pope Paul VI)
O Signore, fa’ che la mia fede sia piena, senza riserve, e che essa penetri nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare le cose divine e le cose umane (Papa Paolo VI)
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
don Giuseppe Nespeca
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