don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 19 Maggio 2025 12:37

6a Domenica di Pasqua (C)

VI Domenica di Pasqua (anno C) [25 Maggio 2025] 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Camminiamo a passi rapidi verso l’Ascensione del Signore e la Pentecoste.  Le parole di Gesù ci preparano ad accogliere lo Spirito Santo, il Paraclito, Parakletos, termine greco intraducibile in una sola parola. 5 volte appare nel N.T. sempre solo in Giovanni e i significati possibili sono: Difensore/Avvocato; Consolatore; Intercessore /Mediatore, Maestro interiore/Spirito di verità. 

*Prima Lettura Dagli Atti degli Apostoli (15, 1-2.22-29)

Le prime comunità cristiane hanno dovuto affrontare fin dall’inizio una grave crisi che per molto tempo ha avvelenato la loro esistenza. Mi spiego: ad Antiochia di Siria, c’erano cristiani di origine ebraica e cristiani di origine pagana e la loro convivenza era diventata sempre più difficile perché troppo diversi erano i loro stili di vita. I cristiani di origine ebraica erano circoncisi e consideravano pagani coloro che non lo sono e nella stessa vita quotidiana tutto li contrapponeva a causa di tutte le pratiche ebraiche alle quali i cristiani di origine pagana non avevano alcuna voglia di sottostare: numerose regole di purificazione, di abluzioni e soprattutto regole molto rigide riguardo all’alimentazione.  Alcuni cristiani di origine ebraica vennero apposta da Gerusalemme per inasprire la disputa, spiegando che al battesimo cristiano erano ammessi solo i giudei e quindi invitavano i pagani prima a diventare giudei (circoncisione compresa) e poi cristiani. Tre le questioni fondamentali: 1.Per vivere l’unità è necessario avere le stesse idee, gli stessi riti, le stesse pratiche? 2. La seconda questione era che i cristiani di ogni origine desideravano essere fedeli a Gesù Cristo, ma concretamente, in cosa consiste questa fedeltà? Se Gesù era ebreo e circonciso questo significa che per diventare cristiani bisogna prima diventare tutti ebrei come lui? Inoltre, è a Israele che Dio ha affidato la missione di essere suo testimone in mezzo all’umanità e quindi bisogna far parte di Israele per entrare nella comunità cristiana? La conclusione era che si doveva essere ebrei prima di diventare cristiani e concretamente si accettava di battezzare i pagani a condizione che prima si ffacessero circoncidere. 3. Terza questione, ancora più grave: la salvezza è data da Dio senza condizioni oppure no? Se non accettando la circoncisione secondo la tradizione di Mosè non si può essere salvati, è come affermare che Dio stesso non può salvare i non-ebrei e siamo noi a decidere al suo posto chi può o non può essere salvato.  Venne convocato il primo concilio di Gerusalemme dove tre erano le posizioni in merito: Paolo voleva l’apertura totale, Pietro era piuttosto esitante e fu Giacomo, vescovo di Gerusalemme, a trovare l’intesa con una doppia decisione: 1. i cristiani di origine ebraica non devono imporre la circoncisione e le pratiche ebraiche ai cristiani di origine pagana; 2. d’altro lato, i cristiani di origine pagana, per rispetto verso i loro fratelli di origine ebraica, si asterranno da ciò che potrebbe disturbare la vita comune, in particolare durante i pasti. L’argomento che prevale su tutto fu il superamento dela logica dell’elezione d’Israele essendo entrati in una nuova tappa della storia: il profeta Gioele aveva ben detto: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato” (Gl 3,5) e Gesù stesso: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato” (Mc 16,16). Chiunque significa tutti, non solo gli ebrei e, ancor più in concreto, essere fedeli a Gesù Cristo non vuol dire necessariamente riprodurre un modello fisso poiché la fedeltà non è semplice ripetizione. La storia mostra che, attraverso le vicissitudini dell’umanità, la Chiesa conserva sempre la capacità di adattamento per restare fedele a Cristo. Infine, è interessante notare che si impongono alla comunità cristiana solo le regole che permettono di mantenere la comunione fraterna e questo viene indicato fin da subito come il modo migliore per essere veramente fedeli a Cristo che disse: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

*Salmo responsoriale (66 (67) 2-3,5,7-8)

Il salmo ci conduce dentro il Tempio di Gerusalemme mentre è in atto una grande celebrazione e al termine i sacerdoti benedicono l’assemblea in modo solenne e i fedeli rispondono: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino tutti i popoli!” Il salmo si presenta come un’alternanza tra le frasi dei sacerdoti, rivolte a volte all’assemblea e a volte a Dio, e le risposte dell’assemblea, che assomigliano a dei ritornelli. La prima frase: “Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto” riprende esattamente il famoso testo del libro dei Numeri che è la prima lettura del 1º gennaio di ogni anno,: “Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli e riferisci loro: Così benedirete gli Israeliti: Direte loro: ‘Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace’. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (Nm 6,24-26). Un testo ideale per desideri e auguri perché la benedizione è augurio di felicità. In effetti, le benedizioni sono sempre formulate al congiuntivo: “che Dio vi benedica, che Dio vi custodisca” eppure Dio non sa fare altro che benedirci, amarci, colmarci in ogni istante. Quando dunque il sacerdote dice “che Dio vi benedica”, non è perché Dio potrebbe non benedirci, ma per suscitare il nostro desiderio  di entrare  nella benedizione che, da parte sua, Dio continuamente ci offre. La stessa cosa quando il sacerdote dice “Il Signore sia con voi”: Dio è sempre con noi e il congiuntivo “sia” esprime la nostra libertà perché non sempre siamo con lui; oppure “Che Dio vi perdoni”: Dio ci perdona sempre ma sta noi accogliere il perdono ed entrare nella riconciliazione che ci propone. Permanenti sono da parte di Dio i desideri di felicità nei nostri confronti come afferma Geremia: «Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). Dio è Amore e tutti i suoi pensieri su di noi non sono altro che desideri di felicità. In questo salmo la risposta dei fedeli è il ritornello: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino tutti i popoli!! Splendida lezione di universalismo: il popolo eletto riflette la benedizione che accoglie per sé stesso sull’intera umanità, mentre l’ultimo versetto è una sintesi di questi due aspetti: “Ci benedica Dio (noi, suo popolo eletto) E lo temano tutti i confini della terra”. Israele non dimentica la sua vocazione/missione al servizio dell’intera umanità e sa che dalla sua fedeltà alla benedizione ricevuta gratuitamente dipende la scoperta dell’amore e della benedizione di Dio da parte di tutta l’umanità.

 

*Seconda Lettura dall’Apocalisse di san Giovanni (21, 10-14.22-23)

Nel brano di domenica scorsa, Giovanni diceva di aver visto la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da presso Dio, pronta per le nozze, come una sposa adorna per il suo sposo. Questa volta la descrive a lungo affascinato dalla sua luce così forte da oscurare il chiarore della luna e perfino quello del sole: somiglia a un gioiello prezioso, una pietra preziosa che scintilla nella luce. E spiega subito la ragione di tale luminosità straordinaria, ripetendo per due volte: “risplendente della gloria di Dio”, “la gloria di Dio la illumina”. Queste due affermazioni, l’una all’inizio e l’altra alla fine del testo, con il procedimento letterario chiamato «inclusione» che serve a mettere in evidenza le frasi comprese tra l’inizio e la fine, indicano ciò che colpisce Giovanni, cioè la gloria di Dio che illumina la città santa che scende da presso di Lui. Un angelo lo ha trasportato su un grande e alto monte e lo tiene per mano mentre gli mostra la città da lontano. Nella mano sinistra l’angelo tiene una canna d’oro che userà per misurare le dimensioni della città. La città è quadrata: il numero quattro e il quadrato sono un simbolo di ciò che è umano e qui indicano che la città è costruita da mano d’uomo, illuminata dalla gloria e dal fulgore della presenza di Dio. Poiché il numero tre evoca Dio, non stupisce che la descrizione della città usi abbondantemente un multiplo di tre e quattro: dodici, che è un modo per dire che l’azione di Dio si manifesta in quest’opera umana. All’epoca di san Giovanni non si concepiva una città senza mura: e questa ne ha, anzi una muraglia grande e alta come la montagna e sappiamo che nella Bibbia, la montagna è il luogo dell’incontro con Dio. Nelle mura sono aperte dodici porte che, secondo il seguito del testo, non si chiudono mai perché tutti possano entrare e nessuno deve trovare una porta chiusa. Le dodici porte, distribuite sui quattro lati del quadrato, tre a Est, tre a Nord, tre a Sud, tre a Ovest, sono sorvegliate da dodici angeli e su ciascuna è scritto il nome di una delle dodici tribù d’Israele. Il popolo d’Israele è stato infatti scelto da Dio per essere la porta attraverso cui tutta l’umanità entrerà nella Gerusalemme definitiva.La muraglia poggia su fondamenta sulle quali sono scritti i nomi dei dodici apostoli dell’Agnello: come in architettura, c’è continuità tra le fondamenta e i muri, così qui c’è continuità tra le dodici tribù d’Israele e i dodici apostoli e questo è un modo per dire che la Chiesa fondata da Cristo realizza pienamente il disegno di Dio che si sviluppa lungo tutta la storia. Entrato, Giovanni rimane sorpreso perché cerca il Tempio, essendo il segno vivente che Dio non abbandonava il suo popolo, ma nella città “non vidi alcun tempio” eppure non resta deluso, perché ormai “il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello. sono il suo tempio”. E continua: “La città non ha bisogno della luce del sole né della luna perché la gloria di Dio la illumina, e la sua lampada è l’Agnello”. Tenendo presente che nel libro della Genesi fin dal primo giorno alla creazione, appare la luce: Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu”, l’affermazione dell’Apocalisse assume tutto il suo peso: la creazione antica è passata: niente più sole, niente più luna perché ormai siamo nella nuova creazione e la presenza di Dio irradia il mondo attraverso Cristo. Gerusalemme conserva il suo nome e indica che è una città costruita da mano d’uomo, un modo per dire che i nostri sforzi per collaborare al progetto di Dio fanno parte della nuova creazione e l’opera umana non sarà distrutta, bensì da Dio trasformata. I cristiani allora destinatari dell’Apocalisse, erano oggetto di disprezzo e spesso perseguitati, avevano bisogno di queste parole di vittoria per sostenere la loro fedeltà e anche a noi fa bene sentire che la Gerusalemme celeste comincia con i nostri umili sforzi di ogni giorno.

*Dal Vangelo secondo Giovanni (14, 23-29)

Riviviamo gli ultimi momenti di Gesù immediatamente prima della Passione: l’ora è grave e si intuisce l’angoscia degli apostoli dalle parole di rassicurazione che più volte Gesù loro rivolge. All’inizio di questo capitolo aveva detto «Non sia turbato il vostro cuore» (v. 1). Il suo lungo discorso fu interrotto da varie domande degli apostoli che rivelavano la loro angoscia e incomprensione. Gesù però resta sereno: lungo tutta la Passione Giovanni lo descrive sovranamente libero; anzi è lui a rassicurare i discepoli mentre annuncia in anticipo ciò che sarebbe accaduto perché quando avverrà, avrebbero creduto. Non solo sa cosa accadrà, ma lo accetta e non cerca di sottrarsi. Annuncia la sua partenzae presentandola come condizione e inizio di una nuova presenza: Me ne vado, ma torno da voi. Questa sua partenza sarà interpretata solo dopo la risurrezione come la Pasqua di Gesù.  Giovanni dice al capitolo 13: “Prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre”: l’evangelista usa volutamente il verbo passare, perché Pasqua significa passaggio e con questo, vuole mettere in parallelo la Passione di Gesù con la liberazione dall’Egitto, rivissuta ad ogni festa ebraica di Pasqua. Se si tratta di liberazione, questa partenza non deve gettare gli apostoli nella tristezza: “Se voi mi amaste, vi rallegrereste, perché vado al Padre” (v.28). Frase sorprendente per i discepoli che vedono il Maestro ormai inseguito dalle autorità religiose, cioè da chi, in nome di Dio, era ritenuto depositario della verità su ciò che riguarda Dio e sono proprio loro i maggiori oppositori di Gesù. I profeti hanno lottato contro ogni ostacolo per mantenere la fede nell’unico Dio che è insieme Dio vicino all’uomo e Dio totalmente Altro, il Santo. Gesù predica un Dio vicino all’uomo, specialmente ai più piccoli, ma dichiara Dio se stesso il che agli occhi degli ebrei, è blasfemia, un’offesa al Dio uno, al Santo. Nel testo di questa domenica, Gesù insiste sul legame che lo unisce al Padre che nomina cinque volte arrivando a parlare al plurale: “Se qualcuno mi ama… noi verremo da lui, e prenderemo dimora presso di lui”. Non è la prima volta che lo afferma: poco prima, a Filippo che gli chiedeva «Mostraci il Padre», ha risposto con tranquillità: «Chi mi ha visto ha visto il Padre» (Gv 14,9), mentre qui ribadisce: “La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato”. Gesù è l’Inviato del Padre, la parola del Padre e d’ora in poi lo Spirito Santo ci farà comprendere questa parola e la custodirà nella memoria dei discepoli. La chiave di questo testo è probabilmente proprio la parola “parola”: ricorre più volte e, a da ciò che precede, si capisce che questa “parola” da custodire è il “comandamento dell’amore”: amatevi gli uni gli altri, ossia mettetevi al servizio gli uni degli altri e, per essere chiaro, Gesù stesso ha dato un esempio concreto lavando i piedi ai discepoli. Essere fedeli alla sua parola significa dunque semplicemente mettersi al servizio degli altri. E il testo di oggi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola”, può tradursi così: Se qualcuno mi ama, si porrà al servizio del prossimo e chi non mi ama rifiuta di mettersi al servizio degli altri, per cui se qualcuno non si mette al servizio degli altri, non è fedele alla parola di Cristo. In questa luce si comprende meglio il ruolo dello Spirito Santo: è lui che ci insegna ad amare, ricordandoci il comandamento dell’amore.  Gesù lo chiama Paraclito, Difensore perché ci protegge e difende da noi stessi dato che il peggiore dei mali è dimenticare che l’essenziale del vangelo consiste nell’amarsi e mettersi al servizio gli uni degli altri. Nell’odierna prima lettura abbiamo visto il Difensore all’opera nella prima comunità in occasione del primo concilio di Gerusalemme dove gravi erano le difficoltà di convivenza tra cristiani di origine ebraica e quelli di origine pagana e lo Spirito d’amore ispirò i discepoli alla volontà di mantenere a ogni costo l’unità.

+Giovanni D’Ercole

Venerdì, 16 Maggio 2025 14:37

Amare è Creare: «Gloria» che volta pagina

Martedì, 13 Maggio 2025 09:47

5a Domenica di Pasqua (anno C)

V Domenica di Pasqua [18 Maggio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Già in questa prima settimana papa Leone XIV ci sta dando in maniera pacata e profonda delle indicazioni di marcia da ben interiorizzare. Invito a non perdere nessuno dei suoi discorsi tutti sempre letti e mai pronunciati a braccio. Perché? Interessante cercare una risposta. Oggi poi ci sarà l’omelia dell’inizio del suo ministero petrino e quindi in un certo senso programmatica del pontificato di cui mostrerà lo stile. 

 

*Prima Lettura dagli Atti degli Apostoli (14,21b-27)

Da Antiochia di Siria, Paolo e Barnaba erano partiti in nave verso la costa sud di quella che oggi chiamiamo Turchia, passando per Cipro; avevano fatto tappa ad Antiochia di Pisidia, Iconio (oggi Konya), Listra e Derbe e ovunque, come abbiamo visto domenica scorsa, Paolo e Barnaba si rivolgevano dapprima ai giudei, ricevendo un’accoglienza piuttosto “contrastante”. Entusiasmo da parte di alcuni che si convertivano e rifiuto violento da parte di altri che si opponevano decisamente fino a scacciarli e fu ad Antiochia di Pisidia che decisero di rivolgere la parola non solo ai giudei, ma anche a coloro che venivano chiamati “timorati di Dio”, cioè praticanti della religione ebraica pur non ancora integrati mediante la circoncisione, e dunque, a rigor di termini, ancora pagani. Per questo Paolo dice che Dio per mezzo di loro aveva “aperto ai pagani la porta della fede” (v.27).  Nel tragitto di ritorno di questo primo viaggio missionario Paolo e Barnaba ripercorrono lo stesso itinerario in senso inverso e visitano nuovamente le comunità da loro recentemente fondato che già subivano persecuzioni perché Luca precisa che Paolo e Barnaba li esortavano a restare saldi nella fede, dicendo che dobbiamo passare attraverso molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio (v.22). Gesù aveva già usato espressioni simili: “bisogna che il Figlio dell’Uomo soffra molto e sia respinto da questa generazione” (Lc 17,25)… oppure, rivolgendosi ai discepoli di Emmaus: “Non doveva il Cristo patire queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26).Dio non ci impone prove o sofferenze in modo preventivo ma, a causa della durezza del cuore umano, i veri profeti incontrano  persecuzione finché il mondo non si converte all’amore, alla giustizia, alla condivisione. Paolo e Barnaba si preoccupano dunque di rafforzare la fede e il coraggio dei nuovi convertiti vegliando anche sulla buona organizzazione delle comunità. Anzitutto designano dei responsabili, gli “anziani”, termine greco “presbyteros” (da cui deriva il nostro termine “prete”) e, dopo aver pregato e digiunato, li affidarono al Signore. Luca insiste sull’importanza della preghiera e del digiuno perché non si cura solo l’organizzazione, ma sono altrettanto importanti la preghiera e il digiuno. In effetti un evangelizzatore che non prega più, presto non evangelizzerà più. Luca annota che affidarono i responsabili delle nuove comunità al Signore perché agissero  con coraggio e responsabilità come Paolo e Barnaba si erano affidati alla grazia di Dio e proseguivano il loro viaggio raccontando  ai membri della comunità di Antiochia di Siria tutto ciò che Dio aveva fatto con loro. Luca parla sia dell’opera che gli apostoli avevano compiuto sia di ciò che Dio aveva fatto con loro e questo ci fa capire che la missione affidata da Dio ai credenti è un’opera di Dio affidata all’uomo e opera dell’uomo sostenuta, accompagnata, continuamente ispirata da Dio. 

 

*Salmo responsoriale (144 (145), 8-13)

Del salmo 144 (145), scelto per questa quinta domenica di Pasqua, ci sono qui soltanto sei versetti, mentre in totale sono ventuno tanti quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Si tratta di un salmo alfabetico, un acrostico e ogni versetto comincia con una delle lettere dell’alfabeto ebraico, in ordine alfabetico. E’ dunque un salmo di lode per l’Alleanza: un modo per dire che tutta la nostra vita, dalla A alla Z (in ebraico da aleph a tav), è immersa nell’Alleanza e tenerezza di Dio. Ma perché questo salmo 144 (145) proprio oggi e perché solo questi sei versetti? Anzitutto, questo salmo fa parte della preghiera ebraica di ogni mattino e l’alba di un nuovo giorno evoca per l’ebreo credente l’alba del giorno definitivo, del mondo futuro e della creazione rinnovata. Per noi cristiani, in questo tempo pasquale il salmo ricorda che il Giorno del regno definitivo di Dio è già cominciato, davanti ai nostri occhi, con la risurrezione di Cristo. Inoltre, nella spiritualità ebraica, il Talmud (cioè l’insegnamento dei rabbini dei primi secoli dopo Cristo) afferma che colui che recita questo salmo tre volte al giorno “può essere certo di essere un figlio del mondo futuro”. Per noi cristiani il mondo futuro di cui parla la fede ebraica è proprio la creazione rinnovata da Gesù Cristo e i sei versetti scelti per oggi costituiscono un condensato della rivelazione e il salmo si armonizza perfettamente con i toni del tempo pasquale, in particolare, con le altre letture di questa domenica.  Il primo versetto“Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” è il miglior riassunto di tutta la rivelazione biblica: infatti è il nome che Dio ha dato di sé stesso a Mosè (Es 34,6).Il secondo versetto: “Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature” è una scoperta enorme per l’umanità che dobbiamo proprio al popolo eletto; un tema già presente nell’Antico Testamento: Dio ama tutta l’umanità e il suo progetto d’amore, come dice san Paolo, riguarda l’intera umanità. Avvertiamo una risonanza particolare di questo negli Atti degli Apostoli e in modo speciale nella prima lettura di questa domenica di Pasqua che insiste sul fatto che l’annuncio dell’amore di Dio non è riservato agli ebrei, ma è per tutte le nazioni. Inoltre questo salmo, soprattutto nei versetti letti oggi, insiste sulla regalità di Dio: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno, il tuo regno è un regno eterno, il tuo dominio si estende per tutte le generazioni”. Quattro volte torna la parola “regno” (una volta “dominio”) e le parole “opere” e “imprese” che nella Bibbia fanno sempre riferimento alla liberazione dall’Egitto: Dio ha liberato il suo popolo allora e lo libera oggi e questo fino all’ultima liberazione che è la vittoria sulla morte. Un salmo dunque particolarmente adatto al tempo pasquale perché il Risorto sperimenta nella sua carne la regalità di Dio. Quando Israele componeva questo salmo, l’insistenza sulla regalità di Dio, o sul suo dominio, era un modo per affermare che mai si affideranno agli idoli perché l’unico loro Re e Signore è Dio, il Dio dell’amore. Quando i cristiani pregano questo salmo, sanno bene che in Cristo, re servo, umile nella Passione e trionfatore sulla morte, vedono la presenza del re dell’universo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” disse Gesù agli apostoli (Gv.14, 9).

NOTA. Leggendo l’intero salmo si nota una profonda somiglianza con il Padre Nostro: ci si rivolge a Dio come Padre – “Padre nostro… dacci… perdonaci… liberaci dal male…” – un Padre che è il Dio di misericordia e pietà come si esprime il salmo. Ci si rivolge a lui anche come Re: “venga il tuo Regno”.  In realtà tutte le frasi che Gesù ha raccolto nel Padre Nostro facevano già parte delle preghiere abituali del popolo ebraico

Secondo che si conti come una o due lettere il segno Sin/Shin (lo stesso simbolo si pronuncia talvolta Sin, talvolta Shin), si conteranno 21 o 22 lettere nell’alfabeto ebraico. I grammatici distinguono le due lettere Sin e Shin e l’alfabeto conta 22 lettere, ma il salmista utilizza solo la lettera Shin e dunque il salmo conta 21 versetti.

 

*Seconda Lettura dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni (21, 1-5a)

“Ecco, io faccio nuove tutte le cose”: cielo nuovo, terra nuova, Gerusalemme nuova; questo è il nostro futuro, il nostro “a-venire”, cioè ciò che viene. Finite le lacrime, la morte, i lamenti, le grida, la tristezza… tutto questo appartiene al passato: il primo cielo e la prima terra sono scomparsi. In altre parole, il passato è passato, compiuto. Giovanni ci ha avvertiti: il suo libro è un libro di visioni, che svela il futuro per dare il coraggio di affrontare il presente. Il primo cielo e la prima terra rimandano al racconto biblico della creazione e per comprendere questo passo dell’Apocalisse occorre rifarsi al libro della Genesi che nel primo capitolo presenta “la prima creazione” di cui l’Apocalisse afferma che era totalmente buona: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gn 1,31). Nonostante questo però ogni giorno vediamo lacrime, grida, tristezza, morte come ripete l’Apocalisse e la causa sta nel racconto del frutto proibito (Gn.3) spiegando cosa ha corrotto la bontà della creazione. Radice di tutte le sofferenze è la frattura creatasi tra Dio e l’umanità con il sospetto originario che distrugge l’Alleanza e spinge l’uomo a percorrere vie che lo portano solo al fallimento. Il popolo eletto ha ascoltato, tramite i profeti, il richiamo alla via dell’Alleanza che è l’unica via verso la vera felicità. Occorre che Dio abiti davvero in mezzo a noi perché siamo il suo popolo, e Lui sia il nostro Dio. Ristabilire l’Alleanza come un dialogo d’amore è la sete di Israele lungo tutta la sua storia e molti profeti annunciano ciò che l’autore dell’Apocalisse ora vede compiuto. Isaia scrive: “Ecco, io creo cieli nuovi e terra nuova… non ci si ricorderà più del passato, non tornerà più in mente… Non si udranno più in essa voci di pianto né grida di angoscia… Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che non completi i suoi giorni» (Is 65,17-20). Ma perché simbolicamente il rinnovamento di tutte le cose è rappresentato dalla scomparsa del mare anche se Israele non è un popolo di marinai? La ragione è che la creazione dell’universo, nella Bibbia, è letta a partire dalla nascita del popolo eletto e questa nascita, cioè l’uscita dalla schiavitù d’Egitto, è stata una vittoria sul mare: Dio ha fatto apparire la terra asciutta per permettere il passaggio del suo popolo; il popolo salvato ha attraversato il mare a piedi e le forze del male, della schiavitù e dell’oppressione sono state inghiottite. Più tardi, nel Nuovo Testamento, il Figlio di Dio fatto uomo ha manifestato la sua vittoria sul male e sulle sue forze  camminando sulle acque. Ora la vittoria è totale, suggerisce l’Apocalisse: il mare è scomparso e  con esso ogni forma di male: sofferenza, lacrima, grido, morte. L’umanità e l’intero universo attendono il compimento del progetto che Dio aveva quando creò il mondo: stabilire con l’umanità un’Alleanza senza ombre, un eterno dialogo d’amore come appare nel tema delle nozze tra Dio e l’umanità sempre presente nella Bibbia. Si pensi ai profeti Osea o Isaia e al Cantico dei Cantici e nel Nuovo Testamento, al racconto delle nozze di Cana, per citarne uno solo. Qui, nel nostro brano dell’Apocalisse, tale promessa emerge da due immagini: quella della Gerusalemme nuova, “pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (v.2) e dall’espressione “Dio con loro” (v.3) dove “con” esprime l’Alleanza d’amore, alleanza sponsale. “Udii allora una voce potente, che veniva dal trono, che diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio-con-loro” (v.3. ). Inoltre il centro della nuova creazione porta il nome della città santa – “ecco che la Gerusalemme nuova “discende da Dio” - la città che, da secoli, simboleggia l’attesa del popolo eletto e il nome stesso di Gerusalemme significa “Città della giustizia e della pace” “discendente Dio” e per questo detta “nuova”. La nuova Gerusalemme non è solo opera umana perché il regno di Dio, che attendiamo e a cui cerchiamo di collaborare, è allo stesso tempo in continuità e in rottura con questa terra. Siamo pertanto invitati a collaborare con Dio e il nostro impegno contribuisce al rinnovamento della creazione grazie all’intervento di Dio che trasfigurerà i nostri sforzi.Percepiamo questo pure nella lettera di san Paolo ai Romani: “Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione infatti è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio… poiché anche la creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,19-22).

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (13, 31- 35)

Le prime frasi di questo testo sono come una sorta di variazioni sul tema della “gloria”:

“Quando Giuda fu uscito, Gesù disse: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà e lo glorificherà subito”: tutto questo può sembrarci un po’ complicato, ma in realtà è un modo molto ebraico di parlare: esprime la reciprocità del rapporto tra il Padre e il Figlio, o meglio la loro unione profonda: “Chi ha visto me ha visto il Padre”, scrive Giovanni (14,8) e ancora: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (10,30). “Il Figlio dell’uomo è glorificato, o che Dio è glorificato in lui”, vuol dire che il Figlio è il riflesso del Padre e notiamo ancora una volta quanto sia necessario uno sforzo per comprendere il linguaggio di Gesù e dei suoi contemporanei.  Proprio nel momento in cui Giuda esce nella notte del tradimento, Gesù porta a compimento la sua vocazione di essere il riflesso del Padre. Ma Giovanni non l’ha capito subito perché insieme agli apostoli hanno assistito impotenti alla sua passione e morte; hanno vissuto questa successione di eventi come un momento di orrore e solo dopo Giovanni comprenderà che quello era in realtà l’istante della gloria di Gesù: perché proprio lì il Figlio rivelava fino a che punto arriva l’amore del Padre. E dato che il Figlio tradito, abbandonato, perseguitato da tutti, continua lui solo contro tutti, a essere solo amore, benevolenza, perdono, rivela al mondo fino a dove arriva l’amore del Padre, un amore infinito. E allora – e questa è la seconda parte del nostro testo – coloro che contemplano questo mistero dell’amore folle di Dio diventano capaci a loro volta di amare come lui. Gesù infatti collega chiaramente le due cose: dice che ora rivelerà al mondo fino a che punto arriva l’amore del Padre e precisa:  “ora vi do un comandamento nuovo, che vi amiate come io vi ho amati”, ma aggiunge anche che solo ora sarete capaci perché attingerete al mio stesso amore. In realtà, la novità non è il comandamento di amare; Gesù non inventa il comandamento dell’amore che esiste già nell’insegnamento dei rabbini del suo tempo. Ciò che è nuovo è l’amare come lui, ma non solo “alla sua maniera”, cioè fino a dare la propria vita rifiutando ogni potere, dominio e violenza. La vera novità è amare “davvero come lui”, cioè essendo completamente guidati dal suo Spirito. Solo così possiamo capire in modo del tutto nuovo la famosa frase: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”. Non si tratta solo di un comandamento, ma piuttosto di una constatazione: siamo davvero suoi discepoli perché è il suo stesso Spirito a guidare i nostri comportamenti. Dio sa bene quanto l’amore quotidiano sia difficile, e se riusciamo nelle nostre comunità ad amarci, il mondo sarà costretto ad ammettere questa evidenza: che lo Spirito di Cristo agisce in noi. Siamo dunque innanzitutto invitati a un atto di fede: credere che il suo Spirito d’amore abita in noi, che le sue risorse d’amore abitano in noi: che possediamo capacità d’amare insospettabili, perché sono le sue, e allora diventa possibile amare “come” lui, perché lasciamo il suo Spirito agire in noi. Sappiamo però per esperienza che non è affatto facile amare chi ci sta accanto, anzi con alcuni è persino impossibile parlare di amore e di perdono. Gesù certamente non ignora tutto ciò quando comanda l’amore reciproco ai suoi discepoli; ma non bisogna confondere amore e sensibilità. Gesù ha mostrato con i gesti di quale amore dobbiamo amarci quando  durante l’ultima cena ha lavato i piedi degli apostoli e ha concluso dicendo: “Vi ho dato l’esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. Ecco dunque cosa significa amare “come” lui ci ha amati! Se ci pensiamo bene, è possibile grazie al suo Spirito mettersi al servizio gli uni degli altri, anche di quelli per cui non proviamo alcuna simpatia. Ma la fedeltà a questo comandamento è per noi vitale perché è su questo che le nostre comunità sono giudicate. Per Gesù la cosa più importante non è la qualità dei nostri discorsi, della nostra teologia e delle nostre conoscenze, né la bellezza delle nostre celebrazioni, bensì la qualità dell’amore che ci offriamo gli uni agli altri. Gesù in quell’ultima drammatica  sera gridò :”Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato (cioè rivelato come Dio), e Dio è stato glorificato in lui”. L’umanità è introdotta nella gloria, nella presenza, nella vita di Dio, attraverso l’evento della passione-morte-risurrezione di Cristo. E ormai introdotti nella “gloria” di Dio (cioè il sacrificio di Cristo), i suoi discepoli possono vivere interamente sotto il segno dell’amore, poiché Dio è amore e la sua presenza risplende anche attraverso di loro. Basta solo crederci e lasciare agire lo Spirito in noi.

+Giovanni D’Ercole

Martedì, 13 Maggio 2025 05:01

Vite e tralci: una nuova Mistica

(Gv 15,1-8)

 

L’allegoria della vite e dei tralci descrive la Presenza del Signore in mezzo ai suoi. Egli è fonte della vita intima e delle opere.

L’imperativo di credere in Lui (c.14) diventa esigenza di ‘rimanere’ in Lui [cf. Gv 6,56: tema eucaristico del ‘corpo unico’].

Gesù si serve dell’immagine della vite e dei tralci per trasmettere un insegnamento sulla famigliarità con Lui e la fraternità tra discepoli, che ne illustri il legame profondo.

Unione intima, alimento comune, solidarietà, continuità del legame, richiedono un’opera attenta e costante, tra cui «taglio e mondatura» perché non tutti i pampini e i germogli recano fecondità.

Ma attenzione: l'Amore divino è impulso che chiede un “lasciarsi portare”. Esso trascina; ci prende e si fa linfa nutriente. C’investe purificando.

Non è dimensione da intendersi quale “sforzo” (sostanzialmente nostro) bensì come un... essere afferrati e farsi coinvolgere nel moto della vita di Grazia.

Gesù invita ad avere cura dei codici dell’interiorità: da essi assumere l’impulso risoluto cui affidare le scelte, e che già ci ha guidati a crescere.

 

Nel brano di Vangelo il Creatore-contadino «taglia e purifica», per riallacciare tale ‘intesa’ personale.

Gesù parla di «Vite quella vera» (v.1): è solo Lui il germe autentico del Popolo piantato dal Padre.

Vuol dire che in giro venivano inculcati insegnamenti devianti, e interrate o esposte false “viti” [come quella favolosa ricolma di pampini d’oro sulla porta del Santuario interno del Tempio di Gerusalemme].

La linfa vitale non scorre dalle ricchezze, né da dottrine e discipline - neppure dalle grandi, impressionanti magnificenze del vecchio culto.

E l’interesse dell’agricoltore è che la Vigna porti sempre più «Frutto» ossia Amore; null’altro.

Il «permanere» di Cristo nei discepoli, la sua ‘unione’ con ciascuno, è essenziale per vivere sulla terra la stessa vita divina.

La Fede-amore ‘incorpora’ ed è contagiosa.

Laddove incontrasse resistenza, sarà proprio tale ostacolo a incitarla a maggiore purezza, dunque a più vigore (v.2).

Per questo motivo prima «Taglia» ciò ch’è stato rigoglioso nel passato ma non darebbe più nulla.

Ce ne accorgiamo nel tempo della crisi, che smaschera e rovescia posizioni assillanti e importune, mortificanti lo sviluppo.

Poi «Purifica» (v.2: testo greco) ossia procede come fa il bravo villico, a una seconda sfrondatura leggera dei germogli della vite; staccando quelli che assorbono linfa ma si addensano troppo e non hanno giusta vitalità [onde non togliere nutrimento ai punti propulsivi].

 

Questo brano è stato spesso interpretato come invito per eccellenza ad abbracciare una spiritualità delle “potature” [il termine nei Vangeli non esiste] che non ha senso in ottica di Fede, ossia d’Amore.

Nelle religioni tradizionali è il soggetto - «tralcio» - a doversi centrare su se stesso, individuare le mancanze, i difetti e vizi, e “potarli”.

Invece solo il Padre-agricoltore sa riconoscere gli elementi nocivi, quelli parassiti e senza futuro, che non vale la pena continuare a sorreggere.

La vita in Cristo non c’insedia su un’immagine di sterile perfezione esterna, che a Dio non interessa.

Una Potenza spontanea, il mistero delle radici vocazionali, l’opera a più livelli di un’essenza radicale, innata, che ci accompagna, sono in grado di alimentare e correggere ogni geometria a tavolino.

Agli impedimenti pensa il Padre, non il singolo tralcio, né altri tralci.

In tal guisa - cedendo il dirigismo esterno - non produrremo danni irreparabili.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quale Linfa ti sazia, quella esterna? Quale geometria mondana e normale segui? Qual è la tua idea di miglioramento nella Fede?

 

 

[Mercoledì 5.a sett. di Pasqua, 21 maggio 2025]

Martedì, 13 Maggio 2025 04:57

Vite e tralci: una nuova Mistica

(Gv 15,1-8)

 

L’allegoria della vite e dei tralci descrive la Presenza del Signore in mezzo ai suoi. Egli è fonte della vita intima e delle opere.

L’imperativo di credere in Lui (c.14) diventa esigenza di rimanere in Lui [cf. Gv 6,56: tema eucaristico del “corpo unico”].

La vite è una pianta che esige molte attenzioni. Nei testi biblici è presa come simbolo delle cure di Dio verso il suo popolo, e viceversa la sua distruzione raffigurava le antiche calamità nazionali.

Gesù si serve dell’immagine della vite e dei tralci per trasmettere un insegnamento sulla famigliarità con Lui e la fraternità tra discepoli, che ne illustri il legame profondo.

Unione intima, alimento comune, solidarietà e continuità del legame richiedono un’opera attenta e costante, tra cui taglio e mondatura, perché non tutti i pampini e i germogli recano fecondità.

Ma attenzione: l'Amore divino è impulso che chiede un lasciarsi portare. Esso trascina; ci prende e si fa linfa nutriente. C’investe purificando.

Non è dimensione da intendersi quale sforzo (sostanzialmente nostro) bensì come un... essere afferrati e farsi coinvolgere nel moto della vita di Grazia.

A paragone con le allusioni del Primo Testamento, si nota una sostituzione: sebbene il vignaiolo continui a rappresentare il Padre, la vite non è più figura del popolo, ma di Gesù.

E «portare frutto» è espressione frequente che indica solo Amore: il risultato vero che Dio si attende, l’opera unica da realizzare in tutte le nostre opere.

Il permanere di Cristo nei discepoli, la sua unione con ciascuno, è essenziale per vivere sulla terra la stessa vita divina.

La Fede-amore incorpora ed è contagiosa. Laddove incontrasse resistenza, sarà proprio tale ostacolo a incitarla a maggiore purezza, dunque a più vigore (v.2).

L’uomo invece abbandonato a se stesso non prolunga l’influsso di Cristo; non supera le barriere della nomenclatura e del normale.

Chi s’immagina autosufficiente - spezzando l’unione - incrina il Mistero che lo avvolge, e sarà preda dei suoi stessi affastellamenti infecondi.

Ma è anche vero che una vigna di razza è invadente per sua natura: dimostra in modo palese una piena disponibilità a esprimere… amore (frutto, gusto, vita).

Insomma, se oggi la missione segna il passo è perché ha già perso la sua vitalità dinamica: non basteranno i piani di adattamento o le narrazioni e una riforma esterna a risuscitarla.

È l’Incontro vitale che fa emergere le onde della forza e della più amichevole franchezza.

 

Negli anni, la Vocazione ci ha guidati e portati ad avere un modo di essere personale e un ambito di relazioni caratterizzante.

Ancora il Signore continua a chiamare, affinché entrando nel suo linguaggio [irripetibile, commisurato a ciascuna vicenda e sensibilità] veniamo sottratti a condizionamenti che non ci appartengono.

Gesù invita ad avere cura dei codici dell’interiorità, e da essi assumere l’impulso risoluto cui affidare le scelte e che già ci ha guidati a crescere.

Dagli albori della nostra storia e della nostra personalità, Lui solo continua ad essere Fonte intima e zampillante dello sviluppo - anche delle impronte che avevamo trattenuto.

Se ci fossimo affidati all’esteriorità, l’anima avrebbe disperso la sua linfa, smarrendo l’essenza che le apparteneva e specificava.

Così non avremmo incontrato noi stessi e non ci saremmo mai alimentati delle risorse costitutive più efficienti, che ora donano insieme equilibrio, maggiore completezza, capacità di giudizio in situazione, amabile trasparenza.

Si diventa se stessi, si diventa persona a tutto tondo, si diventa missionari, allo stesso modo: capendo che nelle vene scorre una Linfa, uno stimolo, che viene da Chi la sa più lunga di noi e delle opinioni.

Ci sono piante di sottobosco, altre che svettano; altre ancora, intrufolandosi nelle zone vuote e misteriosamente lasciate alla luce piena stanno crescendo a ritmo assai sostenuto rispetto a quelle da molto tempo piantate e installate - habitué da sembrare omologate.

La magia del creato - vite, tralci - parla di un altro regno, di un Logos che si correla a noi e dirige sapientemente i suoi flussi e le forze vitali.

In tal guisa accade nello Spirito, che interiorizza, chiama, nutre, trasmette equilibrio o profezia, e genera lo stupore del tutto e dell’unicità.

Come hanno fatto quei semi (nell’esempio che ho davanti casa, un doppio pino e un pino singolo) a radicare proprio nei punti caratteristici, intermedi e giusti - sia dal punto di vista estetico che dell’utilità, densità e ampiezza? Neanche avrei saputo pensarli così nitidamente disposti; tanto allineati in perfetta proporzione, misura, volume e scala.

Solo l’Alleato nascosto vede bene l’insieme, la struttura, la funzionalità e i dettagli delle nostre fibre.

Egli sa dove condurre, e come nutrirci per ritrovare l’Io, l'unità qualitativa dell’essere.

Lo fa seminando, immettendo, rigenerando, calibrando l’energia del suo e nostro Sogno. A ritmo conveniente, e curando la banalità razionale utilitarista dei nostri progetti. 

Incessantemente ricentrando il portato personale, la consapevolezza di sé, l’inclinazione spontanea.

Nonché distaccando l’anima da chi in mille modi vuole lasciarci nell’ignoranza della Via creaturale, per trattenere i luoghi comuni ed i totem del suo mondo abitudinario, snervante.

Ciò mentre lo Spirito separa il nostro pensiero poliedrico da false guide unilaterali [antiquate e grette, o isteriche e sofisticate, ma disincarnate].

I primi della classe magari pedinano, incalzano, e plagiano, distraendoci dal Dialogo non conformista con l’irripetibile compito della vita personale.

 

Nel brano di Vangelo il Creatore-contadino taglia e purifica, per riallacciare l’intesa.

Gesù parla di «Vite quella vera» (v.1): è solo Lui il germe autentico del Popolo piantato dal Padre.

Vuol dire che in giro venivano inculcati insegnamenti devianti, e interrate o esposte false viti - come quella favolosa ricolma di pampini d’oro sulla porta del Santuario interno del Tempio di Gerusalemme.

La linfa vitale non scorre dalle ricchezze, né da dottrine e discipline - neppure dalle grandi, impressionanti magnificenze del vecchio culto. 

Neppure da fantasie à la page e senza spina dorsale.

L’interesse dell’Agricoltore è che la Vigna porti sempre più Frutto ossia Amore, null’altro.

In tale traiettoria, il Contadino che sa cosa fare, «taglia» (v.2) [anche affinché non ci siano cordate, marpioni organizzati. Essi che assorbono le energie del suo popolo [munto e tosato] senza minimamente porsi il problema di comunicare - a loro volta - vita autentica agli altri.

 

Prima «Taglia» ciò ch’è stato rigoglioso nel passato ma non darebbe più nulla.

Ce ne accorgiamo nel tempo della crisi, che smaschera e rovescia posizioni assillanti e importune, mortificanti lo sviluppo.

Poi «purifica» (v.2: testo greco) ossia procede come fa il bravo villico, a una seconda sfrondatura leggera dei germogli della vite; staccando quelli che assorbono linfa ma si addensano troppo e non hanno giusta vitalità [onde non togliere nutrimento ai punti propulsivi].

 

Questo brano è stato spesso interpretato come invito per eccellenza ad abbracciare una spiritualità delle “potature” [il termine nei Vangeli non esiste] che non ha senso in ottica di Fede, ossia d’Amore.

Nelle religioni antiche è il soggetto - «tralcio» - a doversi centrare su se stesso, individuare le mancanze, difetti e vizi, e “potarli”.

Invece solo il Padre-agricoltore sa individuare gli elementi nocivi, quelli parassiti e senza futuro, che non vale la pena continuare a sorreggere.

Egli agisce nella realtà del nostro cammino, come si farebbe con un’antiquata e intimamente corrotta costruzione di cartapesta [nonché, con le fantasie alla moda, che portano al vuoto].

 

La vita in Cristo non si preoccupa dei limiti esterni, anzi evita di rendere protagonisti i difetti [rinnegati!] della vita spirituale.

Tale configurazione risulterebbe ossessiva, inconcludente, perché insediata su un’immagine di sterile “perfezione” che a Dio non interessa.

Piuttosto, sarà uno stupore osservare come nel cammino di Fede proprio le anime incerte, i loro passi malfermi e lati considerati oscuri possano nascondere le vere Perle del mondo.

Una Potenza spontanea, il mistero delle immagini che sgorgano dal profondo delle radici vocazionali e riattivano energie; l’opera a più livelli di un’essenza radicale, innata, che ci accompagna [immanente l’essere e che ne sa più di noi] sono energie tutte in grado di alimentare e correggere ogni geometria a tavolino.

Come non produrre danni irreparabili? Cedendo il dirigismo esterno.

 

Agli impedimenti pensa il Padre, non il singolo tralcio, né altri tralci - reduci, esperti, veterani che siano.

Sebbene più in alto, più grossi... eletti a vita, costoro non fornirebbero giusto umore vitale, né legame organico: ci presenterebbero solo contenuti sepolti, e il conto.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quale Linfa ti sazia, quella esterna?

Quale geometria mondana e normale segui?

Qual è la tua idea di miglioramento nella Fede?

Martedì, 13 Maggio 2025 04:54

Svolta decisiva

L’immagine della vigna, con le sue implicazioni morali, dottrinali e spirituali, ritornerà nel discorso dell’Ultima Cena, quando, congedandosi dagli Apostoli, il Signore dirà: "Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto" (Gv 15,1-2). A partire dall’evento pasquale la storia della salvezza conoscerà dunque una svolta decisiva, e ne saranno protagonisti quegli "altri contadini" che, innestati come scelti germogli in Cristo, vera vite, porteranno frutti abbondanti di vita eterna (cfr Orazione colletta). Tra questi "contadini" ci siamo anche noi, innestati in Cristo, che volle divenire Egli stesso la "vera vite". Preghiamo che il Signore che ci dà il suo sangue, Se stesso, nell’Eucaristia, ci aiuti a "portare frutto" per la vita eterna e per questo nostro tempo.

[Papa Benedetto, omelia XII Sinodo 5 ottobre 2008]

Martedì, 13 Maggio 2025 04:50

Legame organico

La parabola della vite e dei tralci mette in evidenza, in modo particolare, quel legame, in un certo senso “organico”, che esiste tra Cristo e la Chiesa: tra Cristo e tutti coloro che da lui traggono la vita, così come il tralcio trae la vita dalla vite.

Ciò si riferisce ad ogni singolo uomo, e al tempo stesso si riferisce all’intera comunità del popolo di Dio: alla Chiesa.

La Chiesa intera - come un ricco “complesso” di tralci rimane in Cristo: nella vite. Da lui trae la vita. “Senza di lui essa non può far nulla”: nulla di veramente salvifico.

L’intera salvezza, la grazia tutta, si trova in lui: in Cristo. E in noi: negli uomini, da lui, e solo da lui e per mezzo di lui.

2. Vogliamo oggi ringraziare il Padre eterno, “il Padre infatti è il vignaiolo”, per questa vita che ci è stata rivelata e che è stata data a noi, uomini, in Gesù Cristo crocifisso e risorto.

Ringraziamo per il mistero pasquale, nel quale Cristo si è rivelato una volta per sempre come la vite, e in pari tempo ha rivelato il Padre suo come colui che coltiva.

Desideriamo che ogni uomo, ogni cristiano maturi in qualità di “divina coltura” del Padre - nel Figlio - nel Cristo risorto.

Desideriamo che ognuno, mediante tale legame “organico” con lui, porti molto frutto.

3. E proprio questa nostra preghiera desideriamo presentare alla Madre di Cristo, invitandola - laetare! - alla gioia pasquale della Chiesa.

Che ella ci aiuti a rimanere nel suo Figlio: in Cristo vite, perché costituiamo con lui un solo corpo, vivificato dallo Spirito della Pentecoste pasquale.

[Papa Giovanni Paolo II, Regina Coeli del 5 maggio 1985]

Martedì, 13 Maggio 2025 04:38

Non c’è vite senza tralci, e viceversa

Il Signore si presenta come la vera vite e parla di noi come i tralci che non possono vivere senza rimanere uniti a Lui. Dice così: «Io sono la vite, voi i tralci» (v. 5). Non c’è vite senza tralci, e viceversa. I tralci non sono autosufficienti, ma dipendono totalmente dalla vite, che è la sorgente della loro esistenza.

Gesù insiste sul verbo “rimanere”. Lo ripete ben sette volte nel brano evangelico odierno. Prima di lasciare questo mondo e andare al Padre, Gesù vuole rassicurare i suoi discepoli che possono continuare ad essere uniti a Lui. Dice: «Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Questo rimanere non è un rimanere passivo, un “addormentarsi” nel Signore, lasciandosi cullare dalla vita. No, non è questo. Il rimanere in Lui, il rimanere in Gesù che Lui ci propone è un rimanere attivo, e anche reciproco. Perché? Perché i tralci senza la vite non possono fare nulla, hanno bisogno della linfa per crescere e per dare frutto; ma anche la vite ha bisogno dei tralci, perché i frutti non spuntano sul tronco dell’albero. È un bisogno reciproco, è un rimanere reciproco per dare frutto. Noi rimaniamo in Gesù e Gesù rimane in noi.

Prima di tutto noi abbiamo bisogno di Lui. Il Signore ci vuole dire che prima dell’osservanza dei suoi comandamenti, prima delle beatitudini, prima delle opere di misericordia, è necessario essere uniti a Lui, rimanere in Lui. Non possiamo essere buoni cristiani se non rimaniamo in Gesù. E invece con Lui possiamo tutto (cfr Fil 4,13). Con Lui possiamo tutto.

Ma anche Gesù, come la vite con i tralci, ha bisogno di noi. Forse ci sembra audace dire questo, e allora domandiamoci: in che senso Gesù ha bisogno di noi? Egli ha bisogno della nostra testimonianza. Il frutto che, come tralci, dobbiamo dare è la testimonianza della nostra vita cristiana. Dopo che Gesù è salito al Padre, è compito dei discepoli – è compito nostro – continuare ad annunciare il Vangelo, con la parola e con le opere. E i discepoli – noi, discepoli di Gesù – lo fanno testimoniando il suo amore: il frutto da portare è l’amore. Attaccati a Cristo, riceviamo i doni dello Spirito Santo, e così possiamo fare del bene al prossimo, fare del bene alla società, alla Chiesa. Dai frutti si riconosce l’albero. Una vita veramente cristiana dà testimonianza a Cristo.

E come possiamo riuscirci? Gesù ci dice: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (v. 7). Anche questo è audace: la sicurezza che quello che noi chiediamo ci sarà dato. La fecondità della nostra vita dipende dalla preghiera. Possiamo chiedere di pensare come Lui, agire come Lui, vedere il mondo e le cose con gli occhi di Gesù. E così amare i nostri fratelli e sorelle, a cominciare dai più poveri e sofferenti, come ha fatto Lui, e amarli con il suo cuore e portare nel mondo frutti di bontà, frutti di carità, frutti di pace.

Affidiamoci all’intercessione della Vergine Maria. Lei è rimasta sempre pienamente unita a Gesù e ha portato molto frutto. Ci aiuti lei a rimanere in Cristo, nel suo amore, nella sua parola, per testimoniare nel mondo il Signore Risorto.

[Papa Francesco, Angelus 2 maggio 2021]

Lunedì, 12 Maggio 2025 05:10

Pace o tregua: l’Annuncio imperativo

(Gv 14,27-31)

 

Nei Vangeli la Pace-Shalôm di Cristo è un cenno di emancipazione dalle umiliazioni e dai rifiuti; assunto e reinterpretato in ordine all’imperativo dell’Annuncio apostolico.

Esso crea una nuova situazione.

E appunto, il «Vado e Vengo da voi» (v.28) è una endiadi semitica: due affermazioni unite, che si riferiscono al medesimo accadimento [generativo, vitale] di morte e vita completa.

L’espressione-evento non è tale da farsi soggetta a condizioni.

Termina l’arco del ministero terreno del Signore; si accende un’Alleanza.

Tempo della Parola e dell’azione diffuse, con risultati complessivi; di nuovi padri e madri, nuova Creazione.

Insomma, la Pace di Gesù non è uno stato, bensì un rapporto.

Piena attuazione dell’umano - condizione non più equilibrista, secondo convenzioni.

Piuttosto, adempimento ricalibrato sulla misura del Cristo in Persona, nell’Ora della Nascita.

 

Sulla bocca di Gesù, «Shalôm» [eccellenza e superamento delle benedizioni antiche] assume i lineamenti del significato proprio, messianico.

Presenza di ‘unzione’. Discrimine dei Vangeli e Annuncio essenziale (cf. Lc 10,5).

Ampiezza di ben-essere: senza questo prezioso codice di lettura la Parola del Signore resta incomprensibile, e la Missione cui siamo inviati diventa preda di ossessioni, le più sciatte, inautentiche.

Nei territori dell’impero la Pax Romana aveva tratti trionfalistici - era sinonimo di violenza, competizione, repressione di ribelli.

Come tregua armata, si faceva garante d’una economia prospera, ma assicurata nella sua dimensione sociale solo dalle disuguaglianze, in specie da una vasta base di schiavi.

La Pace che Gesù introduce non è un augurio qualunque di migliorie normali attese, ma la trasmissione della sua stessa Persona.

Tale propensione, vicenda, e Amicizia senza prezzo, ci stimola a un riordinamento, riconfigurazione, riorganizzazione completa di tutta la vita.

E spesso la butta all’aria, onde speronarne il quietismo di circostanza.

Nel nostro linguaggio, parleremmo forse di Felicità e nuovo ordine o assetto pubblico.

 

Essendo il desiderio segreto di ciascuno, nessuna difficoltà potrà spegnerne la promessa e potenza di realizzazione (v.30).

Shalôm è pienezza di esistenza salvata, “successo” nel nostro cammino di fioritura attraverso mille imprese.

Shalôm è perfezione e gioia completa, compimento dei desideri.

Vittoria del Patto fra Dio e il popolo. Sintonia e comunione senza fine tra impulso innato della nostra essenza particolare e compimento delle speranze.

Successo dell’Alleanza fra spinta dell’anima e conquiste evolutive sperimentate nella vita reale.

Shalôm - attuazione piena dell’umanità che ritrova se stessa - indica totalità vitale e compiuta di ogni aspirazione.

Qualità di rapporti nuovi che ne scaturiscono: il bene supremo d’una Presenza in atto, affidata a noi.

 

 

[Martedì 5.a sett. di Pasqua, 20 maggio 2025]

Pagina 1 di 40
«Abide in me, and I in you» (v. 4). This abiding is not a question of abiding passively, of “slumbering” in the Lord, letting oneself be lulled by life [Pope Francis]
«Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Questo rimanere non è un rimanere passivo, un “addormentarsi” nel Signore, lasciandosi cullare dalla vita [Papa Francesco]
سَلامي أُعطيكُم – My peace I give to you! (Jn 14:27). This is the true revolution brought by Christ: that of love […] You will come to know inconceivable joy and fulfilment! To answer Christ’s call to each of us: that is the secret of true peace (Pope Benedict)
سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!]. Qui è la vera rivoluzione portata da Cristo, quella dell'amore [...] Conoscerete una gioia ed una pienezza insospettate! Rispondere alla vocazione di Cristo su di sé: qui sta il segreto della vera pace (Papa Benedetto)
Spirit, defined as "another Paraclete" (Jn 14: 16), a Greek word that is equivalent to the Latin "ad-vocatus", an advocate-defender. The first Paraclete is in fact the Incarnate Son who came to defend man (Pope Benedict)
Spirito, definito "un altro Paraclito" (Gv 14,16), termine greco che equivale al latino "ad-vocatus", avvocato difensore. Il primo Paraclito infatti è il Figlio incarnato, venuto per difendere l’uomo (Papa Benedetto)
The Lord gives his disciples a new commandment, as it were a Testament, so that they might continue his presence among them in a new way: […] If we love each other, Jesus will continue to be present in our midst, to be glorified in this world (Pope Benedict)
Quasi come Testamento ai suoi discepoli per continuare in modo nuovo la sua presenza in mezzo a loro, dà ad essi un comandamento: […] Se ci amiamo gli uni gli altri, Gesù continua ad essere presente in mezzo a noi, ad essere glorificato nel mondo (Papa Benedetto)
St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6) [Papa Benedetto]
Dear friends, the mission of the Church bears fruit because Christ is truly present among us in a quite special way in the Holy Eucharist. His is a dynamic presence which grasps us in order to make us his, to liken us to him. Christ draws us to himself, he brings us out of ourselves to make us all one with him. In this way he also inserts us into the community of brothers and sisters: communion with the Lord is always also communion with others (Pope Benedict)
Cari amici, la missione della Chiesa porta frutto perché Cristo è realmente presente tra noi, in modo del tutto particolare nella Santa Eucaristia. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a Sé. Cristo ci attira a Sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli: la comunione con il Signore è sempre anche comunione con gli altri (Papa Benedetto)
Jesus asks us to abide in his love, to dwell in his love, not in our ideas, not in our own self-worship. Those who dwell in self-worship live in the mirror: always looking at themselves. He asks us to overcome the ambition to control and manage others. Not controlling, serving them (Pope Francis)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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