Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Gv 3,16-18(7-21)
Sollevare la Croce va ben oltre la capacità di resilienza.
Andare su e andare giù, andare oltre o retrocedere
(Vangelo dell’Esaltazione della santa Croce: Gv 3,13-17)
Niente da fare, malgrado due millenni di simboli, formule e riti cristiani, soprattutto in Italia restiamo al solito palo: guelfi contro ghibellini; persino mentre incombe un destino traballante.
Come mai una fede così ripiegata e incapace di liberare da puntigli occasionali? Perché - pur incamminati verso una montagna di debiti - continuiamo a comportarci come coloro che non smettono di papparsi a vicenda?
Abbiamo bisogno di una bella Conversione, con le piramidi rovesciate del “primato” e della gloria: arroganti, aggressivi, intransigenti e aitanti che divengono umili, miti, benevoli e deboli.
Non aver mai bisogno? Avere un gran bisogno! Motivo in più per aggrapparci al Crocifisso.
Del resto, uno dei primi compagni di Francesco - fra’ Egidio - diceva: «La via per andare in su è andare in giù». Ci chiediamo: qual è il senso di tale paradosso?
La festa di oggi ha il titolo di Esaltazione (o Invenzione - derivante dal latino: ritrovamento). Il Vangelo parla invece di «Innalzamento».
Certo, sinonimo di farsi vedere e notare, ma sotto una «specie contraria». Dunque, come elevare la vita fissando Gesù crocifisso? Il passo di Nicodemo suggerisce una risposta.
Il dottore della Legge, fariseo e membro del Sinedrio è «nella notte»perché diseducato all’idea normale di uomo riuscito: se Dio è “qualcuno”, anche il seguace… gli deve somigliare negli attributi di possesso, potenza e gloria.
Tuttavia giunge il momento in cui anche il costume popolare o teologico e l’antiquato modo di vedere le cose viene scosso dal dubbio, dall’alternativa di Cristo.
Davvero la persona ch’evolve è quella che s’impone? Sul serio l’uomo riuscito è quello che sale sugli altri - trattati a sgabello - o non sarà per caso colui che ha la libertà di scendere per farci respirare?
Tutto con spontaneità e fluidità, non sforzo: imporsi scalate di rinuncia e dolore non è terapeutico e non estrae da noi il meglio. Anzi ci separa da quella plasticità e semplicità che producono nel mondo le cose migliori.
La Croce non è una disciplina di purificazioni standard, del tipo: voler cambiare vita, mettere a posto i rapporti soffocando le incoerenze che ci appartengono, mettersi in testa di centrare traguardi e farcela (anche spiritualmente) a tutti i costi...
Questi sono i soliti programmi di miglioramento a cliché che spesso non ci rendono naturali, bensì pieni d’artifizio - e non consentono di stare a viso aperto con noi stessi, quindi neppure con gli altri.
In Cristo la Croce apre orizzonti intatti, perché non dà più nulla per scontato. È un nuovo Giudizio, globale e di merito.
Affiorano altre possibilità, le quali ci fanno incontrare il cambiamento che risolve i veri problemi - proprio nell’incedere di vacillamenti sregolati.
Se vissuta nella Fede, la mescolanza pencolante è una realtà profondamente energetica, plasmabile ed evolutiva.
Porta sì in una situazione di caos, disordine nel quale però emerge un migliore rapporto con le azioni e il nostro destino, persino recuperando tutto quanto pensavamo irrealizzabile.
Ciò avviene nell’indeterminazione che ci accosta alla nostra essenza - nei giorni in cui le vicende si fanno serie, e invochiamo risorse, aria pura, relazioni più solide.
Abbiamo allora necessità di un balzo, non di retrocedere [stare lì e ripiegarci (centrando su di sé) per individuare problemi e difetti, quindi correggerli in modo precipitoso e innaturale...].
Sarebbe un dispendio assurdo di virtù e occasioni di crescita nella ricerca del nostro territorio.
Anche nel cammino spirituale, infatti, tutto facciamo per ottenere vita completa, realizzazione totale, libertà forte. Non per essere visti perfetti.
Il passaggio nel clima del disprezzo sociale sarà inevitabile.
Il Crocifisso non dice “come dovremmo essere e ancora non siamo” (in modo convenzionale): perché ci accostiamo alla nostra Vocazione solo se sorprendiamo noi stessi e gli altri - proprio quando l’opinione comune e conformista ci giudica incoerenti.
Non significa che stiamo rifiutando il patibolo.
Le situazioni di condanna possono diventare creative, così la forca che ci appartiene in quella situazione - sebbene comprometta la reputazione - non deve poi tormentare l’anima oltre misura.
Disavventure, sconvolgimenti, contrarietà, contesti amari… riplasmano l’anima e il punto di vista, mettendo in discussione l’idea (che ci siamo già fatti) di noi stessi.
Aprono anzi spalancano sbalorditivi nuovi percorsi repentini - realizzazioni altrimenti soffocate in partenza, per convincimenti esterni.
Ecco perché nella proposta di Gesù c’è qualcosa di paradossale e assurdo: per crescere, raggiungere pienezza e completarsi bisogna perdere; non fare l’opportunista, non essere svelto, non approfittarsi. Tutti atteggiamenti insulsi e puerili che non rigenerano, che ci riportano agli attriti, ai conformismi inattendibili, e li accentuano.
Logica sconcertante quella della Croce: su due piedi sembra umiliarci. Viceversa pone al riparo dal veleno d’una religiosità vana, di belle maniere e pessime abitudini.
Spiritualità vuota, consolatoria o solo teatrale, la quale produce ambienti conflittuali ma inerti [fanno cadere le braccia: inutili e infestanti].
Tutti sanno che bisogna imparare ad accettare le inevitabili contrarietà dell’esistenza. Ma non è questo il senso della Croce.
Dio non redime per dolore, ma con Amore - quello che non ripiega e accartoccia, bensì dilata la vita e le capacità inespresse.
La Croce provvidenziale non viene data da Dio, ma presa attivamente, e accolta dal discepolo. Nei Vangeli sta a significare l’accettazione dell’inevitabile onta che comporta la sequela di Gesù - anche in un panorama comicamente vanitoso, sebbene di cartapesta.
Per chi sceglie di essere se stesso nel mondo del “sembrare” e della nomea, la sorte (esteriore) di persecuzione, incomprensione, beffa e calunnia, mancanza di credito e allori - come fossimo dei falliti - è segnata.
Ma nel Giudizio del Crocifisso è questa la giusta posizione per divenire figli che trovano completezza umana, stanno saldi nelle scelte di peso specifico - e partoriscono frutti corrispondenti: spesso il miglior tempo della propria storia.
Dono gratuito, per una Vita da Salvati, la Croce redime dalle attrattive dell’apprezzamento in società che volentieri sul versante del banale e dell’estrinseco elargisce ampi crediti, i quali però spengono la nostra crescita personale completa.
Essa ci salva dai pericoli di piedistalli che sgretolano, sui quali non vale la pena continuare a salire per farsi notare e inutilmente - astutamente - compiacere. Come farebbe un qualsiasi manipolatore che ama la poderosità; anche pio, colmo d’attributi di vigore, ma inesorabilmente vecchio e votato alla morte - impantanato e sterile - incapace di generare creature nuove e far rinascere se stesso.
Le occasioni migliori per uno sviluppo, la realizzazione e il completamento emergono da lati di noi stessi e situazioni che non vogliamo. Appunto; persino da ferite profonde, che investono tutto un modo di essere, fare e apparire.
Non è la fine del mondo. Oggi la crisi globale ha già annientato il nostro aspetto potente, eppure sta facendo trapelare la virtù del lato fragile; prima messo in ombra per esigenze di passerella sociale.
Ecco il Crocifisso, che sanguina non solo per guarire, ingentilire e togliere zavorre, ma per rovesciare, sostituire orizzonti e soppiantare l’intero sistema di conformismi assuefatti; e “punti” anche sedicenti alternativi, modi di pensare che sembravano chissà cosa.
Tutto ciò, per Fede. Non con tensione e disegno identificato, ma per attitudine battesimale alla nuova integrità che Viene: donata, accolta, riconosciuta.
Così la Croce abbracciata ci salva.
Essa sembra un sabotaggio al nostro lato “infallibile”, invece è l’Antidoto alla città assopita sui medesimi sentieri di prima - nei soliti modi di essere e scendere in campo (ormai senza futuro).
Sollevare la Croce va ben oltre la capacità di resilienza.
«Di là verrà a giudicare»: Genesi Rinascita Giudizio
Gv 3,16-21(7-21)
Ogni uomo posto di fronte al Mistero non comprende bene ciò che sente, fino a quando non accetta la scommessa e s’introduce in una nuova esistenza.
La vecchia vita presenta solo conti da pagare, che sempre riemergono; viceversa, la nuova Chiamata soppianta le categorie di giudizio e le scelte normalizzate.
Si passa come attraverso uno svuotamento del cuore.
Dice infatti il Tao [Via] Tê Ching (xxi):
«Il contenere di chi ha la virtù del vuoto, solo al Tao s’adegua. Per le creature il Tao è indistinto e indeterminato [...] nel suo seno racchiude le immagini [...] nel suo seno racchiude gli archetipi [...] nel suo seno racchiude l’essenza dell’essere! Questa essenza è assai genuina [...] e così acconsente a tutti gli inizi».
Fuori della Via cosmica e personale l’esistenza dell’uomo non ha un senso generativo.
Anche la vicenda spirituale dell’esperto e ben inserito ristagna fino a non poter più tacitare le grandi domande di senso, la sua fiction, o l’accidia.
La vita nello Spirito procede per nuove Nascite e spira dove vuole.
Non secondo un progresso scandito da meccanismi, maniere, perbenismi, abilità, o libretti d’istruzione: in modo sconcertante - ma porta diverso refrigerio, e Pace anche repentina.
È una realtà presente e operante, sebbene inesplicabile - che però arricchisce, lasciandoci penetrare o piombare in un’altra configurazione della realtà.
Altro regno, che nel «Figlio dell’uomo» unisce i due mondi.
Nicodemo era maestro del solo Testamento Antico. Egli controllava ogni stagnazione o progresso comparandoli alla sapienza delle cose di Dio su una base di attese più che conosciute.
Ma non di rado la nostra crescita procede a visioni e balzi - neppure secondo “intelligenza” naturale. Figuriamoci per la vita spirituale.
Non basta esercitarsi e andare d’accordo con le idee dei padri o ielle alla moda, né rimanere concordi a propositi normali.
Assimilare saperi altrui e acquisire perizie già attese è non di rado cianfrusaglia che blocca i veri sviluppi - quelli che ci appartengono.
Purtroppo, nella vita religiosa si procede spesso in modo meccanico, e sembra non vi sia bisogno alcuno di lasciarsi salvare o sorprendere dagli accadimenti.
Al massimo ci si espone a qualche venticello, schiavo di linguaggi terrestri, limitato alla dimensione di “fenomeni” tutti rasoterra - che escludono e liquidano Cristo.
Nell’avventura di Fede battistrada, che disorienta, il Progetto divino e l’Opera radicale del Figlio non si dispiegano in modo ragionevole, bensì per Amore senza misura.
Livello di Eternità che immette chi l’accoglie nel tu-per-tu unico col Padre e la sua Vita esuberante.
L’unità di misura dello Spirito è differente da quella delle consuetudini concordi. Il suo impeto è Vento inafferrabile, “visibile” solo negli effetti ecclesiali e personali.
Il Segreto è «dall’Alto» (v.7), fuori scala. Si annida nella imprevedibilità di crocevia, eccedenze, e nuove creazioni.
La Beatitudine non procede per argomenti alla noia: sporge o impallidisce.
In tal guisa, si può avere spesso in mano l’Eucaristia o le Scritture e non comprendere che la strada già battuta può dare solo illusioni di dottorato spirituale.
«Di là verrà a giudicare» è un articolo del Credo Apostolico.
Riuscita o fallimento della vita saranno valutate «dalla Croce», ossia con il criterio della nuova percezione, Dono di sé e Rinnovo sino in fondo.
Rovesciamento di prospettive; capovolgimento di visuale.
Fonte di Speranza e nuovo scatto in avanti: dove l’umiliazione si tramuta in Nascita autentica e trionfo della Vita indistruttibile.
Questa la Beatitudine che scopre fioriture, tesori nascosti e perle preziose, dietro i nostri lati oscuri.
Qui perfino le persecuzioni dei nemici e dei beffardi diventano vettori che introducono difformi energie, ci obbligano a migliorare.
E s’immaginava che la vita divina appartenesse solo alla sfera celeste; invece giunge paradossalmente alla nostra portata.
Nicodemo sapeva: nel deserto molti erano caduti vittime d’insidie, ma Gesù fa capire che gli israeliti non erano stati risanati gratuitamente da un’effigie di bronzo, bensì dall’aver ‘elevato lo sguardo’.
Il Signore si rifà a tale episodio e lo interpreta come scenario del proprio insegnamento; simbolo della sua vicenda estrema.
Chi lo contemplerà ha già in sé il senso pieno, acuto e totale delle Scritture, e la stessa Vita dell’Eterno.
In tal senso è necessario «nascere dall’alto», spostare la percezione contemplativa, riconoscersi, e tenere gli occhi puntati sull’amore vero.
È per una nuova Genesi del proprio essere e dei criteri per cui ci si gioca la vita, che il Crocifisso diventa punto di riferimento di ogni nostra scelta.
Non per masochismo dolorista e finta consolazione. Non per usarlo come monile, e imbellettarsene.
Non amuleto; né emblema posto a forza sulle alture, che indicherebbe la conquista di territori.
Neppure la sacralizzazione d’un ambiente, o una figura “culturale”.
Secondo lo stile rabbinico, Mt 25 ricorre all’immagine del Giudizio universale per richiamare l’importanza e le conseguenze delle scelte che facciamo.
In Gv il tema del Giudizio sembra rovesciato: è come se fossimo noi a “giudicare” Dio - nel senso che al suo cospetto siamo e ci troveremo disarmati, riconoscendo che il suo Cuore è ben maggiore del nostro.
Così pure nell’esperienza della vita di Fede, che attira e apre il futuro impossibile.
Il quarto Vangelo infatti esclude che il Padre giudichi i figli. Gv parla di un Giudizio che si attua nel Presente, che è solo redenzione - a nostro esclusivo favore: per una vita da salvati.
“Quando” Dio agisce crea. Egli Giustifica: fa qualcosa di nuovo, globale, impareggiabile.
Non ripete. Fa nascere altre eccedenze, in solchi variegati, nella trama della storia, “imponendo” giuste posizioni - anzitutto dove giustizia non c’è.
Secondo una Sapienza che fa udire non pochi pareri inattesi.
Pur impiegando sfondi e linguaggio differenti, sia Mt che Gv si ritrovano nella medesima «verità» (v.21).
Il Giudizio viene pronunciato dalla Croce - secondo criteri difformi da quelli mondani, sempre precipitosi o manierati (e banalissimi).
Il Signore fa udire e vedere le sue opinioni, di fronte a qualsiasi accadimento e scelta - mettendo in guardia dalle opzioni di morte autentica.
L’opera di coloro che gestiscono assai male e sprecano la vita «finirà bruciata, e quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco» (1Cor 3,15).
Le difformità si commisurano sin d’ora sulla Persona del Figlio. Il Giudizio è già cominciato.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quali ritieni siano state le tue Nascite? E le tue scelte autentiche?
Sei ancora nella direzione del venticello dei padri antichi o delle mode attorno?
Dispieghi le vele secondo la direzione del Vento dello Spirito, che butta all’aria le tue sicurezze, anche di gruppo o denominazionali?
Cosa ammiri, e cosa hai collocato “in alto” nella tua vita? È forse paglia già finita e bruciata?
Cosa finora ti ha esaltato, e pensavi invece potesse elevarti?
Ha tanto amato, e ha dato
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16). Qui c’è il cuore del Vangelo, qui c’è il fondamento della nostra gioia. Il contenuto del Vangelo, infatti, non è un’idea o una dottrina, ma è Gesù, il Figlio che il Padre ci ha donato perché noi avessimo la vita. Gesù è il fondamento della nostra gioia: non è una bella teoria su come essere felici, ma è sperimentare di essere accompagnati e amati nel cammino della vita. “Ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio”. Soffermiamoci, fratelli e sorelle, un momento su questi due aspetti: “ha tanto amato” e “ha dato”.
Prima di tutto, Dio ha tanto amato. Queste parole, che Gesù rivolge a Nicodemo – un anziano giudeo che voleva conoscere il Maestro – ci aiutano a scorgere il vero volto di Dio. Egli da sempre ci ha guardati con amore e per amore è venuto in mezzo a noi nella carne del Figlio suo. In Lui ci è venuto a cercare nei luoghi in cui ci siamo smarriti; in Lui è venuto a rialzarci dalle nostre cadute; in Lui ha pianto le nostre lacrime e guarito le nostre piaghe; in Lui ha benedetto per sempre la nostra vita. Chiunque crede in Lui, dice il Vangelo, non va perduto (ibid.). In Gesù, Dio ha pronunciato la parola definitiva sulla nostra vita: tu non sei perduto, tu sei amato. Sempre amato.
Se l’ascolto del Vangelo e la pratica della nostra fede non ci allargano il cuore per farci cogliere la grandezza di questo amore, e magari scivoliamo in una religiosità seriosa, triste, chiusa, allora è segno che dobbiamo fermarci un po’ e ascoltare di nuovo l’annuncio della buona notizia: Dio ti ama così tanto da darti tutta la sua vita. Non è un dio che ci guarda indifferente dall’alto, ma è un Padre, un Padre innamorato che si coinvolge nella nostra storia; non è un dio che si compiace della morte del peccatore, ma un Padre preoccupato che nessuno vada perduto; non è un dio che condanna, ma un Padre che ci salva con l’abbraccio benedicente del suo amore.
E veniamo alla seconda parola: Dio “ha dato” il suo Figlio. Proprio perché ci ama così tanto, Dio dona sé stesso e ci offre la sua vita. Chi ama esce sempre da sé stesso – non dimenticatevi di questo: chi ama esce sempre da sé stesso. L’amore sempre si offre, si dona, si spende. La forza dell’amore è proprio questa: frantuma il guscio dell’egoismo, rompe gli argini delle sicurezze umane troppo calcolate, abbatte i muri e vince le paure, per farsi dono. Questa è la dinamica dell’amore: è farsi dono, darsi. Chi ama è così: preferisce rischiare nel donarsi piuttosto che atrofizzarsi trattenendosi per sé. Per questo Dio esce da sé stesso, perché “ha tanto amato”. Il suo amore è così grande che non può fare a meno di donarsi a noi. Quando il popolo in cammino nel deserto fu attaccato dai serpenti velenosi, Dio fece fare a Mosè il serpente di bronzo; in Gesù, però, innalzato sulla croce, Lui stesso è venuto a guarirci dal veleno che dà la morte, si è fatto peccato per salvarci dal peccato. Non ci ama a parole Dio: ci dona suo Figlio perché chiunque lo guarda e crede in Lui sia salvato (cfr Gv 3,14-15).
Più si ama e più si diventa capaci di donare. Questa è anche la chiave per comprendere la nostra vita. È bello incontrare persone che si amano, che si vogliono bene e condividono la vita; di loro si può dire come di Dio: si amano così tanto da dare la loro vita. Non conta solo ciò che possiamo produrre o guadagnare, conta soprattutto l’amore che sappiamo donare.
E questa è la sorgente della gioia! Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Da qui prende senso l’invito che la Chiesa rivolge in questa domenica: «Rallegrati [...]. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione» (Antifona d’ingresso; cfr Is 66,10-11). Ripenso a ciò che abbiamo vissuto una settimana fa in Iraq: un popolo martoriato ha esultato di gioia; grazie a Dio, alla sua misericordia.
A volte cerchiamo la gioia dove non c’è, la cerchiamo nelle illusioni che svaniscono, nei sogni di grandezza del nostro io, nell’apparente sicurezza delle cose materiali, nel culto della nostra immagine, e tante cose... Ma l’esperienza della vita ci insegna che la vera gioia è sentirci amati gratuitamente, sentirci accompagnati, avere qualcuno che condivide i nostri sogni e che, quando facciamo naufragio, viene a soccorrerci e a condurci in un porto sicuro.
[Papa Francesco, omelia in occasione dei 500 anni dell’evangelizzazione delle Filippine, 14 marzo 2021]
Ss. Trinità
Pr 8,22-31; Rom 5,1-5; Gv 16,12-15 (anno C)
Carta d’identità dei figli è la fede in un Dio che crea, fa Alleanza, è vicino, redime, consente la fioritura in qualsiasi accadimento o età.
Così nel cammino intrapreso non ci affidiamo più all’esterno, e smettiamo di sottovalutarci.
Infatti la Scrittura attesta che il Signore procede col suo popolo e si manifesta nella storia, ma non è legato a un territorio o alture particolari, bensì alla donna e all’uomo.
L’Eterno è «Dio di Abramo e di Isacco e di Giacobbe» (Mt 22,32; Mc 12,26; Lc 20,37; cf. Es 3,6).
Egli è «Colui che sarà» [Es 3,14 testo ebraico] ossia: nello svolgersi degli eventi le persone fanno esperienza essenziale del Vivente come Liberatore, e Sposo [cf. l’oscillante vicenda affettiva di Osea].
Ma nella pienezza del suo cuore, unicamente Gesù lo manifesta - ancora nella Prima Alleanza confuso con un legislatore arcigno, notaio, giudice che interviene per tagliare o distinguere, poi attende per la resa dei conti.
L’Onnipotente sogna di trasmettere vita e creare Famiglia, non dividere amici incontaminati da nemici impuri, o capaci e incapaci.
Tale diventa l’intima espressione della donna e dell’uomo autentici; cifra dell’identità della Chiesa che non si pronuncia al minimo.
Insomma, specifico dei figli è l’adesione ad un Vivente che trasmette e rallegra la vita, si compromette e salva, consente ogni crescita, recupera - crea un dinamismo armonico di opposti.
La prima Lettura mette in luce il Progetto del Padre, il quale dispiega il suo essere mentre viene assistito dalla deliziosa figura della Sapienza.
La Creazione riflette il proponimento d’amore divino, che si manifesta nell’incanto d’un passeggiare gioioso con noi. Egli desidera rimanere sulla terra, senza condizioni.
Il gaudio del Padre Creatore è solo questo: dilettarsi come un Artista che esplode di letizia per la sua opera. Egli è felice di stare sul globo terrestre, in specie tra i figli dell’uomo (vv. 30-31).
Sua Beatitudine? La stessa nostra; di ogni creatura, che ama fiorire malgrado i conflitti.
Ciò appunto - se il figlio pur malfermo non si sente frutto del caso, anzi coglie gli attimi di confusione della vita come fossero quelli d’un cantiere [perché il Disegno sa dove andare].
Disordine, materiali accatastati, scompiglio, inediti a ogni pie’ sospinto; ma non ci si perde: dentro l'anima permane un’immagine guida, il Sogno e prototipo di una sintonia intima e cosmica che si svolge.
Essa evolve nel nostro vagare. Consente tentativi ed errori, anzi fa leva su di essi.
È un Progetto che recupera tutte le cose sparse e i sentieri interrotti, creando intese, varietà impensabili; quindi essenze svariate.
Non solo con abilità, bensì per Sapienza ideale. E insieme Novità incomparabile: di chi non ripete, bensì pone in essere.
È il miracolo della vita, sempre nuova - appunto, cavalcando i nostri tentativi ed errori!
Il Padre è esuberante, non un totem che non accetta energie scomposte. Non si esprime emanando leggi come un sovrano.
Egli crea policromie sinfoniche inedite, altre essenze - poliedriche - come farebbe un genitore che si compiace della ricca prole, delle differenti opere dei suoi intimi (nei più svariati campi) manifestate in mille sfaccettature.
La chiave di tutto - l’Orizzonte che accompagna, correlando tappe e ridefinendosi - è del Creatore. Suo il Progetto che guida.
La vetta ‘unica’ e l’Azione esemplare - l’Opera - sono un evento storicamente configurato: la Parola-evento e Persona del Figlio.
La seconda Lettura fa comprendere che l’Eterno Padre non ha considerato conclusa la sua attività, concedendo il semplice input all’essere e alle essenze - abbandonando poi la realtà e gli uomini, e ritirandosi lassù in cielo.
Per Grazia, nella Fede siamo partecipi di Dio, abbiamo accesso diretto alla sua azione indipendente, a Lui stesso (Rm 5,2).
Neppure la nostra radicale incompletezza è motivo di astio, per Chi non ci ha creato angelici - ma sognanti, sì.
Né riusciremmo a scalfirlo e renderlo impuro, come fosse qualcuno a portata di mano e che possiamo inquinare raggiungendolo di nostro - tirandoci su col nostro genio, a forza di muscoli o con una impalcatura.
La Persona, Verbo e vicenda di Gesù narrano di un Regno nel quale non si teme che la santità sia messa in pericolo dall’incompiutezza delle creature e dal contatto col mondo.
C’è un solo problema che taglia il Dialogo con l’Altissimo (v.3): credere [devotamente] che il nostro vanto sia di genere “ovvio”.
Di fronte ai nostri simili ci gloriamo di traguardi, ruoli, titoli e successi. Capita anche nel cammino di perfezione religiosa.
Ma il Signore non è come un preparatore atletico che si compiace del più svelto dei suoi giocatori - mentre agl’inabili e gregari infligge umiliazioni, travagli, panchina e castighi.
Il Figlio annuncia il Volto autentico del Padre: solo Comprensione senza riserve - immeritata, perché l’Opera perfetta è unicamente del Cristo uomo; nostro ‘complice’.
Egli toglie così il disonore e il senso d’inadeguatezza.
In tal guisa, esclusivo spicco della donna e dell’uomo, e motore della crescita solida, è il suo Amore senza riserve. Unica realtà affidabile - non ambigua di doppiezze o dissociazioni isteriche.
Spesso di fronte società dello show anche alcuni religiosi si compiacciono di obbiettivi raggiunti.
Essi al cospetto dell’Eterno palesano meriti propri - come un commerciante in difficoltà, che in vetrina allestisce tutto il meglio.
La Fede-Speranza (Eb 11,1; Rm 5,4) invece ricolloca nella giusta posizione presso i fratelli, e davanti al Signore. Senza alibi.
Impariamo in trasparenza e finalmente che l’ossessione di farsi ammirare dall’esterno - e il piacere dell’approvazione a ogni costo - non sono affatto “la” Via.
Infatti la vera Scia - l’Opera genuina - è unicamente del Figlio, il quale avendo corrisposto sino in fondo all’iniziativa di Dio Padre, Giustifica.
Nulla può intaccarci.
Il mondo che non vediamo ha capacità trasmutative.
Beninteso, l’Amico interiore non ci ‘rende giusti’ rivestendoci esteriormente e in modo puntuale, bensì in un processo esistenziale, che sposta gli equilibri (vv.3-4).
Il Signore opera nell’intimo tramite l’esperienza. Lo fa anche assediando “l’altro” noi-stessi che abbiamo messo da parte.
Così modificando il cuore rattrappito e migliorandoci con la sua Amicizia appassionata, riproposta in nuove opportunità di vita.
Come testimoniato da Paolo, la Salvezza non è un meccanismo vicario e datato.
Il Mistero dimora, c’incontra e attraversa da protagonisti, e malgrado i nostri capricci si esprime in una vita da salvati.
Fede in Dio Figlio è avere consapevolezza che l’Amore può registrare insuccessi parziali, non sconfitta e annientamento definitivo.
Ovvio che ci siano cadute - sia per condizione di precarietà, sia per il fatto che non è immediato comprendere la logica del Crocifisso: ecco l’Azione dello Spirito.
Il Vangelo di oggi fa appello al senso misterioso, incognito, del Dono totale di sé.
Si rinasce cedendo: non è semplice portare quel «peso» [Gv 16,12 allude alla Croce] né coglierne i risvolti e immaginarne la paradossale Fecondità.
Lo Sviluppo che sgorga dalla sovrabbondanza e intensità di relazione Padre-Figlio è l’empatia, il portato, l’azione dello Spirito.
Impulso e gesto che erompe dentro e appunto fa intuire la fertilità della Gratuità.
È lo Spirito che interiorizza questa proposta non solo stranissima, ma assurda: quella del trionfo nella perdita, e persino della Vita dalla morte.
Lo sperimentiamo in atto: nei momenti in cui il suo impeto produce recuperi inspiegabili che “rendono gloria a Dio” (v.14) - ossia rinnovano i rapporti e rimettono in piedi persone che neppure hanno stima di sé.
Ma cui lo Spirito ha suggerito che l’anima si riattiva accogliendo, più che combattendo ansie, paure, indecisioni, amarezze, timori di crescere.
Solo in questo modo si attua il Disegno di Salvezza.
Uscendo dall’ombra altrui, l’opportunista diventa giusto, il dubbioso più sicuro, l’infelice riprende a sperare; tutti possono vivere felicemente.
Le vecchie idee e antiche costruzioni scricchiolano? È forse l’ora di andare oltre le mode o il passato di propositi e orizzonti artificiosi - i quali generano solo idee comuni, preoccupazioni, e modelli.
A differenza dell’ascolto-e-trasalire suscitati dallo Svelamento senza steccati della Fede, le credenze refrattarie all’Esodo hanno bisogno di compattezza dottrinale: codici, consuetudini, collocazioni culturali e sociali fisse - altrimenti sgretolano.
Ma il loro costrutto si accontenta di schemi adeguati. Che ci snaturano di vie apprezzate o confortevoli.
Nelle dinamiche dell’avventura di Fede, ossia nella Rivelazione dell’Amore eccentrico accolto, tenero e inclusivo, la Diversità accettata diventa impulso all’arricchimento e matrice di sviluppo.
L’Amore che non tradisce e non abbandona - unico vanto (non produzione propria) - rende praticabile la Novità di Dio, il Sogno impossibile che nessuna filosofia potrà domare.
L’identificazione sociale non c’entra più. In noi c’è altro.
Egli stesso è «Colui che sarà»: via le zavorre, il Meglio deve ancora Venire. Motivo per non scappare più dai grandi Desideri.
Cari fratelli e sorelle!
Dopo il tempo pasquale, concluso domenica scorsa con la Pentecoste, la Liturgia è ritornata al “tempo ordinario”. Ciò non vuol dire però che l’impegno dei cristiani debba diminuire, anzi, entrati nella vita divina mediante i Sacramenti, siamo chiamati quotidianamente ad essere aperti all’azione della Grazia, per progredire nell’amore verso Dio e il prossimo. L’odierna domenica della Santissima Trinità, in un certo senso, ricapitola la rivelazione di Dio avvenuta nei misteri pasquali: morte e risurrezione di Cristo, sua ascensione alla destra del Padre ed effusione dello Spirito Santo. La mente e il linguaggio umani sono inadeguati a spiegare la relazione esistente tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e tuttavia i Padri della Chiesa hanno cercato di illustrare il mistero di Dio Uno e Trino vivendolo nella propria esistenza con profonda fede.
La Trinità divina, infatti, prende dimora in noi nel giorno del Battesimo: “Io ti battezzo – dice il ministro – nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Il nome di Dio, nel quale siamo stati battezzati, noi lo ricordiamo ogni volta che tracciamo su noi stessi il segno della croce. Il teologo Romano Guardini, a proposito del segno della croce, osserva: “lo facciamo prima della preghiera, affinché … ci metta spiritualmente in ordine; concentri in Dio pensieri, cuore e volere; dopo la preghiera, affinché rimanga in noi quello che Dio ci ha donato … Esso abbraccia tutto l’essere, corpo e anima, … e tutto diviene consacrato nel nome del Dio uno e trino” (Lo spirito della liturgia. I santi segni, Brescia 2000, 125-126).
Nel segno della croce e nel nome del Dio vivente è, perciò, contenuto l’annuncio che genera la fede e ispira la preghiera. E, come nel vangelo Gesù promette agli Apostoli che “quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità” (Gv 16,13), così avviene nella liturgia domenicale, quando i sacerdoti dispensano, di settimana in settimana, il pane della Parola e dell’Eucaristia. Anche il santo Curato d’Ars lo ricordava ai suoi fedeli: “Chi ha accolto la vostra anima – diceva – al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? … sempre il sacerdote” (Lettera di indizione dell’Anno Sacerdotale).
Cari amici, facciamo nostra la preghiera di sant’Ilario di Poitiers: “Conserva incontaminata questa fede retta che è in me e, fino al mio ultimo respiro, dammi ugualmente questa voce della mia coscienza, affinché io resti sempre fedele a ciò che ho professato nella mia rigenerazione, quando sono stato battezzato nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo” (De Trinitate, XII, 57, CCL 62/A, 627). Invocando la Beata Vergine Maria, prima creatura pienamente inabitata dalla Santissima Trinità, domandiamo la sua protezione per proseguire bene il nostro pellegrinaggio terreno.
[Papa Benedetto, Angelus 30 maggio 2010]
1. La Chiesa nel suo pellegrinaggio verso la piena comunione d’amore con Dio si presenta come un “popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Questa stupenda definizione di San Cipriano (De Orat.Dom. 23; cfr LG 4) ci introduce nel mistero della Chiesa, resa comunità di salvezza dalla presenza di Dio Trinità. Come l’antico popolo di Dio, essa è guidata nel suo nuovo Esodo dalla colonna di nube durante il giorno e dalla colonna di fuoco durante la notte, simboli della costante presenza divina. In questo orizzonte vogliamo contemplare la gloria della Trinità, che rende la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica.
2. La Chiesa è innanzitutto una. I battezzati, infatti, sono misteriosamente uniti a Cristo e costituiti suo Corpo mistico nella forza dello Spirito Santo. Come afferma il Concilio Vaticano II, “il supremo modello e il principio di questo mistero è l’unità nella Trinità delle persone di un solo Dio, Padre e Figlio nello Spirito Santo” (UR 2). Anche se nella storia questa unità ha conosciuto la prova dolorosa di tante divisioni, la sua inesauribile sorgente trinitaria spinge la Chiesa a vivere sempre più profondamente quella koinonia o comunione che risplendeva nella prima comunità di Gerusalemme (cfr At 2,42; 4,32).
Da questa prospettiva attinge luce il dialogo ecumenico, dal momento che tutti i cristiani sono consapevoli del fondamento trinitario della comunione: “La koinonia è opera di Dio e ha un carattere marcatamente trinitario. Nel battesimo si ha il punto di partenza dell’iniziazione della koinonia trinitaria per mezzo della fede, attraverso Cristo, nello Spirito… E i mezzi che lo Spirito ha dato per sostenere la koinonia sono la Parola, il ministero, i sacramenti, i carismi” (Prospettive sulla koinonia, Rapporto del III quinquennio 1985-89 del dialogo cattolici-pentecostali, n.31). A tal proposito il Concilio ricorda a tutti i fedeli che “con quanta più stretta comunione saranno uniti col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, con tanta più intima e facile azione potranno accrescere la mutua fraternità” (UR 7).
3. La Chiesa è anche santa. Nel linguaggio biblico, prima ancora che espressione della santità morale ed esistenziale del fedele, il concetto di “santo” rimanda alla consacrazione operata da Dio attraverso l’elezione e la grazia offerta al suo popolo. È, quindi, la presenza divina che “consacra nella verità” la comunità dei credenti (cfr Gv 17,17.19).
E il segno più alto di tale presenza è costituito dalla liturgia, che è l’epifania della consacrazione del popolo di Dio. In essa c’è la presenza eucaristica del corpo e sangue del Signore, ma anche “la nostra eucaristia, cioè il nostro rendere grazie a Dio, il lodarlo per averci redenti con la sua morte e resi partecipi della vita immortale per mezzo della sua risurrezione. Un tale culto, rivolto alla Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, accompagna e permea innanzitutto la Celebrazione Eucaristica. Ma esso deve pure riempire i nostri templi” e la vita della Chiesa (Dominicae Coenae n. 3). E proprio “mentre comunichiamo tra noi nella mutua carità e nell’unica lode della Trinità Santissima, corrispondiamo all’intima vocazione della Chiesa e pregustando partecipiamo alla liturgia della gloria eterna” (LG 51).
4. La Chiesa è cattolica, inviata per l’annuncio di Cristo al mondo intero nella speranza che tutti i capi dei popoli si raccolgano con il popolo del Dio di Abramo (cfr Sal 47,10; Mt 28,19). Come afferma il Concilio Vaticano II, “la Chiesa peregrinante è per sua natura missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre. Questo disegno scaturisce dall’ ‘amore fontale’, cioè dalla carità di Dio Padre, che essendo il principio senza principio, da cui il Figlio è generato e da cui lo Spirito Santo attraverso il Figlio procede, per la sua immensa e misericordiosa benignità ci crea liberamente e gratuitamente ci chiama a partecipare alla vita e alla sua gloria. Egli ha effuso con liberalità e non cessa di effondere la divina bontà, sicché lui che di tutti è il creatore, possa anche essere ‘tutto in tutti ’ (1 Cor 15,28), procurando ad un tempo la sua gloria e la nostra felicità” (AG 2).
5. La Chiesa, infine, è apostolica. Secondo il mandato di Cristo, gli apostoli devono andare e ammaestrare tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che egli ha comandato (cfr Mt 28,19-20). Questa missione si estende a tutta la Chiesa, che attraverso la Parola, resa viva, luminosa ed efficace dallo Spirito Santo e dai Sacramenti, “realizza il piano di Dio, a cui Cristo in spirito di obbedienza e di amore si consacrò per la gloria del Padre che l’aveva mandato, cioè la costituzione di tutto il genere umano nell’unico popolo di Dio, la sua riunione nell’unico corpo di Cristo, la sua edificazione nell’unico tempio dello Spirito Santo” (AG 7).
La Chiesa una, santa, cattolica e apostolica è popolo di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo. Queste tre immagini bibliche additano in modo luminoso la dimensione trinitaria della Chiesa. In questa dimensione si ritrovano tutti i discepoli di Cristo, chiamati a viverla in modo sempre più profondo e con una comunione sempre più viva. Lo stesso ecumenismo trova nel riferimento trinitario il suo solido fondamento, poiché lo Spirito “unisce i fedeli con Cristo, mediatore di ogni dono di salvezza, e dona loro - attraverso lui - accesso al Padre, che nello stesso Spirito essi possono chiamare abba’, Padre” (Commissione Congiunta Cattolici Romani - Evangelici Luterani, Chiesa e giustificazione, n. 64). Nella Chiesa, dunque, ritroviamo una grandiosa epifania della gloria trinitaria. Raccogliamo, allora, l’invito che Sant’Ambrogio ci rivolge: “Alzati, tu che prima stavi sdraiato a dormire… Alzati e vieni di corsa alla Chiesa: qui c’è il Padre, qui c’è il Figlio, qui c’è lo Spirito Santo” (In Lucam VII).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 14 giugno 2000]
Oggi, festa della Santissima Trinità, il Vangelo di san Giovanni ci presenta un brano del lungo discorso di addio, pronunciato da Gesù poco prima della sua passione. In questo discorso Egli spiega ai discepoli le verità più profonde che lo riguardano; e così viene delineato il rapporto tra Gesù, il Padre e lo Spirito. Gesù sa di essere vicino alla realizzazione del disegno del Padre, che si compirà con la sua morte e risurrezione; per questo vuole assicurare ai suoi che non li abbandonerà, perché la sua missione sarà prolungata dallo Spirito Santo. Ci sarà lo Spirito a prolungare la missione di Gesù, cioè a guidare la Chiesa avanti.
Gesù rivela in che cosa consiste questa missione. Anzitutto lo Spirito ci guida a capire le molte cose che Gesù stesso ha ancora da dire (cfr Gv 16,12). Non si tratta di dottrine nuove o speciali, ma di una piena comprensione di tutto ciò che il Figlio ha udito dal Padre e che ha fatto conoscere ai discepoli (cfr v. 15). Lo Spirito ci guida nelle nuove situazioni esistenziali con uno sguardo rivolto a Gesù e, al tempo stesso, aperto agli eventi e al futuro. Egli ci aiuta a camminare nella storia saldamente radicati nel Vangelo e anche con dinamica fedeltà alle nostre tradizioni e consuetudini.
Ma il mistero della Trinità ci parla anche di noi, del nostro rapporto con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Infatti, mediante il Battesimo, lo Spirito Santo ci ha inseriti nel cuore e nella vita stessa di Dio, che è comunione di amore. Dio è una “famiglia” di tre Persone che si amano così tanto da formare una sola cosa. Questa “famiglia divina” non è chiusa in sé stessa, ma è aperta, si comunica nella creazione e nella storia ed è entrata nel mondo degli uomini per chiamare tutti a farne parte. L’orizzonte trinitario di comunione ci avvolge tutti e ci stimola a vivere nell’amore e nella condivisione fraterna, certi che là dove c’è amore, c’è Dio.
Il nostro essere creati ad immagine e somiglianza di Dio-comunione ci chiama a comprendere noi stessi come esseri-in-relazione e a vivere i rapporti interpersonali nella solidarietà e nell’amore vicendevole. Tali relazioni si giocano, anzitutto, nell’ambito delle nostre comunità ecclesiali, perché sia sempre più evidente l’immagine della Chiesa icona della Trinità. Ma si giocano in ogni altro rapporto sociale, dalla famiglia alle amicizie all’ambiente di lavoro: sono occasioni concrete che ci vengono offerte per costruire relazioni sempre più umanamente ricche, capaci di rispetto reciproco e di amore disinteressato.
La festa della Santissima Trinità ci invita ad impegnarci negli avvenimenti quotidiani per essere lievito di comunione, di consolazione e di misericordia. In questa missione, siamo sostenuti dalla forza che lo Spirito Santo ci dona: essa cura la carne dell’umanità ferita dall’ingiustizia, dalla sopraffazione, dall’odio e dall’avidità. La Vergine Maria, nella sua umiltà, ha accolto la volontà del Padre e ha concepito il Figlio per opera dello Spirito Santo. Ci aiuti Lei, specchio della Trinità, a rafforzare la nostra fede nel Mistero trinitario e ad incarnarla con scelte e atteggiamenti di amore e di unità.
[Papa Francesco, Angelus 22 maggio 2016]
Domenica di Pentecoste (anno C) [8 giugno 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Nella festa della Pentecoste come Maria e gli apostoli disponiamo il cuore ad accogliere il dono dello Spirito Santo che ci trasformi in fuoco e luce di amore. Oggi la prima lettura e il salmo responsoriale sono comuni agli anni A, B, C, mentre la seconda lettura e il vangelo sono diversi ogni anno.
*Prima lettura dal Libro degli Atti degli Apostoli (2, 1-11)
Gerusalemme non è solo la città dove Gesù ha istituito l’eucaristia, è morto ed è risorto, ma è anche la città dove lo Spirito è stato effuso sull’umanità. Era l’anno della morte di Gesù, ma le persone presenti in città probabilmente non avevano mai sentito parlare della sua morte e ancor meno della sua risurrezione per cui la festa di Pentecoste per loro era come tutte le altre. La Pentecoste ebraica era molto importante perché festa del dono della Legge, una delle tre feste dell’anno per le quali si saliva in pellegrinaggio a Gerusalemme e l’elenco di tutte le nazionalità presenti in quell’occasione ne prova il grande interesse. Per i discepoli di Gesù, che lo avevano visto, udito e toccato dopo la sua risurrezione, nulla era più come prima, anche se non si aspettavano ciò che stava per accadere. Luca ci aiuta a comprendere ciò che succede, scegliendo le parole con cura, ed evocando almeno questi tre testi dell’Antico Testamento: Il dono della Legge al Sinai, una profezia di Gioele, l’episodio della torre di Babele. Anzitutto Il Sinai. Le lingue di fuoco, il fragore simile a un vento impetuoso richiamano quanto avvenne al Sinai, quando Dio diede le tavole della Legge a Mosè, Esodo19,16-19. Inserendosi in questa linea, Luca aiuta a capire che quella Pentecoste non fu il semplice pellegrinaggio tradizionale, ma un nuovo Sinai, sul quale Dio donò la sua Legge per insegnare al popolo a vivere nell’Alleanza. In questa Pentecoste Egli donò il suo stesso Spirito e d’allora in poi, la sua Legge, l’unico vero cammino verso la libertà e la felicità, non si trova più scritta su tavole di pietra, ma nel cuore dell’uomo, come aveva profetizzato Ezechiele (Ez.11,19-20; 36,26-27). Il profeta Gioele: Luca ha certamente voluto evocare anche una parola di Gioele: “Effonderò il mio spirito su ogni essere umano, dice Dio” (Gl 3,1), cioè su tutta l’umanità. Per Luca, quei Giudei devoti provenienti da tutte le nazioni sotto il cielo, come li chiama, sono simbolo dell’intera umanità, per la quale si compie finalmente la profezia di Gioele e questo significa che è giunto il “Giorno del Signore” tanto atteso. La torre di Babele, evento che possiamo riassumere in due atti: Atto 1: Gli uomini, che parlano la stessa lingua e le stesse parole, decidono di costruire una torre immensa tra la terra e il cielo. Atto 2: Dio li blocca e li disperde sulla terra confondendo le loro lingue e da quel momento non si comprendono più. Qual è in significato di questo racconto? Dio certamente non vuole mortificare le potenzialità dell’uomo e se quindi interviene, lo fa per risparmiare all’umanità la falsa strada del pensiero unico e di un progetto umano che esclude Dio. È come se dicesse: state cercando l’unità, che è cosa buona, con una strada sbagliata perché l’unità nell’amore non avviene con l’omologazione, ma nella diversità. E questo è il messaggio della Pentecoste: a Babele, l’umanità impara la diversità, a Pentecoste, apprende l’unità nella diversità “convivialità” (come scrive don Tonino Bello) perché tutte le nazioni ascoltano proclamare, ciascuna nella propria lingua, l’unico messaggio: “Magnalia Dei, le grandi opere di Dio” (At 2,11).
*Salmo responsoriale (103 (104), 1.24, 29-30, 31.34)
Questo salmo conta 36 versetti di lode e meraviglia davanti alle opere di Dio, un poema stupendo. Viene proposto per la festa di Pentecoste perché Luca, nel libro degli Atti degli Apostoli, racconta che la mattina di Pentecoste, gli apostoli, ripieni di Spirito Santo, si sono messi a proclamare in tutte le lingue le “grandi opere di Dio” della creazione. In tutte le civiltà ci sono poemi sulla bellezza della natura. In particolare, è stato ritrovato in Egitto, sulla tomba di un faraone, un poema scritto dal celebre faraone Akhenaton (Amenofi IV), un inno al Dio-Sole. Amenofi IV visse intorno al 1350 a.C., in un’epoca in cui gli Ebrei probabilmente si trovavano in Egitto e forse hanno conosciuto questo poema. Tra il poema del faraone e il salmo 103/104 ci sono somiglianze di stile e di vocabolario, ma ciò che interessa è cogliere le differenze segnate dalla rivelazione di Dio al popolo dell’Alleanza. Prima differenza: Dio solo è Dio, differenza essenziale per la fede di Israele: Dio è l’unico Dio, non ce ne sono altri e il sole non è un dio. Il racconto della creazione nel libro della Genesi rimette sole e luna al loro posto: non sono dèi, ma luminari anch’essi semplici creature. Diversi versetti mostrano Dio come unico Signore della creazione usando un linguaggio regale: Dio si presenta come un re magnifico, maestoso e vittorioso. Seconda particolarità: La creazione è tutta buona e qui c’è un’eco della Genesi che ripete instancabilmente: “E Dio vide che era cosa buona”. Questo salmo evoca tutti gli elementi della creazione con lo stesso stupore: “Io gioisco nel Signore” e il salmista aggiunge (in un versetto non letto questa domenica): “Voglio cantare al Signore finché vivo, suonare per il mio Dio finché esisto” Tuttavia, il male non è ignorato: la fine del salmo lo menziona e ne invoca la scomparsa dato che già nell’Antico Testamento si era compreso che il male non viene da Dio, perché tutta la creazione è buona e un giorno Dio farà sparire ogni male dalla terra: il Re vittorioso eliminerà tutto ciò che ostacola la felicità dell’uomo. Terza particolarità: La creazione è continua non essendo un atto del passato, come se Dio avesse lanciato la terra e l’uomo nello spazio una volta per tutte, ma una relazione perenne tra il Creatore e le sue creature. Quando diciamo nel Credo: “Credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra”non affermiamo solo la fede in un atto iniziale, ma riconosciamo di essere in una relazione necessaria con lui lui e questo salmo lo ribadisce parlando della costante azione di Dio:”Tutti da te aspettano…Nascondi il tuo volto: sono smarriti…Ritiri il loro respiro: muoiono e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito: sono creati, e rinnovi la faccia della terra”. Altra particolarità: L’uomo è culmine della creazione. Per la fede ebraica al vertice della creazione c’è l’uomo, il re del creato e per questo riempito del soffio di Dio. Ed è proprio ciò che celebriamo a Pentecoste: lo Spirito di Dio che è in noi vibra e entra in risonanza con l’uomo e con tutto il creato e il salmista canta: “Dio gioisca delle sue opere! Io gioisco nel Signore”. In conclusione la creazione ha senso nella luce dell’Alleanza: In Israele ogni riflessione sulla creazione si colloca nella prospettiva dell’Alleanza avendo Israele sperimentato dapprima la liberazione da parte di Dio, e solo dopo ha meditato sulla creazione alla luce di questa fondamentale esperienza. Nel salmo ci sono tracce visibili di ciò: Anzitutto, il nome di Dio usato è sempre il celebre tetragramma YHWH, che traduciamo con Signore, il nome del Dio dell’Alleanza, rivelato a Mosè. Inoltre nell’espressione: “Signore, mio Dio, quanto sei grande” il possessivo è un richiamo all’Alleanza, poiché il progetto di Dio nell’Alleanza era proprio detto così: “Voi sarete il mio popolo, e io sarò il vostro Dio”. Questa promessa si compie nel dono dello Spirito a ogni carne, come proclama il profeta Gioele e ogni uomo è invitato a ricevere il dono dello Spirito per diventare vero figlio di Dio.
*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (8, 8 –17)
La difficoltà principale di questo testo è nella parola “carne” che nel vocabolario di san Paolo non ha lo stesso significato rispetto al nostro vocabolario in cui spesso si contrappongono i due componenti dell’essere umano corpo e anima rischiando di male interpretare quel che Paolo intende dire quando parla di carne e di Spirito. Quel che lui chiama “carne” non è ciò che noi chiamiamo corpo e quel che chiama “Spirito” non corrisponde a ciò che chiamiamo anima; anzi egli precisa più volte che si tratta dello Spirito di Dio,“lo Spirito di Cristo”. Non contrappone due parole, “carne” e “Spirito”, ma due espressioni: “vivere secondo la carne” e “vivere secondo lo Spirito” cioè scegliere tra due modi di vivere, o meglio decidere chi seguire e quale linea di condotta adottare. Torna il tema delle due vie che ogni giudeo come san Paolo ben conosce: scegliere tra due strade, tra due atteggiamenti possibili davanti alle difficoltà o alle prove: la fiducia in Dio, oppure la diffidenza; la sicurezza di non sentirsi mai abbandonati da Dio oppure il dubbio e il sospetto che Dio non cerchi veramente il nostro bene; la fedeltà ai suoi comandamenti perché ci fidiamo di lui, oppure la disobbedienza perché ci riteniamo capaci di autonome decisioni. La storia d’Israele nella Bibbia (si pensi a Massa e Meriba nel libro dell’esodo) presenta numerosi esempi di sfiducia davanti alle prove della vita e nel deserto specialmente di fronte alle tante prove tra cui la fame e la sete. Quando il popolo sospettò che Dio lo abbandonasse fece un vero processo d’intenzione a Dio e a Mosè. Anche Adamo, difronte al limite posto ai suoi desideri, sospettò e disobbedì al Signore. La tentazione di Adamo ed Eva nell’Eden si ripropone nella nostra vita ogni giorno: è il costante problema della fiducia e della sfiducia, il cosiddetto peccato “originale” nel senso che è alla base di tutti i disastri umani. Opposto al sospetto e alla ribellione contro Dio sta l’atteggiamento di Cristo pieno di fiducia e sottomissione perché sa che la volontà di Dio è solo bene. Soprattutto di fronte alle sfide del dolore in tutte le sue forme e alla morte sono due agli tteggiamenti opposti che Paolo chiama “vivere secondo la carne” o “vivere secondo lo Spirito”. Vivere secondo la carne significa per lui comportarsi come schiavi che non si fidano e obbediscono per obbligo o per paura delle punizioni. “Vivere secondo lo Spirito” è invece “comportarsi da figli”, tessere cioè relazioni di fiducia e di tenerezza che, seguendo l’esempio di Cristo, portano alla vita. Vivere sotto l’influsso della carne (cioè nell’atteggiamento di sfiducia e disobbedienza verso Dio) conduce alla morte, mentre vivere mediante lo Spirito è far morire le opere del peccato. In altre parole: l’atteggiamento da schiavo, è distruttivo mentre l’atteggiamento da figlio è via di pace e felicità. Lo Spirito di Dio, che con il battesimo abita in noi, ci fa chiamare Dio “Abbà-Padre”, e il giorno in cui tutta l’umanità riconoscerà Dio come Padre, il progetto divino sarà compiuto, e tutti insieme entreremo nella sua gloria. Pochi versetti più avanti, Paolo annoterà che la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Il testo odierno ci ricorda infine che poiché siamo figli di Dio, siamo anche eredi di Dio, coeredi con Cristo, a condizione di soffrire con lui per essere con lui anche nella gloria. Un testo che può essere letto in due modi: lo schiavo immagina un Dio che mette delle condizioni all’eredità; invece il figlio considera Dio come Padre anche e soprattutto nella sofferenza. Il soffrire è inevitabile come lo fu anche per Cristo, ma vissuto con lui e come lui, diventa via di risurrezione ed allora “a condizione di soffrire con lui” vuol dire: a condizione di essere con lui, di rimanere uniti a lui in ogni momento, anche nella sofferenza inevitabile.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (14, 15-16. 23b-26)
Questo passo evangelico molto noto assume oggi una nuova luce grazie agli altri testi biblici proposti per la festa di Pentecoste. Ad esempio, si è tentati di pensare allo Spirito Santo in termini di ispirazione, di idee, di discernimento, di intelligenza, ma per la festa del dono dello Spirito, il vangelo oggi parla soltanto di amore. Gesù dice qui che lo Spirito di Dio è tutt’altra cosa: è Amore, l’Amore personificato. Questo significa che, la mattina di Pentecoste, a Gerusalemme, quando i discepoli furono ricolmi di Spirito Santo, fu l’amore stesso che è Dio a riempirli. E allo stesso modo, anche noi, battezzati e cresimati, sappiamo che la nostra capacità di amare è abitata dall’amore stesso di Dio. Lo ricorda il salmo responsoriale 103/104 quando proclama: Tu mandi il tuo Spirito, e noi, creati a immagine di Dio, siamo chiamati a somigliargli sempre di più, costantemente modellati da Lui a sua immagine. Lo Spirito è il vasaio che lavora la sua creta e ogni vaso diventa sempre più raffinato nelle mani dell’artigiano. Noi siamo la creta nelle mani di Dio per cui la nostra somiglianza con Lui si affina sempre più nella misura in cui ci lasciamo trasformare dallo Spirito d’Amore. Nella seconda lettura san Paolo parla del nostro rapporto con Dio riassunto in una frase: non siamo più schiavi, ma siamo figli di Dio, mentre nel vangelo Gesù collega il nostro rapporto con Dio al nostro rapporto con i fratelli: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv14, 15) e sappiamo bene qual è il suo comandamento: “che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi (Gv 13,34). Se Gesù si riferisce al gesto della lavanda dei piedi, cioè a un atteggiamento deciso di servizio, possiamo tradurre “se mi amate, osserverete i miei comandamenti” con “se mi amate, vi metterete a servizio gli uni degli altri”. L’amore di Dio e l’amore dei fratelli sono inseparabili, così inseparabili che è dalla qualità del nostro servizio verso il prossimo che va giudicata la qualità del nostro amore per Dio e quindi “se non vi mettete al servizio dei vostri fratelli, non pretendete di dire che mi amate!” Poco più avanti, Gesù riprende un’espressione simile e la sviluppa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv14,23). Non significa che il Padre del cielo non ci ama se non ci mettiamo al servizio dei fratelli perché in lui non ci sono condizioni e ricatti. Al contrario, la caratteristica della misericordia è proprio chinarsi ancora più verso i miseri come miseri siamo tutti, almeno in quanto a amore e servizio degli altri. L’amore si impara esercitandolo, ma ciò che qui il Signore ci dice è qualcosa che ben conosciamo: la capacità di amare è un’arte, e ogni arte si impara esercitandola. L’amore del Padre è smisurato, infinito ma la nostra capacità di accoglierlo è limitata e cresce man mano che lo esercitiamo. Possiamo allora tradurre così: “Se qualcuno mi ama, si metterà al servizio degli altri e a poco a poco, il suo cuore si allargherà; l’amore di Dio lo invaderà sempre di più, e potrà servire ancora meglio gli altri…e così via fino all’infinito” cioè in un progresso senza limiti. Concludiamo tornando al termine “Paraclito” che può tradursi in consolatore e difensore. Sì, abbiamo bisogno di un difensore, ma non davanti a Dio e san Paolo lo chiarisce bene nella seconda lettura: Lo Spirito che avete ricevuto non vi rende schiavi, gente che ha ancora paura, è invece Spirito che vi rende figli (cf Rm 8,15). Non abbiamo quindi più paura di Dio e non abbiamo bisogno di un avvocato davanti a Lui. Ma allora perché Gesù dice che pregherà il Padre, ed egli ci darà un altro difensore, perché rimanga con noi per sempre? Sì, abbiamo bisogno di un difensore, che ci difenda da noi stessi, dalle nostre remore a servire gli altri, dalla scarsa fiducia nella potenza di Dio, difenda in noi costantemente la causa degli altri contro il nostro egoismo perché, così agendo, in realtà difende noi stessi dato che la vera felicità consiste nel lasciarci modellare ogni giorno da Dio a sua immagine vincendo ogni resistenza egoistica.
+Giovanni D’Ercole
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Per la festa dell’Ascensione, la prima lettura e il Salmo sono comuni agli anni A, B, C mentre cambiano la seconda lettura e il vangelo
*Prima Lettura dagli Atti degli Apostoli (1,1-11)
Questi primi versetti degli Atti degli Apostoli richiamano la conclusione del vangelo di Luca, anch’esso indirizzato a un certo Teofilo ed è interessante notare che l’uno inizi là dove l’altro finisce, cioè con il racconto dell’Ascensione di Gesù, anche se le due narrazioni non combaciano perfettamente come si nota leggendo i testi dell’Anno C. Il vangelo narra la missione e la predicazione di Gesù, gli Atti degli Apostoli si dedicano all’attività missionaria degli apostoli, da cui il titolo. Il vangelo di Luca inizia e termina a Gerusalemme, cuore del mondo ebraico e della Prima Alleanza; gli Atti partono da Gerusalemme, perché la Nuova Alleanza prosegue la Prima ma si concludono a Roma, crocevia di tutte le strade del mondo e la Nuova Alleanza travalica i confini di Israele. Per Luca è chiaro che questa espansione è frutto dello Spirito Santo, l’ispiratore degli apostoli dalla Pentecoste, tanto che gli Atti sono spesso chiamati “il vangelo dello Spirito”. Gesù, dopo il battesimo, si preparò alla sua missione con quaranta giorni di deserto, così egli prepara la Chiesa a questa nuova fase missionaria apparendo agli apostoli per quaranta giorni e “parlando delle cose riguardanti il regno di Dio”. Infatti, “mentre si trovava a tavola con loro”, dunque durante ancora un’ultima cena, da agli apostoli alcune istruzioni che si riassumono in: un ordine, una promessa e un invio in missione.
L’ordine: non allontanarsi da Gerusalemme, ma attendere l’adempimento della promessa del Padre che deve compiersi a Gerusalemme dato che tutta la predicazione dei profeti, soprattutto d’Isaia, attribuisce a Gerusalemme un ruolo centrale nel progetto di Dio (cf Is 60,1-3; 62,1-2). La promessa: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo”. Anche questo era noto agli apostoli, che ricordavano la profezia di Gioele: «Spanderò il mio spirito su ogni creatura» (Gl 3,1), e le profezie di Zaccaria: (Za 13,1; 12,10), e di Ezechiele: «Spanderò su di voi acqua purificatrice e sarete purificati… Metterò in voi uno spirito nuovo… Metterò in voi il mio spirito» (Ez 36,25-27). Quado gli apostoli chiedono “se questo è il tempo nel quale ricostruirà il regno per Israele” mostrano di aver compreso che è sorto “il Giorno del Signore” e il progetto di Dio domanda ora la collaborazione dell’uomo: Con Cristo infatti è giunto il Salvatore promesso, ora tocca alla libertà umana accoglierlo e per questo è necessario l’annuncio da parte degli apostoli. Da qui la missione responsabile degli apostoli che ricevono lo Spirito Santo: “Riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni… fino ai confini della terra”. Il piano che il libro degli Atti segue è infatti questo: anzitutto l’annuncio a Gerusalemme, poi in tutta la Giudea con la Samaria e infine deve diffondersi fino ai confini del mondo. Come al mattino di Pasqua due uomini in vesti splendenti avevano destato le donne dicendo: “Perché cercate il Vivente tra i morti? Non è qui, è risorto”, così, il giorno dell’Ascensione, “due uomini in bianche vesti” fanno lo stesso con gli apostoli: “Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (1,11). Gesù tornerà, ne siamo certi, e lo proclamiamo in ogni eucaristia quando diciamo “Nella beata speranza dell’avvento di Gesù Cristo nostro Salvatore”. Infine nna nube sottrae Gesù alla vista umana: cessa la sua presenza carnale per inaugurare quella spirituale. Segno visibile di questa presenza di Dio è la nube già presente nel passaggio del Mar Rosso (Es 13,21) e nella Trasfigurazione (Lc 9,34).
NOTA. Non si possono ricostruire esattamente gli eventi tra la Risurrezione e l’Ascensione. Nei testi di Luca (vangelo e Atti) la narrazione è sostanzialmente identica: Gesù parte da Betania e porta i discepoli sul Monte degli Ulivi raccomandando di non lasciare Gerusalemme finché non abbiano ricevuto lo Spirito Santo. L’unica differenza riguarda la durata: nel vangelo sembra che l’Ascensione avvenga la sera stessa di Pasqua, mentre negli Atti è chiarito che tra Pasqua e Ascensione trascorrono quaranta giorni — da qui la festa quaranta giorni dopo. Negli altri vangeli si trova poco sull’Ascensione: Matteo non ne parla affatto, riferisce solo l’apparizione alle donne e l’invio in Galilea (Mt 28,18-20). Giovanni narra diverse apparizioni, ma omette l’Ascensione. Marco menziona l’Ascensione brevemente alla fine (Mc 16,19). Le differenze dimostrano che i vangeli non mirano a un resoconto geografico preciso ma a sottolineare aspetti teologici: Matteo insiste sulla Galilea, Luca su Gerusalemme. Infatti, è a Gerusalemme che Gesù aveva ordinato di attendere lo Spirito: “Ecco io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24,49).
*Salmo responsoriale (46 (47),2-3,6-7,8-9)
In questo salmo Israele canta e acclama Dio non solo come suo re, ma come re di tutta la terra. Prima dell’esilio a Babilonia nessun re di Israele aveva immaginato che Dio potesse essere il Signore dell’intero universo e perciò il salmo data di un’epoca tarda della storia d’Israele. Dio è il re d’Israele e per questo in Israele il re non deteneva ogni potere perché il vero re era Dio stesso. Il re non poteva disporre della legge a suo piacimento e, come tutti, doveva sottomettersi alla Torah, vale a dire alle norme che Dio aveva dato a Mosè sul Sinai. Anzi, secondo il libro del Deuteronomio, egli doveva leggere l’intera Legge ogni giorno e, anche seduto sul trono, non era (in linea di principio) che un esecutore degli ordini di Dio, a lui trasmessi dai profeti. Nei Libri dei Re, i re domandano il parere del profeta in carica prima di intraprendere una campagna militare o, nel caso di Davide, prima di iniziare la costruzione del Tempio così che i profeti intervenivano liberamente nella vita dei re, criticando con forza le loro azioni. Una tale concezione della sovranità di Dio fu persino un ostacolo all’istituzione della monarchia, come avvenne quando il profeta Samuele, al tempo dei Giudici, reagì con forza verso i capi delle tribù che chiedevano un re per essere come tutte le altre nazioni. Desiderare di essere come gli altri popoli, quando si è il popolo eletto da Dio e in alleanza con Lui, era qualcosa di blasfemo e, se Samuele cedette alle pressioni, non mancò di avvertire però della rovina che stavano procurando a se stessi. Quando consacrò il primo re, Saul, si premurò di precisare che questi diventava il custode del patrimonio di Dio perché il popolo rimaneva il popolo di Dio, non del re, e il re stesso era solo un servitore di Dio. Durante gli anni della monarchia, i profeti furono incaricati di ricordare ai re questa verità essenziale. Si comprende allora che in onore di Dio questo salmo utilizza il vocabolario che altrove era riservato ai re. Anche “terribile” è un’espressione tipica del gergo di corte che va inteso così: il re (Dio) non spaventa i suoi sudditi, ma li rassicura e per questo si avvertono i nemici che il “nostro re” sarà invincibile. Il Dio re dell’universo, “il grande re su tutta la terra” (v. 3), acclamato in ogni verso del salmo è proprio il Dio del Sinai, il “Signore” e a questa festa tutti i popoli partecipano: “Popoli tutti battete le mani, acclamate Dio con grida di gioia!” così che la dimensione universale pervade profondamente il salmo fino a dire “Dio regna sulle genti” (v. 9) riconoscendolo come unico Dio dell’intero universo.
NOTA. La vera scoperta del monoteismo avvenne soltanto con l’esilio babilonese: fino ad allora Israele non era monoteista nel senso pieno del termine, bensì monolatra, ossia riconosceva come proprio un solo Dio—quello dell’Alleanza del Sinai—ma ammetteva che i popoli confinanti avessero ciascuno il proprio dio, sovrano nella loro terra e difensore in battaglia. Questo salmo fu dunque probabilmente composto dopo il ritorno dall’esilio non nella sala del trono, ma nel Tempio ricostruito di Gerusalemme, in un contesto liturgico in cui si evocava il grande progetto di Dio sull’umanità, anticipando il giorno in cui finalmente Dio sarà riconosciuto come Padre di ogni bene. Noi cristiani facciamo nostro questo salmo e l’espressione “ascende Dio tra le acclamazioni” sembra ben adatta per l’odierna celebrazione dell’Ascensione di Gesù. Tributando a Cristo re dell’universo questo splendido omaggio, anticipiamo il canto che nell’ultimo giorno i figli di Dio finalmente riuniti intoneranno insieme: “Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia”.
*Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (9, 24-28 ; 10,19-23)
Nella prima parte di questo testo l’autore medita sul mistero di Cristo; nella seconda ne ricava le conseguenze per la vita di fede con l’intento di rassicurare i suoi lettori, i cristiani di origine ebraica, che provavano una certa nostalgia del culto antico dato che nella pratica cristiana non c’è più il tempio, né più sacrifici di sangue e si domandavano se davvero fosse questo ciò che Dio vuole. L’autore ripercorre tutti i riti e le realtà della religione ebraica dimostrando che sono ormai superati. Ttratta soprattutto del Tempio, chiamato santuario, e chiarisce che bisogna distinguere il vero santuario in cui Dio dimora — il cielo stesso — dal tempio costruito dagli uomini, che ne è solo una pallida immagine. Gli ebrei erano giustamente orgogliosi del Tempio di Gerusalemme, ma non dimenticavano che ogni costruzione umana, per definizione, resta debole, imperfetta e destinata a perire. Inoltre, nessuno in Israele sosteneva che si potesse rinchiudere la presenza di Dio in un edificio, per quanto maestoso. Lo aveva già detto il primo costruttore del Tempio, il re Salomone: “Forse che Dio dimorerebbe sulla terra? I cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere; figuriamoci questa Casa che io ho edificato!” (1 Re 8,27). Per i cristiani il vero Tempio — il luogo dell’incontro con Dio — non è più un edificio, perché l’Incarnazione del Verbo ha cambiato tutto. Il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo è Cristo, il Dio fatto uomo e san Giovanni lo spiegha quando narra Gesù che caccia dal Tempio i cambiamonete e venditori di animali. A coloro che gli chiesero: “Quale segno ci mostrerai per fare questo?”, (cioè «in nome di chi fai questa rivoluzione? rispose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo ristabilirò”. Solo dopo la risurrezione i discepoli capiranno che parlava del suo corpo (Gv 2,13-21). Qui, nella Lettera agli Ebrei, si afferma la stessa cosa: solo restando innestati in Cristo, nutriti del suo corpo, entriamo nel mistero del Dio che “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo” (Eb 9,24). Questo avvenne con la morte di Cristo rendendo chiara la centralità della Croce nel mistero cristiano, come confermano tutti gli autori del Nuovo Testamento. L’autore della Lettera agli Ebrei precisa più avanti che il culmine dell’offerta della vita di Cristo è la sua morte ma il suo sacrificio abbraccia l’intera sua esistenza non solo quindi la sua Passione (cp10). Nel passo che leggiamo oggi l’attenzione si concentra sul sacrificio della Passione, contrapposto a quello che ogni anno offriva il sommo sacerdote nel Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur). Entrava da solo nel Santo dei Santi, pronunciava l’indicibile nome di Dio (YHVH), spargeva il sangue di un toro per i propri peccati e quello di un capro per quelli del popolo, rinnovando così solennemente l’Alleanza e, quando usciva, il popolo sapeva che i suoi peccati erano perdonati. Quell’alleanza andava rinnovata ogni anno, invece la nuova Alleanza stabilita con il Padre è definitiva in Cristo crocifisso e risorto. Sulla croce si rivela il vero volto di Dio, che ci ama fino all’estremo, padre di ognuno di noi per cui non c’è più da temere il giudizio di Dio. Quando nel Credo proclamiamo che Gesù verrà a giudicare i vivi e i morti, sappiamo che, in Dio giudizio significa salvezza, come leggiamo qui: “Cristo dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato a coloro che lo aspettano per la loro salvezza” (Eb 9,28). Questa certezza della fede ci permette di vivere il rapporto con Dio in piena serenità e azione di grazie. Ma è importante testimoniarlo, come ci esorta questo testo: “Continuiamo senza esitare a professare la nostra speranza, perché Colui che ha promesso è fedele» (Eb. 10,23). Gesù Cristo è “il sommo sacerdote dei beni futuri” (Eb 9,11).
*Dal Vangelo secondo san Luca (24, 46-53)
I sinottici, Matteo, Marco, Luca si differenziano nel racconto dell’Ascensione del Signore,
Matteo lo colloca su un monte in Galilea, dove Gesù aveva fissato il suo appuntamento con gli apostoli; Marco non fornisce alcuna indicazione geografica; Luca, al contrario, situa l’evento sul Monte degli Ulivi verso Betania. In tal modo conclude il vangelo là dove era iniziato, a Gerusalemme: la città santa del popolo eletto da cui la rivelazione del Dio unico si era irradiata al mondo; la città del tempio-segno della presenza di Dio fra gli uomini. Ma anche la città dell’adempimento della salvezza per mezzo della morte e risurrezione di Cristo, e la città del dono dello Spirito. Infine la città da cui deve irradiarsi sull’universo l’ultima rivelazione e Luca fa risuonare nelle nostre orecchie le parole di Gesù: “Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26). Ciò che è nuovo qui, rispetto alle tre profezie della sua passione pronunciate da Gesù prima degli eventi e alle due affermazioni subito dopo la risurrezione e sul cammino di Emmaus, è la conclusione della frase, che assume la forma di un invio missionario degli apostoli: “ Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni (Lc 24, 46-49) Per i primi cristiani era difficile spiegare quale passo delle Scritture aveva annunciato le sofferenze del Messia e la sua risurrezione il terzo giorno; fra gli ultimi profeti dell’Antico Testamento erano molto più diffuse le profezie sulla conversione di tutte le nazioni, cominciando da Gerusalemme, come leggiamo in Geremia: “In quel giorno chiameranno Gerusalemme trono del Signore; tutte le nazioni vi si troveranno affluire, al nome del Signore, a Gerusalemme» (3,17); e nel terzo Isaia: “La casa mia sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli” (56,7); “Di luna in luna, di sabato in sabato, verrà ogni creatura a prostrarsi davanti a me” (66,23). Zaccaria poi sviluppa questo tema: “In quel giorno molte nazioni si raccoglieranno al Signore e saranno per me un popolo” (Za 2,15), “Molti popoli e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a cercare il Signore degli eserciti” (8,22).Gli esegeti affermano che, anche se queste riflessioni sono presenti in numerosi salmi, furono soprattutto i canti del Servo nei DeuteroIsaia (Is 42; 49; 50; 52-53) a ispirare la meditazione degli evangelisti e a chiarire l’espressione di Gesù “Bisognava che:::” perché in questi quattro cantici emerge la figura del Messia sofferente e glorificato e l’annuncio del bene per tutte le nazioni: “Io, il Signore”, ti ho chiamato con giustizia, ti ho preso per mano, ti ho formato; ti ho fatto alleanza del popolo, luce delle nazioni» (Is 42,6);
“Il giusto, mio servo, giustificherà le moltitudini” (Is 53,11). Questa conclusione del vangelo di Luca assume dunque i toni della liturgia: Gesù, vero sommo sacerdote, benedice i suoi e li invia nel mondo e il popolo adora e rende grazie: “Alzate le mani, li benedisse. E mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24, 50-53). Il vangelo di Luca si chiude tornando al suo inizio, quando Zaccaria, sacerdote dell’Antica Alleanza, aveva udito l’annuncio della salvezza di Dio (Lc 1,5-19 e l’ultima immagine che i discepoli custodirono del Maestro è un gesto di benedizione. Per questo si capisce perché tornano a Gerusalemme con grande gioia. In quest’immagine conclusiva è racchiuso il mistero della luce e della gioia dell’Ascensione, una partenza che non è abbandono, ma certezza di una presenza diversa, invisibile ma ancor più potente ed efficace.
+Giovanni D’Ercole
In the divine attitude justice is pervaded with mercy, whereas the human attitude is limited to justice. Jesus exhorts us to open ourselves with courage to the strength of forgiveness, because in life not everything can be resolved with justice. We know this (Pope Francis)
Nell’atteggiamento divino la giustizia è pervasa dalla misericordia, mentre l’atteggiamento umano si limita alla giustizia. Gesù ci esorta ad aprirci con coraggio alla forza del perdono, perché nella vita non tutto si risolve con la giustizia; lo sappiamo (Papa Francesco)
The Second Vatican Council's Constitution on the Sacred Liturgy refers precisely to this Gospel passage to indicate one of the ways that Christ is present: "He is present when the Church prays and sings, for he has promised "where two or three are gathered together in my name there am I in the midst of them' (Mt 18: 20)" [Sacrosanctum Concilium, n. 7]
La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si riferisce proprio a questo passo del Vangelo per indicare uno dei modi della presenza di Cristo: "Quando la Chiesa prega e canta i Salmi, è presente Lui che ha promesso: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20)" [Sacrosanctum Concilium, 7]
This was well known to the primitive Christian community, which considered itself "alien" here below and called its populated nucleuses in the cities "parishes", which means, precisely, colonies of foreigners [in Greek, pároikoi] (cf. I Pt 2: 11). In this way, the first Christians expressed the most important characteristic of the Church, which is precisely the tension of living in this life in light of Heaven (Pope Benedict)
Era ben consapevole di ciò la primitiva comunità cristiana che si considerava quaggiù "forestiera" e chiamava i suoi nuclei residenti nelle città "parrocchie", che significa appunto colonie di stranieri [in greco pàroikoi] (cfr 1Pt 2, 11). In questo modo i primi cristiani esprimevano la caratteristica più importante della Chiesa, che è appunto la tensione verso il cielo (Papa Benedetto)
A few days before her deportation, the woman religious had dismissed the question about a possible rescue: “Do not do it! Why should I be spared? Is it not right that I should gain no advantage from my Baptism? If I cannot share the lot of my brothers and sisters, my life, in a certain sense, is destroyed” (Pope John Paul II)
Pochi giorni prima della sua deportazione la religiosa, a chi le offriva di fare qualcosa per salvarle la vita, aveva risposto: "Non lo fate! Perché io dovrei essere esclusa? La giustizia non sta forse nel fatto che io non tragga vantaggio dal mio battesimo? Se non posso condividere la sorte dei miei fratelli e sorelle, la mia vita è in un certo senso distrutta" (Papa Giovanni Paolo II)
By willingly accepting death, Jesus carries the cross of all human beings and becomes a source of salvation for the whole of humanity. St Cyril of Jerusalem commented: “The glory of the Cross led those who were blind through ignorance into light, loosed all who were held fast by sin and brought redemption to the whole world of mankind” (Catechesis Illuminandorum XIII, 1: de Christo crucifixo et sepulto: PG 33, 772 B) [Pope Benedict]
Accettando volontariamente la morte, Gesù porta la croce di tutti gli uomini e diventa fonte di salvezza per tutta l’umanità. San Cirillo di Gerusalemme commenta: «La croce vittoriosa ha illuminato chi era accecato dall’ignoranza, ha liberato chi era prigioniero del peccato, ha portato la redenzione all’intera umanità» (Catechesis Illuminandorum XIII,1: de Christo crucifixo et sepulto: PG 33, 772 B) [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
Disclaimer
Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.