don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

Con gli auguri ancora freschi per questo nuovo anno, ecco il commento delle letture della solennità dell’Epifania 

Epifania del Signore [6 gennaio 2025]

*Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia (60,1-6)

Il richiamo ai simboli dell’oro, incenso e mirra, presente in questo testo del profeta Isaia, l’hanno fatto scegliere per l’odierna festa dell’Epifania del Signore con evidente connessione ai doni dei Magi, ma c’è molto di più. Da notare tutte le espressioni di luce che sono in questo passaggio: “Rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te”…(come sorge il sole)  su di te risplende il Signore , la sua gloria  appare su di te… cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere”. Insomma la tua luce, lo splendore della tua aurora ti renderà radiosa. Contrariamente a quel che si può immaginare, come spesso capita con i profeti che coltivano la speranza, dobbiamo dedurre immediatamente che l’umore generale in quel momento era piuttosto cupo. Perché l’umore generale era cupo, e che cosa suggerisce il profeta per invitare il popolo alla speranza? Per quanto riguarda l’umore, guardiamo al contesto: questo testo fa parte degli ultimi capitoli del libro di Isaia; siamo negli anni 525-520 a.C., cioè circa quindici o vent’anni dopo il ritorno dall’esilio a Babilonia. I deportati erano tornati in patria, e si credeva che la felicità si sarebbe stabilita, ma questo ritorno tanto atteso non ha soddisfatto tutte le aspettative. C’erano quelli che, rimasti nel paese, avevano vissuto il periodo di guerra e occupazione; gli esuli tornati dall’esilio speravano di ritrovare il loro posto e i loro beni. Poiché l’esilio durò cinquant’anni, coloro che erano partiti erano morti là e i superstiti rientrati in patria erano i loro figli o nipoti. Questo non doveva semplificare le riunioni, tanto più che coloro che tornavano non potevano pretendere di recuperare l’eredità dei loro genitori perché, proprio a causa del lungo periodo di cinquant’anni, i beni degli assenti e degli esiliati erano stati occupati e altri se ne erano impossessati. Inoltre molti stranieri si erano stabiliti nella città di Gerusalemme e in tutto il paese e vi avevano introdotto altre usanze, altre religioni. Appare evidente che quest’ammasso di persone tanto diverse non costituiva un clima ideale per vivere insieme. Prima causa di disaccordo fu la ricostruzione del Tempio. Fin dal ritorno dall’esilio, autorizzato nel 538 dal re Ciro, i primi rientrati, che formavano la cosiddetta “comunità del ritorno”, avevano ristabilito l’antico altare del Tempio di Gerusalemme e avevano ripreso a celebrare il culto come in passato. Si volle al tempo stesso cominciare la ricostruzione del Tempio, ma alcune persone considerate eretiche vollero intervenire. Si tratta di un miscuglio di ebrei rimasti nel paese e di popolazioni straniere pagane insediate lì dall’occupante mescolate insieme persino attraverso dei matrimoni che avevano preso abitudini giudicate eretiche dagli ebrei che tornavano dall’Esilio e per questo motivo la “comunità del ritorno” rifiutò che il Tempio del Dio unico fosse costruito da persone che poi vi avrebbero celebrato altri culti. Questo rifiuto fu mal accolto e coloro che erano stati respinti si opposero con tutti i mezzi: il risultato fu l’arresto dei lavori e il tramonto del sogno di ricostruire il Tempio. Con il passare degli anni crebbe e si diffuse lo scoraggiamento.  La tristezza e lo sconforto non sono però degni del popolo portatore delle promesse di Dio e per questo Isaia insieme al profeta Aggeo decisero di risvegliare i loro compatrioti invitandoli a non piangersi addosso e a mettersi al lavoro per ricostruire il Tempio.  Conoscendo questo  contesto, il linguaggio quasi trionfante d’Isaia ci sorprende, ma è il linguaggio abituale nei profeti. Se promettono tutta questa luce è perché il popolo è moralmente a terra e ci si trova nella notte più cupa. Tuttavia è proprio durante la notte che si scrutano i segni del sorgere del giorno e il ruolo del profeta è ridare coraggio annunciando l’alba del nuovo giorno. E’ chiaro: più il profeta insiste sul tema della luce più vuol dire che il popolo è oppresso dal buio dello scoramento. Per risollevarne il morale Isaia e Aggeo insistono su un solo argomento fondamentale per gli ebrei: Gerusalemme è la Città santa, scelta da Dio per farvi dimorare il segno della sua presenza. Dio stesso si è impegnato con il re Salomone, decidendo che “qui sarà il mio Nome”.  Possiamo così sintetizzare e attualizzare il messaggio di Isaia: “Vi sentite in un tunnel, nel buio più profondo, ma alla fine del tunnel vi attende la luce. Ricardatevi la promessa: giunge il Giorno in cui tutti riconosceranno in Gerusalemme la Città santa”.  E allora non lasciatevi abbattere e mettetevi al lavoro, dedicate tutte le vostre forze a ricostruire il Tempio come avete promesso. In ogni tempo quando ci si sente scoraggiati dalle difficoltà e si brancola nel buio dell’incertezza occorrono profeti che ridestano il coraggio della speranza. Isaia lo fa capire con determinazione e questo è il suo ragionamento: quando si è credenti, anche il buio più oscuro non riesce a soffocare la speranza. E qui non si tratta di promessa legata a un trionfo politico, ma della promessa di Dio: un giorno l’intera umanità sarà finalmente riunita in un’armonia perfetta nella Città santa. 

 

*Salmo Responsoriale (71/72) 

Questo salmo ci fa assistere all’incoronazione di un nuovo re, quando i sacerdoti pronunciano su di lui preghiere che raccolgono i desideri e i sogni del popolo all’inizio di ogni nuovo regno. Si auspica la potenza politica per il re, la pace e la giustizia, la felicità, la ricchezza e prosperità per tutti e il popolo eletto ha il vantaggio di sapere che questi sogni degli uomini coincidono con il progetto stesso di Dio. L’ultima strofa del salmo, che non fa parte dell’odierna liturgia, cambia però tono: non si parla più del re terreno, ma  di Dio: “Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele, lui solo compie meraviglie! Benedetto sia per sempre il suo nome glorioso, tutta la terra sia piena della sua gloria! Amen! Amen!”. Ed è proprio quest’ultima strofa a offrire la chiave per capire l’intero salmo composto e cantato dopo l’esilio a Babilonia (quindi tra il 500 e il 100 a.C.), in un’epoca in cui non c’era più un re in Israele. I voti e le preghiere non riguardano quindi un re in carne e ossa, ma il futuro re promesso da Dio, il re-messia. E poiché si tratta di una promessa di Dio, si può essere certi che si realizzerà. L’intera Bibbia è attraversata da questa speranza indistruttibile: la storia umana ha un fine, un senso dove  il termine “senso” significa due cose: sia “significato” che “direzione”. Dio ha un unico progetto che ispira tutte le  vicende della Bibbia e assume nomi diversi secondo i diversi autori: è  il “Giorno di Dio” per i profeti, il “regno dei cieli” per l’evangelista Matteo, il “disegno della sua benevolenza (eudokia) ” per san Paolo (Ef1,9-10). Dio ama l’umanità e ripropone instancabilmente il suo progetto di felicità. Progetto che sarà realizzato dal messia che viene invocato ogni qualvolta si cantano i salmi nel Tempio di Gerusalemme.

Il salmo 71 è la descrizione del re ideale, che Israele attende da secoli: quando nasce Gesù, sono passati circa 1000 anni da quando il profeta Natan si recò dal re Davide da parte di Dio e gli fece la promessa di cui parla il nostro salmo. (cf 2 Sam 7,12-16). Di secolo in secolo, la promessa è stata ribadita e meglio precisata. La certezza della fedeltà di Dio alle sue promesse ha permesso di scoprire a poco a poco tutta la sua ricchezza e le sue conseguenze; se questo re meritava davvero il titolo di figlio di Dio, allora sarebbe stato a immagine di Dio, re di giustizia e di pace. A ogni incoronazione di un nuovo re, la promessa veniva ripetuta su di lui e si tornava a sognare, ma il popolo ebraico attende ancora, e bisogna riconoscere che il regno ideale non ha ancora visto la luce sulla terra. Si finirebbe quasi per credere che sia solo un’utopia. I credenti però sanno che non si tratta di un’utopia ma di una promessa di Dio, quindi di una certezza. E l’intera Bibbia è attraversata da questa certezza, speranza invincibile che il progetto di Dio si realizzerà. È il miracolo della fede: di fronte a questa promessa ogni volta delusa, due diverse reazioni sono possibili: il non credente dice “ve l’avevo detto, non accadrà mai”; il credente afferma risolutamente “pazienza, poiché Dio l’ha promesso, non può rinnegare se stesso”, come ricorda san Paolo (2 Tm 2,13).  Oggi, il popolo ebraico canta questo salmo nell’attesa del re-messia e in certe sinagoghe gli ebrei manifestano la loro impazienza  di vedere il messia recitando questa professione di fede di Mosè Maimonide, filosofo, medico e giurista ebreo (1135-1204) di Toledo in Spagna: “Credo con fede certa che il messia verrà, e anche se tarda a venire, nonostante tutto, io aspetterò fino al giorno del suo arrivo”.  Noi, cristiani, lo applichiamo a Gesù Cristo e ci sembra che i magi venuti dall’Oriente abbiano iniziato a realizzare la promessa: “I re di Tarsis e delle isole porteranno doni, i re di Saba e di Seba offriranno tributi… Tutti i re si prostreranno davanti a lui, tutte le nazioni lo serviranno”. E non è lontano il giorno in cui tutta l’umanità accoglierà il Cristo e si realizzerà il regno del suo amore.

 

*Seconda Lettura, dalla lettera di san Paolo Apostolo agli Efesini (3,2-6)

Questo testo è tratto dal capitolo terzo della Lettera agli Efesini, e nel primo capitolo Paolo ha usato la famosa espressione “il disegno d’amore della sua volontà” (v.5), “facendoci conoscere il mistero della sua volontà” (v 9). Ritroviamo qui la parola “mistero” che per san Paolo non è un segreto che Dio custodisce gelosamente; al contrario, è la sua intimità, nella quale ci fa entrare. Paolo spiega meglio affermando: “Per rivelazione  mi è stato fatto conoscere il mistero”: il mistero è il disegno di amore che Dio rivela progressivamente. Tutta la storia biblica è una lunga, lenta e paziente pedagogia che Dio utilizza per introdurre il suo popolo in questo suo mistero, nella sua intimità. L’esperienza mostra che non si può insegnare a un bambino tutto in una volta; va educato con pazienza, giorno per giorno e a seconda delle circostanze. Non si possono dare lezioni teoriche in anticipo su vita, morte, matrimonio o famiglia. Il bambino scopre la famiglia vivendo con i genitori, i nonni e i fratelli e sorelle: quando la famiglia celebra un matrimonio o una nascita, quando affronta un lutto, il bambino vive questi eventi con i parenti i quali, pian piano, lo accompagnano nella scoperta della vita. Dio ha usato la stessa pedagogia con il suo popolo rivelandosi progressivamente. Questa rivelazione con Cristo ha compiuto un passo decisivo per cui la storia si divide in due periodi, prima di Cristo e dopo Cristo e spiega l’apostolo che questo mistero “non é stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito” e chiarisce ancor più che il mistero di cui parla è Cristo stesso, il centro del mondo e della storia e l’universo intero sarà un giorno riunito in lui, come le membra sono unite al capo. Nella frase “ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose” (1,10), la parola greca che traduciamo con capo significa proprio la testa. Si tratta inoltre davvero dell’universo intero e Paolo precisa che “le genti sono chiamate in Cristo  Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del vangelo”. In altre parole si può dire che l’eredità è Cristo, la Promessa è Cristo, il Corpo èCristo, Il disegno di amore di Dio è che Cristo sia il centro del mondo e che l’universo intero sia riunito in lui. Quando nel Padre Nostro diciamo “sia fatta la tua volontà”, parliamo proprio di questo progetto divino e, ripetendo quest’invocazione, ci impregniamo sempre di più del desiderio del Giorno in cui tale progetto sarà pienamente realizzato. Paolo spiega che questo progetto riguarda l’umanità intera, non solo il popolo ebreo: è l’universalismo del piano di Dio, dimensione universale scoperta progressivamente nella Bibbia e ben radicata nel popolo di Israele, visto che si fa risalire ad Abramo la promessa della benedizione di tutta l’umanità: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3). Il passaggio di Isaia che leggiamo nella prima lettura della festa dell’Epifania è esattamente su questa linea. Ovviamente, se un profeta come Isaia ha ritenuto opportuno insistervi, è perché si tendeva a dimenticarlo. Allo stesso modo, al tempo di Cristo, se Paolo precisa che “le genti  sono chiamate in Cristo Gesù a condividere a la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del vangelo” è perché ciò non era scontato. Dobbiamo fare uno sforzo d’immaginazione: non ci troviamo affatto nella stessa situazione dei contemporanei di Paolo; per noi, nel ventunesimo secolo, questa è un’evidenza: la gran parte di noi non sono di origine ebraica e trovano normale il fatto che tutti noi partecipiamo alla salvezza recata dal Messia. Dopo duemila anni di cristianesimo, sappiamo che Israele rimane il popolo eletto, perché, come dice altrove san Paolo, “Dio non può rinnegare sé stesso”, ma  crediamo di essere anche noi in questo piano chiamati a testimoniare il vangelo nel mondo. Al tempo di Cristo, però, la situazione era diversa. Gesù è nato all’interno del popolo ebraico: questa era la logica del piano di Dio e dell’elezione di Israele. I Giudei erano il popolo eletto, scelto da Dio per essere apostoli, testimoni e strumenti della salvezza di tutta l’umanità. I giudei diventati cristiani hanno avuto difficoltà, talvolta, ad accettare l’ammissione di ex pagani nelle loro comunità e san Paolo ricorda loro che anche i pagani, ormai, possono essere apostoli e testimoni della salvezza. Del resto, l’episodio dei Magi, narrato da Matteo nel Vangelo dell’Epifania, ci dice esattamente la stessa cosa. Le ultime parole di questa seconda lettura  risuonano come un invito: “le genti  sono chiamate in Cristo Gesù a condividere a la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del vangelo”. Certamente Dio attende la nostra collaborazione al suo disegno d’amore: i Magi allora hanno visto una stella e si sono messi in cammino. Per tanti nostri contemporanei, non ci sarà una stella nel cielo, ma siamo noi i testimoni di Cristo e per questo bisognosi di diventare pieni di luce e di gioia. 

 

*Dal Vangelo secondo Matteo ( 2,1-12)

Innanzitutto un’osservazione storica: l’episodio dei Magi narrato dall’evangelista Matteo ci dà uno dei rari indizi sulla data di nascita esatta di Gesù. La data della morte di Erode il Grande è certa: 4 a.C. (visse dal 73 al 4 a.C.) e, poiché fece uccidere tutti i bambini di età inferiore ai due anni, si trattava di bambini nati tra il 6 e il 4 a.C. Quindi, Gesù nacque probabilmente tra il 6 e il 5 a.C. L’errore di calcolo avvenne nel VI secolo, quando un monaco, Dionigi il Piccolo, stabilì, a giusto titolo, di contare gli anni a partire dalla nascita di Gesù, e non più dalla fondazione di Roma. All’epoca, come si desume anche da altre fonti storiche, 

molto viva era l’attesa del Messia e se ne parlava dappertutto. Tutti pregavano Dio affinché affrettasse la sua venuta e alcuni Giudei pensavano che sarebbe stato un re: un discendente di Davide che avrebbe regnato sul trono di Gerusalemme, dopo ver scacciato i Romani e stabilito definitivamente pace, giustizia e fraternità in Israele. Altri con più ottimismo speravano persino che questa felicità si sarebbe estesa al mondo intero. In questo senso, si citavano diverse profezie convergenti dell’Antico Testamento: innanzitutto, quella di Balaam nel Libro dei Numeri. La ricordo: nel momento in cui le tribù d’Israele si avvicinavano alla Terra Promessa sotto la guida di Mosè, attraversando le pianure di Moab (oggi in Giordania), il re di Moab, Balak, aveva convocato Balaam (profeta e indovino pagano) affinché maledicesse questi invasori. Ma, ispirato da Dio, Balaam, anziché maledire, aveva pronunciato profezie di felicità e gloria per Israele, dicendo in particolare: “Io lo vedo, lo contemplo: da Giacobbe spunta una stella, da Israele si alza uno scettro”  (Num 24,17). Il re di Moab si era infuriato, perché aveva interpretato questa profezia come l’annuncio della sua futura sconfitta contro Israele. Ma in Israele, nei secoli successivi, questa bella promessa era stata trasmessa con cura, arrivando a pensare che il regno del Messia sarebbe stato annunciato dall’apparizione di una stella. Ecco perché il re Erode, consultato dai Magi riguardo a una stella, prese la questione molto seriamente. Un’altra profezia riguardante il Messia è quella di Michea: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo tra i capoluoghi di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Una profezia perfettamente in linea con la promessa fatta da Dio a Davide, secondo cui la sua dinastia non si sarebbe mai estinta e avrebbe portato al paese la felicità tanto attesa.

I Magi, probabilmente, non sapevano tutte queste cose: erano astrologi e si erano messi in cammino semplicemente perché avevano visto sorgere una nuova stella. Arrivati a Gerusalemme, si informarono presso le autorità locali. Ed è qui che incontriamo la prima sorpresa del racconto di Matteo: da una parte,  i Magi, pagani che non hanno preconcetti, sono alla ricerca del Messia e alla fine lo troveranno guardando l’astro visibile a tutti. Dall’altra parte, ci sono quelli che conoscono le Scritture, gli scribi d’Israele che possono citarle senza errori e possono rivelarne il significato… a condizione, però, che essi stessi si lascino guidare dalle Scritture, ma purtroppo non muovono un dito; non si spingeranno nemmeno da Gerusalemme a Betlemme e quindi non incontreranno il Bambino nella mangiatoia. E’ davvero una provocazione: coloro che attendevano il Messia come gli scribi non riescono a vedere e quindi non incontrano il Messia, mentre i magi estranei alle scritture si lasciano guidare dalla stella , che tutti vedevano, e arrivano all’incontro con Gesù.  Quanto a Erode, è tutta un’altra storia. Mettiamoci nei suoi panni: è il re dei Giudei, riconosciuto come tale dal potere romano. È molto fiero del suo titolo e ferocemente geloso di chiunque possa offuscarlo. Non dimentichiamo che ha fatto assassinare diversi membri della sua famiglia, compresi i suoi stessi figli. Ogni volta che qualcuno diventava un po’ troppo popolare, Erode lo faceva eliminare per gelosia. E ora si diffonde una voce in città: degli astrologi stranieri hanno compiuto un lungo viaggio e dicono: “Abbiamo visto sorgere una stella del tutto eccezionale; sappiamo che annuncia la nascita di un bambino-re… altrettanto eccezionale. Sicuramente è nato il vero re dei Giudei!”. Possiamo immaginare la furia e l’angoscia di Erode. Così, quando san Matteo dice: “Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme”, si tratta sicuramente di un modo molto delicato di esprimersi. Ovviamente, Erode non poteva mostrare la sua rabbia; doveva saper manovrare: il suo obiettivo era ottenere qualche informazione su questo bambino, un potenziale rivale da eliminare. Perciò si informa prima di tutto sul luogo.  Matteo scrive che convocò i capi dei sacerdoti e gli scribi per chiedere loro dove sarebbe nato il Messia. Ed è qui che interviene la profezia di Michea: il Messia sarebbe nato a Betlemme. Erode si informa inoltre sull’età del bambino, perché aveva già in mente un piano per eliminarlo. Convocò i Magi per chiedere loro il momento preciso in cui era apparsa la stella. Non conosciamo la loro risposta, ma gli eventi successivi ci permettono di dedurla: Erode ordinò di uccidere tutti i bambini di età inferiore ai due anni, prendendo così un ampio margine. Molto probabilmente, nel racconto della visita dei Magi, Matteo ci offre già un riassunto di tutta la vita di Gesù: sin dall’inizio, a Betlemme, incontrò l’ostilità e la collera delle autorità politiche e religiose. Non lo riconoscono come il Messia, lo trattano da impostore e alla fine lo eliminano crocifiggendolo come un malfattore . Eppure, era davvero il Messia. Grande lezione di fede per tutti! E’ proprio vero: solamente chi cerca Dio con sincerità e senza preconcetti arriva, come i Magi, a incontrarlo e a entrare nel piano della sua Misericordia infinita

 

N.B. Unisco questa preghiera tratta dal libretto di preghiere del santuario Santissima Trinità Misericordia di Maccio – Como

 

PREGHIERA ALLA SS. TRINITÀ PER IL DONO DELLA FEDE

Signore, sostieni la mia Fede!

O Mio Signor, o Mio Dio,

con fede profondissima son qui prostrato a Te.

Tu sei Speranza Certa in cui son fatto salvo!

Tu sei Misericordia che in Te tutto m’attiri!

Tu sei la Carità, Tu Tutto a me donato!

Tu sei l’Amore Eterno in cui il mio cuor s’acqueta!

Per questo Dono immenso,

di Te che Tutto sei e a me Tutto Ti doni,

del buio de la mia notte la Luce il velo squarcia,

e canto e prego e grido, con quanta fede io possa:

Io credo, io credo, io credo,

in te Dio Uno e Trino, mio Unico Signore!

Tu, Padre, Tu, Principio, che d’essa sei la Fonte;

Tu, Figlio, Eterno Verbo, per Cui essa s’accresce;

Tu, Spirito Divino, che in essa me confermi.

Tu, Trinità Santissima, Mistero impenetrabile di Te Unico Dio,

nel Sacrificio Santo del Dio che si fa Figlio,

fa’ che io trovi ognora Cibo, Conforto e Forza

e l’Acqua che purifica,

per render più salda e santa,

in Te che sei la Via, La Verità e la Vita,

per la sicura mano de la Virgo Purissima

che a Te, e da Te per me, Tu Amor, Madre facesti,

fermo e sicur restando

nel seno della tua Santa ed Amata Sposa,

la Fede che, nel Figlio, mi unisce e fa’ dono a Te!

 

+ Giovanni D’Ercole

1 gennaio 2025 nell’ottava di Natale - Maria SS Madre di Dio 

 

Prima Lettura dal Libro dei Numeri (6,22-27)

*Ti benedica il Signore

Per aprire il nuovo anno solare che segue il calendario civile gregoriano, in uso in quasi tutto il mondo, è stata scelta la bellissima benedizione, che in Israele i sacerdoti, a partire da Aronne e i suoi figli, utilizzavano per benedire il popolo durante le cerimonie liturgiche nel Tempio di Gerusalemme. Si tratta di una formula che fa ormai parte anche del patrimonio cristiano: tratta dal Libro dei Numeri è infatti inclusa tra le benedizioni solenni proposte per la conclusione della messa. Da notare come si chiude questa benedizione: “Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”(v.27). A ben vedere si tratta di un modo di esprimersi, poiché, in realtà, il nome di Dio non viene mai pronunciato per rispetto nei suoi confronti. Il nome rappresenta la persona stessa e pronunciarne il nome è un atto giuridico che implica una presa di possesso, ma anche un impegno di protezione. Ad esempio, quando un guerriero conquista una città, si dice che pronuncia il suo nome su di essa; allo stesso modo, nel giorno del matrimonio ebraico, viene pronunciato il nome del marito sulla moglie anche se lei non porta il nome del marito, e ciò implica appartenenza e promessa di vigilanza.  Quando Dio rivela il suo nome si rende accessibile alla preghiera del suo popolo e invocare il nome di Dio costituisce normalmente una garanzia di benedizione. C’è un legame così forte fra Dio e il suo popolo che le offese rivolte al popolo di Dio costituiscono una blasfemia contro il suo nome, sono un insulto personale. Per questo comprendiamo meglio le parole di Gesù: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Con questa benedizione vogliamo allora dire quest’oggi che su tutte le persone che incontreremo durante tutto l’anno che inizia, Dio ha posto il suo nome su di loro e, in ragione di tale benedizione, siamo invitati a guardarle con occhi nuovi. 

In merito poi alla benedizione del Libro dei Numeri, ecco alcuni spunti di riflessione: 

1. Questa formula di benedizione è al singolare: “Ti benedica il Signore” e non “Vi benedica il Signore”. In realtà, si riferisce all’intero popolo d’Israele ed è quindi un singolare collettivo e, con il tempo, Israele comprese che questa protezione di Dio non era riservata solo a lui, ma all’intera umanità.

2. “Ti benedica il Signore” (v. 24) è al congiuntivo come pure “il Signore faccia risplendere per te il suo volto … Il Signore rivolga a te il suo volto”(v.25,26)). Auspichiamo di essere benedetti ma possiamo chiederci: è mai possibile che il Signore non ci benedica, lui che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, cioè su tutti gli uomini e che ci chiede di amare anche i nostri nemici…? Ovviamente, sappiamo bene che Dio ci benedice continuamente, che ci accompagna e che è con noi in ogni circostanza. Eppure, questo congiuntivo, come tutti i congiuntivi, esprime un desiderio che concerne noi e non lui. Dio ci benedice continuamente, ma siamo liberi di non accogliere la sua benedizione… come il sole che splende anche quando cerchiamo l’ombra e siamo liberi di cercare l’ombra… Allo stesso modo, siamo liberi di sottrarci all’azione benefica di Dio… Chi si mette al riparo dal sole, perde ogni possibilità di beneficiarne della luce e del calore e non per colpa del sole! Quindi, la formula “Ti benedica Dio” è un augurio che ci invita a metterci sotto la sua benedizione. In altri termini, Dio ci offre la sua benedizione, ma sta a noi accoglierla e questo congiuntivo serve a manifestare la nostra libera adesione.

3.In che cosa consiste la benedizione di Dio? Benedire è un termine latino che significa dire bene, quindi Dio dice bene di noi. Non dobbiamo sorprenderci che Dio dica bene di noi perché ci ama e per questo pensa e dice bene di noi. Anzi in noi si ferma a vedere solo ciò che è buono. La sua Parola però è anche azione: “Disse e tutto fu” (Gn 1). Quindi, quando Dio dice bene di noi, egli agisce in noi con la sua parola, ci trasforma, ci fa del bene.E quindi, quando chiediamo la sua benedizione, ci offriamo all’azione trasformante di Dio

4. Attenzione! Questa benedizione non è qualcosa di magico.  Essere benedetti significa scegliere di vivere nella grazia di Dio, in armonia con Lui e nella sua alleanza, senza che questo ci risparmi le difficoltà e le prove. Chi vive nella benedizione di Dio attraverserà la fatica della vita sentendo sempre dire Dio a me, come scrive Isaia, “Ti sostengo con la destra vittoriosa”…“ti tengo per la destra e ti dico: Non temere, io ti vengo in aiuto” (Is.41,10-13).  

5. Mosè promette al popolo: “Sarai benedetto più di tutti i popoli” (Dt 7,14).  Israele quindi è benedetto, ma questo non gli ha impedito di attraversare periodi terribili; tuttavia, in mezzo alle prove, il credente sa che Dio non lo abbandona e anzi lo accompagna con perseverante pazienza. Nell’odierna festa di Maria, Madre di Dio, tutto ciò assume un significato particolare. L’angelo Gabriele, inviato per annunciarle la nascita di Gesù, le disse:“Ti saluto, piena di grazia” (Lc 1,28). Maria è per eccellenza colei sulla quale è stato pronunciato il nome di Dio e rimane sotto la sua dolcissima protezione. Ben a ragione dunque Elisabetta proclamerà: “Benedetta tu fra le donne” (Lc 1,42).

5. Purtroppo, il testo italiano non riesce a rendere tutta la ricchezza della formula originale in ebraico per due ragioni. Innanzitutto, il nome di Dio, YHWH, trascritto qui come “il Signore”, è il nome che Dio ha rivelato a Mosè e di per sé rappresenta una promessa di presenza protettiva, la stessa che ha sempre accompagnato i figli d’Israele dalla loro uscita dall’Egitto. In secondo luogo, tradurre i verbi ebraici con un congiuntivo in italiano è un inevitabile impoverimento. Dato che il sistema verbale ebraico è molto diverso da quello italiano, per maggiore precisione gli esperti suggeriscono di tradurre così: “Ti benedice il Signore e ti custodisce” , cioè, Dio ti benedice e ti custodisce ora e ti benedirà e ti custodirà per sempre». infondo questa è la nostra fede!

 

Salmo responsoriale 66 (67)

*Il nostro Dio ci benedice 

Il Salmo 66 risuona come un’eco alla prima lettura, dove il Libro dei Numeri ci ha offerto la ben nota e splendida formula di benedizione: ”Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto, e ti faccia grazia! Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace!”. Anche qui, ecco solo qualche considerazione:

1 Iniziamo dal significato stesso del termine benedizione. Il profeta Zaccaria dice: “In quei giorni, dieci uomini di ogni lingua e nazione afferreranno un Giudeo per il lembo del suo mantello e gli diranno: “Vogliamo venire con voi, perché abbiamo udito che Dio è con voi” (Zc 8,23). Questa è una interessante definizione di benedizione: dire che Dio ci benedice significa affermare che Dio è con noi, che ci accompagna. Questo, d’altronde, è il significato del Nome stesso di Dio rivelato al Sinai: YHWH, Nome impronunciabile che noi traduciamo con il Signore. Sebbene non sia traducibile alla lettera, gli ebrei lo comprendono come una promessa di presenza costante da parte di Dio accanto al suo popolo.

2. Qui è il popolo a invocare su di sé la benedizione di Dio: “Dio abbia pietà di noi e ci benedica”. A proposito della formula sacerdotale riportata nel Libro dei Numeri, siamo continuamente certi della benedizione di Dio, ma siamo liberi di non accoglierla. Quando il sacerdote dice “Il Signore vi benedica”, non esprime il desiderio che Dio scelga di benedirci perché non potrebbe non benedirci, ma augura che apriamo il cuore alla sua benedizione, affinché possa trasformarci e agire in noi. Il Salmo lo dice chiaramente: “Dio abbia pietà di noi e ci benedica… Dio, il nostro Dio, ci benedice”. Queste due frasi non sono contraddittorie: Dio ci benedice costantemente, questa è una certezza (“Dio, il nostro Dio, ci benedice”, v. 7), ma per accogliere la sua azione, basta che lo desideriamo (“Dio abbia pietà di noi e ci benedica”, v. 2).

3. La certezza di essere esauditi ancor prima di formulare una richiesta è caratteristica della preghiera in Israele. Il credente sa di vivere costantemente immerso nella benedizione, nella presenza benefica di Dio. Gesù stesso dice: «Io sapevo che mi dai sempre ascolto» (Gv 11,42).

4. Il popolo d’Israele non chiede questa benedizione solo per sé e la benedizione pronunciata su Israele si riversa sugli altri popoli: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” disse Dio ad Abramo (Gn 12,3). In questo Salmo ritroviamo, intrecciati come sempre, i due grandi temi: da una parte l’elezione di Israele, dall’altra l’universalità del progetto di Dio. L’opera di salvezza dell’umanità si compie attraverso l’elezione di Israele. L’elezione di Israele è evidente nell’espressione “Dio, il nostro Dio”, che richiama l’Alleanza stipulata da Dio con il popolo che ha scelto. Ma è altrettanto chiaro l’universalismo del progetto divino: “Sulla terra si conosca la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti”, oppure: “Che le nazioni esultino di gioia”. Inoltre, in questo Salmo il ritornello che si ripete due volte prefigura il giorno in cui tutti i popoli accoglieranno la benedizione di Dio: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti”. Israele sa di essere scelto per essere il popolo testimone: la luce che splende su di lui è il riflesso di Colui che Israele deve far conoscere al mondo. Questa comprensione dell’elezione di Israele come vocazione non fu immediata per gli uomini della Bibbia ed è comprensibile: all’inizio della storia biblica, ogni popolo immaginava che le divinità regnassero su territori specifici: c’erano le divinità di Babilonia, quelle dell’Egitto e di ogni altro paese. Solo intorno al VI secolo il popolo d’Israele capì che il Dio con cui aveva stipulato l’Alleanza al Sinai era il Dio dell’intero universo; l’elezione di Israele non veniva annullata, ma acquisiva un significato nuovo come ben mostra il profeta Zaccaria, citato sopra (Zc 8,23). Anche noi siamo un popolo testimone: quando riceviamo la benedizione di Dio, siamo chiamati a diventare il riflesso della  luce divina nel mondo ed è questo l’augurio che possiamo farci reciprocamente all’inizio di questo nuovo anno: essere portatori della luce di Dio per tutti coloro che incontreremo

5. ”La terra ha dato il suo frutto; Dio, il nostro Dio, ci benedice”. Poiché la Parola di Dio è azione, essa produce frutto. Dio aveva promesso una terra fertile, dove scorrono latte e miele e ha mantenuto fede a quanto promesso facendo giungere Israele nella terra promessa. A maggior ragione, i cristiani possono leggere questo salmo pensando alla nascita del Salvatore: quando giunse la pienezza dei tempi, la terra portò il suo frutto. Scrive san Giovanni della Croce: “Poiché Egli (Dio) ci ha dato il suo Figlio, che è la sua unica e definitiva Parola, in questa Parola ha detto tutto e non ha più nulla da rivelare” (Salita del Monte Carmelo. Libro II, cap.22, par.3)

 

Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo ai Galati ( 4, 4-7)

*“Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio”. 

In questo breve testo ritroviamo un tema molto caro a san Paolo: il compimento del progetto di Dio. Per i credenti, sia ebrei sia cristiani, questo è un elemento fondamentale della fede: la storia non è un eterno ricominciare, ma un cammino progressivo dell’umanità verso il suo compimento, verso la realizzazione del progetto di amore misericordioso di Dio. Questo tema è centrale nelle lettere di San Paolo e rappresenta una chiave di lettura non solo per comprenderle, ma pure per leggere l’intera Bibbia, a partire dall’Antico Testamento.  Nel Nuovo Testamento viene continuamente sottolineato che la vita, la passione, la morte e la risurrezione di Gesù di Nazareth compiono le Scritture. Paolo afferma davanti ai suoi giudici: “Io non ho detto nulla al di fuori di ciò che Mosè e i profeti avevano predetto” (At 26,22). E l’evangelista Matteo ama ripetere: “Tutto questo avvenne affinché si compisse ciò che era stato detto dal profeta”. Si deve allora pensare che tutto era già scritto in anticipo? Per meglio capire, occorre notare che “affinché” in italiano è una congiunzione subordinante finale con due diversi significati: uno di finalità e uno di conseguenza. Se intendiamo finalità, allora gli eventi si sarebbero verificati secondo un piano predefinito, prestabilito fin dall’eternità. Ma se l’intendiamo come conseguenza, significa che gli eventi si svolgono in un determinato modo e, a posteriori, noi riconosciamo come, attraverso di essi, Dio abbia realizzato il suo progetto. Il progetto di Dio, quindi, non è un programma rigido in cui il ruolo di ciascuno è predeterminato. Dio si assume il rischio della nostra libertà e, nel corso dei secoli, gli uomini hanno spesso ostacolato il suo piano. Per questo i profeti si sono lamentati, ma non hanno mai perso la speranza. Anzi, hanno continuamente promesso che Dio non si sarebbe stancato. Isaia, per esempio, annuncia da parte di Dio: “Io dico: il mio progetto si compirà, e realizzerò tutto ciò che desidero” (Is 46,10). E Geremia aggiunge: “Io conosco i progetti che ho fatto per voi, oracolo del Signore: progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza” (Ger 29,11).

Nel Nuovo Testamento viene sempre contemplato in Gesù il compimento delle promesse di Dio. “Dio mandò il suo Figlio: nato da donna, nato sotto la Legge”. Con poche parole, Paolo racchiude tutto il mistero della persona di Gesù: Figlio di Dio, uomo come gli altri, ebreo come gli altri ebrei. L’espressione “nato da donna”, anzitutto, è comune nella Bibbia e significa semplicemente “un uomo come gli altri”. Per esempio, per evitare ripetizioni del termine uomo in una stessa frase, si utilizza l’espressione “figlio della donna” (cfr. Sir 10,18; Gb 15,14; Gb 25,4). Gesù stesso usa questa espressione parlando di Giovanni Battista: “In verità vi dico: tra i nati da donna non è sorto uno più grande di Giovanni Battista” (Mt 11,11).

L’affermazione “nato sotto la Legge” indica che Gesù ha accettato la condizione degli uomini del suo popolo. Paolo prosegue: “Per riscattare coloro che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”. S’incontra spesso nella Bibbia il termine “riscattare”, che significa liberare, affrancare. Nell’Antico Testamento, il redentore era colui che liberava lo schiavo. Essere sotto la Legge, quindi, non è la stessa cosa che essere nella condizione di figli: c’è perciò un passaggio da compiere. Colui che vive sotto la Legge si comporta da servo, sottomettendosi agli ordini. Il figlio, invece, vive nell’amore e nella fiducia: può obbedire al padre – cioè ascoltare la sua parola – perché si fida di lui e sa che ogni sua parola è dettata dall’amore. Questo significa passare dalla dominazione della Legge all’obbedienza dei figli. Il passaggio verso un atteggiamento filiale e fiducioso è possibile perché “Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abba, Padre”. Questo grido, che chiama il Padre, è l’unico che ci salva in ogni circostanza perché è come  il grido disperato e fiducioso del bambino che si fida del papà. Qualunque cosa accada, sappiamo che Dio ci è Padre  e che ha solo tenerezza d’amore nei nostri confronti. Questa è l’attitudine filiale che Cristo è venuto a vivere in mezzo a noi, a nostro nome. Paolo conclude: “Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede”. Il termine erede è da intendersi  in senso pieno: ciò che appartiene a Dio ci è promesso, ma  bisogna avere il coraggio di crederlo. Ed è proprio questo il nostro problema. Quando Gesù ci definisce “gente di poca fede”, forse si riferisce proprio a questo: non osiamo credere che lo Spirito di Dio sia in noi, che la sua forza ci appartenga, che tutto ciò che è suo sia nostro, inclusa la sua capacità di amare. E tutto questo non è per nostro merito! Se siamo eredi, è solo per grazia di Dio. Ecco perché possiamo dire, malgrado la nostra umana fragilità, con santa Teresa del Bambino Gesù:  “Tutto è grazia, tutto è dono: tutto ciò che Dio fa è per il nostro bene”( Manoscritto C, 4r della Storia di un’anima)

 

Vangelo secondo Luca (2,16-21)

Siamo in presenza di un racconto all’apparenza secondario, eppure è in realtà profondamente teologico, il che significa che ogni dettaglio ha il suo peso e per questo vale la pena ripercorrerlo insieme:

1.I pastori, innanzitutto: erano poco considerati, anzi marginali per via del loro lavoro che impediva di frequentare le sinagoghe e di osservare il sabato. Eppure, sono proprio loro i primi ad essere informati dell’evento che cambia la storia dell’umanità: la nascita del Messia atteso. I pastori diventano così i primi apostoli e i primi testimoni: raccontano, vengono ascoltati e suscitano meraviglia. Parlano dell’annuncio straordinario ricevuto nel cuore della notte dagli angeli e il miracolo è che vengono creduti come  racconta l’evangelista Luca (Lc 2,8-14). Raccontano tutto ciò che hanno visto e udito con le loro parole e questo richiama alla mente un’espressione di Gesù che spesso viene citata: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10,21; Mt 11,25). Non sono i dotti e i sapienti coloro che Dio sceglie come suoi messaggeri. 

2. Tutto l’evento che Luca racconta si svolge a Betlemme. Si sapeva, all’epoca, che il Messia sarebbe nato nella discendenza di Davide proprio lì, eppure l’interesse della gente era per altri eventi e per l’arrivo del Messia, atteso da millenni, nessuno aveva preparato una casa. Giuseppe e Maria trovano rifugio fuori del centro abitato ed è in una povera grotta o una stalla: l’unico dettaglio in merito che il vangelo precisa è questo: “Mentre (Giuseppe e Maria) si trovavano in quel luogo…Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (lc 2,6-7) . Betlemme significa letteralmente “la casa del pane” e il neonato adagiato in una mangiatoia è un’immagine suggestiva di colui che si darà come nutrimento all’umanità. Il legame tra il Natale e l’Eucaristia è evidente.

3.“Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore…, conservava questi fatti e li meditava nel suo cuore” (Lc 2,19). Mentre i pastori, resi loquaci dall’evento, raccontano, Maria contempla e medita nel suo cuore. Luca qui potrebbe voler richiamare un passaggio della visione del Figlio dell’uomo in Daniele, dove si legge: “Io custodii questi pensieri nel mio cuore” (Dn 7,28). Per Luca, sarebbe un modo di delineare già il destino grandioso di quel bambino.

4.”Gli fu messo nome Gesù” ( Lc2,21).  Il nome “Gesù” svela il mistero: significa “Dio salva”. Sebbene Luca non ne specifichi l’etimologia come Matteo, pochi versetti prima riporta l’annuncio dell’angelo: “Oggi è nato per voi un Salvatore” (Lc 2,11). Al contempo, Gesù vive in piena solidarietà con il suo popolo: come ogni bambino ebreo, è circonciso l’ottavo giorno. Paolo dirà ai Galati: “Nato da donna, nato sotto laLegge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge” (Gal 4,4). Gli altri Vangeli non menzionano la circoncisione, ma era un atto talmente comune che non c’era bisogno di sottolinearlo. Tuttavia, Luca insiste per mostrare come Maria e Giuseppe rispettino pienamente la Legge mosaica. Non solo: racconta anche la presentazione al Tempio. “Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore” (Lc 2,22). Qui emerge l’intera solidarietà di Gesù con il suo popolo: un tema che culmina nelle sue stesse parole nell’ultima cena: “Bisogna che si compia in me questa parola della Scrittura: ‘Egli è stato annoverato tra gli empi” (Lc 22,37).

5.Un’ultima osservazione: colpisce la discrezione della figura di Maria, nonostante questa festa liturgica sia dedicata a lei come “Maria, Madre di Dio”. Luca si limita a dire: “Maria, da parte sua custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore “.  Forse, il suo silenzio è già un messaggio per noi: la gloria di Maria sta nell’aver accettato di essere madre di Dio, mettendosi umilmente al servizio del progetto di salvezza. Non è lei il centro del progetto, ma Gesù, colui il cui nome significa “Dio salva”.

+Giovanni D’Ercole 

Le complessità dell’esistenza.

La vita non è sempre facile e le contrarietà dell’esistenza sono sempre esistite; ci accompagnano lungo il percorso del nostro vivere quotidiano.

Nei tempi passati spesso era il medico di famiglia che le ascoltava e le associava come connesse con la salute dei suoi pazienti e dava loro consigli.

Quando invece le difficoltà erano di ordine etico, le persone si rivolgevano al sacerdote che attraverso l’accompagnamento e la confessione dava suggerimenti sul modo di redimersi. 

In seguito con la scoperta della psicologia nelle sue varie forme, ci si è occupati delle problematiche dell’uomo. La figura  dello psicologo in senso lato o dello psichiatra si sono aggiunte alle figure precedenti. Per quanto riguardata più specificamente il campo dello psichiatra, le problematicità non sono malattie visibili.   

Le persone che sono afflitte da complicazione della vita non sono dei pazienti intesi in senso usuale. Possono essere delle persone normali e produttive - per quanto lo si possa essere nella nostra collettività.

Generalmente queste contrarietà quotidiane possono riguardare i rapporti interpersonali, il modo  di lavorare, le questioni legate al rendimento… ma anche il tema del vivere onestamente, in linea con i propri principi e col il credo personale. Ci sono poi  le contrarietà della vita pratica, che spesso possono accentuare le altre.

Molto dipende anche dai nostri comportamenti tipici con i quali ci difendiamo o costruiamo il nostro modo di vivere, e che si sono formati in un periodo precoce - imitando inconsapevolmente le persone che hanno avuto significato nella nostra vita (il cosiddetto carattere, molto succintamente).

Jung sostiene che l’inconscio del bambino dipende dall’inconscio genitoriale.

Quasi sempre nella mia lunga pratica professionale ho incontrato questo costrutto, e ho dovuto faticare per far comprendere che erano proprio i genitori a innescare i comportamenti.

Spesso quando incontravo genitori che non volevano accettare certe responsabilità, quest’ultimi ricorrevano a scuse che non reggevano in nessun modo.

Nei rapporti fra gli individui la problematica più fastidiosa riguarda come viviamo i nostri  affetti.

Ci sono persone aggressive che cercano persone da dominare. C’è chi sfrutta l’altro (lo sprovveduto); e cosi via.

Nelle relazioni amorose si deve far caso a come ognuno si pone nei confronti dell’altro. Facciamo alcuni esempi.

Una donna che soffre a causa del coniuge che ostacola ogni suo sviluppo (o viceversa) deve capire o farsi aiutare a comprendere che in qualche modo ha cercato questa situazione, e che solo trovando fiducia nelle proprie possibilità e nella capacità di gestirsi che troverà sollievo alle sue pene.

In caso contrario, ossia se non scopre le proprie potenzialità, neanche separandosi risolverà il suoi problemi - perché inconsapevolmente andrà alla ricerca dello stesso tipo di coniuge.

Solo le persone in grado di rispettare i bisogni e gli interessi dell’altro sono capaci di un amore adulto. Spesso infatti confondiamo il nostro desiderio con quello dell’altro.

Quante volte nelle consulenze con le coppie ho incontrato questo.

Nelle difficoltà lavorative troviamo sovente persone che passano da un lavoro all’altro perché non sono soddisfatte dei mancati riconoscimenti. Può ad es. trattarsi di un individuo con idee grandiose sulle sue attitudini e che deve cercare ammirazione nell’ambiente lavorativo . 

Vi sono poi persone che fanno un lavoro creativo e che pensano di non produrre come vorrebbero. Qui siamo spesso davanti a un perfezionismo inattuabile. Spesso tali soggetti non riescono ad ammettere di avere dei limiti, e trovarsi di fronte alle loro reali capacità.

Succede poi che molte persone si rivolgono ad un analista poiché pur non presentando una forma di depressione, non sono contenti di sé.

Nella sua Psicoanalisi della società contemporanea, Erich Fromm sostiene che il consumismo ci indirizza ad una “alienazione da se stessi”. Con ‘alienazione’ si intende ciò che in principio appartiene all’uomo e gli diventa poi estraneo - finendo per dominarci.

Dobbiamo essere come gli altri ci vogliono.

La pubblicità e la stessa moda influiscono anche coscientemente, e in tal guisa se non ci conformiamo possiamo sentirci arretrati.

Spesso si entra nel conflitto tra i nostri convincimenti e il bisogno di “piacere” alla gente.

Certo non dobbiamo essere degli isolati, ma anche qui un giusto equilibrio ci “salva” poiché ripudiare alcuni cardini fondamentali del nostro modo di essere, danneggia parecchio. 

Che il Natale ormai prossimo ci illumini, ci indichi la via. Non di rado anche qui ci uguagliamo alle tendenze attuali della popolazione, e sovente dimentichiamo il suo vero significato.

 

Francesco Giovannozzi   Psicologo-psicoterapeuta

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Truth involves our whole life. In the Bible, it carries with it the sense of support, solidity, and trust, as implied by the root 'aman, the source of our liturgical expression Amen. Truth is something you can lean on, so as not to fall. In this relational sense, the only truly reliable and trustworthy One – the One on whom we can count – is the living God. Hence, Jesus can say: "I am the truth" (Jn 14:6). We discover and rediscover the truth when we experience it within ourselves in the loyalty and trustworthiness of the One who loves us. This alone can liberate us: "The truth will set you free" (Jn 8:32) [Pope Francis]
La verità ha a che fare con la vita intera. Nella Bibbia, porta con sé i significati di sostegno, solidità, fiducia, come dà a intendere la radice ‘aman, dalla quale proviene anche l’Amen liturgico. La verità è ciò su cui ci si può appoggiare per non cadere. In questo senso relazionale, l’unico veramente affidabile e degno di fiducia, sul quale si può contare, ossia “vero”, è il Dio vivente. Ecco l’affermazione di Gesù: «Io sono la verità» (Gv 14,6). L’uomo, allora, scopre e riscopre la verità quando la sperimenta in sé stesso come fedeltà e affidabilità di chi lo ama. Solo questo libera l’uomo: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32) [Papa Francesco]
God approached man in love, even to the total gift, crossing the threshold of our ultimate solitude, throwing himself into the abyss of our extreme abandonment, going beyond the door of death (Pope Benedict)
Dio si è avvicinato all’uomo nell’amore, fino al dono totale, a varcare la soglia della nostra ultima solitudine, calandosi nell’abisso del nostro estremo abbandono, oltrepassando la porta della morte (Papa Benedetto)
And our passage too, which we received sacramentally in Baptism: for this reason Baptism was called, in the first centuries, the Illumination (cf. Saint Justin, Apology I, 61, 12), because it gave you the light, it “let it enter” you. For this reason, in the ceremony of Baptism we give a lit blessed candle, a lit candle to the mother and father, because the little boy or the little girl is enlightened (Pope Francis)
È anche il nostro passaggio, che sacramentalmente abbiamo ricevuto nel Battesimo: per questo il Battesimo si chiamava, nei primi secoli, la Illuminazione (cfr San Giustino, Apologia I, 61, 12), perché ti dava la luce, ti “faceva entrare”. Per questo nella cerimonia del Battesimo diamo un cero acceso, una candela accesa al papà e alla mamma, perché il bambino, la bambina è illuminato, è illuminata (Papa Francesco)
Jesus seems to say to the accusers: Is not this woman, for all her sin, above all a confirmation of your own transgressions, of your "male" injustice, your misdeeds? (John Paul II, Mulieris Dignitatem n.14)
Gesù sembra dire agli accusatori: questa donna con tutto il suo peccato non è forse anche, e prima di tutto, una conferma delle vostre trasgressioni, della vostra ingiustizia «maschile», dei vostri abusi? (Giovanni Paolo II, Mulieris Dignitatem n.14)
The people thought that Jesus was a prophet. This was not wrong, but it does not suffice; it is inadequate. In fact, it was a matter of delving deep, of recognizing the uniqueness of the person of Jesus of Nazareth and his newness. This is how it still is today: many people draw near to Jesus, as it were, from the outside (Pope Benedict)
La gente pensa che Gesù sia un profeta. Questo non è falso, ma non basta; è inadeguato. Si tratta, in effetti, di andare in profondità, di riconoscere la singolarità della persona di Gesù di Nazaret, la sua novità. Anche oggi è così: molti accostano Gesù, per così dire, dall’esterno (Papa Benedetto)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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