don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 08 Luglio 2024 07:18

Il Regno si è fatto Vicino

Emergenza grande, per piccolo Nome

 

(Mt 10,1-7)

 

«Questi dodici Gesù mandò dopo aver ordinato loro dicendo: Non andate nella Via dei pagani, e non entrate in città di samaritani - ma partite piuttosto verso le pecore perdute della Casa di Israele».

L’annuncio della nuova Fede aveva bisogno di respiro; eppure avrebbe trovato un fitto fuoco d’interdizione, assai tenace, proprio a partire dai frequentatori della religiosità radicata e abitudinaria - legata all’ideologia di potere.

Il primo restringimento ad Israele si era reso necessario, proprio al fine di scoperchiare la devozione più pericolosa: quella vuota e chiusa della sinagoga che - assuefatta all’attesa dello straordinario esterno - ormai non attendeva nulla di autentico che riuscisse a destarla.

Ma il senso dei vv.5-6 è assai profondo anche dal punto di vista personale, e riguarda non soltanto l’iniziale restrizione verso il Popolo eletto della Rivelazione messianica, dell’apertura universalistica esplicita, o della Missione.

 

Nessuno degli apostoli era per sé degno della Chiamata; eppure viene interpellato, e può accogliere il suo Mandato - come fosse già perfetto!

Gran parte di loro ha nomi tipici del giudaismo, addirittura del tempo dei patriarchi - il che indica un’estrazione culturale e spirituale radicata più nella religione che nella Fede... non facile da gestire.

Pietro smaniava per farsi avanti, ma pure retrocedendo spesso (marcia indietro) sino a diventare per Gesù un «satàn» [nella cultura dell’oriente antico, un funzionario del gran sovrano, inviato a fare il controllore e delatore - praticamente un accusatore]. Giacomo di Zebedeo e Giovanni erano fratelli, accesi fondamentalisti, e istericamente volevano il Maestro solo per loro. Filippo non sembrava un tipo molto pratico, né svelto o formato a cogliere le cose di Dio. Andrea pare invece cavarsela bene: persona inclusiva. Bartolomeo era probabilmente aperto ma perplesso, perché il Messia non gli corrispondeva granché. Tommaso era un poco dentro e un po’ fuori. Matteo un collaborazionista, avido complice del sistema oppressivo. Simone il Cananeo una testa calda. Giuda Iscariota uno che si autodistrugge fidandosi delle vecchie guide spirituali, impregnate di un’ideologia nazionalista, d’interesse privato, opportunismo e potere. Altri due (Giacomo figlio di Alfeo e Giuda Taddeo) forse semplici discepoli di non grande rilievo o capacità d’iniziativa.

 

Ma il Regno è «vicino» [v.7: «si è fatto vicino»]: Dio è nella nostra storia - già lo si sperimentava negli albori, nella sua prima comunità di figli.

Nella devozione antica, l’idea di un Dio distante produceva separazioni, gerarchie piramidali, coltivazione d’interessi interni di cerchia (spacciati per grande sensibilità e altruismo).

L’idea di un Eterno condottiero e vendicatore lasciava prolificare una classe sacerdotale che invece di conciliare e integrare, trascurava e abbandonava le persone ininfluenti.

Il fatto di credere a una Presenza divina legata all’abbondanza materiale ottundeva le menti e la capacità di lettura della Redenzione.

[L’idea di vantaggio e svantaggio, floridezza e penuria, hanno sempre origine in noi oppure nella mentalità convenzionale, delle opinioni].

Pertanto, è fondamentale prima maturare, ovunque viviamo.

Infatti non di rado ci sono motivi poco nobili per voler giungere ovunque, correre dappertutto (per fare proseliti), diffondere, incrementare e farlo subito.

L’uomo o il club dalle molte brame le proietta; e di frequente procura in sé o altrove i suoi stessi influssi torbidi.

Infedeltà celata, che non proponendo semplicità di vita e valori dello spirito, allontanano, edificando altri templi e santuari.

 

La carica di universalità genuina è contenuta nel radicamento ai valori, così come nella conoscenza delle proprie lacune.

Princìpi virtuosi e lati nascosti sono aspetti energetici complementari, e daranno frutto a suo tempo; a tutto tondo.

Dobbiamo prenderne atto profondamente, senza proiezioni fatue, anche nei lati inespressi.

Insomma, sembra un paradosso, ma l’apertura ai pagani è un problema squisitamente interno.

È da se stessi e a partire dalla comunità che si guarda il mondo. Non dal troppo esotico - almeno in prima battuta.

È la Via dell’Intimo che compenetra sul serio la via delle periferie. Infatti, solo amando la forza si preferisce partire dal troppo distante.

Bisogna anzitutto guarire e completare ciò ch’è prossimo.

Del resto, chi non è libero e consapevole non può liberare, né convincere - o trascinare la realtà.

 

Unico modo poi di scrutare lontano è attenersi alla ragione delle cose, principio che si conosce se non fuorviati dalla dispersione della società (anche sacrale) dell’esterno.

Intesa la natura di sé e delle creature, e conformandovisi in modo crescente, nel proprio sviluppo, tutti vengono ispirati a completarsi e trasmutare.

Tutto ciò arricchendo anche un’eventuale sclerosi culturale, senza forzature alienanti.

In tal guisa, esercitando una pratica di bontà prima con se stessi… per guarire i disagi dell’anima altrui - avendoli conosciuti nell’intimo.

Dice infatti il Tao Tê Ching [XLVII]:

«Senza uscir dalla porta, conosci il mondo; senza guardar dalla finestra, scorgi la Via del Cielo. Più lungi te ne vai, meno conosci. Per questo il santo non va dattorno eppur conosce, non vede eppur discerne, non agisce eppur completa».

Solo dalla Fonte dell’essere scaturisce una vita da salvati. (Sarebbe dannoso mettere il carro davanti ai buoi).

Siamo segno di dedizione e persone protese? Senza fare la setta, dopo una buona formazione, inclusiva degli opposti: integrativa dei difetti, dei momenti no, e dell’intelligenza sui propri stati d’animo.

 

Non per distinguere il momento della Chiamata da quello dell’Invio.

La Strada del Cielo è intrecciata alla Via della Persona, non dell’eccellenza; non dei modelli - o saremo «pescatori» da strapazzo.

Il Regno si è fatto vicino e per Nome, sin dai primordi (vv.2-4): non c’è Missione autentica e sanante più incisiva.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Nella tua esperienza, quale catena ha unito il Cielo e la terra?

L’elenco e lo sforzo delle trasgressioni da correggere in modo nevrotico, o una Chiamata personale, inclusiva dei tuoi molti volti dell’anima - Vocazione sostenuta da una Chiesa fattasi eco e Fonte gratuita di comprensione a tutto tondo?

Lunedì, 08 Luglio 2024 07:13

Secondo l’attesa messianica

A chi saranno inviati gli Apostoli? Nel Vangelo Gesù sembra restringere al solo Israele la sua missione: "Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d'Israele" (Mt 15, 24). In maniera analoga egli sembra circoscrivere la missione affidata ai Dodici: "Questi Dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: "Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele"" (Mt 10, 5s.). Una certa critica moderna di ispirazione razionalistica aveva visto in queste espressioni la mancanza di una coscienza universalistica del Nazareno. In realtà, esse vanno comprese alla luce del suo rapporto speciale con Israele, comunità dell'alleanza, nella continuità della storia della salvezza. Secondo l'attesa messianica le promesse divine, immediatamente indirizzate ad Israele, sarebbero giunte a compimento quando Dio stesso, attraverso il suo Eletto, avrebbe raccolto il suo popolo come fa un pastore con il gregge: "Io salverò le mie pecore e non saranno più oggetto di preda... Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore; io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide mio servo sarà principe in mezzo a loro" (Ez 34, 22-24). Gesù è il pastore escatologico, che raduna le pecore perdute della casa d'Israele e va in cerca di esse, perché le conosce e le ama (cfr Lc 15, 4-7 e Mt 18, 12-14; cfr anche la figura del buon pastore in Gv 10, 11ss.). Attraverso questa "raccolta" il Regno di Dio si annuncia a tutte le genti: "Fra le genti manifesterò la mia gloria e tutte le genti vedranno la giustizia che avrò fatta e la mano che avrò posta su di voi" (Ez 39, 21).

E Gesù segue proprio questo filo profetico. Il primo passo è la "raccolta" del popolo di Israele, perché così tutte le genti chiamate a radunarsi nella comunione col Signore, possano vedere e credere. Così, i Dodici, assunti a partecipare alla stessa missione di Gesù, cooperano col Pastore degli ultimi tempi, andando anzitutto anche loro dalle pecore perdute della casa d'Israele, rivolgendosi cioè al popolo della promessa, il cui raduno è il segno di salvezza per tutti i popoli, l'inizio dell'universalizzazione dell'Alleanza. Lungi dal contraddire l'apertura universalistica dell'azione messianica del Nazareno, l'iniziale restringimento ad Israele della missione sua e dei Dodici ne diventa così il segno profetico più efficace. Dopo la passione e la risurrezione di Cristo tale segno sarà chiarito: il carattere universale della missione degli Apostoli diventerà esplicito. Cristo invierà gli Apostoli "in tutto il mondo" (Mc 16, 15), a "tutte le nazioni" (Mt 28, 19; Lc 24, 47, "fino agli estremi confini della terra" (At 1, 8). E questa missione continua. Continua sempre il mandato del Signore di riunire i popoli nell'unità del suo amore. Questa è la nostra speranza e questo è anche il nostro mandato: contribuire a questa universalità, a questa vera unità nella ricchezza delle culture, in comunione con il nostro vero Signore Gesù Cristo.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 22 marzo 2006]

Lunedì, 08 Luglio 2024 07:08

Vangelo del Regno

1. In quest'anno del Grande Giubileo, tema di fondo delle nostre catechesi è la gloria della Trinità, quale ci è stata rivelata nella storia della Salvezza. Abbiamo riflettuto sull’Eucaristia, massima celebrazione di Cristo presente sotto gli umili segni del pane e del vino. Vogliamo ora dedicare alcune catechesi all’impegno che ci viene chiesto, perché la gloria della Trinità rifulga pienamente nel mondo.

E la nostra riflessione parte dal vangelo di Marco dove leggiamo: “Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,14-15). Sono queste le prime parole che Gesù pronunzia davanti alla folla: esse contengono il cuore del suo Vangelo di speranza e di salvezza, l’annuncio del Regno di Dio. Da quel momento in poi, come notano gli evangelisti, ‘Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo’ (Mt 4,23; cfr Lc 8,1). Sulla sua scia si pongono gli Apostoli e con loro Paolo, l’Apostolo delle genti, chiamato ad ‘annunziare il Regno di Dio’ in mezzo alle nazioni fino alla capitale dell’impero romano (cfr At 20, 25; 28, 23.31).

2. Con il Vangelo del Regno, Cristo si collega alle Scritture Sacre che, attraverso l’immagine regale, celebrano la signoria di Dio sul cosmo e sulla storia. Così leggiamo nel Salterio: ‘Dite tra i popoli: Il Signore regna! Sorregge il mondo, perché non vacilli; governa le nazioni’ (Sal 96,10). Il Regno è, quindi, l’azione efficace ma misteriosa che Dio svolge nell’universo e nel groviglio delle vicende umane. Egli vince le resistenze del male con pazienza, non con prepotenza e clamore.

Per questo il Regno è paragonato da Gesù al granello di senape, il più piccolo di tutti i semi, destinato però a diventare un albero frondoso (cfr Mt 13,31-32), o al seme che un uomo ha deposto nella terra: ‘dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa’ (Mc 4,27). Il Regno è grazia, amore di Dio per il mondo, sorgente per noi di serenità e di fiducia: ‘Non temere, piccolo gregge - dice Gesù - perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo Regno’ (Lc 12,32). Le paure, gli affanni, gli incubi si dissolvono, perché il Regno di Dio è in mezzo a noi nella persona di Cristo (cfr Lc 17,21).

3. Tuttavia l’uomo non è un inerte testimone dell’ingresso di Dio nella storia. Gesù ci invita a ‘cercare’ attivamente ‘il Regno di Dio e la sua giustizia’ e a fare di questa ricerca la nostra preoccupazione principale (Mt 6,33). A quelli che ‘credevano che il Regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro’ (Lc 10,11), egli prescrisse un atteggiamento attivo invece di una attesa passiva, raccontando loro la parabola delle dieci mine da far fruttare (cfr Lc 19,12-27). Dal canto suo, l’apostolo Paolo dichiara che ‘il Regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è - anzitutto – giustizia’ (Rm 14,17) ed invita pressantemente i fedeli a mettere le loro membra a servizio della giustizia in vista della santificazione (cfr Rm 6,13.19).

La persona umana è quindi chiamata a cooperare con le sue mani, la sua mente ed il suo cuore all’avvento del Regno di Dio nel mondo. Questo è vero specialmente di coloro che sono chiamati all’apostolato, e che sono, come dice Paolo, ‘cooperatori del Regno di Dio’ (Col 4,11), ma è anche vero di ogni persona umana.

4. Nel Regno entrano le persone che hanno scelto la via delle Beatitudini evangeliche, vivendo come ‘poveri di spirito’ nel distacco dai beni materiali, per sollevare gli ultimi della terra dalla polvere della loro umiliazione. ‘Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo - si domanda Giacomo nella sua Lettera - per farli ricchi con la fede ed eredi del Regno che ha promesso a quelli che lo amano?’ (Gc 2,5). Nel Regno entrano coloro che sopportano con amore le sofferenze della vita: ‘È, infatti, necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio’ (At 14,22; cfr 2 Ts 1,4-5), dove Dio stesso ‘tergerà ogni lacrima (‘) e non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno’ (Ap 21,4). Nel Regno entrano i puri di cuore che scelgono la via della giustizia, cioè dell’adesione alla volontà di Dio, come ammonisce san Paolo: ‘Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il Regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio’ (1 Cor 6,9-10; cfr 15,50; Ef 5,5).

5. Tutti i giusti della terra, anche quelli che ignorano Cristo e la sua Chiesa e che, sotto l'influsso della grazia, cercano Dio con cuore sincero (cfr Lumen gentium, 16), sono, dunque, chiamati a edificare il Regno di Dio, collaborando col Signore che ne è l’artefice primo e decisivo. Per questo dobbiamo affidarci alle sue mani, alla sua Parola, alla sua guida, come bambini inesperti che trovano solo nel Padre la sicurezza: ‘Chi non accoglie il Regno di Dio come un bambino - ha detto Gesù - non vi entrerà’ (Lc 18,17).

Con questo animo dobbiamo far nostra l’invocazione: ‘Venga il tuo Regno!’. Un’invocazione che nella storia dell’umanità è salita tante volte al cielo come un grande respiro di speranza: ‘Vegna vêr noi la pace del tuo regno’, esclama Dante nella sua parafrasi del Padre Nostro (Purgatorio XI,7). Un’invocazione che orienta lo sguardo al ritorno di Cristo e alimenta il desiderio della venuta finale del Regno di Dio. Questo desiderio però non distoglie la Chiesa dalla sua missione in questo mondo, anzi la impegna maggiormente (cfr CCC, 2818), nell’attesa di poter varcare la soglia del Regno, del quale la Chiesa è il germe e l'inizio (cfr Lumen gentium, 5), quando esso giungerà nel mondo in pienezza. Allora, ci assicura Pietro nella Seconda Lettera, "vi sarà ampiamente aperto l’ingresso nel Regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo" (2 Pt 1,11).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 6 dicembre 2000]

Lunedì, 08 Luglio 2024 06:58

Modo di porsi

«Gesù cominciò a predicare» (Mt 4,17). Così l’evangelista Matteo ha introdotto il ministero di Gesù. Egli, che è la Parola di Dio, è venuto per parlarci, con le sue parole e con la sua vita. In questa prima Domenica della Parola di Dio andiamo alle origini della sua predicazione, alle sorgenti della Parola di vita. Ci aiuta il Vangelo odierno (Mt 4,12-23), che ci dice come, dove e a chi Gesù incominciò a predicare.

1. Come iniziò? Con una frase molto semplice: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (v. 17). Questa è la base di tutti i suoi discorsi: dirci che il regno dei cieli è vicino. Che cosa significa? Per regno dei cieli si intende il regno di Dio, ovvero il suo modo di regnare, di porsi nei nostri confronti. Ora, Gesù ci dice che il regno dei cieli è vicino, che Dio è vicino. Ecco la novità, il primo messaggio: Dio non è lontano, Colui che abita i cieli è sceso in terra, si è fatto uomo. Ha tolto le barriere, ha azzerato le distanze. Non ce lo siamo meritato noi: Egli è disceso, ci è venuto incontro. E questa vicinanza di Dio al suo popolo è un’abitudine sua, dall’inizio, anche dall’Antico Testamento. Diceva Lui al popolo: “Pensa: quale popolo ha i suoi dei così vicini, come io sono vicino a te?” (cfr Dt 4,7). E questa vicinanza si è fatta carne in Gesù.

È un messaggio di gioia: Dio è venuto a visitarci di persona, facendosi uomo. Non ha preso la nostra condizione umana per senso di responsabilità, no, ma per amore. Per amore ha preso la nostra umanità, perché si prende quello che si ama. E Dio ha preso la nostra umanità perché ci ama e gratuitamente ci vuole dare quella salvezza che da soli non possiamo darci. Egli desidera stare con noi, donarci la bellezza di vivere, la pace del cuore, la gioia di essere perdonati e di sentirci amati.

[Papa Francesco, omelia 26 gennaio 2020]

Venerdì, 05 Luglio 2024 13:34

La fede e la lotta contro i pregiudizi

XIV Domenica del Tempo Ordinario B (7 luglio 2024)

1. In queste domeniche con l’evangelista Marco abbiamo seguito Gesù che, lasciata Nazaret, ha percorso villaggi e città, dopo essere stato battezzato da Giovanni Battista al fiume Giordano.  Predicando per tutta la Galilea, accompagnato già dai discepoli, si spinge oltre il lago di Tiberiade nelle città della Decapoli per venire poi a Cafarnao che diventerà la sua città preferita. Nel vangelo odierno lo vediamo tornare per la prima volta a Nazaret dove entra subito nella sinagoga preceduto dalla fama che andava rapidamente diffondendosi al punto che ci si interrogava donde gli venissero tanta saggezza e capacità di compiere prodigi. L’accoglienza che riceve è a dir poco negativa da parte di alcuni suoi parenti, che addirittura lo ritengono un pazzo, eppure molta gente resta affascinata dalla sua predicazione e dai miracoli che compie. I farisei e gli scribi a più riprese manifestano una crescente ostilità e qualcuno medita addirittura come eliminarlo. Qual è il suo crimine? Guarire i malati, rimettere i peccati e compire miracoli persino nel giorno di sabato. Così forte è l’opposizione che potremmo ritenere un vero fallimento il fatto che a Nazaret non può compiere nemmeno un miracolo. San Marco si sofferma sulla reazione dei suoi conoscenti scettici e ostili che riconoscevano Gesù semplicemente come il figlio di Maria e del falegname Giuseppe. Se fosse un profeta – dicevano - l’avremmo saputo e poi quando si proclama il Messia bestemmia perché è inconcepibile che Dio possa avere origini umane e per di più così modeste. E Gesù commenta: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.   Quest’espressione, che troviamo in tutti i vangeli (Marco 6, 4; Luca 4, 24; Matteo 13, 57, Giovanni 4, 44) è diventata comune per sottolineare che raramente vengono riconosciuti i meriti di una persona nel proprio ambiente dove l’invidia, la gelosia costringe chi merita a cercare il successo lontano dal proprio paese.

2. La reazione degli abitanti di Nazaret fa pensare a coloro che anche in questo nostro tempo fanno fatica ad accettare Gesù e i suoi veri profeti, perché fissati sulle proprie idee e pregiudizi, sono incapaci di cogliere la novità d’un Dio dal volto umano ed accessibile a tutti. E così l’ammirazione di tanti per Gesù vero Dio e vero uomo diventa per altri una fake news o addirittura uno scandalo. San Marco utilizza di proposito il termine greco “skandalon”, che evoca la pietra d’inciampo di cui scrive il profeta Isaia. Quando nel cuore sparisce l’umile ricerca della verità, la meraviglia lascia il posto all’incredulità e Gesù vero Dio e vero uomo diventa uno scandalo, un ostacolo che impedisce persino a persone che si dicono credenti di riconoscerlo e amarlo. Questo avvenne a Nazaret dove la gente non immaginava un Messia così e davanti al pregiudizio resta poco da fare perché si è troppo sicuri di sé e delle proprie convinzioni. Il rischio di chiudersi alla grazia di Dio è sempre possibile per tutti. Oggi il vangelo ci aiuta a comprendere che l’impedimento sta nell’attitudine con cui ci rapportiamo ai pregiudizi. Soltanto se guardiamo la realtà e le persone con l’animo libero riusciamo a vedere la ricchezza che abita il cuore di tutti, anche di coloro che sottovalutiamo perché siamo convinti di conoscerli già sufficientemente.  Nella vita possiamo stupirci per realtà positive, per esperienze che cambiano il modo di pensare e di agire, ma possiamo scandalizzarci per alcuni incontri ed eventi che riteniamo negativi quando a dominare in noi sono i preconcetti. Gesù c’invita a cogliere sempre il positivo in tutti piuttosto che concentrarci sul negativo che esiste e che fa purtroppo sempre più notizia del bene.

3. Se cerchiamo di vivere coerenti agli insegnamenti di Cristo e senza compromessi, attiriamo l’ammirazione di alcuni, e insieme l’ostilità di altri perché diventiamo “pietra di scandalo” cioè una provocazione per chi crede di credere e per chi non vuole credere. Chi resta fedele a Cristo deve prepararsi a subire incomprensioni e ostilità perché il Vangelo è salvezza per chi l’accoglie e lo segue, ma scandalo per chi non lo vuole accettare. E attenzione!  Capita spesso che sono proprio i più vicini a chiudere gli occhi e il cuore alla parola e ai prodigi che Cristo continua a compiere in questo nostro tempo. A diventare immagine di Gesù, si rischia l’incomprensione e l’isolamento. Capitava nell’Antico Testamento dove spesso i profeti erano incompresi, rigettati e persino tentavano di ucciderli, mentre i falsi profeti avevano facile presa sul popolo. Certamente Gesù non si aspettava un simile comportamento da parte dei suoi e Marco annota la sua meraviglia per la mancanza di fede e l’indurimento del cuore dei suoi concittadini. Come Gesù può capitare a ogni suo discepolo anche oggi di essere incomprenso all’interno del proprio ambiente. Ci si deve confrontare non tanto con l’ostilità manifesta dei nemici, quanto piuttosto con l’indifferenza e la contrarietà di coloro che riteniamo amici. Malgrado l’ostilità, Gesù non si ferma, e anche a Nazaret ha compiuto qualche guarigione. Ci aiuta così a capire che mai dobbiamo cedere allo scoraggiamento e alla tentazione dell’abbandono, ma dalla fiducia in Dio traiamo la forza per proseguire nella vocazione profetica e missionaria. Questa è la testimonianza del profeta Ezechiele di cui leggiamo nella prima lettura e pure dell’apostolo Paolo che egli stesso racconta nella seconda lettura. Ezechiele conoscerà ogni tipo di ostilità e dovrà affrontare persino l’esilio in Babilonia con il re e quasi tutti gli abitanti di Gerusalemme. Persevererà nella sua difficile missione scontrandosi con la durezza del popolo, ma senza scoraggiarsi, perché aveva compreso che quando Dio affida una missione dona anche la forza necessaria per portarla a compimento. Piena di contrasti è l’esperienza di san Paolo.  Come Ezechiele ha avuto visioni e rivelazioni straordinarie insieme a numerosi insuccessi che lo hanno fatto maturare nell’umiltà e nella fiducia in Dio. Ha portato sempre, come lui stesso comunica, nella sua carne una ”spina”, costante richiamo alla sua fragilità - come egli scrive: “Affinché io non montassi in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di satana per percuotermi” ed aggiunge che nonostante abbia ripetutamente implorato Dio di liberarlo, si è sentito rispondere: ”Ti basta la mia grazia , la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Nessuno ha capito cosa sia questa “spina nella carne” che lo martirizzava, né san Paolo lo precisa; anche se sono state avanzate tante ipotesi. Una cosa è certa: Paolo si gloria persino delle proprie sofferenze e il suo esempio diventa per noi un incoraggiamento: le nostre fragilità e persino i peccati non costituiscono un ostacolo all’evangelizzazione, anzi possono aiutarci a compiere meglio la nostra missione perché ci rendono consapevoli che la nostra fragile umanità è sorretta dalla potenza di Cristo, se lo lasciamo agire in noi. 

+ Giovanni D’Ercole 

Per proseguire la riflessione:

“La fede non è un fiore delicato, destinato ad appassire al minimo accenno di brutto tempo. La fede è come le montagne dell’Himalaya, che non possono modificarsi in alcun modo. Non c’è tempesta che possa smuovere le montagne dell’Himalaya dalle proprie fondamenta”.

(Mahatma Gandhi)

Lunedì, 01 Luglio 2024 14:12

Profeta, Patria, Famiglia

Sabato, 29 Giugno 2024 10:57

Morte biologica e morte spirituale

XIII Domenica del Tempo Ordinario B (30 giugno 2024)

1. Gesù è il Signore della vita e non della morte. Nel vangelo di questa XIII Domenica del Tempo Ordinario troviamo il racconto di due miracoli incastonati l’uno nell’altro nel vangelo di Marco, racconto presente anche nel vangelo di Matteo e di Luca. Si tratta della risurrezione della figlia di Giairo e la guarigione dell’emorroissa, donna che da dodici anni perde sangue: 12 gli anni della bambina, come 12 sono quelli della malattia della donna, per entrambe erano state tentate inutilmente tutte le possibilità della medicina. L’evangelista insiste sul fallimento dei medici per mettere in rilievo il potere di guarire che è proprio di Gesù, capace persino di risuscitare i morti. Tutto il vangelo di Marco ci aiuta a conoscere chi è Gesù e, se può dominare la violenza delle tempeste come abbiamo visto domenica scorsa, attraverso questi due prodigi ci assicura che tutto egli può essendo il Signore della vita. La rianimazione della figlia di Giairo fa pensare alla nostra risurrezione come pure al definitivo trionfo del regno di Dio che giungerà il giorno in cui egli dirà a tutta l’umanità, come alla fanciulla morta: “Talitha koum, alzati”. E tutto diventa possibile a chi crede. La salvezza, espressa in questi miracoli, abbraccia l’intera realtà umana e chiede come unica condizione che ci sia una fede liberamente proclamata, una fede possibile per tutti: sia per chi come Giairo, capo di sinagoga, è notabile e potente sia per chi è povero, come la donna condannata a soffrire e per di più considerata impura a causa della malattia. Altro messaggio importante è che, attraverso il racconto di questi miracoli, san Marco ci dice che Gesù è venuto a combattere ogni tipo di emarginazione fisica e spirituale. E ci chiede di fidarci di lui senza dubitare come coloro che lo deridevano perché aveva detto che la bambina non era morta ma dormiva.  L’opera di Dio è misteriosa e potente, e tutto diventa possibile a chi liberamente si abbandona nelle sue mani in ogni situazione anche drammatica. Chiamando poi come testimoni i discepoli a lui più vicini, Pietro Giacomo e Giovanni, che gli saranno accanto anche sul monte Tabor in occasione della Trasfigurazione e nell’orto del Getsemani nell’ora della passione, Gesù intende educarli a una fede salda che non poggia sulla ricerca di miracoli e di segni spettacolari, ma cerca di cogliere in ogni evento dell’esistenza l’intervento divino nell’umana fragilità.

2. Dio infatti non ci abbandona mai perché ci ama e ha creato l’uomo per l’incorruttibilità come leggiamo nella prima lettura. Si tratta d’un brano tratto dall’inizio del libro della Sapienza che fa pensare ai primi capitoli del libro della Genesi: entrambi iniziano con una lunga riflessione sul destino dell’essere umano. Scritti in epoche diverse e con stile differente abbordano però gli stessi problemi, quelli della vita e della morte. Essendo a contatto con popoli pagani, Israele, geloso custode della propria esperienza religiosa, intende salvaguardare la purezza della fede la cui prima caratteristica è proprio l’ottimismo che poggia sulla certezza dell’amore divino. L’affermazione che qui leggiamo: “Dio ha creato tutte le cose perché esistano, le creature del mondo sono poprtatrici di salvezza” può considerarsi una variante  di ciò che leggiamo nella Genesi: “Dio vide tutto ciò che aveva fatto: era cosa molto buona (Gn1,31).  E ancora, leggendo che “Dio ha creato l’uomo… lo ha fatto immagine della propria natura” non possiamo non pensare al libro della Genesi: “Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gn1,26). Ci ha voluto creare a sua immagine per la vita eterna, cioè per vivere eternamente con lui. Ma come giustificare la morte? E’ forse un fallimento di Dio? Assolutamente no! Ed é su questo tema che la parola di Dio oggi c’invita a riflettere. Occorre anzitutto distinguere tra la morte biologica che nella visione biblica e cristiana è come la trasformazione della crisalide in farfalla, cioè il passaggio da questa vita terrena all’eternità; ben altra cosa è la morte spirituale che consiste nel vivere separati da Dio e persino rigettandolo. Ed è proprio di questa morte che qui si tratta mettendo in evidenza che creando l’uomo Dio l’ha voluto per l’eternità, pur lasciandolo libero di scegliere di allontanarsi da lui. Questa morte, nota l’autore, è entrata nel mondo per l’invidia del diavolo e “ne fanno l’esperienza coloro che le appartengono”. Lasciandosi trainare da satana l’uomo sperimenta la morte spirituale, terribile destino dei malvagi, annota il libro della Sapienza dove, nei primi cinque capitoli, viene presentata l’opposizione fra i giusti che vivono della vita di Dio già sulla terra e gli empi che al contrario scelgono la morte, in altre parole decidono di rifiutare Dio e si condannano al distacco da lui. Giusto è colui che vive dello spirito di Dio, empio è chi non si lascia condurre da lui. Nel secondo libro della Genesi si legge che creando l’uomo Dio ha soffiato nelle sue narici il soffio della sua vita e da quel momemto l’essere umano è diventato “vivente”. Siamo quindi nati per vivere animati dal soffio di Dio, ma se ci allontaniamo, se rifiutiamo Dio, entriamo nel regno della vita che muore. La differenza fra i giusti e gli empi è presente anche nel primo salmo spesso citato nella liturgia: “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi…ma nella legge del Signore trova la sua gioia”. Ecco gente che gode della pace e della prosperità, come alberi piantati lungo corsi d’acqua, vigorosi e ricchi di foglie e poi di frutti. Non così i malvagi, che sono come la pula dispersa dal vento: una incisiva immagine della volatilità della vita senza Dio. Insomma la nostra esistenza ha in sé stessa il seme dell’eternità e solo chi lo rigetta sperimenta la morte spirituale che può diventare definitiva.

3. Il tema allora è duplice: come evitare la morte spirituale e come comportarsi davanti al destino della morte biologica che accomuna tutti gli esseri viventi essendo vero che tutto ciò che nasce è votato a morire.  L’odierna parola di Dio sottolinea due fondamentali attitudini possibili: quella dei pagani, di coloro cioè che professano di non voler credere, e assumono uno stile di comportamento riassunto nell’espressione “carpe diem”. Il significato di questo famoso detto latino è molteplice ma spesso viene interpretato come un invito a vivere profittando di ogni terrena opportunità per godere perché l’esistenza umana è breve: viviamo allora come possiamo e meglio ci piace perché tutto con la nostra morte prende fine e dopo la morte ci attende il nulla. Dinanzi al mistero della morte diversa è l’attitudine dei credenti definiti dalla parola di Dio “giusti”. Essi sanno di dover passare per la morte biologica ma sono stati creati per l’immortalità. Forse sulla terra non tutto va come piacerebbe e talora l’ingiustizia prevale: chi sembra godersi la vita facendo del male, agli occhi degli uomini appare appagato, mentre chi cerca di restare nella fedeltà di Dio passa per molte prove e può imbattersi in molte sofferenze sino a patire ingiustizie e cattiverie. Chi confida in Dio sa però che non tutto finisce con la morte biologica e se anche sulla terra non si riceve il compenso per il bene che si compie, non va mai dimenticato che Dio è infinitamente giusto e a suo tempo ristabilirà la giustizia. La virtù della speranza sostiene il nostro pellegrinaggio terreno e illumina il mistero della morte. Tutti dobbiamo morire e la morte è fase obbligata del nostro itinerario verso l’eternità anche se oggi ci si sforza di nasconderla per paura, e non se ne parla per non urtare la sensibilità delle persone che la ritengono un’inevitabile sventura. Quel che invece è da temere – ed è questo il messaggio della parola di Dio in questa liturgia domenicale – è la morte spirituale, l’eterna privazione di Dio. Ma quanti oggi si fermano a riflettere su questa realtà? Quanti passano i loro giorni sulla terra come se non dovessero mai morire? Quanti pur vivendo sono già morti spiritualmente? La parola di Dio ci aiuta a riconoscere e amare il Signore della vita e della morte,  c’invita ad affidarci senza timore fra le sue braccia di Padre misericordioso e fedele. E se qualche volta, dinanzi alle umane fragilità e ai peccati siamo tentati di scoraggiarci, prestiamo ascolto a quanto scrive san Giovanni: “Qualunque cosa esso (il cuore) ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv3, 20).

+ Giovanni D’Ercole

XII Domenica del Tempo Ordinario B (23.06.2024)

1. Il Signore cominciò a parlare a Giobbe in mezzo all’uragano. Così comincia la prima lettura, tratta dal libro di Giobbe che non pretende di raccontare la storia reale d’un uomo, ma è piuttosto una riflessione sapienziale sui grandi drammi e tragedie dell’uomo e dell’umanità. Il popolo ebreo sapeva che il diluvio universale distrusse tutto e in seguito ebbe a sperimentare la siccità, l’asprezza del deserto e quindi conosceva cosa significa soffrire la fame, la sete e le malattie. Presentare Dio come colui che domina le acque, i venti e la natura diventa un modo simbolico per proclamare la fede d’Israele nell’onnipotenza divina. Addirittura leggiamo qui che Dio parla in mezzo all’uragano, una maniera ancor più incisiva di dire che solamente il Signore è l’essere che domina la tempesta al punto da farla diventare il suo portavoce. La travagliata vicenda di Giobbe c’invita a considerare che nella vita d’ogni persona possono avvenire stravolgimenti d’ogni genere; in un modo o l’altro tutti dobbiamo fare i conti con il problema del male sotto le sue diverse forme: sofferenze fisiche, morali, sociali e spirituali, solitudine, fallimenti di ogni sogno e progetto, ingiustizie e sfruttamento, disperazione e morte. La tentazione della sfiducia spingeva il popolo, come avviene anche a noi, a ritenere Dio colpevole del male perché non basta essere persone perbene e religiose, come Giobbe uomo giusto e fedele a Dio, per esserne risparmiati. L’esperienza mostra che tutti all’improvviso possono conoscere disastri e sventure d’ogni genere, proprio come avvenne a Giobbe: la tragica fine dei suoi figli, la più nera miseria e l’improvvisa perdita di tutto ciò che possedeva, e, come se non bastasse, la malattia che lo ridusse a una ributtante larva umana. E’ nel mezzo di questo travaglio esistenziale che Giobbe interroga Dio sul perché della sofferenza che colpisce una persona buona come lui. E riceve un’articolata risposta dal Signore di cui l’odierno testo biblico ci riferisce soltanto l’inizio: una risposta che prende la forma di un lungo discorso che è bene rileggere integralmente nel libro di Giobbe. Dio, in maniera dolce e tranquilla, ma ferma e decisa rimette l’uomo al suo posto: non sei tu il creatore del mondo, né il dominatore di ogni fenomeno naturale, né sei tu che assicuri il cibo agli animali e la loro riproduzione. Non dimenticare allora che la vita di ogni essere umano è nelle mani di Dio, ma questo suo potere assoluto su tutto non serve a provare ed esaltare la sua onnipotenza, bensì tende a suscitare la fiducia dell’uomo perché nulla sfugge a Dio anche quando ci si ritrova nel pieno della sventura. Insomma chi ha scritto questo libro dell’Antico Testamento vuole incoraggiarci a non disperare quando ci sentiamo impotenti davanti a tragici imprevisti perché anche quando tutto crolla, noi restiamo sempre tra le braccia di un Dio che è Padre. Per quanto violente possono diventare le tempeste, lui non ci lascerà mai soccombere al male. La lezione di Giobbe è un invito a porre la fiducia in Dio sempre e comunque, con pazienza e perseveranza.

2. Riprende il tema della prima lettura la pagina del vangelo che si chiude con questa domanda: “Chi è dunque costui che anche il vento e il mare gli obbediscono?”. L’evangelista Marco mostra il contrasto tra la violenza della tempesta che rischia di sommergere la barca, lo spavento dei discepoli che svegliano preoccupati il Maestro e la pacatezza di Gesù che, destato dal sonno, con un semplice intervento tutto risolve. Comanda infatti al mare e al vento: “Taci, calmati!”  e immediatamente ristabilisce la calma. Se è vero che l’intero vangelo di Marco tende a offrire la risposta alla domanda: “Chi è il Cristo?”, nell’odierno brano troviamo la risposta perché c’invita a riflettere che la ragione per cui Gesù ha potere sulla creazione calmando la furia delle acque e del vento, sta nel fatto  che egli è Dio, lo stesso Dio che, come leggiamo nella prima lettura, ha limitato lo spazio delle acque, ha fatto delle nuvole il suo abito e ha bloccato l’arroganza dei flutti del mare ponendo le forze della natura al servizio del suo popolo. Nello stesso momento in cui i discepoli si pongono la domanda su chi sia quest’uomo che domina la violenza delle acque, si danno anche la risposta: è l’inviato di Dio e, proprio per questo come l’evangelista sottolinea, da terrorizzati a causa della tempesta sono poi pieni di meraviglia per la calma miracolosamente ristabilita. Ciò che tuttavia sorprende di più in questo testo non sono la paura dei discepoli per la furia della tempesta e poi il timore che provano davanti a colui che riconoscono come l’inviato di Dio, ma è piuttosto la domanda che Gesù rivolge loro: “Non avete ancora fede?”. Ci stupisce che Gesù ponga ai discepoli questa domanda. Renderci conto della nostra impotenza davanti a certe prove e difficoltà che ci sorprendono ed avere paura è del tutto normale. La domanda di Gesù c’invita ad andare oltre: quando siamo sopraffatti da qualcosa di assolutamente sconvolgente che pone in crisi la nostra vita come reagiamo? Quale è la nostra attitudine difronte alle tempeste che stravolgono improvvisamente il mondo? Come gli apostoli viene naturale gridare: Maestro siamo persi e tu che fai, tu dormi e non ti preoccupi di noi? L’evangelista Marco vuole metterci in guardia dal rischio di cadere nella tentazione di interpretare il frequente silenzio di Dio davanti a ciò che ci fa soffrire, come un segno della sua indifferenza e del suo abbandono. Al contrario, il vangelo ci vuole mettere in guardia dal rischio dello scoraggiamento e c’invita a non aver paura perché Dio, nonostante tutto, può tutto e ci riporta alla calma. Inoltre ce ne rivela il segreto: ci assicura che tutto è possibile se, come lui, abbiamo fiducia nel Padre celeste, il solo che può renderci capaci di comandare al mare in burrasca e calmare il vento impetuoso. 

Proviamo a riflettere: “non è il nostro sentimento d’impotenza davanti alle difficoltà già il segno di una mancanza di fede”? Non dobbiamo certamente prendere i nostri sogni come realtà e crederci onnipotenti alla maniera di Dio perché la realtà di ogni giorno ci riconduce alla nostra umana limitatezza. Si tratta però di crescere nella fede, cioè mantenere la fiducia che in Gesù tutto ci è possibile, compreso dominare la forza della natura e la violenza del male. Una simile fiducia pacifica il cuore e lo apre a inediti orizzonti di speranza pur quando si resta nel buio dei problemi.

3. Ecco la buona notizia: con l’avvento di Gesù è nato un nuovo mondo e niente resta come prima. Nel giardino dell’Eden Dio ordinò ad Adamo e Eva di lavorare e sottomettere la terra e non era un semplice modo di parlare, bensì il progetto di Dio che si realizzerà pienamente in Gesù. E il Cristo prima dell’ascensione dice agli apostoli: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli”: affida ai suoi discepoli l’intero pianeta (Mt 28,19). Ormai, come afferma san Paolo nell’odierna seconda lettura, l’amore di Cristo ci possiede e nulla più ci può separare da questo amore nel quale siamo stati immersi il giorno del battesimo. Spiega poi san Paolo: “se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove” (2Cor. 5,14-17). Con Cristo è nato il mondo nuovo: non siamo più nel mondo della prima creazione, ma dobbiamo entrare nel mondo della risurrezione di Cristo. Il battesimo ci rende nuova umanità chiamata a vivere in Cristo risorto un’esistenza di solidarietà, di giustizia e di condivisione nel servizio dei fratelli, imitando il Maestro che non è venuto per essere servito ma per servire. Questa novità di vita esige però di restare innestati in Cristo per diventare persone “nuove”, cioè rinnovate, e pronte ad affrontare le battaglie contro la violenza, l’ingiustizia e l’odio, che sfigurano il volto dell’umanità, contando sulla potenza dell’amore divino. Ci aiuti il Signore a realizzare con coerenza questa nostra vocazione cristiana per giungere, come san Paolo, a poter affermare che non siamo più noi che viviamo, ma Cristo vive in noi, e di conseguenza pronte a correre “con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Ebr.: 12, 2). In definitiva, se vogliamo essere coerenti con la nostra fede fino in fondo, la parola impossibile non fa parte del vocabolario dei cristiani, perché tutto è possibile a Dio: non è questa la vera provocazione per la nostra fede?

+Giovanni D’Ercole

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Luke’s passage puts before the eyes a double slavery: that of man «with his hand paralyzed, slave of his illness», and that of the «Pharisees, scribes, slaves of their rigid, legalistic attitudes» (Pope Francis)
Il racconto di Luca mette davanti agli occhi una duplice schiavitù: quella dell’uomo «con la mano paralizzata, schiavo della sua malattia», e quella «dei farisei, degli scribi, schiavi dei loro atteggiamenti rigidi, legalistici» (Papa Francesco)
There is nothing magical about what takes place in the Sacrament of Baptism. Baptism opens up a path before us. It makes us part of the community of those who are able to hear and speak [Pope Benedict]
Il Sacramento del Battesimo non possiede niente di magico. Il Battesimo dischiude un cammino. Ci introduce nella comunità di coloro che sono capaci di ascoltare e di parlare [Papa Benedetto]
Thus in communion with Christ, in a faith that creates charity, the entire Law is fulfilled. We become just by entering into communion with Christ who is Love (Pope Benedict)
Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore (Papa Benedetto)
«Francis was reproaching his brothers too harsh towards themselves, and who came to exhaustion by means of vigils, fasts, prayers and corporal penances» [FS 1470]
«Francesco muoveva rimproveri ai suoi fratelli troppo duri verso se stessi, e che arrivavano allo sfinimento a forza di veglie, digiuni, orazioni e penitenze corporali» [FF 1470]
From a human point of view, he thinks that there should be distance between the sinner and the Holy One. In truth, his very condition as a sinner requires that the Lord not distance Himself from him, in the same way that a doctor cannot distance himself from those who are sick (Pope Francis)
Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato (Papa Francesco)
The life of the Church in the Third Millennium will certainly not be lacking in new and surprising manifestations of "the feminine genius" (Pope John Paul II)
Il futuro della Chiesa nel terzo millennio non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del « genio femminile » (Papa Giovanni Paolo II)
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
E non basta che tu appartenga a Figlio di Dio, ma devi essere in lui, come le membra sono nel loro capo. Tutto ciò che è in te deve essere incorporato in lui e da lui ricevere vita e guida (Giovanni Eudes)
This transition from the 'old' to the 'new' characterises the entire teaching of the 'Prophet' of Nazareth [John Paul II]
Questo passaggio dal “vecchio” al “nuovo” caratterizza l’intero insegnamento del “Profeta” di Nazaret [Giovanni Paolo II]
And this is the problem: when the People put down roots in the land and are the depository of the Law, they are tempted to place their security and joy in something that is no longer the Word of God: in possessions, in power, in other ‘gods’ that in reality are useless, they are idols [Pope Benedict]

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