Tradizioni o idee ipocrite, e ordine ideale
(Mc 7,1-13)
«Non è troppo piccolo il cuore del credente per Colui al quale non bastò il tempio di Salomone. Noi infatti siamo il tempio del Dio vivo. Come è scritto: “Abiterò in mezzo a loro”.
Se un personaggio importante ti dicesse: “Verrò ad abitare da te”, che cosa faresti? Se la tua casa è piccola, non c’è dubbio che rimarresti sconcertato, ti spaventeresti, preferiresti che la cosa non avvenisse. Ma tu non temere la venuta di Dio, non temere il desiderio del tuo Dio. Non ti riduce lo spazio, quando viene. Al contrario, venendo sarà lui a dilatarti» (S. Agostino, Discorso 23,7).
La religiosità può ingannare l’ordine ideale; la vita di Fede lo promuove, facendo leva su una perfezione e purezza derivate semplicemente dalla dimensione umana - del buon senso e dell’accorgersi.
È così che si migliora e si redime il mondo: unendosi con la Shekhinah del Padre; non arroccandosi in un fortino, come fossimo in una tana.
E l’avventura piena, oltre i confini, nello Spirito, ci fa sentire belli dentro, invece che malati da curare; anzi, capaci di dare spazio alla magia del Divino in noi stessi e nelle relazioni.
Senza mai sentirsi assediati, i figli reagiscono spontaneamente agli accadimenti - con innumerevoli iniziative benefiche personalizzanti, estranee a qualsiasi abitudine, concatenazione, nomenclatura.
Sotto la dinastia degli Erode il senso del clan e della comunità si stavano sgretolando.
Pur sentendo il costante richiamo del Tempio, a motivo delle necessità impellenti non si era più aperti alla comunione.
Troppe le tasse da pagare, sia al governo che alla Casa di Dio.
Così i debiti aumentavano, accentuando problemi di sopravvivenza e sfilacciando la fraternità di parentela e la solidarietà di stirpe.
Le famiglie erano costrette a chiudersi in se stesse, allentare i legami, diradare la partecipazione alle riunioni e pensare alle proprie necessità.
Tale chiusura era rafforzata dalla devozione dell’epoca sotto ogni aspetto, e qui (vv.9-13) ne vediamo un esempio incredibile: chi dedicava la propria eredità al Tempio poteva lasciare i propri genitori privi d’aiuto!
Foto di un credo che rinnegava il comandamento di Dio in nome di Dio: korbàn [offerta fatta a Dio] senza pietà.
Spietatezza rituale priva di qualsiasi barlume di cordialità - però religiosamente connesse.
Offesa e offerta: ingiustizia e comportamento normativo.
Strano legame reciproco, tra due bussole poco affini - nell’apparente forma dall’accento esemplare, devoto, perbenista, longanime, confidente e pio.
«Bellamente annullate il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9).
L’osservanza delle norme di purità era fattore di ordinaria emarginazione per molte persone: donne, bambini, malati, stranieri, poveri.
Era la situazione reale più sgradevole per la (vera) sacralità della vita, per il suo incanto - sottoposto a una specie di scuola dell’obbligo, tutta distante dai malfermi.
Proprio i miseri venivano considerati in specie ignoranti e maledetti, perché impossibilitati all’adempimento globale. Di conseguenza, manchevoli a ricevere la consolante benedizione promessa ad Abramo.
Uno stillicidio quotidiano che minava il significato profondo dell’esistere assieme.
In particolare, le abluzioni erano una sorta di rito durante il quale si celebrava un’appagante divaricazione tra sacro e profano - la Santità - nel distacco da persone e situazioni considerate impure.
Stando fuori dalle supposte sozzure, mai nessuno poteva essere risollevato.
Quindi le norme non erano fonte di pace, bensì di schiavitù: come sopra accennato, coloro che non potevano osservarle venivano considerati ignobili, non-persone.
Porgere una mano caritatevole sarebbe stato perfino sacrilego.
Insomma, si anteponevano inezie disumane alla stessa Legge, vanificandone lo spirito comprensivo [fraternità che avrebbe accentuato l’entusiasmo di esistere].
Poi, sia i limiti stretti che le posizioni estreme portavano all’incoerenza di chi svuotava il contenuto della Parola e impediva di attivare un percorso diverso per raggiungere l’autenticità della purezza.
“Perfezione” doveva essere: immersione nel dialogo, invece che quel precipitare in una ideologia eticista esterna. E in tal guisa lasciarsi sprofondare da lacciuoli sacrali che accentuassero stati esclusivi, di autocompiacimento, esaltazione - o assuefazione.
Calati in quel contesto sterilizzato e umiliante ogni iniziativa, l’identificazione prevaleva su qualsivoglia vocazione o destino missionario.
Ingannate e ingabbiate da cappe unidirezionali, le persone abbracciavano solo percorsi che già conoscevano.
La donna e l’uomo smarrivano il senso del loro esistere poliedrico. E la vita senza i “contrari” affievoliva l’Esodo del popolo tutto.
Gesù non sopportava che il mondo chiuso della religiosità potesse esser piegato e usato per controllare, dividere e discriminare - annientare il cammino e i rapporti.
I soddisfatti in tal senso diventavano fonte di mediocrità, ovunque - mentre come anche noi sappiamo, la Gioia è frutto di Liberazione; non di percorsi unilaterali.
Il senso di completezza è legato alla valorizzazione delle differenze. Ciò riguarda sia le vicende personali che sociali.
Lo sappiamo infallibilmente, per sapienza di Natura.
Dice infatti il Tao Tê Ching (LXXXI): «La Via del Cielo è di avvantaggiare, e di non danneggiare».
Dappertutto incontriamo i nostri allarmi personali, o crucci materiali; mille occupazioni che distraggono. Anche progetti per la qualità delle relazioni - forse ancora mescolate con l’imparaticcio di usi venerandi o la page [espedienti senza correlazione] che ci debilitano.
Per questo, al controllo dei farisei si oppone la libertà dei discepoli (v.2), che rifiutano di obbedire a ciò che non ha senso per la vita reale - dove passa l’amore visibile che alimenta l’amore ideale.
Gesù insegna che il vero culto è vicinanza e autenticità pratica, non osservanza letterale ai modelli o alle dottrine cerebrali.
Nel solco della Parola c’è una tappa e un intero ordine nuovo, che conquista all’interiorità tutti i nessi esterni.
Egli collega rito e azione, fede e amore, prescrizione consuetudinaria e obbligo intimo.
Unico comando in grado di purificare e farci immagine e somiglianza di Persona che sa incontrare il suo opposto, secondo l’unità in Spirito del culto.
Quando accogliamo l’appello dei Vangeli riconoscendolo quale stimolo che corrisponde e costruisce convivialità delle differenze, ci sentiamo meno duri e orgogliosi.
Se viceversa restiamo distanti, andremo in chiesa inciampando con le tradizioni o con idee nuove pur grandi, ma senza rapportarci col disegno di salvezza del Padre.
L’Eterno non vuole scippare le nostre capacità, ma spalancare al bene e all’autentica estasi.
Purezza dell’avvantaggiare - non del modello di perfezione.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Qual è il senso della purezza insegnata da Gesù?
La tua fede è vicina o lontana dalla vita?
Ed ecco il problema
Ed ecco il problema: quando il popolo si stabilisce nella terra, ed è depositario della Legge, è tentato di riporre la sua sicurezza e la sua gioia in qualcosa che non è più la Parola del Signore: nei beni, nel potere, in altre ‘divinità’ che in realtà sono vane, sono idoli. Certo, la Legge di Dio rimane, ma non è più la cosa più importante, la regola della vita; diventa piuttosto un rivestimento, una copertura, mentre la vita segue altre strade, altre regole, interessi spesso egoistici individuali e di gruppo. E così la religione smarrisce il suo senso autentico che è vivere in ascolto di Dio per fare la sua volontà - che è la verità del nostro essere - e così vivere bene, nella vera libertà, e si riduce a pratica di usanze secondarie, che soddisfano piuttosto il bisogno umano di sentirsi a posto con Dio. Ed è questo un grave rischio di ogni religione, che Gesù ha riscontrato nel suo tempo, ma che si può verificare, purtroppo, anche nella cristianità. Perciò le parole di Gesù nel Vangelo di oggi contro gli scribi e i farisei devono far pensare anche noi.
[Papa Benedetto, Angelus 2 settembre 2012]
Due carte d’identità
Per conoscere la nostra vera identità non possiamo essere «cristiani seduti» ma dobbiamo avere il «coraggio di metterci sempre in cammino per cercare il volto del Signore», perché noi siamo «immagine di Dio». Nella messa celebrata a Santa Marta martedì 10 febbraio, Papa Francesco, commentando la prima lettura liturgica — il racconto della creazione nel libro della Genesi (1, 20 - 2, 4) — ha riflettuto su una domanda essenziale per ogni persona: «Chi sono io?».
La nostra «carta d’identità», ha detto il Papa, si ritrova nel fatto che gli uomini sono stati creati «all’immagine, secondo la somiglianza di Dio». Ma allora, ha aggiunto, «la domanda che noi possiamo farci è: Come conosco, io, l’immagine di Dio? Come so com’è lui per sapere come sono io? Dove trovo l’immagine di Dio?». La risposta si trova «certamente non sul computer, non nelle enciclopedie, non nei libri», perché «non c’è un catalogo dove c’è l’immagine di Dio». C’è solo un modo «per trovare l’immagine di Dio, che è la mia identità» ed è quello di mettersi in cammino: «Se non ci mettiamo in cammino, mai potremo conoscere il volto di Dio».
Questo desiderio di conoscenza si ritrova anche nell’Antico testamento. I salmisti, ha fatto notare Francesco, «tante volte dicono: io voglio conoscere il tuo volto»; e «anche Mosè una volta l’ha detto al Signore». Ma in realtà «non è facile, perché mettersi in cammino significa lasciare tante sicurezze, tante opinioni di come è l’immagine di Dio, e cercarlo». Significa, in altri termini, «lasciare che Dio, la vita, ci metta alla prova», significa «rischiare», perché «soltanto così si può arrivare a conoscere il volto di Dio, l’immagine di Dio: mettendosi in cammino».
Il Papa ha attinto ancora all’Antico testamento per ricordare che «così ha fatto il popolo di Dio, così hanno fatto i profeti». Per esempio «il grande Elia: dopo aver vinto e purificato la fede di Israele, lui sente la minaccia di quella regina e ha paura e non sa cosa fare. Si mette in cammino. E a un certo punto, preferisce morire». Ma Dio «lo chiama, gli dà da mangiare, da bere e dice: continua a camminare». Così Elia «arriva al monte e lì trova Dio». Il suo è stato dunque «un lungo cammino, un cammino penoso, un cammino difficile», ma ci insegna che «chi non si mette in cammino, mai conoscerà l’immagine di Dio, mai troverà il volto di Dio». È una lezione per tutti noi: «i cristiani seduti, i cristiani quieti — ha affermato il Pontefice — non conosceranno il volto di Dio». Hanno la presunzione di dire: «Dio è così, così...», ma in realtà «non lo conoscono».
Per camminare, invece, «è necessaria quella inquietudine che lo stesso Dio ha messo nel nostro cuore e che ti porta avanti a cercarlo». La stessa cosa, ha spiegato il Pontefice, è successa «a Giobbe che, con la sua prova, ha incominciato a pensare: ma come è Dio, che permette questo a me?». Anche i suoi amici «dopo un grande silenzio di giorni, hanno incominciato a parlare, a discutere con lui». Ma tutto ciò non è stato utile: «con questi argomenti, Giobbe non ha conosciuto Dio». Invece «quando lui si è lasciato interpellare dal Signore nella prova, ha incontrato Dio». E proprio da Giobbe si può ascoltare «quella parola che ci aiuterà tanto in questo cammino di ricerca della nostra identità: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto”». È questo il cuore della questione secondo Francesco: «l’incontro con Dio» che può avvenire «soltanto mettendosi in cammino».
Certo, ha continuato, «Giobbe si è messo in cammino con una maledizione», addirittura «ha avuto il coraggio di maledire la vita e la sua storia: “Maledetto il giorno che sono nato...”». In effetti, ha riflettuto il Papa, «a volte, nel cammino della vita, non troviamo un senso alle cose». La stessa esperienza è stata vissuta dal profeta Geremia, il quale «dopo essere stato sedotto dal Signore, sente quella maledizione: “Ma perché a me?”». Egli voleva «restarsene seduto tranquillo» e invece «il Signore voleva fargli vedere il suo volto».
Questo vale per ognuno di noi: «per conoscere la nostra identità, conoscere l’immagine di Dio, bisogna mettersi in cammino», essere «inquieti, non quieti». Proprio questo «è cercare il volto di Dio».
Papa Francesco si è quindi riferito anche al passo del Vangelo di Marco (7, 1-13), nel quale «Gesù incontra gente che ha paura di mettersi in cammino» e che costruisce una sorta di «caricatura di Dio». Ma quella «è una falsa carta d’identità» perché, ha spiegato il Pontefice, «questi non-inquieti hanno fatto tacere l’inquietudine del cuore: dipingono Dio con i comandamenti» ma così facendo «si dimenticano di Dio» per osservare solo «la tradizione degli uomini». E «quando hanno un’insicurezza, inventano o fanno un altro comandamento». Gesù dice a scribi e farisei che accumulano comandamenti: «Così voi annullate la Parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi, e di cose simili ne fate molte». Proprio questa «è la falsa carta d’identità, quella che possiamo avere senza metterci in cammino, quieti, senza l’inquietudine del cuore».
In proposito il Papa ha messo in evidenza un particolare «curioso»: il Signore infatti «li loda ma li rimprovera dove c’è il punto più dolente. Li loda: “Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione”», ma poi «li rimprovera lì dove è il punto più forte dei comandamenti con il prossimo». Gesù ricorda infatti che Mosè disse: «Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre o la madre sia messo a morte». E prosegue: «Voi invece dite: se uno dichiara al padre o alla madre che “ciò con cui dovrei aiutarti, cioè darti da mangiare, darti da vestire, darti per comprare le medicine, è Korbàn, offerta a Dio”, non consentite loro di fare più nulla per il padre e la madre». Così facendo «si lavano le mani con il comandamento più tenero, più forte, l’unico che ha una promessa di benedizione». E così «sono tranquilli, sono quieti, non si mettono in cammino». Questa dunque «è l’immagine di Dio che loro hanno». In realtà il loro è un cammino «fra virgolette»: ossia «un cammino che non cammina, un cammino quieto. Rinnegano i genitori, ma compiono le leggi della tradizione che loro hanno fatto».
Concludendo la sua riflessione il vescovo di Roma ha riproposto il senso dei due testi liturgici come «due carte d’identità». La prima è «quella che tutti noi abbiamo, perché il Signore ci ha fatto così», ed è «quella che ci dice: mettiti in cammino e tu avrai conoscenza della tua identità, perché tu sei immagine di Dio, sei fatto a somiglianza di Dio. Mettiti in cammino e cerca Dio». L’altra invece ci rassicura: «No, stai tranquillo: compi tutti questi comandamenti e questo è Dio. Questo è il volto di Dio». Da qui l’auspicio che il Signore «dia a tutti la grazia del coraggio di metterci sempre in cammino, per cercare il volto del Signore, quel volto che un giorno vedremo ma che qui, sulla terra, dobbiamo cercare».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 11/02/2015]