Gen 21, 2025 Scritto da 

3a Domenica Tempo Ordinario (anno C)

III Domenica Tempo Ordinario (anno C) [26 gennaio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Questa domenica, 26 gennaio 2025, ricorre la VI Domenica della Parola di Dio. Nella Basilica di San Pietro sarà papa Francesco a presiederla nel contesto dell’Anno Giubilare. Il motto scelto è ripreso dal libro dei Salmi: «Spero nella tua Parola» (Sal 119,74).

 

III Domenica Tempo Ordinario Anno C

*Prima Lettura dal Libro di Neemia (8, 2-4a. 5-6. 8-10)

Per noi che cominciamo a lamentarci quando le liturgie durano più di un’ora, saremmo sicuramente ben serviti restando tutti insieme in piedi dall’alba fino a mezzogiorno, come un solo uomo: uomini, donne e bambini. E durante un cosi lungo tempo per ascoltare letture in ebraico, una lingua che ormai non si comprendeva più, anche se lo scriba, il lettore, si interrompeva di tanto in tanto per lasciare spazio al traduttore, che traduceva il testo in aramaico, lingua comunemente usata a Gerusalemme. Quanti partecipano non sembrano stanchi né trovano il tempo troppo lungo: al contrario, tutti piangono di commozione, cantano e continuamente intervengono acclamando insieme con le mani alzate: Amen! Esdra, il sacerdote, e Neemia, il governatore, possono ritenersi soddisfatti perché sono riusciti a ridare fiducia al popolo che, dopo l’esilio babilonese, continua ad attraversare un periodo complicato e difficile. 

Abbiamo qui una bella testimonianza della ricostruzione del “focolare nazionale” d’Israele dopo la deportazione babilonese.  Siamo a Gerusalemme intorno al 450 a.C.: l’esilio a Babilonia era ormai finito e si era riusciti finalmente dopo tante polemiche a ricostruire il Tempio di Gerusalemme, anche se non era proprio come quello di Salomone e a riprendere anche la vita della comunità. Potremmo dire che tutto andava bene, ma non è così e il morale era a terra perché la gente sembrava aver perso la speranza, che sempre aveva conservato pur nei tratti più sofferti della sua esistenza. La verità è che permanevano le cicatrici dei drammi del secolo precedente perché non era semplice riprendere a vivere dopo l’invasione e il saccheggio della città. Anzi, le cicatrici restarono per generazioni: cicatrici dell’esilio stesso, ma anche quelle del ritorno in patria dato che con la deportazione a Babilonia si era perso tutto. Il ritorno tanto atteso non è stato un trionfo, ma occasione di scontro tra quanti erano rimasti a Gerusalemme e ormai avevano cominciato una loro vita introducendo persino riti pagani e la “comunità del ritorno” che dopo oltre cinquant’anni pensava di trovare quanto i loro antenati avevano lasciato, cosa del resto impossibile e che creava seri scontri tra di loro.  Il miracolo è che quel periodo, pur terribile, è stato molto fecondo perché la fede d’Israele sopravvisse alla prova. Non solo questo popolo mantenne intatta la sua fede durante l’esilio, in mezzo a tutti i pericoli dell’idolatria, ma rimase unito e crebbe persino il suo fervore. Tutto ciò grazie ai sacerdoti e ai profeti, che hanno compiuto un lavoro pastorale instancabile. Fu, per esempio, un periodo di intensa rilettura e meditazione delle Scritture dato che uno  degli scopi principali durante i cinquant’anni di esilio fu quello di orientare tutte le speranze verso il ritorno nella terra promessa. Tuttavia il ritorno, tanto auspicato, si rivelò una doccia fredda perché, come l’esperienza insegna, tra il sogno e la realtà c’è quasi sempre un abisso. A ben vedere, il grande problema del ritorno, come abbiamo visto nei testi di Isaia per l’Epifania e la seconda domenica del Tempo Ordinario (domenica scorsa), fu la difficoltà di vivere insieme tra quelli che erano rientrati da Babilonia pieni di ideali e progetti, la cosiddetta “comunità di ritorno”, e quanti invece nel frattempo si erano stabiliti a Gerusalemme. Tra di loro non c’era un fossato, ma un vero baratro: alcuni erano pagani che avevano occupato il territorio e recato con sé culti idolatrici e le loro preoccupazioni erano lontane anni luce dalle molteplici esigenze della legge ebraica. Le loro priorità erano incompatibili con le richieste della Torah. La ricostruzione del Tempio si scontrò con la loro ostilità, e i membri meno ferventi della comunità ebraica furono spesso tentati dal lassismo prevalente. Le autorità erano particolarmente preoccupate per questo rilassamento religioso, che continuava ad aggravarsi a causa dei numerosi matrimoni tra ebrei e pagani e diventava praticamente impossibile preservare la purezza e le esigenze della fede in tali condizioni. E’ a questo punto che Esdra, il sacerdote e Neemia, il governatore laico, unirono le forze e riuscirono a ottenere insieme dal re di Persia, Artaserse, una missione per ricostruire le mura della città e pieni poteri per riorganizzare questo popolo. Va ricordato che si era ancora sotto il dominio persiano. Esdra e Neemia fecero il massimo possibile per risollevare la situazione e per ridare forza e svegliare il morale del popolo. La comunità ebraica aveva tanto più bisogno di coesione poiché ormai viveva quotidianamente a contatto con il paganesimo e l’indifferenza religiosa. Nella storia d’Israele, l’unità del popolo è sempre stata costruita in nome dell’Alleanza con Dio e i pilastri dell’Alleanza restano sempre gli stessi: sono cioè la Terra, la Città Santa, il Tempio e la Parola di Dio. Poiché erano rientrati in patria la Terra c’era; Neemia, il governatore si dedicò a riorganizzare la Città Santa, Gerusalemme e il Tempio si riuscì a ricostruirlo. Restava la Parola che venne proclamata durante una gigantesca celebrazione all’aperto.

Era importante curare ogni dettaglio per la messa in scena della celebrazione di cui qui si parla: anche la data venne scelta con attenzione e si riprese un’antica tradizione, una grande festa in occasione di quella che allora era la data del Capodanno: “il primo giorno del settimo mese”. Per l’occasione fu costruita una tribuna in legno che dominava il popolo e da quel palco in alto il sacerdote e i traduttori proclamarono la Parola. L’omelia poi fu un invito a fare festa: mangiate, bevete, perché è giorno di gioia, giorno del vostro raduno intorno alla Parola di Dio. Non è più tempo per lacrime e nemmeno di tristezza e commozione. C’è qui una lezione che può esserci utile: per rinsaldare la comunità, Esdra e Neemia non fanno la morale al popolo, ma propongono una festa intorno alla Parola di Dio. Per ravvivare il senso di famiglia non c’è di meglio che organizzare e condividere in maniera regolare momenti di gioiosa festa condivisa.

 

*Salmo responsoriale (18 (19), 8. 9. 10. 15)

Si incontra più volte questo salmo e abbiamo quindi già avuto l’occasione di sottolineare l’importanza per Israele della Legge che è un valore estremamente positivo, così come importante è il timore di Dio, un atteggiamento anch’esso profondamente positivo e filiale. Ci sono diversi passaggi dell’Antico Testamento in cui la Legge è presentata come un cammino: se un figlio di Israele vuole essere felice, deve fare attenzione a non deviare né a destra né a sinistra. Oggi, per comprendere meglio questo salmo, propongo di rileggere il libro del Deuteronomio. Il libro del Deuteronomio è relativamente tardivo, scritto in un periodo in cui il regno di Giuda, il regno del sud, si stava pericolosamente allontanando dalla pratica della Legge. Questo libro risuonò dunque come un grido d’allarme: Se non volete che vi accada la stessa catastrofe che ha colpito il regno del Nord, fareste bene a cambiare condotta. È quindi un rimando a tutti i comandamenti di Mosè e ai suoi avvertimenti. Il Deuteronomio contiene inoltre una meditazione sul ruolo della Legge il cui unico scopo è educare il popolo e mantenerlo sul retto cammino. Se Dio tiene così tanto al fatto che il suo popolo rimanga sulla retta via, è perché questo è l’unico modo per vivere felicemente e portare a compimento la vocazione di essere un popolo eletto fra le nazioni. Il re di Gerusalemme, Giosia, intraprese una riforma religiosa profonda intorno al 620 a.C., appoggiandosi proprio sul libro del Deuteronomio. Mentre noi saremmo inclini a vedere la legge come un peso, appare invece chiaro nella Bibbia che è uno strumento di libertà. Per aiutare a capire questo è Interessante nella tradizione biblica l’immagine dell’aquila che insegna ai suoi piccoli a volare. Gli ornitologi che hanno osservato le aquile nel deserto del Sinai raccontano che, quando i piccoli si lanciano, i genitori rimangono nelle vicinanze e planano sopra di loro tracciando ampi cerchi; quando i piccoli sono stanchi, possono in qualsiasi momento riposarsi (nel doppio senso di riprendere fiato e posarsi sulle ali dei genitori) per poi rilanciarsi una volta recuperate le forze. Il fine ultimo, naturalmente, è che i piccoli diventino presto capaci di cavarsela da soli. L’autore biblico ha preso questa immagine per spiegare che Dio dà la sua Legge agli uomini per insegnare loro a volare con le proprie ali. Non c’è ombra di dominio in questo, tutt’altro; liberando il suo popolo dalla schiavitù in Egitto, il Signore ha dimostrato una volta per tutte che il suo unico obiettivo è liberare il suo popolo. Ecco cosa dice il libro del Deuteronomio: “Il Signore trovò il suo popolo in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo educò, lo allevò, lo custodì come sulla pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le sue ali” (Dt 32, 9-11). Un Dio che vuole l’uomo libero! Questo è il messaggio che si trasmette fedelmente di generazione in generazione: «Domani, quando tuo figlio ti chiederà: perché queste prescrizioni, queste leggi e queste usanze che il Signore nostro Dio vi ha comandato?» allora risponderai a tuo figlio: «Eravamo schiavi del faraone in Egitto, ma con mano potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto… Il Signore ci ha comandato di mettere in pratica tutte queste leggi e di temere il Signore nostro Dio, affinché fossimo sempre felici e ci mantenesse in vita come oggi» (Dt 6, 20-24). Quando il re Giosia cercò di riportare il suo popolo sul retto cammino, si comprese quanto importante fosse per lui far conoscere questo libro, che ripete in tutti i modi questo messaggio: la via più breve per essere un popolo libero e felice è vivere secondo i comandi del Dio d’Israele. Sottinteso, se i vostri fratelli del Nord sono finiti così male, è perché hanno dimenticato questa verità elementare (da tenere sempre presente la divisione fra il regno del sud, regno di Giuda e quello del nord, il regno d’Israele e come il regno del nord a causa di alleanze con popoli stranieri finì per essere occupato e praticamente distrutto). E ora, ricorda Giosia, non è solo la salvezza del regno del Sud a essere in gioco – che ovviamente era la sua prima preoccupazione – ma la salvezza dell’intera umanità. E come potrà il popolo eletto essere testimone del Dio liberatore dinanzi a tutte le genti se non si comporta esso stesso come un popolo libero e ricade invece nelle costanti tentazioni dell’umanità: idolatria, ingiustizia sociale, lotta per il potere?

Nel corso della storia, gli autori biblici hanno preso gradualmente coscienza di questa responsabilità che Dio ha affidato al suo popolo proponendogli la sua Alleanza: «Al Signore nostro Dio appartengono le cose nascoste, mentre quelle rivelate sono per noi e per i nostri figli per sempre, affinché siano messe in pratica tutte le parole di questa Legge» (Dt 29, 28). Questo ispira a Israele un grande orgoglio che mai diventa presunzione; se necessario, il Deuteronomio richiama il popolo all’umiltà: «Se il Signore si è affezionato a voi e vi ha scelti, non è perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli, perché siete il più piccolo di tutti» (Dt 7, 7); e ancora: «Riconosci che non è perché sei giusto che il Signore  tuo Dio ti dà in possesso questa terra buona, perché tu sei un popolo dalla dura cervice» (Dt 9, 6).

l nostro salmo oggi riprende questa lezione di umiltà: «I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi” (v.9). “I precetti del Signore sono retti”: ecco un bel modo per dire che solo Dio è saggio. Non serve allora credersi furbi, ma lasciarsi piuttosto guidare da lui con semplicità. A tal proposito il re Giosia avrà ripetuto volentieri questo richiamo per incoraggiare i suoi sudditi : «Sì, questo comando che oggi ti ordino non è troppo difficile per te, né fuori dalla tua portata. Non è in cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo a prendercelo, affinché ce lo faccia udire e possiamo metterlo in pratica? Non è neppure al di là del mare, perché tu dica: Chi attraverserà il mare per noi a prendercelo, affinché ce lo faccia udire e possiamo metterlo in pratica? Sì, la parola è molto vicina a te: è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica». La pratica umile e quotidiana della Legge può trasformare gradualmente un intero popolo; come dice ancora il salmo: «Il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi” Dt 30, 11)..

Un’ultima osservazione: Il libro del Deuteronomio, che noi oggi conosciamo, è posteriore a Giosia; tuttavia le basi erano ben poste già in un manoscritto trovato dagli operai di Giosia durante la restaurazione del tempio di Gerusalemme (cf. Secondo Libro dei Re 22,8-13 e Secondo Libro delle Cronache 34,14-19). Si tratta di un interessante manoscritto portato probabilmente dai rifugiati del regno del Nord dopo la caduta di Samaria nel 721 e che costituiva una solida esortazione per una vera conversione e un invito a tornare alla pratica dei comandamenti. Gli studiosi ritengono che faccia parte dei capitoli 12-26 del libro del Deuteronomio.

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (12, 12-30)

San Paolo in maniera semplice e diretta afferma che ciascuno nella comunità cristiana e civile ha un compito da svolgere e il suo posto da occupare stando attenti l’uno all’altro: non bisogna disprezzarsi a vicenda, e anzi occorre ricordare che tutti hanno bisogno di tutti. Il lungo ragionamento di Paolo è prova di una situazione concreta: la comunità di Corinto affrontava esattamente gli stessi problemi che conosciamo noi oggi.

Per dare una lezione ai suoi fedeli, Paolo ricorre a un metodo che funziona meglio di qualsiasi discorso: propone loro un esempio con una parabola che in realtà non ha inventato del tutto perché usa una favola che tutti conoscevano e la adatta al suo obiettivo. Si tratta di una narrazione allegorica più nota come l’apologo “la pancia e le membra” di Menenio Agrippa, un console e diplomatico romano del V secolo a.C. In verità questa narrazione è già presente in Esopo, narratore e favolista dell’antica Grecia (VI secolo a.C.) come pure in Fedro (contemporaneo di Gesù 20 a. C.  - 50 d.C.) entrambi ben noti al tempo di san Paolo. Questa parabola si trova nella Storia Romana di Tito Livio e Jean Fontaine (1621-1695) l’ha ripresa e trasformata in versi nel IX libro delle sue favole. Come tutte le favole, comincia con: C’era una volta un uomo come tutti gli altri… tranne per il fatto che, in lui, tutte le membra parlavano e discutevano tra loro, ma non tutte mostravano un buon carattere, a quanto pare, probabilmente perché alcune avevano l’impressione di essere meno considerate o un po’ sfruttate. Un giorno, durante una discussione, i piedi e le mani si ribellarono contro lo stomaco: perché lo stomaco, lui, si limitava a mangiare e bere ciò che le altre membra gli procuravano e tutto il piacere era per lui?  Non era certo lo stomaco a stancarsi lavorando, coltivando la vigna, facendo la spesa, tagliando la carne, masticando e via dicendo. Allora decisero tutte le membra semplicemente di scioperare e da quel momento, nessuno si sarebbe più mosso: lo stomaco avrebbe visto cosa gli sarebbe successo. In questo modo se lo stomaco moriva la soddisfazione sarebbe stata di chi aveva smesso di lavorare. Avevano però dimenticato una cosa molto semplice: se lo stomaco muore di fame, non sarà l’unico a soffrirne. Quel corpo, come tutti gli altri, era un tutt’uno, e tutti hanno bisogno di tutti!

San Paolo riprese dunque dal patrimonio culturale del suo tempo una parabola molto facile da capire. E, se qualcuno non avesse compresa, si prese la briga di spiegare lui stesso il significato della parabola del corpo e delle membra illustrandone l’insegnamento. Per Paolo, la morale è chiara: le nostre diversità sono una ricchezza, a patto di usarle come strumenti per l’unità. Uno dei punti salienti del discorso di Paolo è che, nemmeno per un istante, parla in termini di gerarchia o superiorità: giudei o pagani, schiavi o uomini liberi dato che tutte le nostre distinzioni umane non contano più. Ormai conta una sola cosa: il nostro Battesimo nello stesso Spirito, la nostra partecipazione a un unico corpo, il corpo di Cristo.

Le prospettive di Dio sono completamente diverse come Gesù ha chiaramente insegnato ai suoi apostoli: “Tra voi non sarà così” (Mt20, 25-28).  Paolo sa tuttavia che questa maniera di vedere le cose, non pensare più in termini di superiorità, gerarchia, avanzamenti o onori, è molto difficile e allora insiste sul rispetto che bisogna riservare a tutti: semplicemente perché la dignità più alta, l’unica che conta, è essere tutti membra dell’unico corpo di Cristo.

Il rispetto, nel senso etimologico del termine, è una questione di sguardo: a volte, le persone che ci sembrano o riteniamo poco importanti non le vediamo nemmeno, il nostro sguardo non si sofferma su di loro. A tutti può capitare di sentirsi ignorati agli occhi di qualcuno: il suo sguardo scivolava su di noi come se non esistessimo. Non è così? 

Insomma, Paolo ci offre una grande lezione di rispetto: rispetto delle diversità, da un lato, e rispetto della dignità di ciascuno, qualunque sia la funzione che svolge e il ruolo sociale che riveste. So che non è semplice, ma è necessario avere uno sguardo meno egoista per scoprire ciò che di singolare ciascuno di noi può apportare nella vita delle nostre famiglie, delle nostre comunità e nella società. C’è chi è una mente pensante, chi è un ricercatore, un inventore, un organizzatore… C’è chi ha fiuto, chi sa essere paziente, chi è chiaroveggente, chi ha il dono della parola e chi è più bravo nello scrivere e c’è chi soffre una malattia o è molto povero materialmente e spiritualmente ma tutti possono offrire qualcosa agli altri. Si potrebbe continuare nell’enumerare i tanti carismi da scoprire e valorizzare: basta orientare bene lo sguardo. Se domenica scorsa, seconda domenica  del Tempo ordinario, leggendo l’inizio del   capitolo 12 della prima lettera ai Corinti, sembrava che fosse un inno alla diversità, lo sviluppo odierno è un richiamo all’unità attraverso il rispetto delle differenze.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (1,1-4;4,14-21)

Nelle domeniche del tempo ordinario dell’Anno liturgico C ci accompagna l’evangelista Luca e di lui abbiamo già potuto meditare il racconto della nascita e dell’infanzia di Gesù nel tempo di Natale. Sappiamo molto poco su come sono stati scritti i vangeli e, in particolare, sulle loro date di composizione. Tuttavia, dal vangelo odierno possiamo dedurre alcune precisazioni. Ci fu certamente una predicazione orale prima che i vangeli venissero messi per iscritto, poiché Luca dice a Teofilo di voler permettergli di verificare «la solidità degli insegnamenti che ha ricevuto». Luca riconosce anche di non essere stato un testimone oculare degli eventi; ha potuto informarsi solo tramite i testimoni oculari, il che implica che questi erano ancora vivi quando scrisse. Possiamo dunque supporre che la predicazione sulla risurrezione di Cristo sia iniziata già a partire dalla Pentecoste e che il vangelo di Luca sia stato scritto più tardi, ma prima della morte degli ultimi testimoni oculari, fissando così una data limite intorno all’80-90 d.C.

Quanto leggiamo oggi si colloca dopo il battesimo di Gesù e il racconto delle sue tentazioni nel deserto. Apparentemente, tutto sembrava procedere bene per Gesù che inizia la sua missione pubblicamente dopo la morte di Giovanni Battista. Scrive l’evangelista: “Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle sinagoghe dei Giudei, e gli rendevano lode”. Quel sabato mattina Gesù, da buon ebreo tornato da un viaggio, si recò per il culto nella sinagoga. Nulla di sorprendente se gli affidano una lettura, dato che ogni fedele aveva il diritto di leggere le Scritture. La celebrazione nella sinagoga si svolse normalmente, fino a quando Gesù lesse il testo del giorno, che era un celebre passo del profeta Isaia. Nel grande silenzio che seguì la lettura, Gesù affermò con tranquillità qualcosa di straordinario: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Seguì qualche minuto di imbarazzato silenzio, il tempo necessario per interpretare il significato delle sue parole. Infatti i presenti si aspettavano che Gesù facesse un commento, come era consuetudine, ma non un commento capace di sorprendere tutti. E’ difficile oggi a noi immaginare l’audacia di quell’affermazione così pacata di Gesù, ma per i suoi contemporanei, quel venerabile testo del profeta Isaia era riferito al Messia. Soltanto il Re-Messia, quando sarebbe venuto, avrebbe potuto permettersi di affermare: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione…” Dall’inizio della monarchia, infatti, il rito di consacrazione dei re prevedeva un’unzione con olio. Questo gesto era il segno che Dio stesso ispirava il re in modo permanente per renderlo capace di compiere la sua missione di salvare il popolo. Si diceva allora che il re era «mashiach», che in ebraico significa semplicemente «unto» e che in italiano è tradotto con Messia mentre in greco con Christos e in latino Christus.

Al tempo di Gesù, non c’erano più re sul trono di Gerusalemme, ma si attendeva che Dio inviasse finalmente il re ideale, che avrebbe portato al suo popolo libertà, giustizia e pace. In particolare, nella Palestina occupata dai Romani, si attendeva colui che avrebbe liberato il popolo dall’occupazione romana. Chiaramente, Gesù di Nazareth, il figlio del falegname, non poteva pretendere di essere quel Re-Messia atteso. Come avrebbero potuto riconoscere il Messia che aspettavano in Gesù umile falegname in terra di Galilea? Eppure era davvero il Messia. Bisogna riconoscere che Gesù non ha smesso di sorprendere i suoi contemporanei.  San Luca sottolinea, introducendo questo passo, che Gesù era accompagnato dalla potenza dello Spirito, caratteristica essenziale del Messia. Ma questa è l’affermazione di Luca, il cristiano; gli abitanti di Nazareth, invece, non sapevano che, realmente, lo Spirito del Signore riposava su Gesù. C’è poi da aggiungere quest’osservazione sul brano evangelico appena ascoltato. Gesù cita il profeta Isaia e la citazione l’attribuisce a sé stesso, la fa propria come un vero discorso programmatico: “Lo Spirito del Signore è sopra di me… Mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare un anno di grazia del Signore. Della profezia di Isaia (61,1-2) egli non legge e anzi salta del tutto l’ultima parte del versetto 2, che dice: “…e un giorno di vendetta per il nostro Dio.” Si tratta di un’omissione significativa perché si concentra sull’annuncio della grazia e della liberazione, lasciando da parte l’idea di vendetta e tutto il suo ministero è centrato sulla misericordia, sulla salvezza e sull’amore di Dio, piuttosto che sul giudizio o sulla punizione immediata. Quest’omissione dell’ultima frase di Isaia e l’applicazione del passo a sé stesso hanno urtato i suoi ascoltatori per diverse ragioni. Anzitutto gli abitanti di Nazareth si aspettavano un Messia che avrebbe liberato Israele dai suoi oppressori, soprattutto dai Romani, e avrebbe portato giustizia e vendetta contro i nemici del popolo ebraico. L’omissione del “giorno di vendetta del nostro Dio” sembrava allontanare l’idea di un Messia politico e giustiziere. Proclamando un messaggio di grazia e salvezza universale, Gesù sfidava le loro attese nazionalistiche. In merito alla sua dichiarazione, cioè che la profezia di Isaia si realizza in Lui, molti dei presenti la ritenevano scandalosa e presuntuosa perché lo conoscevano come il “figlio del falegname” (Luca 4,22) che viveva tra loro, e non riuscivano a conciliare la sua umile origine con l’idea di un inviato di Dio. inoltre Gesù, quando più tardi menzionerà gli episodi di Elia ed Eliseo (Luca 4,25-27), andrà a sottolineare il fatto che Dio spesso è intervenuto per il bene di pagani come la vedova di Sarepta in Sidone o Naaman il Siro e questo mostrava che la salvezza e la grazia di Dio non erano esclusivamente per Israele, ma anche per i pagani. Proclamare quest’universalismo però offendeva l’orgoglio nazionale e religioso dei suoi ascoltatori. Infine, molti ebrei dell’epoca speravano in un giudizio immediato contro i nemici di Israele. Il fatto che Gesù enfatizzasse solo il tempo di grazia senza menzionare la vendetta poteva essere percepito come una negazione della giustizia divina contro i malvagi e questo urtava coloro che desideravano una liberazione rapida e definitiva. La combinazione di tanti elementi fa comprendere la reazione violenta dei suoi concittadini che tentano di cacciarlo dalla sinagoga e persino di ucciderlo gettandolo da una rupe (Luca 4,28-30). Infine, l rifiuto di Gesù da parte dei suoi compaesani diventa un simbolo del rifiuto più ampio che Egli incontrerà nel suo ministero.

 

Una nota informativa. Durante le prime domeniche del Tempo Ordinario nei cicli liturgici A, B, C la liturgia ci fa rileggere la Prima Lettera di San Paolo ai Corinti. E’ una lettura semicontinua, che inizia la prima domenica del Tempo Ordinario e termina la domenica che precede Mercoledì delle Ceneri.

Anno A. Le letture si concentrano principalmente sui primi quattro capitoli della lettera.

Tema principale: l’unità della Chiesa e la centralità di Cristo.

*Domenica I: 1Cor 1,1-3 – Saluto iniziale e chiamata alla santità.

*Domenica II: 1Cor 1,10-13.17 – Esortazione all’unità nella comunità cristiana.

*Domenica III: 1Cor 1,26-31 – La sapienza di Dio contro la sapienza umana.

*Domenica IV: 1Cor 2,1-5 – La predicazione fondata sulla potenza dello Spirito.

Anno B. Le letture proseguono nei capitoli 6-9 della lettera. Tema principale: la vita morale e le responsabilità personali e comunitarie.

*Domenica II: 1Cor 6,13c-15a.17-20 – Il corpo come tempio dello Spirito Santo.

*Domenica III: 1Cor 7,29-31 – L’urgenza di vivere in vista del Regno di Dio.

*Domenica IV: 1Cor 8,1b-7.10-13 – La responsabilità verso i fratelli più deboli nella fede.

*Domenica V: 1Cor 9,16-19.22-23 – San Paolo come apostolo che si fa tutto per tutti.

Anno C Le letture si concentrano sui capitoli 12-15 della lettera. Tema principale: i carismi, l’amore cristiano e la risurrezione.

*Domenica II: 1Cor 12,4-11 – Diversità di carismi, un unico Spirito.

*Domenica III: 1Cor 12,12-30 – La Chiesa come corpo di Cristo.

*Domenica IV: 1Cor 13,4-13 – L’inno alla carità.

*Domenica V: 1Cor 15,12. 16- 20 – La risurrezione dei morti come fondamento della fede.

Ogni anno liturgico utilizza una sezione diversa della lettera per riflettere sulle diverse esigenze e temi della vita cristiana. Si evidenziano temi chiave come l’unità, la carità, la vita morale e la speranza nella risurrezione. Questo schema semicontinuo consente ai fedeli di approfondire progressivamente l’insegnamento dell’apostolo Paolo.

+Giovanni D’Ercole

35 Ultima modifica il Martedì, 21 Gennaio 2025 10:07
don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

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For those who first heard Jesus, as for us, the symbol of light evokes the desire for truth and the thirst for the fullness of knowledge which are imprinted deep within every human being. When the light fades or vanishes altogether, we no longer see things as they really are. In the heart of the night we can feel frightened and insecure, and we impatiently await the coming of the light of dawn. Dear young people, it is up to you to be the watchmen of the morning (cf. Is 21:11-12) who announce the coming of the sun who is the Risen Christ! (John Paul II)
Per quanti da principio ascoltarono Gesù, come anche per noi, il simbolo della luce evoca il desiderio di verità e la sete di giungere alla pienezza della conoscenza, impressi nell'intimo di ogni essere umano. Quando la luce va scemando o scompare del tutto, non si riesce più a distinguere la realtà circostante. Nel cuore della notte ci si può sentire intimoriti ed insicuri, e si attende allora con impazienza l'arrivo della luce dell'aurora. Cari giovani, tocca a voi essere le sentinelle del mattino (cfr Is 21, 11-12) che annunciano l'avvento del sole che è Cristo risorto! (Giovanni Paolo II)
Christ compares himself to the sower and explains that the seed is the word (cf. Mk 4: 14); those who hear it, accept it and bear fruit (cf. Mk 4: 20) take part in the Kingdom of God, that is, they live under his lordship. They remain in the world, but are no longer of the world. They bear within them a seed of eternity a principle of transformation [Pope Benedict]
Cristo si paragona al seminatore e spiega che il seme è la Parola (cfr Mc 4,14): coloro che l’ascoltano, l’accolgono e portano frutto (cfr Mc 4,20) fanno parte del Regno di Dio, cioè vivono sotto la sua signoria; rimangono nel mondo, ma non sono più del mondo; portano in sé un germe di eternità, un principio di trasformazione [Papa Benedetto]
In one of his most celebrated sermons, Saint Bernard of Clairvaux “recreates”, as it were, the scene where God and humanity wait for Mary to say “yes”. Turning to her he begs: “[…] Arise, run, open up! Arise with faith, run with your devotion, open up with your consent!” [Pope Benedict]
San Bernardo di Chiaravalle, in uno dei suoi Sermoni più celebri, quasi «rappresenta» l’attesa da parte di Dio e dell’umanità del «sì» di Maria, rivolgendosi a lei con una supplica: «[…] Alzati, corri, apri! Alzati con la fede, affrettati con la tua offerta, apri con la tua adesione!» [Papa Benedetto]
«The "blasphemy" [in question] does not really consist in offending the Holy Spirit with words; it consists, instead, in the refusal to accept the salvation that God offers to man through the Holy Spirit, and which works by virtue of the sacrifice of the cross [It] does not allow man to get out of his self-imprisonment and to open himself to the divine sources of purification» (John Paul II, General Audience July 25, 1990))
«La “bestemmia” [di cui si tratta] non consiste propriamente nell’offendere con le parole lo Spirito Santo; consiste, invece, nel rifiuto di accettare la salvezza che Dio offre all’uomo mediante lo Spirito Santo, e che opera in virtù del sacrificio della croce [Esso] non permette all’uomo di uscire dalla sua autoprigionia e di aprirsi alle fonti divine della purificazione» (Giovanni Paolo II, Udienza Generale 25 luglio 1990)
Every moment can be the propitious “day” for our conversion. Every day (kathēmeran) can become the today of our salvation, because salvation is a story that is ongoing for the Church and for every disciple of Christ. This is the Christian meaning of “carpe diem”: seize the day in which God is calling you to give you salvation! (Pope Benedict)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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