Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
IV Domenica di Pasqua, Domenica del Buon Pastore [11 Maggio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Siamo in una settimana decisiva per la Chiesa e i testi biblici di questa domenica aiutano a comprendere meglio la missione del nuovo pontefice successore di Pietro, chiamato a conservare salda la fiducia del popolo cristiano in Gesù il vero Pastore che conosce e ama tutte le sue pecore. Sì, noi siamo suoi e a lui apparteniamo. I discepoli di Gesù, nel corso della storia, hanno davvero bisogno di poggiarsi sulla certezza che nessuno può strapparli dalla mano del Padre!
*Prima Lettura dagli Atti degli Apostoli (13, 14.43-52)
Siamo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (nel cuore dell’Asia Minore, oggi Turchia occidentale) un sabato per la celebrazione dello shabbat. C’è molta gente con alcune differenze: ci sono ebrei di nascita, alcuni proseliti cioè persone non ebree ma convertite alla religione ebraica che Luca chiama “convertiti al giudaismo” e pagani chiamati “timorati di Dio” perché essendo sono stati attratti dalla religione ebraica si recano in sinagoga il sabato per lo shabbat, ma pur conoscendo le Scritture ebraiche non accettano la circoncisione e l’insieme delle pratiche giudaiche. Paolo arrivato in città va in sinagoga e vuole anzitutto parlare di Gesù di Nazaret ai suoi fratelli ebrei. Gli apostoli erano tutti ebrei che riconoscevano il Cristo come il Messia e cercavano di convincere gli altri ebrei a convertirsi a Cristo. Paolo predicando nelle sinagoghe pensava che quando tutto il popolo ebraico sarà convertito, si passerà alla conversione dei pagani poiché il piano di Dio prevedeva due tappe: la scelta del popolo eletto al quale si è rivelato (è l’elezione di Israele) e al popolo eletto è affidato il compito di annunciare la salvezza ai pagani. Di questa “logica dell’elezione” del piano di Dio scrive il profeta Isaia: “Ti ho stabilito come luce delle nazioni, perché la mia salvezza giunga fino all’estremità della terra” (Is49,6) e, sempre in questa logica, anche Gesù all’inizio aveva detto agli apostoli: “Non andate fra i pagani… andate piuttosto verso le pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10,5). Fin dal primo sabato, Paolo e Barnaba si recano perciò nella sinagoga dove ricevono un’accoglienza favorevole che fa loro sperare che alcuni diventino cristiani. Il sabato successivo tornano in sinagoga e molte persone vanno per ascoltarli. Questo loro successo comincia però a infastidire i giudeii che “quando videro quella moltitudine, furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo”. Luca chiama “giudei” quegli ebrei che rifiuteranno categoricamente di riconoscere Gesù come il Messia. Al contrario i pagani (cioè i timorati di Dio) sembrano più favorevoli come annota subito dopo: “I pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero”. Ad Antiochia di Pisidia Paolo decide di modificare i suoi piani: se soltanto alcuni ebrei accettano e va abbandonata per ora la speranza di convertire l’intero popolo ebraico a Cristo, il rifiuto della maggioranza degli ebrei non deve però ritardare l’annuncio del Messia ai pagani. Al riguardo sapeva bene che a salvare Israele e l’intera umanità sarà il “piccolo Resto”, di cui Isaia lungamente parla (cf. cap. 1- 12 del libro del profeta Isaia). Paolo capisce che il piccolo Resto formato da Paolo e Barnaba con quanti vogliono seguirli, deve assumere la vocazione di apostoli di Israele e delle nazioni pagane e afferma: “Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci rivolgiamo ai pagani” e da quel momento orientano la loro energia missionaria verso i “timorati di Dio” innanzitutto e successivamente verso i pagani. Come appare chiaramente, qui ad Antiochia di Pisidia c’è stata una svolta decisiva nella vita dei primi cristiani.
*Salmo responsoriale (99 (100) 1-3.5)
Questo salmo è stato composto appositamente per accompagnare un sacrificio di ringraziamento ed è chiamato “salmo per la todah” (in ebraico, “grazie” si dice todah).
Già dai primi versetti si vede chiaramente che è pensato per accompagnare una celebrazione nel Tempio: “Acclamate… Servite… presentatevi a lui con esultanza”. Come spesso all’ingresso delle chiese si trova il libretto dei canti, così il libro dei Salmi è il libro dei cantici del Tempio di Gerusalemme adatti ai vari tipi di celebrazioni. Questo salmo fu composto per un sacrificio di ringraziamento e, in Israele, quando si rende grazie, è sempre per l’Alleanza. Salmo molto breve, ogni riga evoca l’intera storia e la fede di Israele e quasi ogni parola richiama l’Alleanza. Del resto, il cuore della tradizione, della fede e della preghiera di questo popolo, la memoria che si trasmette di generazione in generazione è questa fede comune: l’elezione, la liberazione, l’Alleanza. In fondo tutta la Bibbia è qui. Esaminiamo qualche parola: “Acclamate”, la parola impiegata indica un’acclamazione speciale riservata al nuovo re il giorno della sua incoronazione e quindi significa che Il vero re è Dio stesso. “Acclamate il Signore”: nel testo ebraico la parola Signore è espressa con le quattro lettere YHWH (il Tetragramma), che non sappiamo nemmeno pronunciare né tradurre perché Dio è al di là della nostra comprensione, e Dio si è rivelato con questo nome durante a Mosè nel roveto ardente (Es 3). Mosè scopri in quell’occasione la grandezza di Dio, il Totalmente Altro. Al tempo stesso Mosè riceve la rivelazione della totale vicinanza di Dio: “Ho visto, sì, ho visto la miseria del mio popolo… Ho udito il suo grido… Conosco le sue sofferenze”. “Tutta la terra”: anticipando un evento futuro, Israele intravede già il giorno in cui tutta l’umanità verrà ad acclamare il suo Signore e il popolo d’Israele ha scoperto che la sua elezione è una vocazione a servizio di tutti. In effetti nei salmi ritroviamo sempre legati i due temi: l’elezione di Israele e l’universalismo della salvezza divina. “Riconoscete che solo il Signore è Dio”: c’è qui la professione di fede di Israele: Shema Israel: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno”. “Servite il Signore nella gioia”: nella memoria di Israele, l’Egitto della schiavitù sarà chiamato la “casa di schiavitù”. D’ora in poi il popolo eletto imparerà il “servizio” come scelta di uomini liberi e per questo si può dire che l’esodo fu per il popolo ebreo il passaggio “dalla schiavitù al servizio”. “Ci ha fatti e noi siamo suoi”: questa formula non è un richiamo alla creazione, ma alla liberazione dall’Egitto: il popolo non dimentica di essere stato schiavo in Egitto e che Dio l’ha reso libero, da fuggitivi ha fatto degli ebrei un popolo. Lungo tutta la traversata del Sinai Israele ha imparato a vivere nell’Alleanza proposta da Dio e l’espressione “Ci ha fatti e noi siamo suoi” è diventata una formula abituale dell’Alleanza. Il primo articolo del «Credo» di Israele non è Credo in Dio creatore, ma Credo in Dio liberatore.
NOTA: La Bibbia non è stata scritta nell’ordine in cui la leggiamo: non si è cominciato raccontando la creazione, poi gli eventi della vita del popolo eletto, come in un reportage. La riflessione sulla creazione è venuta solo molto dopo. Avendo fatto l’esperienza di Dio come liberatore, Israele ha compreso che quest’opera di liberazione dura fin dalla creazione del mondo e la riflessione sulla creazione nasce dalla fede in un Dio che libera. L’antica formula “Noi, suo popolo” tipica della fede ebraica è un richiamo all’Alleanza, perché Dio, proponendo l’Alleanza, aveva promesso: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio”. L’espressione poi “Noi, suo popolo e gregge del suo popolo” è tipica d’Israele dove il gregge era la ricchezza del proprietario, il suo vanto, ma anche oggetto della sua sollecitudine e delle sue cure ed è per le esigenze del gregge che il pastore nomade spostava la sua tenda nel deserto, seguendo le zolle d’erba per il nutrimento degli animali. Allo stesso modo Dio si spostava con il suo popolo durante il cammino nel deserto del Sinai. Infine “Il suo amore è per sempre” è un ritornello dell’Alleanza che conosciamo bene perché ricorre in altri salmi e qui si unisce al versetto seguente con un’altra formula tradizionale: “La sua fedeltà di generazione in generazione”: “amore e fedeltà” è uno dei pochi modi per parlare di Dio senza tradirlo
*Seconda Lettura, dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (7, 9 -17)
Il riferimento alla “moltitudine immensa che nessuno poteva contare” richiama la promessa di Dio ad Abramo di una discendenza innumerevole: “Renderò numerosa la tua discendenza come la polvere della terra: se si potesse contare i granelli di polvere, si potrebbero contare i tuoi discendenti!” (Gen 13,16); e poco più avanti: “Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci… così sarà la tua discendenza!» (Gen 15,5); e ancora: “Renderò la tua discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare” (Gen 22,17). L’Apocalisse, l’ultimo libro della Bibbia, ci fa contemplare il progetto di Dio realizzato: una moltitudine composta da tutte le nazioni, razze, popoli e lingue, quattro termini per indicare l’intera umanità, come aveva annunciato Isaia: “Tutti i confini della terra hanno visto la salvezza del nostro Dio” (Is 52,10). La salvezza di cui parla Isaia è l’eliminazione di ogni fame, sete, lacrima e al capitolo 49 si legge testualmente: “Non avranno più fame né sete; il vento infuocato e il sole non li colpiranno più. Colui che ha compassione di loro li guiderà e li condurrà verso sorgenti d’acqua” (Is 49,10). E, soprattutto, la salvezza è la presenza di Colui che è alla radice della vera felicità: “pieno di compassione”, dice Isaia e Giovanni traduce qui : “Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro”. Quando usa questa espressione, i suoi lettori sanno a cosa si riferisce: da sempre il popolo ebraico aspira a questo – che Dio “pianti la sua tenda” in mezzo a loro cioè che Dio abiti stabilmente in mezzo a loro: è il mistero della vicinanza, dell’intimità, della presenza divina permanente. A questo proposito, notiamo che Giovanni nel vangelo ha usato gli stessi termini per il Cristo: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Nel popolo ebraico, alcuni avevano l’onore di vivere già, in un certo modo, un’anticipazione di questa intimità: erano i sacerdoti, che servivano Dio giorno e notte nel Tempio di Gerusalemme, segno visibile della presenza di Dio. Qui l’autore sacro intravede il giorno in cui tutta l’umanità sarà introdotta nell’intimità con Dio: “Vidi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare… tutti stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio”. Per descrivere quest’immensa moltitudine egli usa immagini della liturgia ebraica e della liturgia cristiana: tutto questo arricchisce il testo rendendolo al tempo stesso complesso. Quando fa riferimento alla liturgia ebraica, Giovanni allude alla festa delle Capanne o tende (Sukkot), festa che è memoria del passato e anticipazione del futuro promesso da Dio. Si ricorda il tempo trascorso nel deserto quando si era scoperta l’Alleanza proposta dal Dio vicino e si abitava per otto giorni in capanne costruite appositamente. Allo stesso tempo, gli otto giorni annunciavano il futuro promesso da Dio, la creazione nuova (come ricorda ogni volta la cifra otto, anticipo del trionfo del Messia e con lui il compimento del progetto di Dio che consiste nella felicità per tutti). Tra i riti della festa delle Capanne, Giovanni ricorda le palme portate in processioni attorno all’altare dei sacrifici nel Tempio di Gerusalemme. In realtà in tali processioni ciascuno agitava un mazzo (il lulav) composto da vari rami, tra cui una palma (lulav), un rametto di mirto (Hadas), uno di salice (Aravah) insieme a un cedro (Etrog) frutto simile al limone cantando «Hosanna», che significa sia “Dio dà la salvezza” sia “ti preghiamo, Signore, donaci la salvezza”. Leggiamo il testo dell’Apocalisse senza tagli: “Ho visto: ecco una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare… stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, vestiti di bianche vesti e con palme in mano. E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio che siede sul trono e all’Agnello!”. Un altro rito della festa delle Capanne era il rito della “Libagione dell’acqua”(Nisuakh haMayim), la processione alla piscina di Siloe, l’ottavo e ultimo giorno della festa recando in corteo dell’acqua per aspergere l’altare, un rito di purificazione che prefigura la purificazione definitiva promessa da Dio per mezzo dei profeti, in particolare Zaccaria: “In quel giorno, acque vive usciranno da Gerusalemme, metà verso il mare orientale e metà verso il mare occidentale” (Zc 14,8). Fu proprio durante una festa delle Capanne, l’ottavo giorno, che Gesù disse (ed è ancora san Giovanni a riferirlo): “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, dal suo cuore sgorgheranno fiumi di acqua viva” (Gv 7,37). Qui, in eco, Giovanni predice: “L’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle sorgenti delle acque della vita”. Dalla liturgia cristiana, san Giovanni ha ripreso la veste bianca dei battezzati e il sangue dell’Agnello, segno della vita donata per dirci che tutto ciò che la festa delle Capanne annunciava simbolicamente è ormai compiuto. In Gesù Cristo si compie l’attesa del popolo di Dio di una purificazione definitiva, una nuova Alleanza, presenza perfetta di Dio con noi. Con il Battesimo e l’Eucaristia l’umanità partecipa alla vita del Risorto ed entra così nell’intimità di Dio definitivamente.
NOTA: Nella moltitudine immensa (v. 9) la tradizione identifica la Chiesa anche se alla fine del primo secolo i cristiani non erano molti. C’è però una possibile diversa interpretazione: nei versetti precedenti (v 3-8), Giovanni descrive una prima folla (“i servitori del nostro Dio” la cui “fronte è segnato con il sigillo”) e si ritiene che siano i battezzati cioè la Chiesa. La folla immensa vestita di bianche vesti (la veste nuziale) sarebbe allora la moltitudine dei salvati, nella linea della teologia del Servo (cfr. i quattro canti del secondo libro di Isaia), di cui gli scritti giovannei, e non solo, sono tutti impregnati. Pertanto la folla immensa (vv9 e seguenti) sarebbe la “moltitudine” giustificata dal Servo: “Il giusto, mio servo, giustificherà le moltitudini” (Is 53,11). Confrontati allora con la persecuzione, i cristiani trovavano qui un motivo per resistere perché sapevano che il loro sacrificio era seme di salvezza per la moltitudine.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (10, 27-30)
Giusto dopo il testo che ci propone la liturgia di questa domenica, san Giovanni scrive: “I giudei raccolsero di nuovo delle pietre per lapidarlo” (v.31). Perché reagirono così fortemente e che aveva detto di così straordinario Gesù? In realtà, non è stato lui a prendere l’iniziativa ma si è limitato a rispondere a una domanda.L’evangelista narra che si trovava nel Tempio di Gerusalemme, sotto il portico chiamato “Portico di Salomone”, e i giudei per metterlo alle strette gli chiesero: “Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente”(v24). Insomma, siamo davanti a una sorta di ultimatum, del tipo: Sei tu il Cristo (cioè il Messia) oppure no dillo chiaramente una volta per tutte. Invece di rispondere “sì, sono il Messia”, Gesù parla delle pecore “sue”, ma è la stessa cosa perché il popolo d’Israele si paragonava volentieri a un gregge: “Siamo il popolo di Dio, il gregge che egli conduce”, quest’espressione ricorre spesso nei salmi, in particolare, nel salmo di questa domenica: “Egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo”; un gregge spesso maltrattato, trascurato, o mal guidato dai re succedutisi sul trono di Davide. Si sapeva però che il Messia sarebbe stato un pastore attento per cui Gesù si presenta veramente come il Messia. I suoi interlocutori lo capirono benissimo e Gesù li porta molto oltre perché parlando delle pecore “sue” osa affermare: “Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano” (v. 28). Ma chi può mai dare la vita eterna? L’espressione “essere nella mano di Dio”, era abituale nell’Antico Testamento come troviamo ad esempio in Geremia: «Come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa d’Israele!» (Ger 18,16, oppure nel libro del Qoelet (Ecclesiaste): «I giusti, i saggi e le loro azioni sono nelle mani di Dio» (Qo 9,1) e anche nel Deuteronomio: «Io faccio morire e vivere, io ferisco e io guarisco, e nessuno può liberare dalla mia mano» (Dt 32,39), e poco più avanti: «Tutti i santi sono nella tua mano» (Dt 33,3). Gesù fa riferimento a tutto questo e aggiunge: “Nessuno può strapparle dalla mano del Padre” (v.29) mettendo sullo stesso piano “la mia mano” e “la mano del Padre”. E non si ferma lì perché afferma: “Io e il Padre siamo una sola cosa” (v.30) che è dire: “sì, sono il Cristo, cioè il Messia” facendosi uguale a Dio, egli stesso Dio. Per i suoi interlocutori, questo era inaccettabile perché si aspettava un Messia che fosse un uomo ma non si poteva immaginare che potesse essere Dio: la fede nel Dio unico era affermata con tale forza in Israele che era praticamente impossibile per dei giudei ferventi credere nella divinità di Gesù. Professando ogni giorno la la fede ebraica: «Shema Israel», «Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio è il Signore uno solo», non potevano tollerare di sentire Gesù affermare: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. Questo spiega perché l’opposizione più accanita a Gesù venne proprio dai capi religiosi. La reazione fu immediata e mentre si preparavano a lapidarlo, lo accusarono di aver bestemmiato facendosi Dio. Ancora una volta, Gesù si scontra con l’incomprensione di coloro che pure attendevano il Messia con maggiore fervore e questo è una riflessione costante in Giovanni: «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto». Tutto il mistero di Cristo è racchiuso in questo, e anche, in filigrana, il suo processo. Eppure, non tutto è perduto; Gesù ha affrontato l’incomprensione, perfino l’odio, è stato perseguitato, eliminato, ma alcuni hanno creduto in lui; lo stesso Giovanni lo dice nel Prologo del suo vangelo: «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto… ma a quanti lo hanno accolto, a quelli che credono nel suo nome, ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,11-12). E sappiamo bene che è grazie a questi che la rivelazione ha continuato a diffondersi. Da quel piccolo Resto è nato il popolo dei credenti: «Le mie pecore ascoltano la mia voce; io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna». Nonostante l’opposizione che Gesù incontra qui, nonostante l’esito tragico già prevedibile, c’è indubbiamente in queste parole un linguaggio di vittoria: «Nessuno le strapperà dalla mia mano»… «Nessuno può strapparle dalla mano del Padre»: si percepisce qui come un’eco di un’altra frase di Gesù riportata dallo stesso evangelista: “Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo” (Gv16,33). I discepoli di Gesù, nel corso della storia, hanno davvero bisogno di poggiarsi sulla certezza che nessuno può strapparli dalla mano del Padre.
+Giovanni D’Ercole
Lo vedi nel pastore, quando espone la sua vita
(Gv 10,1-10.11-18.27-30)
Siamo abituati a immaginare Gesù come Pastore attorniato dal gregge con una pecorella sorretta sulle spalle o tra le braccia. Tale la riproduzione della parabola di Lc 15 e Mt 18.
In alternativa ai sinottici, il quarto Vangelo parla del tratto distintivo di Gesù quale Pastore vero, prendendo spunto dal carattere audace di Davide nell’episodio riportato da 1Sam 17,32-36:
«Davide disse a Saul: "Nessuno si perda d’animo a causa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo Filisteo". Saul rispose a Davide: "Tu non puoi andare contro questo Filisteo a combattere con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d’armi fin dalla sua adolescenza". Ma Davide disse a Saul: "Il tuo servo pascolava il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la pecora dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l’afferravo per le mascelle, l’abbattevo e lo uccidevo. Il tuo servo ha abbattuto il leone e l’orso».
Il «Pastore quello Bello» [nel senso orientale di affascinante ma pure autentico, vero e giusto, forte e ardito] di Gv 10 non accarezza il gregge. «Non sta a pettinare le pecore!».
È piuttosto la guida e il protettore che non solo sfida le intemperie, ma soprattutto non teme gli animali feroci, che vogliono profittare anche di una sola pecorella.
Nelle scorse domeniche i Vangeli hanno messo in evidenza come anche oggi possiamo vedere il Risorto.
Nell’episodio di Tommaso, in che modo si manifesta nella comunità riunita per il culto; la settimana scorsa, come percepirlo in giorno feriale e negli ambienti ordinari dove si svolge la vita quotidiana.
Oggi possiamo notare come il Risorto si riveli in un «pastore» in carne e ossa, che decide di non fare il ninnolo da salotto - e di non scodinzolare se arriva qualche prepotente o finto padrone.
S. Agostino scrive: «Tu uomo devi riconoscere che cosa eri, dove eri, a chi eri sottoposto [...] eri affidato a un mercenario che al sopraggiungere del lupo non ti proteggeva [...] Questo pastore non è come il mercenario sotto il quale stavi quando ti travagliava la tua miseria e tu dovevi temere il lupo».
Notizia Lieta del tempo di Pasqua è che la nostra vita da salvati viene assicurata dalla decisa intrepidezza di fratelli che al pari di Gesù (solo qui simile a Davide) non temono di lottare, sino ad esporre se stessi per tutelare i senza-voce del gregge.
Pastore autentico è colui che ha fegato di fronteggiare sia falsari che predoni, per strappare i disorientati e indifesi dai loro artigli.
La sua credibilità si riconosce fin dalla Voce decisa, che non si lascia tacitare dai ricatti. Non si lascia mettere paura dagli smaliziati, né a cuccia per la scarsa presa sociale.
La sua Parola-evento prolunga l’attività creatrice del Padre, che restituisce vita, arricchisce la vita, rallegra la vita dei figli.
Questa la sua Bellezza, ossia la sua pienezza d’Amore che permane, colmandoci di senso - nel tempo della transumanza e nel cambiamento di stagione.
«Il Pastore, quello bello, dà la propria vita per le pecore» (v.11): Egli ha uno stile che capovolge la catena di comando.
In tal guisa, il Maestro non ha mai invitato nessuno [neppure fra gli apostoli] a fare il “pastore”, ossia colui che dirige e comanda il gregge.
I suoi intimi sono chiamati a essere «pescatori di uomini». Interessati alla realtà delle persone.
Non “direttori”, bensì mettersi a servizio della vita e della libertà di coloro che sono purtroppo invischiati in abissi soffocanti, pericolosi gorghi di morte.
Il di più della Fede?
Lo spunto e la freschezza di chi espone la propria vita senza retrocedere, per difendere gli innocenti, ultimi arrivati.
Nessun dirigismo.
[4.a Domenica di Pasqua, del Pastore Bello, 11 maggio 2025]
Ci sono prove che vive: lo vedi nel Pastore
(Gv 10:1-10. 10:11-18 10:27-30)
La regola religiosa sviluppava l’idea che la Torah potesse pulire la mente dagli errori, e l’inclinazione delle persone dalle impurità - onde cesellare un popolo gradito a Dio.
Tutto ciò che turbava l’equilibrio prescritto andava subito condannato e punito, in quanto deleterio per la stabilità fissata, la coesione di massa, la sua stessa efficienza.
La completa configurazione della proposta pia indiscutibile e la stessa magnificenza delle strutture del culto ufficiale garantivano l’eloquenza e l’imperturbabilità dei condizionamenti [sui disadattati].
Insicurezze e dubbi venivano immediatamente bollati come fattori di disturbo del panorama rassicurante, da reprimere sin dall’adolescenza.
Il nuovo Rabbi invece non voleva sterilizzare emozioni o situazioni. Il mondo interiore e le inquietudini non andavano affatto tacitate, bensì incontrate e conosciute.
Del resto, guardandosi attorno si accorgeva (come noi oggi) che proprio nelle persone manierate, osservanti o ‘trasgressive’, portabandiera dell’etica o degli eventi, che reprimevano i moti spontanei o si concedevano alle mode… aumentavano sotterfugi, egoismi celati, grettezza, disturbi.
Proprio coloro che affrontavano la via spirituale moltiplicando dirigismi, eticismi, attivismi, e controllo, diventavano esageratamente conflittuali, e segretamente inaffidabili.
Gravato di norme soffocanti, il popolo pur ingenuo era ridotto all’infelicità; tutti sentivano inquietudine e arsura - proprio perché l’ossessione di peccato o di mancata performance impediva l’integrazione dei desideri.
Tutto ciò che doveva essere ridotto e annientato per ragioni di conformità sociale e votata, finiva per penetrare nelle anime in maniera più intima, riaffiorando qua e là in modo paradossale, con doppiezza e squilibri - questi sì - gravissimi.
Gesù autentica Guida era invece «amico di pubblicani e peccatori» nel senso che insegnava ad allargare l’armonia dell’essere creaturale, e imparare a guardare senza pregiudizio; fare tesoro di varie esperienze, perfino opposte: di tutto quanto emerge anche nell’intimo.
La perfezione che predicava era nell’imperfezione e nella irrazionalità dell’amore - che ovunque raggranella perle di esperienza da ogni dove.
Anzi, secondo il Pastore vero era importante proprio essere turbati, invece che impassibili o sicuri: per imparare nel tempo a dare senso anche ai segni che preoccupano la mentalità conformista o à la page - così completarci.
Il Maestro e Amico autentico sa che - imparando ad accogliere, non a stabilire - solo quanto tocca, coinvolge e turba in prima persona riuscirà a farci spostare lo sguardo, per crescere e fare esodo verso pascoli ubertosi; la terra della libertà, anche di relazione.
In un discorso dell’aprile ‘68 Paolo VI si chiedeva:
«Chi è Gesù? Gesù è il Buon Pastore. Siamo invitati dallo stesso Signore a pensarlo così: una figura estremamente amabile, dolce, vicina. Presentandosi in tale aspetto, egli ripete l’invito del pastore: disegna cioè un rapporto che sa di tenerezza e di prodigio. Conosce le sue pecorelle, e le chiama per nome. Poiché noi siamo del suo gregge Egli ci conosce e ci nomina; si avvicina a ciascuno di noi e desidera farci pervenire a una relazione affettuosa, filiale con lui. La bontà del Signore si palesa qui in maniera sublime, ineffabile».
In una udienza generale del marzo ‘75 il Pontefice stimolava a «dare una tonalità di coraggio alla vita cristiana, privata e pubblica, per non diventare insignificanti sul piano spirituale e persino complici del crollo. La croce è sempre innalzata davanti a noi: essa ci chiama al vigore».
Il Vescovo di Roma intendeva sollecitarci a non vivere di mediazioni e concordismi.
Malgrado le apparenze, è questa seconda citazione la più pertinente a descrivere il carattere della liturgia della Parola nella quarta Domenica di Pasqua; vediamo perché.
Siamo abituati a immaginare Gesù come Pastore attorniato dal gregge con una pecorella sorretta sulle spalle o tra le braccia. Tale la riproduzione della parabola di Lc 15 e Mt 18.
In alternativa ai sinottici, il quarto Vangelo parla del tratto distintivo di Gesù quale Pastore vero, prendendo spunto dal carattere audace di Davide nell’episodio riportato da 1Sam 17,32-36:
«Davide disse a Saul: "Nessuno si perda d’animo a causa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo Filisteo". Saul rispose a Davide: "Tu non puoi andare contro questo Filisteo a combattere con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d’armi fin dalla sua adolescenza". Ma Davide disse a Saul: "Il tuo servo pascolava il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la pecora dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l’afferravo per le mascelle, l’abbattevo e lo uccidevo. Il tuo servo ha abbattuto il leone e l’orso».
Il «Pastore quello Bello» [nel senso orientale di affascinante ma pure autentico, vero e giusto, forte e ardito] di Gv 10 non accarezza il gregge. Come direbbe Papa Francesco: «Non sta a pettinare le pecore!».
È piuttosto la guida e il protettore che non solo sfida le intemperie, ma soprattutto non teme gli animali feroci, che vogliono profittare anche di una sola pecorella.
Non mette la coda fra le gambe davanti alle bestie, e nel caso strappa le prede dalle fauci delle bande di lupi [a volte travestiti da agnellini e uomini di Dio; gente pericolosissima, spacciatori d’illusione].
Nelle scorse domeniche i Vangeli hanno messo in evidenza come anche oggi possiamo vedere il Risorto.
Nell’episodio di Tommaso, in che modo si manifesta nella comunità riunita per il culto; la settimana scorsa, come percepirlo in giorno feriale e negli ambienti ordinari dove si svolge la vita quotidiana.
Oggi possiamo notare come il Risorto si riveli in un «pastore» in carne e ossa, che decide di non fare il ninnolo da salotto - e di non scodinzolare se arriva qualche prepotente o finto padrone.
S. Agostino scrive: «Tu uomo devi riconoscere che cosa eri, dove eri, a chi eri sottoposto [...] eri affidato a un mercenario che al sopraggiungere del lupo non ti proteggeva [...] Questo pastore non è come il mercenario sotto il quale stavi quando ti travagliava la tua miseria e tu dovevi temere il lupo».
Notizia Lieta del tempo di Pasqua è che la nostra vita da salvati viene assicurata dalla decisa intrepidezza di fratelli che al pari di Gesù (solo qui simile a Davide) non temono di lottare, sino ad esporre se stessi per tutelare i senza-voce del gregge.
Pastore autentico è colui che ha fegato di fronteggiare sia falsari che predoni, per strappare i disorientati e indifesi dai loro artigli.
La sua credibilità si riconosce fin dalla Voce decisa, che non si lascia tacitare dai ricatti. Non si lascia mettere paura dagli smaliziati, né a cuccia per la scarsa presa sociale.
La sua Parola-evento prolunga l’attività creatrice del Padre, che restituisce vita, arricchisce la vita, rallegra la vita dei figli.
Questa la sua Bellezza, ossia la sua pienezza d’Amore che permane, colmandoci di senso - nel tempo della transumanza e nel cambiamento di stagione.
«Il Pastore, quello bello, dà la propria vita per le pecore» (v.11): Egli ha uno stile che capovolge la catena di comando.
In tal guisa, il Maestro non ha mai invitato nessuno [neppure fra gli apostoli] a fare il “pastore”, ossia colui che dirige e comanda il gregge.
I suoi intimi sono chiamati a essere «pescatori di uomini». Interessati alla realtà delle persone.
Non “direttori”, bensì mettersi a servizio della vita e della libertà di coloro che sono purtroppo invischiati in abissi soffocanti, pericolosi gorghi di morte.
L’ovile dei pastori di Palestina era un recinto di pietre a secco, sopra le quali venivano lasciati crescere rovi o posti fasci di spine, per impedire lo scavalcamento, sia delle pecore che dei ladri.
Il muretto poteva delimitare uno spazio davanti a una casa, o nel caso di permanenze all’aperto, lungo un pendio. In tale fattispecie poteva essere rifugio notturno di vari greggi e più pastori.
Uno di essi vegliava a turno, ponendosi all’entrata del recinto, sbarrando l’accesso - come fosse una porta. Stava lì armato di bastone reso più efficace da schegge di pietra conficcati.
Al mattino ogni gregge si ricompattava spontaneamente alla sola voce del proprio pastore, che - per il fatto di passare molto tempo insieme in luoghi isolati - veniva immediatamente riconosciuta.
Le pecore lo seguivano, sicure di essere guidate a pascoli e oasi: ogni giorno ne facevano esperienza.
Il ‘pastore’ coraggioso conosce le pecore in modo passionale, «una per una» - ma vi sono tanti banditi che ancora intendono approfittarsi.
Per loro uno vale l’altro - non sono disposti a lottare, se non per il prestigio. Né hanno cognizione alcuna del nostro ‘nome’.
Viceversa, nel pensiero del Signore non esistono masse anonime, bensì persone; anime tutte significative.
Egli tien conto del carattere e delle possibilità di ciascuno. Comprende le nostre difficoltà; non forza i tempi, rispetta i ritmi individuali.
Capi religiosi e politici del tempo - lusingatori e autentici predoni - non avevano a cuore i pregi e le fatiche di ciascuno dei loro sudditi.
Si atteggiavano a sacri benefattori; cercando esclusivamente il proprio tornaconto - anche attraverso l’apparente opera di soccorso.
Malgrado le clamorose parvenze che appunto volevano sottolineare il rango conquistato, il loro obbiettivo e i metodi erano segnati dalla brama di affermazione, da un esclusivo interesse personale e di ceto.
Cristo si distingue dagli impostori, pataccari di contrabbando, che volevano trascinare il popolo allo sfruttamento, alla spersonalizzazione, allo smarrimento, quindi alla completa subordinazione - non solo dell’immaginario.
Colui che in mezzo al frastuono di tante voci si fa ostaggio di convinzioni esterne, viene plagiato e non riesce più a riattivare il proprio Esodo.
Così dovrà sempre prenderlo a prestito.
Ma infilare l'anima e la vita nell’armatura altrui, già confezionata, non realizza l’irripetibile vocazione; non rende felice l’innocente.
Chi segue Gesù non solo entra, ma «esce» (v.9) dal «recinto sacro»: tranello che veniva cesellato per sfruttare ingenui e malfermi.
In Lui veniamo resi autonomi, veri, liberi; in grado di camminare sulle nostre gambe, quindi capaci di attivare percorsi di un’umanità forse ancora distante.
Educati nel ‘Figlio dell’uomo’ a sentirci adeguati, a vivere intensamente e rallegrare l’esistenza anche altrui, non sentiamo più alcun bisogno di umilianti paternalismi.
Ai tempi di Gesù, nel caso che il pastore fosse un salariato, di fronte al pericolo grave [es. banditi, o grandi bestie feroci] gli era consentito fuggire.
E lo faceva ben volentieri, perché il gregge non gli apparteneva.
Insomma, chi si attiene agli obblighi minimi fissati dal “contratto” non è davvero coinvolto - non ha a cuore nulla, né la proposta di Cristo, né le persone.
Di contro, l’amore genuino non si ferma; non ha confini: «un solo gregge, un solo pastore» (v.16).
Ossia: tutti sono chiamati a coinvolgersi; benedetti, e “perfetti” in ordine alla propria missione.
«Unico pastore» nei Vangeli non è il Papa, né un qualche Patriarca. Neppure un piccolo principe-feudatario locale.
Ma l’intero gregge, ministeriale senza eccezioni - in Cristo destinato alla pienezza di vita nella libertà (vv.17-18).
Gesù è Pastore genuino perché non teme di esporre la propria vita in difesa dei suoi fratelli.
Egli è l’uomo forte che non si lascia strappare dalle mani i suoi indifesi (v.28): non concede che ci perdiamo.
Forse per noi non è neppure tanto semplice cedere, farsi salvare, lasciarsi accompagnare, trasportare, guidare dall’Amico interiore.
Eppure, malgrado la nostra mancanza di docilità, la salvezza è garantita: dalla sua iniziativa incondizionata.
Questo il perno affidabile della nostra avventura: donne e uomini che in tale rapporto nuziale e creativo fanno il balzo dal senso religioso alla Fede.
Questa la grande notizia, la buona novella che annunciamo.
La nostra radice vocazionale non è scalfita dalle manchevolezze.
Nemico di Dio non è il peccato, dunque, bensì il cullarsi d’illusioni e il seguire ciarlatani; o il malaffare, l’interesse, l’autocompiacimento, che attecchiscono e si diffondono proprio in zone d’ombra e cordate che non t’aspetti.
Non è facile fidarsi di Cristo e con Lui essere in comunione col Padre (v.30) come unico Popolo di Dio, laici e clero.
Egli non bara: non promette carriere, benemerenze, titoli, ruoli, zucchero filato, vita facile, trionfi, riconoscimenti, e scorciatoie.
A volte arrivano le belve e non si scherza; bisogna decidere e - perché no - talora essere duri.
Ricordo anni fa una strage di pecore nella zona di Accumoli - non troppo distante da me.
Quando le anziane si accorsero dei lupi, si posero a cerchio intorno agli agnelli, e furono sbranate - per salvare i loro piccoli.
Nelle religioni è fondamentale il rispetto dei veterani - non di rado soci in affari con qualche idolo spacciato per “Dio”.
Essi pretendono essere difesi, tutelati, serviti e riveriti; qualsiasi nefandezza abbiano combinato o ancora stiano coltivando in animo.
Per questo motivo - come detto - il Maestro non ha mai invitato nessuno a fare il “pastore” (colui che dirige e comanda il gregge).
I suoi intimi sono chiamati a essere «pescatori di uomini».
Non “direttori”, bensì mettersi a servizio della vita e della libertà di coloro che sono purtroppo invischiati in abissi soffocanti, pericolosi gorghi di morte.
Strano vedere nella storia come tutte le denominazioni cristiane si siano immediatamente riempite di “pastori” (che non mollano).
«Il Pastore, quello bello, dà la propria vita per le pecore» (v.11): Egli ha uno stile che capovolge la catena di comando avida e piramidale.
Popolo buon Pastore
La difesa del gregge minuto, e il Popolo tutto che diventa Pastore
(Gv 10,11-18)
All’inizio del cap.10 Gv mette a nudo la differenza tra pastore vero e ladro [falsi maestri rapaci e profittatori cui non interessa la vita altrui].
L’autentica guida ha a cuore il gregge minuto, si espone per difenderlo e farlo prosperare; lo conduce ad abbeverarsi, e in verdi pascoli.
Così, dalla similitudine iniziale della Porta, Gesù passa al paragone del Pastore che difende il gregge errante e facile preda di prepotenti.
La gente coglie d’istinto chi è la vera guida, nelle variazioni di stagione e nella transumanza: ne ha percezione esistenziale immediata, vibrante.
Donne e uomini del popolo hanno sempre un discernimento pratico assai più affidabile di quello artificioso, sprezzante, delle autorità ufficiali che suppongono di sé.
Nessuno di loro avrebbe dato o rischiato nulla per la vita del gregge affidato, che ritenevano ignorante, segnato a vita; maledetto (Gv 7,49. 9,34).
Forte di tale finezza d’intelligenza concreta, ecco la mèta cui Gesù mira nel Dono di sé: sarà il Popolo stesso a diventare Pastore (v.16b).
Quindi anche il gregge-pastore di Cristo non schiverà i colpi, né sarà passivo e conformista - bensì come Lui: audace e battistrada.
In tale sorpresa si aggiunge un’ulteriore apertura d’orizzonte, che chiameremmo di ecclesiologia universale.
Prospettiva inquietante per opportunisti e installati sazi degli “edifici” allestiti dalla religione - e dal suo indotto - allarmati unicamente per quelli costruiti nella Fede.
Ma il Signore ci strappa dai lupi.
In aggiunta, non si limita alle folle che gli sono vicine.
La chiamata e la cura del Pastore autentico valica qualsiasi confine; non solo quello artefatto e mestierante del Tempio.
La vocazione di Dio riguarda persino le persone ancora lontane da recinti sacri (v.16a testo greco), anch’esse valutate membri necessari e a pieno titolo del suo Popolo.
Il nuovo principio di appartenenza è l’Ascolto (v.3): immediatezza anche delle proprie intime e naturali istanze di vita.
Ciò vale più di un’anima già ripulita dagli errori, o di una folla impeccabile.
Tale il preludio creaturale e spontaneo di mutua Comunione [convivialità delle differenze] che soppianta le appartenenze religiose antiche.
«Il Pastore, quello bello, dà la propria vita per le pecore» (v.11): Egli ha uno stile che capovolge la catena di comando avida e piramidale.
Le fraternità di Fede viva avevano ben compreso che l’esistere nello Spirito del Cristo e la vita dell’anima avevano risvolti inattesi - del tutto incompatibili con l’attaccamento all’effimero che le autorità ufficiali si concedevano.
L’irriverente Luciano di Samosata (120-190) dona uno sprazzo assai significativo di questa originalità - ancora in fieri - che lascia emergere la semplicità, il clima di fiducia reciproca e la qualità di vita dei primi credenti, trascinati dal buon esempio dei responsabili di comunità.
Il noto autore satirico, contrario a superstizioni e credulonerie tra le quali annoverava anche il Cristianesimo, porge una testimonianza indiretta e paradossale del motivo per il quale l’inattesa proposta di Condivisione a partire dai coordinatori di chiesa - così alternativa, incomprensibilmente magnanima e liberale - venisse riconosciuta.
Con linguaggio scanzonato che ancora ci fa pensare alla distanza dall’ideale, malgrado i millenni trascorsi - l’antico scrittore greco-siriano ha acutamente descritto l’impatto concreto della Fede nel vero Dio, la quale notava sempre più diffusa tra la gente.
Gesù voleva che per l’instaurazione di una società alternativa - non verticistica, non esclusiva, anzi capace di felice Convivenza - si facesse leva sul cuore popolare, a partire dalla testimonianza di ‘maestri’ autentici.
In «La morte di Peregrino» [De morte Peregrini, 13] il polemista del II sec. così si esprime:
«Il loro primo Legislatore li persuade che sono tutti fratelli tra loro e, come si convertono, rinnegando gli dei greci, adorano quel sapiente crocifisso, e vivono secondo le sue leggi. Per la qualcosa disprezzano tutti i beni egualmente e li credono comuni e non se ne curano quando li hanno. Perciò se tra loro sorgesse un accorto impostore che sapesse ben maneggiarli, immediatamente diventerebbe ricco, canzonando questa gente credulona e sciocca».
Sembrava una pazzia per l’ideale di uomo ellenista, individualista e facitore di sé, nonché per l’immagine stessa d’un amico di Dio che meritasse gloria e cortigianerie - pertanto suo protetto in “benedizioni” [convinzione che permane purtroppo quasi inalterata].
Ma come si nota fra le righe, le nuove ‘guide’ in Cristo effettivamente stavano iniziando a soppiantare la credibilità degli altri leaders più rinomati in cultura, tuttavia assai meno interessati alla realtà delle persone.
Nella vita dei ‘cristiani’ si rendeva palese un equilibrio, un venirsi incontro, un benessere e una «Via della completezza» affatto diversa da quella dell’antica ‘perfezione’ sterilizzata, unilaterale.
Il di più della Fede?
Non le belle maniere. Piuttosto, lo spunto e la freschezza di chi espone la propria vita senza retrocedere, per difendere gli innocenti, ultimi arrivati.
Nessun dirigismo.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Nella tua comunità ti senti giudicato sulle perfezioni esterne, e braccato da lupi giudicanti, o valorizzato in prima persona, e nella via della completezza a tutto tondo?
Vanno proprio insieme
Il Vangelo che abbiamo ascoltato in questa domenica è soltanto una parte del grande discorso di Gesù sui pastori. In questo brano il Signore ci dice tre cose sul vero pastore: egli dà la propria vita per le pecore; le conosce ed esse lo conoscono; sta a servizio dell'unità. Prima di riflettere su queste tre caratteristiche essenziali dell'essere pastori, sarà forse utile ricordare brevemente la parte precedente del discorso sui pastori nella quale Gesù, prima di designarsi come Pastore, dice con nostra sorpresa: "Io sono la porta" (Gv 10, 7). È attraverso di Lui che si deve entrare nel servizio di pastore. Gesù mette in risalto molto chiaramente questa condizione di fondo affermando: "Chi... sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante" (Gv 10, 1). Questa parola "sale" - "anabainei" in greco - evoca l'immagine di qualcuno che si arrampica sul recinto per giungere, scavalcando, là dove legittimamente non potrebbe arrivare. "Salire" - si può qui vedere anche l'immagine del carrierismo, del tentativo di arrivare "in alto", di procurarsi una posizione mediante la Chiesa: servirsi, non servire. È l'immagine dell'uomo che, attraverso il sacerdozio, vuole farsi importante, diventare un personaggio; l'immagine di colui che ha di mira la propria esaltazione e non l'umile servizio di Gesù Cristo. Ma l'unica ascesa legittima verso il ministero del pastore è la croce. È questa la vera ascesa, è questa la vera porta. Non desiderare di diventare personalmente qualcuno, ma invece esserci per l'altro, per Cristo, e così mediante Lui e con Lui esserci per gli uomini che Egli cerca, che Egli vuole condurre sulla via della vita. Si entra nel sacerdozio attraverso il Sacramento - e ciò significa appunto: attraverso la donazione di se stessi a Cristo, affinché Egli disponga di me; affinché io Lo serva e segua la sua chiamata, anche se questa dovesse essere in contrasto con i miei desideri di autorealizzazione e stima. Entrare per la porta, che è Cristo, vuol dire conoscerlo ed amarlo sempre di più, perché la nostra volontà si unisca alla sua e il nostro agire diventi una cosa sola col suo agire. Cari amici, per questa intenzione vogliamo pregare sempre di nuovo, vogliamo impegnarci proprio per questo, che cioè Cristo cresca in noi, che la nostra unione con Lui diventi sempre più profonda, cosicché per il nostro tramite sia Cristo stesso Colui che pasce.
Guardiamo ora più da vicino le tre affermazioni fondamentali di Gesù sul buon pastore. La prima, che con grande forza pervade tutto il discorso sui pastori, dice: il pastore dà la sua vita per le pecore. Il mistero della Croce sta al centro del servizio di Gesù quale pastore: è il grande servizio che Egli rende a tutti noi. Egli dona se stesso, e non solo in un passato lontano. Nella sacra Eucaristia ogni giorno realizza questo, dona se stesso mediante le nostre mani, dona sé a noi. Per questo, a buona ragione, al centro della vita sacerdotale sta la sacra Eucaristia, nella quale il sacrificio di Gesù sulla croce rimane continuamente presente, realmente tra di noi. E a partire da ciò impariamo anche che cosa significa celebrare l'Eucaristia in modo adeguato: è un incontrare il Signore che per noi si spoglia della sua gloria divina, si lascia umiliare fino alla morte in croce e così si dona a ognuno di noi. È molto importante per il sacerdote l'Eucaristia quotidiana, nella quale si espone sempre di nuovo a questo mistero; sempre di nuovo pone se stesso nelle mani di Dio sperimentando al contempo la gioia di sapere che Egli è presente, mi accoglie, sempre di nuovo mi solleva e mi porta, mi dà la mano, se stesso. L'Eucaristia deve diventare per noi una scuola di vita, nella quale impariamo a donare la nostra vita. La vita non la si dona solo nel momento della morte e non soltanto nel modo del martirio. Noi dobbiamo donarla giorno per giorno. Occorre imparare giorno per giorno che io non possiedo la mia vita per me stesso. Giorno per giorno devo imparare ad abbandonare me stesso; a tenermi a disposizione per quella cosa per la quale Egli, il Signore, sul momento ha bisogno di me, anche se altre cose mi sembrano più belle e più importanti. Donare la vita, non prenderla. È proprio così che facciamo l'esperienza della libertà. La libertà da noi stessi, la vastità dell'essere. Proprio così, nell'essere utile, nell'essere una persona di cui c'è bisogno nel mondo, la nostra vita diventa importante e bella. Solo chi dona la propria vita, la trova.
Come seconda cosa il Signore ci dice: "Io conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre " (Gv 10, 14-15). Sono in questa frase due rapporti apparentemente del tutto diversi che qui si trovano intrecciati l'uno con l'altro: il rapporto tra Gesù e il Padre e il rapporto tra Gesù e gli uomini a Lui affidati. Ma entrambi i rapporti vanno proprio insieme, perché gli uomini, in fin dei conti, appartengono al Padre e sono alla ricerca del Creatore, di Dio. Quando si accorgono che uno parla soltanto nel proprio nome e attingendo solo da sé, allora intuiscono che è troppo poco e che egli non può essere ciò che stanno cercando. Laddove però risuona in una persona un'altra voce, la voce del Creatore, del Padre, si apre la porta della relazione che l'uomo aspetta. Così deve essere quindi nel nostro caso. Innanzitutto nel nostro intimo dobbiamo vivere il rapporto con Cristo e per il suo tramite con il Padre; solo allora possiamo veramente comprendere gli uomini, solo alla luce di Dio si capisce la profondità dell'uomo. Allora chi ci ascolta si rende conto che non parliamo di noi, di qualcosa, ma del vero Pastore. Ovviamente, nelle parole di Gesù è anche racchiuso tutto il compito pastorale pratico, di seguire gli uomini, di andare a trovarli, di essere aperti per le loro necessità e le loro domande. Ovviamente è fondamentale la conoscenza pratica, concreta delle persone a me affidate, e ovviamente è importante capire questo "conoscere" gli altri nel senso biblico: non c'è una vera conoscenza senza amore, senza un rapporto interiore, senza una profonda accettazione dell'altro. Il pastore non può accontentarsi di sapere i nomi e le date. Il suo conoscere le pecore deve essere sempre anche un conoscere con il cuore. Questo però è realizzabile in fondo soltanto se il Signore ha aperto il nostro cuore; se il nostro conoscere non lega le persone al nostro piccolo io privato, al nostro proprio piccolo cuore, ma invece fa sentire loro il cuore di Gesù, il cuore del Signore. Deve essere un conoscere col cuore di Gesù e orientato verso di Lui, un conoscere che non lega l'uomo a me, ma lo guida verso Gesù rendendolo così libero e aperto. E così anche noi tra uomini diveniamo vicini. Affinché questo modo di conoscere con il cuore di Gesù, di non legare a me ma di legare al cuore di Gesù e di creare così vera comunità, che questo ci sia donato, vogliamo sempre di nuovo pregare il Signore.
Infine il Signore ci parla del servizio dell'unità affidato al pastore: "Ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore" (Gv 10, 16). È la stessa cosa che Giovanni ripete dopo la decisione del sinedrio di uccidere Gesù, quando Caifa disse che sarebbe stato meglio se uno solo fosse morto per il popolo piuttosto che la nazione intera perisse. Giovanni riconosce in questa parola di Caifa una parola profetica e aggiunge: "Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (11, 52). Si rivela la relazione tra Croce e unità; l'unità si paga con la Croce. Soprattutto però emerge l'orizzonte universale dell'agire di Gesù. Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani. La missione di Gesù riguarda l'umanità intera, e perciò alla Chiesa è data una responsabilità per tutta l'umanità, affinché essa riconosca Dio, quel Dio che, per noi tutti, in Gesù Cristo si è fatto uomo, ha sofferto, è morto ed è risorto. La Chiesa non deve mai accontentarsi della schiera di coloro che a un certo punto ha raggiunto, e dire che gli altri stiano bene così: i musulmani, gli induisti e via dicendo. La Chiesa non può ritirarsi comodamente nei limiti del proprio ambiente. È incaricata della sollecitudine universale, deve preoccuparsi per tutti e di tutti. Questo grande compito in generale lo dobbiamo "tradurre" nelle nostre rispettive missioni. Ovviamente un sacerdote, un pastore d'anime, deve innanzitutto preoccuparsi di coloro, che credono e vivono con la Chiesa, che cercano in essa la strada della vita e che da parte loro, come pietre vive, costruiscono la Chiesa e così edificano e sostengono insieme anche il sacerdote. Tuttavia, dobbiamo anche sempre di nuovo - come dice il Signore - uscire "per le strade e lungo le siepi" (Lc 14, 23) per portare l'invito di Dio al suo banchetto anche a quegli uomini che finora non ne hanno ancora sentito niente, o non ne sono stati toccati interiormente. Questo servizio universale, servizio per l'unità, ha tante forme. Ne fa parte sempre anche l'impegno per l'unità interiore della Chiesa, perché essa, oltre tutte le diversità e i limiti, sia un segno della presenza di Dio nel mondo che solo può creare una tale unità.
La Chiesa antica ha trovato nella scultura del suo tempo la figura del pastore che porta una pecora sulle sue spalle. Forse queste immagini fanno parte del sogno idillico della vita campestre che aveva affascinato la società di allora. Ma per i cristiani questa figura diventava con tutta naturalezza l'immagine di Colui che si è incamminato per cercare la pecora smarrita: l'umanità; l'immagine di Colui che ci segue fin nei nostri deserti e nelle nostre confusioni; l'immagine di Colui che ha preso sulle sue spalle la pecora smarrita, che è l'umanità, e la porta a casa. È divenuta l'immagine del vero Pastore Gesù Cristo. A Lui ci affidiamo. A Lui affidiamo Voi, cari fratelli, specialmente in quest'ora, affinché Egli Vi conduca e Vi porti tutti i giorni; affinché Vi aiuti a diventare, per mezzo di Lui e con Lui, buoni pastori del suo gregge. Amen!
[Papa Benedetto, omelia ordinazione presbiterale 7 maggio 2006]
Gesù parla di sé come del Buon Pastore che dà la vita eterna alle sue pecore (cfr Gv 10,28). Quella del pastore è un’immagine ben radicata nell'Antico Testamento e cara alla tradizione cristiana. Il titolo di "pastore d’Israele" viene attribuito dai Profeti al futuro discendente di Davide, e pertanto possiede un’indubbia rilevanza messianica (cfr Ez 34,23). Gesù è il vero Pastore d’Israele, in quanto è il Figlio dell’uomo che ha voluto condividere la condizione degli esseri umani per donare loro la vita nuova e condurli alla salvezza. Significativamente al termine "pastore" l’evangelista aggiunge l’aggettivo kalós, bello, che egli utilizza unicamente in riferimento Gesù e alla sua missione. Anche nel racconto delle nozze di Cana l’aggettivo kalós viene impiegato due volte per connotare il vino offerto da Gesù ed è facile vedere in esso il simbolo del vino buono dei tempi messianici (cfr Gv 2,10).
"Io do loro cioè (alle mie pecore) la vita eterna e non andranno mai perdute" (Gv 10,28). Così afferma Gesù, che poco prima aveva detto: "Il buon pastore offre la vita per le pecore" (cfr Gv 10,11). Giovanni utilizza il verbo tithénai - offrire, che ripete nei versetti seguenti (15.17.18); lo stesso verbo troviamo nel racconto dell’Ultima Cena, quando Gesù "depose" le sue vesti per poi "riprenderle" (cfr Gv 13, 4.12). E’ chiaro che si vuole in questo modo affermare che il Redentore dispone con assoluta libertà della propria vita, così da poterla offrire e poi riprendere liberamente. Cristo è il vero Buon Pastore che ha dato la vita per le sue pecore, per noi, immolandosi sulla Croce. Egli conosce le sue pecore e le sue pecore lo conoscono, come il Padre conosce Lui ed Egli conosce il Padre (cfr Gv 10,14-15). Non si tratta di mera conoscenza intellettuale, ma di una relazione personale profonda; una conoscenza del cuore, propria di chi ama e di chi è amato; di chi è fedele e di chi sa di potersi a sua volta fidare; una conoscenza d’amore in virtù della quale il Pastore invita i suoi a seguirlo, e che si manifesta pienamente nel dono che fa loro della vita eterna (cfr Gv 10,27-28).
[Papa Benedetto, omelia per l’ordinazione presbiterale 29 aprile 2007]
L’odierna Domenica è stata dedicata a questa suprema ed essenziale necessità proprio perché la Liturgia ci presenta la figura di Gesù “Buon Pastore”.
Già l’Antico Testamento parla comunemente di Dio come Pastore di Israele, del popolo dell’alleanza, da lui scelto per realizzare il progetto della salvezza. Il Salmo 22 è un inno meraviglioso al Signore, Pastore delle nostre anime: “Il Signore è il mio Pastore; non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce; mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino... Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me...” (Sal 23,1-3).
I profeti Isaia, Geremia ed Ezechiele ritornano sovente sul tema del popolo “gregge del Signore”: “Ecco il vostro Dio!... Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna...” (Is 40,11) e soprattutto annunciano il Messia come Pastore che pascerà veramente le sue pecore e non le lascerà più sbandare: “Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore...” (Ez 34,23).
Nel Vangelo è familiare questa dolce e commovente figura del pastore, la quale anche se i tempi sono cambiati a causa dell’industrializzazione e dell’urbanesimo, mantiene sempre il suo fascino e la sua efficacia; e tutti ricordiamo la parabola tanto toccante e suggestiva del Buon Pastore che va in cerca della pecorella smarrita (Lc 15,3-7).
Nei primi tempi della Chiesa poi l’iconografia cristiana si servì grandemente e sviluppò questo tema del Buon Pastore la cui immagine appare spesso, dipinta o scolpita, nelle Catacombe, nei sarcofagi, nei battisteri. Tale iconografia, così interessante e devota, ci attesta che, fin dai primi tempi della Chiesa, Gesù “Buon Pastore” colpì e commosse gli animi dei credenti e dei non credenti e fu motivo di conversione, di impegno spirituale e di conforto. Ebbene, Gesù “Buon Pastore” è vivo e vero ancora oggi in mezzo a noi, in mezzo all’umanità intera, e a ciascuno vuol far sentire la sua voce e il suo amore.
1. Che cosa significa essere il Buon Pastore?
Gesù ce lo spiega con chiarezza convincente:
– il pastore conosce le sue pecore e le pecore conoscono lui: come è bello e consonante sapere che Gesù ci conosce uno per uno, che non siamo degli anonimi per lui, che il nostro nome (quel nome che è concordato dall’amore dei genitori e degli amici) lui lo conosce! Non siamo “massa”, “moltitudine”, per Gesù! Siamo “persone” singole con un valore eterno, sia come creature sia come persone redente! lui ci conosce! lui mi conosce, e mi ama e ha dato se stesso per me! (Gal 2,20);
– il pastore nutre le sue pecore e le conduce a pascoli freschi e abbondanti: Gesù è venuto per portare la vita alle anime, e darla in misura sovrabbondante. E la vita delle anime consiste essenzialmente in tre supreme realtà: la verità, la grazia, la gloria. Gesù è la verità, perché è il Verbo incarnato, è la “pietra angolare”, come diceva San Pietro ai capi del popolo e agli anziani, sulla quale solamente è possibile costruire l’edificio familiare, sociale, politico: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,11-12). Gesù ci dà la “grazia”, ossia la vita divina per mezzo del Battesimo e degli altri Sacramenti. Mediante la “grazia”, diventiamo partecipi della stessa natura trinitaria di Dio! Mistero immenso, ma di indicibile gioia e consolazione!
Gesù infine ci darà la gloria del paradiso, gloria totale ed eterna, dove saremo amati e ameremo, partecipi della stessa felicità di Dio che è Infinito anche nella gioia! “Ciò che saremo non è stato ancora rivelato – commenta San Giovanni –. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,3);
– il pastore difende le sue pecore; non è come il mercenario che quando arriva il lupo fugge, perché non gli importa nulla delle pecore. Purtroppo sappiamo bene che nel mondo ci sono sempre i mercenari che seminano l’odio, la malizia, il dubbio, il turbamento delle idee e dei sensi. Gesù invece, con la luce della sua parola divina e con la forza della sua presenza sacramentale ed ecclesiale, forma la nostra mente, fortifica la volontà, purifica i sentimenti e così difende e salva da tante dolorose e drammatiche esperienze;
– il pastore offre perfino la vita per le pecore: Gesù ha realizzato il progetto dell’amore divino mediante la sua morte in croce! egli si è offerto in croce per redimere l’uomo, ogni singolo uomo, creato dall’amore per l’eternità dell’Amore;
– il pastore infine sente il desiderio di ampliare il suo gregge: Gesù afferma chiaramente la sua ansia universale: “E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo ovile e un solo pastore” (Gv 10,16). Gesù vuole che tutti gli uomini lo conoscano, lo amino, lo seguano.
2. Gesù ha voluto nella Chiesa il sacerdote come “Buon Pastore”.
La parrocchia è la comunità cristiana, illuminata dall’esempio del Buon Pastore, attorno al proprio parroco e ai sacerdoti collaboratori.
Nella parrocchia il sacerdote continua la missione e il compito di Gesù; e perciò deve “pascere il gregge”, deve insegnare, istruire, dare la grazia, difendere le anime dall’errore e dal male, consolare, aiutare, convertire e soprattutto amare.
Perciò, con tutta l’ansia del mio cuore di Pastore della Chiesa universale vi dico: amate i vostri sacerdoti! Stimateli, ascoltateli, seguiteli! Pregate ogni giorno per loro. Non lasciateli soli né all’altare né nella vita quotidiana!
E non cessate mai di pregare per le vocazioni sacerdotali e per la perseveranza nell’impegno della consacrazione al Signore e alle anime. Ma soprattutto create nelle vostre famiglie un’atmosfera adatta allo sbocciare delle vocazioni. E voi genitori siate generosi nel corrispondere ai disegni di Dio sui vostri figli.
3. Infine, Gesù vuole che ognuno sia “buon pastore”.
Ogni cristiano, in forza del battesimo, è chiamato ad essere lui stesso un “buon pastore” nell’ambiente in cui vive. Voi genitori dovete esercitare le funzioni del Buon Pastore verso i vostri figli e anche voi, figli, dovete essere di edificazione con il vostro amore, la vostra obbedienza e soprattutto con la vostra fede coraggiosa e coerente. Anche le reciproche relazioni tra i coniugi devono essere improntate all’esempio del Buon Pastore, affinché sempre la vita familiare sia a quell’altezza di sentimenti e di ideali voluti dal Creatore, per cui la famiglia è stata definita “chiesa domestica”. Così pure nella scuola, sul lavoro, nei luoghi del gioco e del tempo libero, negli ospedali e dove si soffre, sempre ognuno cerchi di essere “buon pastore” come Gesù. Ma soprattutto siano “buoni pastori” nella società le persone consacrate a Dio: i religiosi, le suore, coloro che appartengono agli Istituti Secolari.Oggi e sempre dobbiamo pregare per tutte le vocazioni religiose, maschili e femminili, perché nella Chiesa questa testimonianza della vita religiosa sia sempre più numerosa, sempre più viva, sempre più intensa e sempre più efficace. Il mondo oggi ha più che mai bisogno di testimoni convinti e totalmente consacrati!
Carissimi fedeli, termino ricordando l’accorata invocazione di Gesù buon Pastore: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate il padrone della messe, affinché mandi molti operai alla sua messe” (Mt 9,37; Lc 10,2).
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 6 maggio 1979]
Nel Vangelo di oggi (cfr Gv 10,27-30) Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca. «Le mie pecore – dice – ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute» (vv. 27-28). Leggendo attentamente questa frase, vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce.
Il Buon Pastore – Gesù – è attento a ciascuno di noi, ci cerca e ci ama, rivolgendoci la sua parola, conoscendo in profondità i nostri cuori, i nostri desideri e le nostre speranze, come anche i nostri fallimenti e le nostre delusioni. Ci accoglie e ci ama così come siamo, con i nostri pregi e i nostri difetti. Per ciascuno di noi Egli “dà la vita eterna”: ci offre cioè la possibilità di vivere una vita piena, senza fine. Inoltre, ci custodisce e ci guida con amore, aiutandoci ad attraversare i sentieri impervi e le strade talvolta rischiose che si presentano nel cammino della vita.
Ai verbi e ai gesti che descrivono il modo in cui Gesù, il Buon Pastore, si relaziona con noi, fanno riscontro i verbi che riguardano le pecore, cioè noi: «ascoltano la mia voce», «mi seguono». Sono azioni che mostrano in che modo noi dobbiamo corrispondere agli atteggiamenti teneri e premurosi del Signore. Ascoltare e riconoscere la sua voce, infatti, implica intimità con Lui, che si consolida nella preghiera, nell’incontro cuore a cuore con il divino Maestro e Pastore delle nostre anime. Questa intimità con Gesù, questo essere aperto, parlare con Gesù, rafforza in noi il desiderio di seguirlo, uscendo dal labirinto dei percorsi sbagliati, abbandonando i comportamenti egoistici, per incamminarci sulle strade nuove della fraternità e del dono di noi stessi, ad imitazione di Lui.
Non dimentichiamo che Gesù è l’unico Pastore che ci parla, ci conosce, ci dà la vita eterna e ci custodisce. Noi siamo l’unico gregge e dobbiamo solo sforzarci di ascoltare la sua voce, mentre con amore Egli scruta la sincerità dei nostri cuori. E da questa continua intimità con il nostro Pastore, da questo colloquio con Lui, scaturisce la gioia di seguirlo lasciandoci condurre alla pienezza della vita eterna.
Ci rivolgiamo ora a Maria, Madre di Cristo Buon Pastore. Lei, che ha risposto prontamente alla chiamata di Dio, aiuti in particolare quanti sono chiamati al sacerdozio e alla vita consacrata ad accogliere con gioia e disponibilità l’invito di Cristo ad essere suoi più diretti collaboratori nell’annuncio del Vangelo e nel servizio del Regno di Dio in questo nostro tempo.
[Papa Francesco, Regina Coeli 12 maggio 2019]
«Da Chi andremo?». La Fede, segno critico (non attenuato)
(Gv 6,60-69)
Un Dio a nostro livello? «Questo Logos è sclerotico» (v.60) - come dire: immaginare che l’Altissimo si accomuni ai ‘minimi’ in tutto è posizione incomprensibile e offensiva.
Può l’Eterno riconoscersi in un semplice figlio d’uomo?
Come nel suo ministero in Giudea, l’ultima attività di Gesù in Galilea termina con un insuccesso (v.66).
Anche i discepoli che gustano la nuova Parola restano delusi.
Molti del popolo lo cercavano come facitore di miracoli - continuando ad accontentarsi dei punti di riferimento dominanti, del medesimo pane materiale di sempre.
Cristo non è per il continuare ad adeguarsi, ma per un Nutrimento consistente. Ecco la crisi: essa non manca quando si è posti di fronte a scelte serie.
Il Maestro aveva una chiave di lettura diversa. E il dramma nuziale non si poteva risolvere in comode parentesi.
Proposte quali la comunione dei beni, la scelta dell’ultimo posto, il benvenuto concesso non solo ai vicini del clan e così via, ribaltano l’idea di grandezza e fallimento.
L’interrogativo inquieta: «Ma volete andarvene anche voi?» (v.67).
Pietro risponde al plurale, esprimendo la Fede del piccolo gruppo che si azzarda, senza troppe chiavi di circostanza - e che può essere nostra.
La crisi di Galilea non è un pallido ricordo storico, ma uno spartiacque al centro del quale siamo tutti - ogni giorno. Un evento persistente, che ci divide dai facili entusiasmi, ma conduce il viaggio autentico.
Accogliere questa sfida conclusiva, muta le frontiere del mondo ristretto che aggroviglia l’anima, quindi il corso dell’esistenza… anche quella ambiziosa dei discepoli che forse non volevano i disagi d’un altro ‘regno’.
Le fila si assottigliano, le scelte non sono più scontate, le voci sono tante [e pure le mezze misure]. Il posto sicuro d’un tempo è insidiato.
Conviene essere coerenti? Non è meglio adeguarsi a rapporti di forza o mode?
La Fede unisce al Signore, l’ascolto dona la giusta posizione, e nell’Eucaristia si produce l’intreccio delle nature, umana e divina.
Le aspirazioni profonde guidano oltre i calcoli e l’ordine naturale. In noi, l’incarnazione e l’azione dell’unica Guida di cui ci si può fidare, continua.
La purezza della verità non s’infrange, anzi si riversa.
Dinanzi agli stenti nel deserto, il popolo aveva dubitato della presenza divina [«in mezzo a noi»].
Lo stesso capitava nelle comunità giovannee di fine primo secolo, che si interrogavano sulla Presenza del Risorto nello ‘spezzare il pane’.
Alcuni avevano abbandonato la chiesa per tornare alle «cipolle d’Egitto».
D’altro canto, nella zona di Efeso non mancavano benessere e attrattive - garantite e sacralizzate dalla religiosità pagana.
La stessa vita devota polarizzata intorno all’indotto economico del Tempio di Artemide - trasformato in una delle maggiori banche dell’oriente antico - garantiva una spensieratezza e una qualità di vita ben più “solida” e appariscente dell’umile segno Eucaristico.
Cosa potevano valere quelle briciole a confronto di una delle sette Meraviglie del mondo antico?
Con Gesù rimane solo un gruppetto sparuto, che però è più intimo - e si fa la domanda giusta:
È dignitoso anche non essere primi della classe, e “vincenti”?
Chi… sa valorizzare la storia, e ogni percorso, perfino le defezioni?
Quale Persona non ci costringe a essere unilaterali?
[Sabato 3.a sett. di Pasqua, 10 maggio 2025]
Da Chi andremo?». La Fede, segno critico (non attenuato)
(Gv 6,60-69)
Un Dio a nostro livello? «Questo Logos è sclerotico» (v.60) - come dire: immaginare che l’Altissimo si accomuni ai minimi in tutto è posizione incomprensibile e offensiva.
Può l’Eterno riconoscersi in un semplice figlio d’uomo - addirittura sovversivo e fuori del giro - estraneo a circuiti assodati?
Come nel suo ministero in Giudea, l’ultima attività di Gesù in Galilea termina con un insuccesso (v.66).
L’esperienza pia ufficiale procedeva in superficie - centrata sulla visibilità degli eventi e del giudizio d’élite, poi su una realtà succube.
Anche i discepoli che gustano la nuova Parola restano delusi dal Maestro, che sostituisce il Padre alla tradizione dei “padri”.
Molti del popolo lo cercavano come facitore di miracoli - continuando ad accontentarsi della struttura religiosa, dei punti di riferimento dominanti, del medesimo pane materiale di sempre (e così via).
Cristo non è per il continuare ad adeguarsi, ma per un nutrimento consistente. Ecco la crisi: essa non manca quando si è posti di fronte a scelte serie.
A loro uso e consumo, le guide propalavano idoli morti, i quali blandivano idee grette (e interessi immediati) - e non spaventavano nessuno che lo meritasse.
Invece il Signore superava le esigenze e gli orizzonti della normalità. Aveva una chiave di lettura diversa.
Il dramma nuziale non si poteva risolvere in comode parentesi, come nelle devozioni conformiste: che alla fine non compromettono nulla [come nell’idea poi trasformatasi in bigotta di “cibo degli angeli”].
Proposte quali la comunione dei beni, la scelta dell’ultimo posto, il benvenuto concesso non solo ai vicini del clan e così via, ribaltano l’idea di grandezza e fallimento.
Per lasciarsi coinvolgere, i discepoli avrebbero dovuto essere pronti ad abbracciare la Vita nello Spirito.
Territorio impervio... ma non ci si può mettere d’accordo con tutto: patteggiamenti, negoziazioni, calcoli e apparati hanno fatto il loro tempo. Nella crisi globale di oggi l’aut aut è incalzante.
L’interrogativo inquieta: «Ma volete andarvene anche voi?» (v.67).
Pietro risponde al plurale, esprimendo la Fede del piccolo gruppo che si azzarda - e che può essere nostra, allorché si permanga slegati da dissociazioni di vita, o verifiche e parossismo di “visioni del mondo”.
La crisi di Galilea non è un pallido ricordo storico, ma uno spartiacque al centro del quale siamo tutti - ogni giorno. Un evento persistente, che ci divide dai facili entusiasmi - ma conduce il viaggio autentico.
Accogliere questa sfida conclusiva, muta le frontiere del mondo ristretto che aggroviglia l’anima, quindi il corso dell’esistenza… anche quella ambiziosa dei discepoli che forse non volevano i disagi d’un altro regno.
In specie nel mondo (anche sacrale) dell’esteriorità e delle grida, il dilemma è vivo: quello della via personale compiuta, perfetta; che va nella direzione dell’energia intima, non delle chiavi di circostanza.
Opposizione sorda dei capi, mormorazione interessata di molti seguaci: la scelta di attingere a un’altra Vita dev’essere perentoria.
Le fila si assottigliano, le scelte non sono più scontate, le voci sono tante (e pure le mezze misure). Il posto sicuro d’un tempo è insidiato.
Conviene essere coerenti? Non è meglio adeguarsi a rapporti di forza o mode?
La Fede unisce al Signore, l’ascolto dona la giusta posizione, e nell’Eucaristia si produce l’intreccio delle nature, umana e divina.
Le aspirazioni profonde guidano oltre i calcoli e l’ordine naturale.
In noi, l’incarnazione e l’azione dell’unica Guida di cui ci si può fidare, continua.
La purezza della verità non s’infrange, anzi si riversa.
Dinanzi agli stenti nel deserto, il popolo aveva dubitato della presenza divina («in mezzo a noi»).
Lo stesso capitava nelle comunità giovannee di fine primo secolo, che si interrogavano sulla Presenza del Risorto nello spezzare il pane.
Alcuni avevano abbandonato la chiesa per tornare alle «cipolle d’Egitto». D’altro canto, nella zona di Efeso non mancavano benessere e attrattive - garantite e sacralizzate dalla religiosità pagana.
La stessa vita devota polarizzata intorno all’indotto del Tempio di Artemide - trasformato in una delle maggiori banche dell’oriente antico - garantiva una spensieratezza e una qualità di vita ben più “solida” e appariscente dell’umile segno Eucaristico.
Cosa potevano valere quelle briciole a confronto di una delle sette Meraviglie del mondo antico?
E poi godere di stare attorniati da tanta gente “a modo” intorno, quindi ben inseriti in pubbliche e private relazioni - nonché aderire a proposte appetibili sotto ogni punto di vista, non ultimo il guadagno [ovvero il discredito: cf. gli argentieri efesini di ninnoli; orefici e artigiani indignati con Paolo: At 19,23ss].
Con Gesù rimane solo un gruppetto sparuto, che però è più intimo - e si fa la domanda giusta:
È dignitoso anche non essere primi della classe, e “vincenti”?
Chi sa valorizzare la storia, e ogni percorso, perfino le defezioni?
Quale Persona non ci costringe a essere unilaterali?
L’epilogo di Gv 6 non richiama una disciplina di proposte spirituali estrinseche.
Neppure narra (come tipico nell’Oriente antico) di talismani o mitiche piante «che rendono giovane il vecchio», né d’un «sacro fuoco degli dei».
Gesù infatti non propugna le ardue scalate delle religioni, ma l’umanizzazione... che avvicina. Adesione concreta.
Una esistenza da salvati sorvola qualsiasi idea di sequele naturalistiche esprimibili con antichi simboli o metafore.
Così ad es. le icone esteriori della “Pianta” o del “Fuoco” che alludevano alla vita immortale e al divino, vengono scalfite del tutto e sostituite addirittura da «carne» e «sangue».
Il loro contrario, ma: il carattere degli agnelli.
L’esperienza della divinizzazione non può ignorare la dimensione Fede-relazione pasquale, che c’innalza solo nella libertà di “scendere”.
Nei tempi di svago e armonia, rimaniamo sempre sorpresi dal notare che il nostro nucleo più intimo pretende un diverso Riposo.
Intuiamo che la Pace bramata non è questione di luogo, spiagge esclusive o panorami; né di calcoli geniali, ipotesi, visioni del mondo sofisticate o situazioni ideali, bensì d’una Persona giusta.
Ma se oggi ci si sente in bilico in ogni decisione e in qualsiasi istante, «di Chi ci si può fidare» sempre?
Ogni giorno abbiamo bisogno di un Tu che incoraggia e rinfranca, facendoci sentire protagonisti e collaboratori, non riserve o panchinari.
Mai sarà il Dharma a convincerci sul serio, né un Libro… il motore d’una conversione (a meno che non sia aperto a colpi di lancia).
È unicamente un’esperienza che non inchioda nella solitudine, a cambiarci da credenti tiepidi a testimoni critici.
Sentiamo urgenza di uno scopo d’amore, altrimenti nulla ha senso; neppure il successo.
In me colgo distintamente l’inclinazione a concedere fiducia solo a Chi sento nella necessità, o in rapporto almeno un poco reciproco; in un sentimento che almeno interiormente qualifica.
Una Persona che mi aiuti a conciliarmi anzitutto coi miei limiti; non per sentirmi accettato in generale, ma capito e accolto entro una vicenda configurata, di reale perdono o riscatto. O almeno relazione.
Non mi basta Qualcosa di valido: ho bisogno di Qualcuno che mi liberi da angusti orizzonti, da condizionamenti che tolgono il respiro, da potenze interne che pretendono, da idoli sociali esterni che soffocano l’identità, facendo sminuire il motivo per cui sono nato.
Ho bisogno d’incoraggiamento quando mi disistimo, e allora sento necessità di mani materne che accolgano, di mani paterne che rassicurino; di un testimone, di uno sguardo.
Sento impellenza di un Tu che mi palesi il Bene sul quale iniziare o ricominciare; ho premura di un Interlocutore che mi faccia capire che c’è un futuro, perfino in condizioni avverse - e a qualsiasi età.
Non interessa la perfezione di facciata: ho fame di una Persona che non tradisca, che non mi lasci cadere sul più bello, sino a lambire la polvere.
Cerco un’Amicizia che non si faccia beffe e non calpesti. E che non sia “ogni tanto”: che si accorga, sappia sanare, mi comprenda e faccia respirare, poi rialzare il capo e rimetta in carreggiata… sino a quando anch’io sarò in grado di trainare sorelle e fratelli alla crescita.
Invece del tuono e lampo del Sinai, che sovrasta e respinge, chiedo una sintonia a mio livello, che conceda di sublimare le situazioni in preziosa corrispondenza ed empatia.
Allora sì: l’aspetto personale della missione-rapporto col mondo si manifesta, intensa; decisiva.
Il contatto non spersonalizzante con la Voce del Padre fattasi Fratello convince, nel dramma e persino nello scontro del rapporto a Tu per tu.
L’unica Persona non lontana e indistinta che sa dove condurmi e pulsa dentro trasmette quel senso di partecipazione e complicità che rende l’anima così misteriosamente sicura delle sue inclinazioni più palpitanti. Così infine trasformare una vita conformista e intimidita in avventura densa, completa e splendente - da surclassare ostacoli, mentalità e condizionamenti che la farebbero impallidire sino a spegnerla.
Abbiamo bisogno di una Presenza che nella gioia dello stare Insieme apra, inviti, doni gusto; frantumi la tensione del meritare e adempiere prestazioni attese.
Una Persona che ci conceda di sentirsi ascoltati, compresi e curati, e che nel tepore di questo Nido faccia di noi stessi un segno umano con uno Scopo d’Amore.
Urge Qualcuno che trasformi il senso delle azioni d’ogni giorno, anche minute o apparentemente banali, in intimità e Dialogo.
Un Nucleo di Condivisione dove si trovi sostegno - non sentenze - al nostro incessante trasmigrare: dalle spiritualizzazioni che “innalzano” all’umanizzazione che avvicina.
E ci stabilisca in radice. E trasmetta sorriso all’anima.
Dal senso religioso antico alla Fedenovella? Questione di Persona.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Il solito e a portata di mano, o il meglio e che ti corrisponde?
Cosa e Chi scegli?
Vedi in profondità? Scegli oltre i confini?
«Abbiamo creduto e poi conosciuto»
Su questo passo abbiamo un bellissimo commento di Sant’Agostino, che dice, in una sua predica su Giovanni 6: «Vedete come Pietro, per grazia di Dio, per ispirazione dello Spirito Santo, ha capito? Perché ha capito? Perché ha creduto. Tu hai parole di vita eterna. Tu ci dai la vita eterna offrendoci il tuo corpo [risorto] e il tuo sangue [Te stesso]. E noi abbiamo creduto e conosciuto. Non dice: abbiamo conosciuto e poi creduto, ma abbiamo creduto e poi conosciuto. Abbiamo creduto per poter conoscere; se, infatti, avessimo voluto conoscere prima di credere, non saremmo riusciti né a conoscere né a credere. Che cosa abbiamo creduto e che cosa abbiamo conosciuto? Che tu sei il Cristo Figlio di Dio, cioè che tu sei la stessa vita eterna, e nella carne e nel sangue ci dai ciò che tu stesso sei» (Commento al Vangelo di Giovanni, 27, 9). Così ha detto sant’Agostino in una predica ai suoi credenti.
(Papa Benedetto, Angelus 26 agosto 2012)
Nelle scorse domeniche abbiamo meditato il discorso sul «pane della vita», che Gesù pronunciò nella sinagoga di Cafarnao dopo aver sfamato migliaia di persone con cinque pani e due pesci. Oggi, il Vangelo presenta la reazione dei discepoli a quel discorso, una reazione che fu Cristo stesso, consapevolmente, a provocare. Anzitutto, l’evangelista Giovanni – che era presente insieme agli altri Apostoli – riferisce che «da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui» (Gv 6,66). Perché? Perché non credettero alle parole di Gesù che diceva: Io sono il pane vivo disceso dal cielo, chi mangia la mia carne e beve il mio sangue vivrà in eterno (cfr Gv 6,51.54); veramente parole in questo momento difficilmente accettabili, comprensibili. Questa rivelazione - come ho detto - rimaneva per loro incomprensibile, perché la intendevano in senso materiale, mentre in quelle parole era preannunciato il mistero pasquale di Gesù, in cui Egli avrebbe donato se stesso per la salvezza del mondo: la nuova presenza nella Sacra Eucaristia.
Vedendo che molti dei suoi discepoli se ne andavano, Gesù si rivolse agli Apostoli dicendo: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67). Come in altri casi, è Pietro a rispondere a nome dei Dodici: «Signore, da chi andremo? - Anche noi possiamo riflettere: da chi andremo? - Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69). Su questo passo abbiamo un bellissimo commento di Sant’Agostino, che dice, in una sua predica su Giovanni 6: «Vedete come Pietro, per grazia di Dio, per ispirazione dello Spirito Santo, ha capito? Perché ha capito? Perché ha creduto. Tu hai parole di vita eterna. Tu ci dai la vita eterna offrendoci il tuo corpo [risorto] e il tuo sangue [Te stesso]. E noi abbiamo creduto e conosciuto. Non dice: abbiamo conosciuto e poi creduto, ma abbiamo creduto e poi conosciuto. Abbiamo creduto per poter conoscere; se, infatti, avessimo voluto conoscere prima di credere, non saremmo riusciti né a conoscere né a credere. Che cosa abbiamo creduto e che cosa abbiamo conosciuto? Che tu sei il Cristo Figlio di Dio, cioè che tu sei la stessa vita eterna, e nella carne e nel sangue ci dai ciò che tu stesso sei» (Commento al Vangelo di Giovanni, 27, 9). Così ha detto sant’Agostino in una predica ai suoi credenti.
Infine, Gesù sapeva che anche tra i dodici Apostoli c’era uno che non credeva: Giuda. Anche Giuda avrebbe potuto andarsene, come fecero molti discepoli; anzi, avrebbe forse dovuto andarsene, se fosse stato onesto. Invece rimase con Gesù. Rimase non per fede, non per amore, ma con il segreto proposito di vendicarsi del Maestro. Perché? Perché Giuda si sentiva tradito da Gesù, e decise che a sua volta lo avrebbe tradito. Giuda era uno zelota, e voleva un Messia vincente, che guidasse una rivolta contro i Romani. Gesù aveva deluso queste attese. Il problema è che Giuda non se ne andò, e la sua colpa più grave fu la falsità, che è il marchio del diavolo. Per questo Gesù disse ai Dodici: «Uno di voi è un diavolo!» (Gv 6,70). Preghiamo la Vergine Maria, che ci aiuti a credere in Gesù, come san Pietro, e ad essere sempre sinceri con Lui e con tutti.
[Papa Benedetto, Angelus 26 agosto 2012]
Jesus, Good Shepherd and door of the sheep, is a leader whose authority is expressed in service, a leader who, in order to command, gives his life and does not ask others to sacrifice theirs. One can trust in a leader like this (Pope Francis)
Gesù, pastore buono e porta delle pecore, è un capo la cui autorità si esprime nel servizio, un capo che per comandare dona la vita e non chiede ad altri di sacrificarla. Di un capo così ci si può fidare (Papa Francesco)
In today’s Gospel passage (cf. Jn 10:27-30) Jesus is presented to us as the true Shepherd of the People of God. He speaks about the relationship that binds him to the sheep of the flock, namely, to his disciples, and he emphasizes the fact that it is a relationship of mutual recognition […] we see that Jesus’ work is explained in several actions: Jesus speaks; Jesus knows; Jesus gives eternal life; Jesus safeguards (Pope Francis)
Nel Vangelo di oggi (cfr Gv 10,27-30) Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca […] vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce (Papa Francesco)
To enter into communion with God, before observing the laws or satisfying religious precepts, it is necessary to live out a real and concrete relationship with him […] And this “scandalousness” is well represented by the sacrament of the Eucharist: what sense can there be, in the eyes of the world, in kneeling before a piece of bread? Why on earth should someone be nourished assiduously with this bread? The world is scandalized (Pope Francis)
Per entrare in comunione con Dio, prima di osservare delle leggi o soddisfare dei precetti religiosi, occorre vivere una relazione reale e concreta con Lui […] E questa “scandalosità” è ben rappresentata dal sacramento dell’Eucaristia: che senso può avere, agli occhi del mondo, inginocchiarsi davanti a un pezzo di pane? Perché mai nutrirsi assiduamente di questo pane? Il mondo si scandalizza (Papa Francesco)
What is meant by “eat the flesh and drink the blood” of Jesus? Is it just an image, a figure of speech, a symbol, or does it indicate something real? (Pope Francis)
Che significa “mangiare la carne e bere il sangue” di Gesù?, è solo un’immagine, un modo di dire, un simbolo, o indica qualcosa di reale? (Papa Francesco)
What does bread of life mean? We need bread to live. Those who are hungry do not ask for refined and expensive food, they ask for bread. Those who are unemployed do not ask for enormous wages, but the “bread” of employment. Jesus reveals himself as bread, that is, the essential, what is necessary for everyday life; without Him it does not work (Pope Francis)
Che cosa significa pane della vita? Per vivere c’è bisogno di pane. Chi ha fame non chiede cibi raffinati e costosi, chiede pane. Chi è senza lavoro non chiede stipendi enormi, ma il “pane” di un impiego. Gesù si rivela come il pane, cioè l’essenziale, il necessario per la vita di ogni giorno, senza di Lui la cosa non funziona (Papa Francesco)
In addition to physical hunger man carries within him another hunger — all of us have this hunger — a more important hunger, which cannot be satisfied with ordinary food. It is a hunger for life, a hunger for eternity which He alone can satisfy, as he is «the bread of life» (Pope Francis)
Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame – tutti noi abbiamo questa fame – una fame più importante, che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che Lui solo può appagare, in quanto è «il pane della vita» (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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