Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
2a Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [19 gennaio 2025]
*Prima Lettura dal libro del profeta isaia (62,1-5)
Quanta tenerezza mostra Dio verso il popolo d’Israele che poteva davvero sentirsi abbandonato, soprattutto nel contesto del ritorno dall’esilio! Infatti, pur tornati da Babilonia nel 538 a.C., il Tempio fu ricostruito solo a partire dal 521 e in questo periodo di attesa si insinuò un senso di abbandono. Per contrastare questa disperazione, Isaia, ispirato da Dio, scrive questo splendido testo per proclamare che Dio non ha dimenticato il suo popolo né la sua città prediletta. E presto tutti lo sapranno! “Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te”. Il profeta Isaia non manca certo di audacia! Per ben due volte, in questi pochi versetti appare il desiderio amoroso come espressione dei sentimenti di Dio verso il suo popolo. L’amore divino emerge in queste coraggiose espressioni: “Non ti chiameranno più ‘abbandonata’, né la tua terra sarà chiamata ‘devastata’, ma ti chiameranno ‘mia desiderata’ (letteralmente: il mio desiderio è in te), e la tua terra sarà chiamata ‘sposata cioè sposa mia’, perché il Signore trova in te la sua delizia (meglio il suo desiderio d’amore) e la tua terra avrà uno sposo.” Qui c’è una vera e propria dichiarazione d’amore! Neppure uno sposo direbbe di più alla sua amata: sarai la mia sposa… Sarai bella come una corona, come un diadema d’oro nelle mie mani… sarai la mia gioia. Come non essere colpiti dalla bellezza del vocabolario e dalla poesia che traspare da questo testo? Vi troviamo il parallelismo delle frasi, così caratteristico dei Salmi: “Per amore di Sion non tacerò, / per amore di Gerusalemme non mi darò pace… Sarai una corona splendente nella mano del Signore/ un diadema regale tra le dita del tuo Dio… Ti chiameranno ‘Mia Preferita’, e la tua terra sarà detta ‘Sposata’. Perché il Signore ti ha scelta, / e la tua terra avrà uno sposo”.
Questo testo si potrebbe chiamare il “poema d’amore di Dio” e il profeta Isaia esercita il ministero profetico fra il 740 a.C. e il 701 a.C durante il regno di vari re di Giuda tra cui Ozia, Iotam, Acaz, Ezechia in un periodo di grandi cambiamenti politici e minacce soprattutto a causa dell’espansione del ‘impero degli Assiri. Isaia è stato il primo ad avere l’audacia di usare un tale linguaggio. Anche se Dio ama l’umanità di un amore così grande, ciò era vero fin dall’origine, tuttavia l’umanità non era pronta a comprenderlo. La rivelazione di Dio come sposo, così come quella di Dio-Padre, è stata possibile solo dopo diversi secoli di storia biblica. All’inizio dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo, questa nozione sarebbe stata ambigua. Gli altri popoli concepivano troppo facilmente i loro dèi a immagine degli uomini e delle loro vicende familiari. In una prima fase della rivelazione bisognava piuttosto scoprire il Dio unico totalmente Altro rispetto all’uomo e accogliere la sua Alleanza. Fu dunque il profeta Osea, il primo a paragonare il popolo di Israele a una sposa. Definiva “adultèri” le infedeltà del popolo, cioè le sue ricadute nell’idolatria. Dopo di lui, Geremia, Ezechiele, il Secondo Isaia e il Terzo Isaia (autore del testo che leggiamo oggi) svilupparono il tema delle nozze tra Dio e il suo popolo; nei loro scritti troviamo tutto il vocabolario degli sponsali: i nomi affettuosi, la veste nuziale, la corona della sposa, la fedeltà, ma anche la gelosia, l’adulterio.
Ecco qualche esempio: Osea scrive: “Mi chiamerai ‘mio sposo’… Ti farò mia sposa per sempre… nella giustizia e nel diritto, nella fedeltà e nella tenerezza” (2,18.21). Nel secondo Isaia leggiamo: “Il tuo sposo è colui che ti ha creata… Si può forse rifiutare la donna della propria giovinezza? Nella mia fedeltà eterna ti mostro la mia tenerezza.» (Is 54, 5…8). Il testo più impressionante su questo tema è sicuramente il Cantico dei Cantici: si presenta come un lungo dialogo amoroso, composto da sette poemi. A dire il vero, in nessun punto i due innamorati sono identificati, ma la tradizione ebraica lo interpreta come una parabola dell’amore di Dio per l’umanità. La prova è che questo testo viene proclamato durante la celebrazione della Pasqua, la grande festa dell’Alleanza di Dio con il suo popolo e, attraverso esso, con tutta l’umanità. Nel brano odierno, uno dei passatempi preferiti dello sposo sembra essere dare nuovi nomi alla sua amata. Sapete quanto sia importante il nome nelle relazioni umane: ciò a cui non posso o non so dare il nome non esiste per me. Dare il nome a qualcuno significa già conoscerlo; e quando il rapporto con una persona si approfondisce, non è raro sentire il bisogno di darle un soprannome. Nella vita di coppia o in famiglia, diminutivi e soprannomi hanno un ruolo importante. Anche la Bibbia riflette questa esperienza fondamentale della vita umana; il nome ha un’importanza enorme, perché rivela il mistero della persona, la sua essenza profonda, la sua vocazione e missione. Spesso viene spiegato il significato del nome dei personaggi principali: ad esempio, l’angelo annuncia che il nome di Gesù significa “Dio salva”, indicando che quel bambino salverà l’umanità in nome di Dio. A volte Dio cambia il nome di qualcuno nel momento in cui gli affida una nuova missione: Abram diventa Abramo, Sarai diventa Sara, Giacobbe diventa Israele e Simone diventa Pietro. Nel testo di oggi, dunque, è Dio a dare nuovi nomi a Gerusalemme: da “abbandonata” diventa “mia gioia”, da “terra devastata” diventa “sposata”.
*Salmo Responsoriale (dal Sal 95/96, 1-2a, 2b-3. 7-8a, 9a-10)
Questo salmo invita a contemplare la gloria di Dio: la sua salvezza, le sue meraviglie, la sua potenza. “Cantate al Signore un canto nuovo… cantate al Signore, benedite il suo nome””. Nulla di sorprendente: in Israele, infatti, è abitudine costante ricordare l’opera di Dio lungo i secoli per liberare il suo popolo da tutto ciò che ostacola la sua felicità. Di giorno in giorno Israele proclama la sua salvezza… di giorno in giorno Israele fa memoria delle opere di Dio, delle sue meraviglie, ovvero della sua incessante azione di liberazione… di giorno in giorno Israele testimonia che Dio lo ha liberato dall’Egitto prima e poi da ogni forma di schiavitù. E la più terribile di tutte le schiavitù è sbagliarsi su chi sia Dio, riporre la propria fiducia in falsi valori, in falsi dèi che possono solo deludere, in idoli. Israele ha il privilegio immenso, l’onore straordinario, la gioia di sapere e proclamare che “il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno” (come afferma la professione di fede ebraica, lo Shema Israel). E la fede in Lui è l’unica via di felicità per l’uomo. Questo è il messaggio che Israele trasmette al mondo: “Dite tra le genti: Il Signore regna!”
Riprendiamo l’espressione: “Dite alle genti”. Nel linguaggio biblico, le nazioni o le genti indicano tutti i popoli diversi da Israele, i cosiddetti goyîm, ossia il resto dell’umanità, i non circoncisi, come dice san Paolo. Nei testi biblici, il termine goyîm assume significati diversi, a volte persino contraddittori. Talvolta ha un’accezione decisamente negativa: ad esempio, il libro del Deuteronomio parla delle “abominazioni delle genti” e questa condanna si riferisce al loro politeismo, alle loro pratiche religiose in generale e, in particolare, ai sacrifici umani. Il popolo eletto deve restare fedele a Dio senza compromessi, scoprendo il vero volto dell’unico Dio. Per questo nella prima fase della rivelazione, è necessario evitare ogni contatto con le genti o nazioni, percepite come un rischio di contagio idolatrico. La storia di Israele dimostra quanto più volte sia stato reale questo rischio! Inoltre, nella mentalità dell’epoca, dove le divinità erano viste come alleate nei conflitti, era inconcepibile immaginare un Dio che parteggiasse per tutti i popoli contemporaneamente. In questo salmo, però, si badi bene che il termine “ genti” non è più negativo: le “genti” sono tutti coloro che non appartengono al popolo di Israele, ma che sono comunque destinatari della salvezza di Dio, esattamente come il popolo eletto. Questo salmo, quindi, è stato composto in epoca relativamente tarda, probabilmente dopo l’esilio a Babilonia, quando Israele iniziava a comprendere che il Dio unico è il Dio di tutto l’universo e di tutta l’umanità, e che la sua salvezza non è riservata a Israele.
“Annunciate… a tutti i popoli dite le sue meraviglie”. Per arrivare a questa comprensione, Dio ha guidato il popolo eletto attraverso un lungo e paziente percorso pedagogico. Israele ha gradualmente aperto il cuore, accettando che il suo Dio fosse anche il Dio di tutti gli uomini, impegnato nella ricerca della felicità di tutti, non solo della propria. Il popolo eletto ha compreso di essere il fratello maggiore, non il figlio unico: la sua vocazione è quella di aprire la strada agli altri popoli nella lunga marcia dell’umanità verso Dio. E arriverà il giorno in cui tutti i popoli, senza eccezione, riconosceranno Dio come unico Dio. Allora, l’intera umanità riporrà la propria fiducia solo in Lui. Il salmo esprime questa speranza universale: “Date al Signore, o famiglie dei popoli, date al Signore gloria e potenza, date al Signore la gloria del suo nome”.
Gli ultimi versetti del salmo, che questa domenica non leggiamo, offrono una sorta di anticipazione della fine dei tempi perché arriverà il giorno nel quale tutta la creazione celebrerà la gloria di Dio: “Gioisca il cielo! Esulti la terra! Le onde del mare fremano, / i campi siano in festa e gli alberi della foresta danzino di gioia davanti al Signore”. Quel giorno vedremo danzare persino gli alberi! Il presente però non è facile. Occorre perseverare nella fede e testimoniare la propria fede davanti alle genti/ nazioni e la lotta contro l’idolatria, contro i falsi dèi, non è mai del tutto vinta. Quanto attuale è questo salmo!
*Seconda Lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 12,4-1)
Questa lettera ai Corinzi risale a venti secoli fa ma è sorprendentemente attuale. Come restare cristiani in un mondo che ha valori completamente diversi? Come discernere, tra le idee che circolano, quelle compatibili con la fede cristiana? Come convivere con i non cristiani senza venir meno alla carità, ma anche senza perdere la nostra identità? Il mondo attorno a noi parla di sesso e di denaro… Come possiamo evangelizzarlo? Queste erano le domande dei cristiani di Corinto, appena convertiti in un mondo prevalentemente pagano. Son in verità le stesse domande che ci poniamo oggi, noi cristiani in una società che non privilegia più i valori del vangelo e le risposte di Paolo ci riguardano tutte. Egli affronta le divisioni nella comunità, i problemi della vita coniugale specialmente quando i coniugi non condividono la stessa fede, come pure l’urgenza di rimanere saldi di fronte al proliferare di nuove idee ed emergenti nuovi culti religiosi. Nell’ambito di ciascuno di questi temi, Paolo rimette le cose al loro posto. Tuttavia, come sempre, quando tratta argomenti concreti, Paolo ci ricorda prima di tutto dove porre il fondamento, cioè nel Battesimo. Lo aveva già ben preannunciato Giovanni Battista parlando del Battesimo inaugurato da Cristo con il quale veniamo immersi nel fuoco dello Spirito (Mt 3,11), ed è lo Spirito che ora agisce in noi secondo le nostre diversità. Paolo lo ribadisce: “tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole”. A Corinto, come nel resto del mondo ellenistico, si idolatrava l’intelligenza e si ambiva alla saggezza spesso attraverso la filosofia. A coloro che cercavano di giungere alla saggezza tramite il ragionamento rigoroso, Paolo risponde che la vera saggezza, che è l’unica conoscenza che conta, non si raggiunge con discorsi, ma è un dono di Dio data per mezzo dello Spirito. Non c’è pertanto motivo di vantarsene: tutto è dono. La parola “dono” (o il verbo “dare”) compare in questo testo ben sette volte! Anche se tale concetto esiste nella Bibbia, Paolo però riprende ciò che Israele aveva già compreso - ovvero che solo Dio conosce e rivela la vera saggezza - e la sua novità consiste nel parlare dello Spirito come di una Persona. Si distacca così totalmente dalle speculazioni filosofiche dell’epoca: non propone una nuova scuola di filosofia, ma annuncia Qualcuno e i doni distribuiti ai membri della comunità cristiana non riguardano il potere o il sapere, ma una nuova esistenza interiore. In questo passaggio, dove il nome dello Spirito ricorre sette volte, pur rivolto ai Corinzi, non parla di loro, ma esclusivamente dello Spirito all’opera nella comunità cristiana, che con pazienza e costanza orienta tutti verso il Padre (ci ispira a dire «Abba» – Padre) e verso i fratelli. Paolo chiarisce che a ognuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune. I Corinzi, attratti da fenomeni spirituali straordinari, vengono così ricondotti all’essenziale: l’obiettivo è il bene di tutti, perché lo Spirito è l’Amore in persona. Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. Ed allora le nostre diversità ci rendono capaci, ciascuno a suo modo, di manifestare l’unico Amore di Dio. Una delle lezioni di questo testo di Paolo è imparare a gioire delle differenze che rappresentano le molteplici sfaccettature di ciò che l’Amore ci permette di realizzare, rispettando l’unicità di ciascuno. Consideriamo dunque la varietà di razze, lingue, doni, arti, invenzioni… una tale diversità è la ricchezza della Chiesa e del mondo, purché sia vissuta nell’amore. Dio vuole che l’umanità sia come un’orchestra: una stessa ispirazione, espressioni diverse e complementari, strumenti differenti che creano una sinfonia purché tutti suonino nella stessa tonalità; altrimenti, si ha una cacofonia! La sinfonia di cui parla Paolo è il canto d’amore che la Chiesa è chiamata a intonare al mondo. Potremmo definirlo un “inno all’amore”, come esiste l’inno alla gioia o l’inno alla vita di celebri musicisti. La complementarità nella Chiesa non è dunque questione di ruoli o funzioni per strutturarla con un organigramma ben definito. È qualcosa di molto più importante e sublime: la missione affidata alla Chiesa di rivelare l’Amore. Quanto mai opportuna è questo testo di san Paolo in questa settimana di preghiera per l’unità dei cristiani!
*Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 2,1-11)
San Giovanni usa un linguaggio diverso dagli altri evangelisti e occorre imparare a scoprire che le cose importanti vengono spesso dette tra le righe. Per lui, questo primo “segno” (così lo chiama) di Gesù a Cana è di enorme rilevanza: da solo evoca il grande mistero del progetto di Dio sull’umanità, il mistero della nuova creazione, mistero di Alleanza e di Nozze tra Dio e il suo popolo. Il Prologo, ossia l’inizio del primo capitolo del suo vangelo, è una grande meditazione su questo mistero e il racconto del miracolo di Cana in fondo è la stessa meditazione espressa però sotto forma di narrazione. Questi due testi, posti all’inizio del vangelo e riletti in simmetrica contemplazione, ci aiutano a introdurci alla comprensione di tutto ciò che seguirà. Cercheremo dunque di leggere il racconto delle nozze di Cana avendo in mente e nel cuore il Prologo. Sono due testi che “abbracciano” la “settimana inaugurale” della vita pubblica di Gesù. Settimana che inizia con Giovanni Battista sulle rive del Giordano interrogato dai farisei sulla sua missione mentre già annuncia la venuta di Gesù. Il giorno dopo, egli lo vede avvicinarsi e lo riconosce come “il Figlio di Dio, colui che battezza nello Spirito Santo” (Gv 1,33-34). Il giorno successivo (notare la precisione di Giovanni che sembra richiamare il primo capitolo della Genesi dove l’autore sacro ogni volta annota: “fu sera e fu mattina”), altri due discepoli di Giovanni Battista lasciano il suo gruppo per seguire Gesù, che li invita a trascorrere la serata con lui. Il giorno seguente, Gesù parte per la Galilea con alcuni discepoli. In Galilea, tre giorni dopo, si svolge il miracolo di Cana e l’evangelista inizia il racconto dicendo: ”Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea”. Se contiamo i giorni dall’inizio siamo giunti al “settimo giorno” e il riferimento a una settimana o a un “settimo giorno” non può essere casuale perché il “settimo giorno” richiama sempre il compimento della creazione. “Questo fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù”: siamo alla fine del brano e Giovanni annota che fu l’inizio; anche nel Prologo afferma: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”. Siamo qui nel contesto dei sette giorni della creazione, mentre nelle nozze di Cana viene annotata l’ora delle nozze tra Dio e l’umanità mostrando che quest’evento si situa nel settimo giorno della nuova creazione. A Cana Gesù non si limita a moltiplicare il vino, ma lo crea. Come all’inizio di tutte le cose, il Verbo, rivolto verso Dio, aveva creato il mondo, ora inaugura una nuova creazione. E si tratta di nozze! Il parallelismo poi continua: il sesto giorno della Creazione, Dio aveva completato la sua opera creando la coppia umana a sua immagine; il settimo giorno della nuova creazione, Gesù partecipa a un banchetto nuziale ed è un modo per dire che il progetto creatore di Dio è, in definitiva, un progetto di Alleanza, un progetto di Nozze. (Molto probabilmente la prima lettura - Isaia 62 che parla di Israele come «gioia di Dio» e di Dio come sposo del suo popolo- è stata posta proprio in relazione a questa pagina evangelica). I Padri della Chiesa hanno visto nel miracolo di Cana la realizzazione della promessa divina: qui iniziano le nozze di Dio con l’umanità. Ma che significato riveste il termine l’ora? Per Giovanni si tratta d’un termine simbolico di cruciale valore perché si riferisce all’Ora in cui il progetto di Dio si compie in Cristo. Quando Gesù dice a Maria:” Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora” sta pensando alla sua missione più grande: realizzare le nozze tra Dio e l’umanità. La frase (Donna, che vuoi da me?) sorprende e ha generato molte discussioni. In greco, la frase significa “Che c’è tra me e te?”, cioè “tu non puoi comprendere”. Qui Gesù si confronta con il mistero della sua missione: deve compiere un miracolo, creare del vino, e rivelare così la sua natura divina? In questa scena si potrebbe cogliere un’eco delle tentazioni nei Vangeli sinottici: nel deserto, Gesù aveva rifiutato di trasformare le pietre in pane, perché sarebbe stato un miracolo per sé stesso. A Cana, invece, crea il vino per la gioia degli altri. Il Figlio di Dio compie miracoli solo per il bene dell’umanità. C’è poi il riferimento al “terzo giorno” non certamente casuale. Rimanda alla Resurrezione e collega Cana alla Pasqua. È lì, nella morte e resurrezione di Cristo, che l’Alleanza sarà definitivamente sigillata. Quando Giovanni dice: “E manifestò la sua gloria”, allude alla gloria definitiva della Resurrezione. In questa prospettiva, Cana diventa il primo segno visibile della gloria di Cristo, preludio alla gloria piena del Risorto.
Alcune annotazioni finali su un testo che meriterebbe una ben più lunga riflessione
1 - “Il terzo giorno”: da sola, questa precisione è certamente un messaggio; anche in questo caso, non si tratta di una semplice annotazione aneddotica per riempire un diario, ma di una meditazione teologica: la memoria dei discepoli è per sempre segnata da un certo terzo giorno, quello della Risurrezione. Essa ci rimanda dunque all’altra estremità, per così dire, della vita pubblica di Gesù: alla Passione, morte e Risurrezione di Cristo. È un modo per Giovanni di dirci che lì, e solo lì, l’Alleanza di Dio con l’umanità sarà definitivamente sigillata e saranno celebrate le sue nozze con l’umanità. Del resto, l’ultima frase, “Manifestò la sua gloria”, è anche un’allusione alla Risurrezione. Nel Prologo Giovanni diceva: “ Il Verbo si è fatto carne e ha abitato tra noi e noi abbiamo visto la sua gloria”… . È proprio a Cana che i discepoli videro per la prima volta la gloria di Gesù, in attesa della manifestazione definitiva della gloria di Dio sul volto del Cristo, morto e risorto.
2. L’evangelista Giovanni specifica che Cana è in Galilea, il che amplia notevolmente la prospettiva: la Galilea, tradizionalmente, è considerata il paese dei pagani, un crocevia di popoli; Isaia la chiamava “il paese dell’ombra, la Galilea delle genti”. Dio quindi sposa l’intera umanità, non solo alcuni privilegiati.
3. “Donna, che vuoi da me?” Non cerchiamo di minimizzare l’evidente vivacità di questa reazione del Figlio verso sua madre. In ebraico, questa frase generalmente esprime una divergenza di opinioni, a volte persino ostilità (Gdc 11,12; Mc 1,24; 2 Sam 16,10; 2 Sam 19,23); riconosciamo però che si tratta di casi estremi. La riflessione di Gesù potrebbe somigliare di più a quella della vedova di Sarepta nei confronti di Elia al momento della morte di suo figlio (1 Re 17,18): ella considera la presenza del profeta come un intervento inopportuno. Tuttavia, la difficoltà rimane: Gesù, mite e umile di cuore, manca forse di rispetto verso sua madre? In realtà, forse qui si intravede un’ammissione implicita di un autentico conflitto interiore del Figlio riguardo alla sua missione. Colui che non si permetteva di compiere miracoli per il proprio beneficio (come trasformare le pietre in pane) doveva qui trasformare l’acqua in vino? Qui si tocca la profondità del mistero di Cristo, un mistero che egli stesso ha gradualmente scoperto: essendo pienamente uomo, ha dovuto crescere poco a poco, come ciascuno di noi, nella comprensione della sua missione.
4. Le giare d’acqua di Cana sono di pietra, e Giovanni lo sottolinea intenzionalmente: le brocche di terracotta venivano usate per l’acqua potabile, mentre le giare di pietra erano destinate all’acqua per le abluzioni rituali. È proprio quest’acqua, simbolo dell’Alleanza, che si è trasformata nel vino delle nozze.
5. I discepoli scopriranno il miracolo solo in seguito, perché gli unici che sono realmente a conoscenza del fatto, come sottolinea san Giovanni, sono i servitori (versetto 9): essi lo sapevano, per così dire, “nella loro carne”, perché furono loro ad attingere l’acqua, a trasportarla, e tutto ciò in un’obbedienza cieca, senza forse comprendere a cosa sarebbe servita quell’acqua. Ovviamente, non ci deve sorprende troppo che i poveri, in questo caso gli ultimi - i servi - siano i primi a essere a conoscenza del progetto di Dio!
+Giovanni D’Ercole