Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Noi tutti oggi siamo ben consapevoli che col termine «cielo» non ci riferiamo ad un qualche luogo dell’universo, a una stella o a qualcosa di simile: no. Ci riferiamo a qualcosa di molto più grande e difficile da definire con i nostri limitati concetti umani. Con questo termine «cielo» vogliamo affermare che Dio, il Dio fattosi vicino a noi non ci abbandona neppure nella e oltre la morte, ma ha un posto per noi e ci dona l’eternità; vogliamo affermare che in Dio c’è un posto per noi. Per comprendere un po’ di più questa realtà guardiamo alla nostra stessa vita: noi tutti sperimentiamo che una persona, quando è morta, continua a sussistere in qualche modo nella memoria e nel cuore di coloro che l’hanno conosciuta ed amata. Potremmo dire che in essi continua a vivere una parte di questa persona, ma è come un’«ombra» perché anche questa sopravvivenza nel cuore dei propri cari è destinata a finire. Dio invece non passa mai e noi tutti esistiamo in forza del Suo amore. Esistiamo perché egli ci ama, perché egli ci ha pensati e ci ha chiamati alla vita. Esistiamo nei pensieri e nell’amore di Dio. Esistiamo in tutta la nostra realtà, non solo nella nostra «ombra». La nostra serenità, la nostra speranza, la nostra pace si fondano proprio su questo: in Dio, nel Suo pensiero e nel Suo amore, non sopravvive soltanto un’«ombra» di noi stessi, ma in Lui, nel suo amore creatore, noi siamo custoditi e introdotti con tutta la nostra vita, con tutto il nostro essere nell’eternità.
E’ il suo Amore che vince la morte e ci dona l’eternità, ed è questo amore che chiamiamo «cielo»: Dio è così grande da avere posto anche per noi. E l’uomo Gesù, che è al tempo stesso Dio, è per noi la garanzia che essere-uomo ed essere-Dio possono esistere e vivere eternamente l’uno nell’altro. Questo vuol dire che di ciascuno di noi non continuerà ad esistere solo una parte che ci viene, per così dire, strappata, mentre altre vanno in rovina; vuol dire piuttosto che Dio conosce ed ama tutto l’uomo, ciò che noi siamo. E Dio accoglie nella Sua eternità ciò che ora, nella nostra vita, fatta di sofferenza e amore, di speranza, di gioia e di tristezza, cresce e diviene. Tutto l’uomo, tutta la sua vita viene presa da Dio ed in Lui purificata riceve l’eternità. Cari Amici! Io penso che questa sia una verità che ci deve riempire di gioia profonda. Il Cristianesimo non annuncia solo una qualche salvezza dell’anima in un impreciso al di là, nel quale tutto ciò che in questo mondo ci è stato prezioso e caro verrebbe cancellato, ma promette la vita eterna, «la vita del mondo che verrà»: niente di ciò che ci è prezioso e caro andrà in rovina, ma troverà pienezza in Dio. Tutti i capelli del nostro capo sono contati, disse un giorno Gesù (cfr Mt 10,30). Il mondo definitivo sarà il compimento anche di questa terra, come afferma san Paolo: «la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Allora si comprende come il cristianesimo doni una speranza forte in un futuro luminoso ed apra la strada verso la realizzazione di questo futuro. Noi siamo chiamati, proprio come cristiani, ad edificare questo mondo nuovo, a lavorare affinché diventi un giorno il «mondo di Dio», un mondo che sorpasserà tutto ciò che noi stessi potremmo costruire.
[Papa Benedetto, omelia 15 agosto 2010]
1. L’uomo creato a immagine di Dio è un essere insieme corporale e spirituale, un essere cioè che, per un aspetto, è legato al mondo esteriore e per l’altro lo trascende. In quanto spirito, oltre che corpo, egli è persona. Questa verità sull’uomo è oggetto della nostra fede, così come lo è la verità biblica circa la sua costituzione a “immagine e somiglianza” di Dio; ed è verità costantemente presentata, nel corso dei secoli, dal magistero della Chiesa.
La verità circa l’uomo non cessa di essere nella storia oggetto di analisi intellettuale, nell’ambito sia della filosofia che di numerose altre scienze umane: in una parola, oggetto dell’antropologia.
2. Che l’uomo sia spirito incarnato, se si vuole, corpo informato da uno spirito immortale, lo si ricava già in qualche modo dalla descrizione della creazione contenuta nel Libro della Genesi e in particolare dal racconto “jahvista”, che fa uso, per così dire, di una “messa in scena” e di immagini antropomorfiche. Leggiamo che “il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen 2, 7). Il seguito del testo biblico ci permette di comprendere chiaramente che l’uomo, creato in questo modo, si distingue dall’intero mondo visibile, e in particolare dal mondo degli animali. L’“alito di vita” ha reso l’uomo capace di conoscere questi esseri, di imporre loro il nome e riconoscersi diverso da loro (cf. Gen 2, 18-20). Benché nella descrizione “jahvista” non si parli dell’“anima”, tuttavia è facile dedurne che la vita donata all’uomo nell’atto della creazione è di natura tale da trascendere la semplice dimensione corporale (quella propria degli animali). Essa attinge, al di là della materialità, la dimensione dello spirito, nella quale sta il fondamento essenziale di quell’“immagine di Dio”, che Genesi 1, 27 vede nell’uomo.
3. L’uomo è una unità: è qualcuno che è uno con se stesso. Ma in questa unità è contenuta una dualità. La Sacra Scrittura presenta sia l’unità (la persona) che la dualità (l’anima e il corpo). Si pensi al Libro del Siracide che dice ad esempio: “Il Signore creò l’uomo dalla terra e ad essa lo fa ritornare di nuovo” e più oltre: “Discernimento, lingua, occhi, orecchi e cuore diede loro (agli uomini) perché ragionassero. Li riempì di dottrina e d’intelligenza e indicò loro anche il bene e il male” (Sir 17, 1. 5-6).
Particolarmente significativo è, da questo punto di vista, il Salmo 8 (Sal 8, 5-7) che esalta il capolavoro umano, rivolgendosi a Dio con le seguenti parole: “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani. Tutto hai posto sotto i suoi piedi”.
4. Si sottolinea spesso che la tradizione biblica mette in rilievo soprattutto l’unità personale dell’uomo, servendosi del termine “corpo” per designare l’uomo intero (cf. Sal 145 (144), 21; Gv 3, 1; Is 66, 23; Gv 1, 14). L’osservazione è esatta. Ma ciò non toglie che nella tradizione biblica sia pure presente, a volte in modo molto chiaro, la dualità dell’uomo. Questa tradizione si riflette nelle parole di Cristo: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10, 28).
5. Le fonti bibliche autorizzano a vedere l’uomo come unità personale e insieme come dualità di anima e di corpo: concetto che ha trovato espressione nell’intera Tradizione e nell’insegnamento della Chiesa. Questo insegnamento ha recepito non soltanto le fonti bibliche, ma anche le interpretazioni teologiche che di esse sono state date sviluppando le analisi condotte da certe scuole (Aristotele) della filosofia greca.
È stato un lento lavorio di riflessione, culminato principalmente sotto l’influsso di san Tommaso d’Aquino - nei pronunciamenti del Concilio di Vienne (1312), dove l’anima è chiamata “forma” del corpo: “forma corporis humani per se et essentialiter” (DS 902). La “forma”, come fattore che determina la sostanza dell’essere “uomo”, è di natura spirituale. E tale “forma” spirituale, l’anima, è immortale. È quanto in seguito, ha ricordato autorevolmente il Concilio Lateranense V (1513): l’anima è immortale, diversamente dal corpo che è sottomesso alla morte (cf. DS 1440). La scuola tomista sottolinea contemporaneamente che, in virtù dell’unione sostanziale del corpo e dell’anima, quest’ultima, anche dopo la morte, non cessa di “aspirare” a unirsi al corpo. Il che trova conferma nella verità rivelata circa la risurrezione del corpo.
6. Benché la terminologia filosofica, utilizzata per esprimere unità e la complessità (dualità) dell’uomo, sia talvolta oggetto di critica, è fuor di dubbio che la dottrina sull’unità della persona umana e insieme sulla dualità spirituale-corporale dell’uomo è pienamente radicata nella Sacra Scrittura e nella Tradizione. E nonostante si esprima spesso la convinzione che l’uomo è “immagine di Dio” grazie all’anima, non è assente, nella dottrina tradizionale, la persuasione che anche il corpo partecipi, a suo modo, alla dignità dell’“immagine di Dio”, così come partecipa alla dignità della persona.
7. Nei tempi moderni una difficoltà particolare contro la dottrina rivelata circa la creazione dell’uomo, quale essere composto di anima e corpo, è stata sollevata dalla teoria dell’evoluzione. Molti cultori delle scienze naturali che, con metodi loro propri, studiano il problema dell’inizio della vita umana sulla terra, sostengono - contro altri loro colleghi - l’esistenza non soltanto di un legame dell’uomo con l’insieme della natura, ma anche la derivazione delle specie animali superiori. Questo problema, che sin dal secolo scorso, ha occupato gli scienziati, coinvolge vasti strati dell’opinione pubblica. La risposta del magistero è stata offerta dall’enciclica Humani generis di Pio XII nell’anno 1950. In essa leggiamo: “Il magistero della Chiesa non ha nulla in contrario a che la dottrina dell’“evoluzionismo”, in quanto esso indaga circa l’origine del corpo umano derivante da una Materia preesistente e viva - la fede cattolica infatti ci obbliga a tenere fermo che le anime sono state create immediatamente da Dio - sia oggetto di investigazione e discussione da parte degli esperti . . .” (DS 3896).
Si può dunque dire che, dal punto di vista della dottrina della fede, non si vedono difficoltà nello spiegare l’origine dell’uomo, in quanto corpo, mediante l’ipotesi dell’evoluzionismo. Bisogna tuttavia aggiungere che l’ipotesi propone soltanto una probabilità, non una certezza scientifica. La dottrina della fede invece afferma invariabilmente che l’anima spirituale dell’uomo è creata direttamente da Dio. È cioè possibile secondo l’ipotesi accennata, che il corpo umano, seguendo l’ordine impresso dal Creatore nelle energie della vita, sia stato gradatamente preparato nelle forme di esseri viventi antecedenti. L’anima umana, però, da cui dipende in definitiva l’umanità dell’uomo, essendo spirituale, non può essere emersa dalla materia.
8. Una bella sintesi della creazione sopra esposta si trova nel Concilio Vaticano II: “Unità di anima e di corpo - vi si dice - l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice” (Gaudium et Spes, 14). E più avanti: “L’uomo, però, non sbaglia a riconoscersi superiore alle cose corporali e a considerarsi più che soltanto una particella della natura . . . Infatti, nella sua interiorità, egli trascende l’universo” (Gaudium et Spes, 14). Ecco, dunque, come la stessa verità circa l’unità e la dualità (la complessità) della natura umana può essere espressa con un linguaggio più vicino alla mentalità contemporanea.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 16 aprile 1986]
Il terzo tipo di prova che gli Apostoli si troveranno a fronteggiare, Gesù la indica nella sensazione, che alcuni potranno sperimentare, che Dio stesso li abbia abbandonati, restando distante e silenzioso. Anche qui esorta a non avere paura, perché, pur attraversando queste e altre insidie, la vita dei discepoli è saldamente nelle mani di Dio, che ci ama e ci custodisce. Sono come le tre tentazioni: edulcorare il Vangelo, annacquarlo; seconda, la persecuzione; e terza, la sensazione che Dio ci ha lasciati da soli. Anche Gesù ha sofferto questa prova nell’orto degli ulivi e sulla croce: “Padre, perché mi hai abbandonato?”, dice Gesù. Alle volte si sente questa aridità spirituale; non ne dobbiamo avere paura. Il Padre si prende cura di noi, perché grande è il nostro valore ai suoi occhi. Ciò che importa è la franchezza, è il coraggio della testimonianza, della testimonianza di fede: “riconoscere Gesù davanti agli uomini” e andare avanti facendo del bene.
Maria Santissima, modello di fiducia e di abbandono in Dio nell’ora dell’avversità e del pericolo, ci aiuti a non cedere mai allo sconforto, ma ad affidarci sempre a Lui e alla sua grazia, perché la grazia di Dio è sempre più potente del male.
[Papa Francesco, Angelus 21 giugno 2020]
La vera dimensione superiore
(Lc 11,47-54)
«Manderò loro profeti e apostoli, e ne uccideranno e perseguiteranno» (v.49).
Parola viva in ogni tempo, Gesù si duole dei confusionari professionisti del giudizio e dell’impedimento, che purtroppo rivivevano anche nelle sue prime comunità (v.52).
Gli esperti della religione antica chiudevano le porte dell’ambito in cui Dio regna, considerandola di proprietà - tutta identificata con le loro prospettive [e brama di prestigio].
Per abitudine a sentirsi riveriti, gli “esperti” e “puri” credevano davvero di avere possesso esclusivo dei codici del Regno, vecchio e nuovo. Di conseguenza si sentivano in diritto di avere influsso univoco sulle anime.
Tutto quasi come prima del Signore. I “dotti” continuavano ad autoproclamarsi guide del popolo.
Essi volentieri facevano subire persecuzione a coloro che tentavano di vagliare il loro stesso messaggio - manipolante, esclusivo, basato sulla sudditanza dei cuori sensibili più motivati.
Invece di porgere una comprensione profonda, i primi della classe non recavano alcuna luce significativa ai molti bisognosi che viceversa li attendevano per farsi aiutare.
Eppure i direttori non facevano altro che rassicurare: tutto fila liscio e il problema sono i “diversi” - che ancora non avevano “capito”.
Le vittime erano un danno collaterale: sofferenze prevedibili.
Travagli inutili?
Il Signore, grande nemico dei corifei della teologia assuefatta, non metteva in discussione solo la dottrina, ma tutto il castello di carte e il sistema di posizioni reciproche, titoli, agganci e prebende.
Quindi: Gesù o si fa nostro ostaggio o non deve farla franca (vv.53-54).
I padri uccidono i profeti, i figliocci edulcorano il crimine - come se niente fosse [sotto sotto, approvando il misfatto]. Anche perché il defunto non parla più, né scomoda nessuno.
Una sorte segnata, quella dei testimoni critici - perché neppure sanno escogitare vie di fuga. Non ne hanno esperienza, non l’hanno mai fatto.
In tal guisa, la lista dei martiri «dal sangue di Abele» resta ancora aperta, purtroppo.
Ma - insipienza perenne del potere - il loro cammino conduce i fratelli alla vita senza limiti, alla dimensione superiore ed esaltante dell’Incontro che vale.
La nostra natura è essere ‘figli’, ingenui e innocenti. Non ce la facciamo a rinnegare noi stessi, sempre ponendo calcoli o adattandoci alla situazione delle forze in campo.
In ogni condizione esterna, il nostro compito resta quello di rendere presente Cristo Agnello, e far pensare.
Le piramidi che soppiantano il Messia autentico con quello degli stendardi unilaterali si sentono minacciate dalle esigenze del Vangelo.
A tali cordate, chiuse in verità parziali - difese con violenza e sotterfugio - sarà domandato conto del sacrificio di tutti i pur minimi profeti e malfermi che ne hanno raccolto il Testamento.
Non perderemo la motivazione. Continueremo a toccare la carne di Cristo.
[Giovedì 28.a sett. T.O. 16 Ottobre 2025]
La vera dimensione superiore
(Lc 11,47-54)
«Manderò loro profeti e apostoli, e ne uccideranno e perseguiteranno» (v.49).
Parola viva in ogni tempo, Gesù si duole dei confusionari professionisti del giudizio e dell’impedimento, che purtroppo rivivono anche nelle sue comunità:
«Ahimé per voi, i dottori della Legge, che avete tolto la chiave della conoscenza! Voi stessi non siete entrati, e trattenete quelli che entravano» (v.52).
Gli esperti della religione antica chiudevano le porte dell’ambito in cui Dio regna.
Prima il popolo eletto, poi la Chiesa degli eletti, i quali già rendevano poco trasparente, considerandola di proprietà - tutta identificata con le loro prospettive [e prestigio, nonché ricavi].
Per abitudine a sentirsi riveriti, gli “esperti” e “puri” credevano davvero di avere possesso esclusivo dei codici del Regno, vecchio e nuovo. Di conseguenza si sentivano in diritto di avere influsso univoco sulle anime.
Tutto quasi come prima del Signore. I dotti continuavano ad autoproclamarsi guide del popolo.
Essi volentieri facevano subire persecuzione a coloro che tentavano di vagliare il loro stesso messaggio - manipolante, esclusivo, basato sulla sudditanza dei cuori sensibili più motivati.
Invece di porgere una comprensione profonda, i primi della classe non recavano alcuna luce significativa ai molti bisognosi che viceversa li attendevano per farsi aiutare, e imparare a guardare in faccia il volto della Verità.
Le aspettative astute e il mondo consortile dei direttori iniziava di nuovo a essere legato unicamente al timore che qualcuno potesse crescere in consapevolezza e mettere in ombra il ridicolo prestigio di guide attempate, devianti.
Quindi non facevano altro che rassicurare: tutto fila liscio e il problema sono i “diversi” - che ancora non avevano “capito”. Le vittime erano un danno collaterale: sofferenze prevedibili.
Travagli inutili?
Francamente, la “riflessione” che ancora oggi i falsi leaders propinano è così offuscante e imperfetta che risulta un gioco da ragazzi capirne le contraddizioni e togliere via tutti gl’impedimenti per una efficace azione di annuncio, catechesi, animazione e pastorale, volte all’interesse della gente e non alle idee e astuzie di congreghe consolidate.
Il Signore, grande nemico dei corifei della teologia assuefatta, non metteva in discussione solo la dottrina, ma tutto il castello di carte del sistema religioso [posizioni reciproche, titoli, agganci, e prebende].
Quindi venne deciso: Gesù o si fa nostro ostaggio o non deve farla franca (vv.53-54).
Il monopolio accreditato si traduceva in imposizione, che non lasciava margini a idee e novità che qualificassero i destinati alle retrovie.
Pertanto i capi si vedevano “costretti” a dilatare i falsi insegnamenti tratti dalle religioni: ecco di nuovo un Eterno onnipotente, legislatore e giudice.
Non il Creatore, amante dell’esuberanza e varietà della vita; non il Liberatore dell’intelligenza, e respiro del popolo.
In mille modi e festival, coloro che si consideravano gli unici interpreti delle cose di Dio - per tornaconto - già falsificavano l’immagine della Chiesa e intralciavano la possibilità di riconoscere Gesù vivo.
Così facendo, si uccideva il desiderio dei meglio motivati, di porsi in un nuovo e personale Esodo, alla ricerca della pienezza e amabilità divino-umana che emancipava tutti, non solo le cricche.
I padri uccidono i profeti, i figliocci edulcorano il crimine - come se niente fosse [sotto sotto, approvando il misfatto].
Anche perché il defunto non parla più, né scomoda nessuno, tantomeno i complici omertosi.
Una sorte segnata, quella dei testimoni critici - perché neppure sanno escogitare vie di fuga. Non ne hanno esperienza, non l’hanno mai fatto.
In tal guisa, la lista dei martiri «dal sangue di Abele» resta ancora aperta, purtroppo. Ma - insipienza perenne del potere - il loro cammino conduce i fratelli alla vita senza limiti, alla dimensione superiore ed esaltante dell’Incontro che vale.
La nostra natura è essere figli, ingenui e innocenti. Non ce la facciamo a rinnegare noi stessi, facendo calcoli o adattandoci alla situazione delle forze in campo.
In ogni condizione esterna, il nostro compito resta quello di rendere presente Cristo Agnello, e far pensare.
Sottolinea e ribadisce Papa Francesco (Fratelli Tutti): come cristiani non possiamo nascondere che «se la musica del Vangelo smette di vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna» (n.277).
Le piramidi che soppiantano il Messia autentico con quello degli stendardi unilaterali si sentono minacciate dalle esigenze del Vangelo.
A tali cordate, chiuse in verità parziali - difese con violenza e sotterfugio - sarà domandato conto del sacrificio di tutti i pur minimi profeti e agnelli che ne hanno raccolto il Testamento.
Non perderemo la motivazione. Continueremo a toccare la carne di Cristo.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quali aiuti o difficoltà hai trovato anche nella realtà ecclesiale, per l’annuncio e la testimonianza della Verità profonda dei Vangeli?
Valori e indipendenza emotiva
Collocarsi negli eventi di persecuzione
(Lc 21,12-19)
Il corso della storia è tempo in cui Dio compone il confluire della nostra libertà e delle circostanze.
In tali pieghe c’è spesso un vettore di vita, un aspetto essenziale, una sorte definitiva, che ci sfugge.
Ma all’occhio non mediocre della persona di Fede, anche i soprusi e perfino il martirio sono un dono.
Per imparare le lezioni importanti della vita, ogni giorno il credente si avventura in ciò che ha paura di fare, superando i timori.
L’amore sponsale e gratuito ricevuto colloca in una condizione di reciprocità, d’attivo desiderio di unire la vita al Cristo - sebbene nell’esiguità delle nostre risposte.
Continuando invece a lamentarsi degli insuccessi, pericoli, calamità, tutti vedranno in noi donne come le altre e uomini comuni - e ogni cosa terminerà a questo livello.
Non saremo sull’altro lato.
Al massimo tenteremo di sottrarci alle asprezze, o si finirà per cercare alleati di circostanza (vv.14-15).
Lc intende aiutare le sue comunità a urtare la logica mondana e collocarsi negli eventi di persecuzione in maniera fervente.
Le angherie sociali non sono fatalità, bensì occasioni per la missione; luoghi di alta testimonianza eucaristica (v.13).
I perseguitati non hanno bisogno di stampelle esterne, né devono vivere nell’angoscia del crollo.
Essi hanno il compito di essere segni del Regno di Dio, che man mano porta i lontani e gli stessi usurpatori a una diversa consapevolezza.
Nessuno è arbitro della realtà e tutti sono fuscelli soggetti a rovesci, ma nella condizione umanizzante degli apostoli traluce un’indipendenza emotiva.
Ciò avviene per il senso intimo, vivo, di una Presenza, e la lettura delle vicende esterne come azione eccezionale del Padre che si rivela.
In tale magma energetico plasmabile, ecco affiorare percorsi unici, inedite opportunità di crescita... anche nelle avversità.
Atteggiamento senz’alibi né certezze granitiche: con la sola convinzione che tutto verrà rimesso in gioco [non per sforzo: per aver spostato lo sguardo, semplicemente].
Tempo sacro e profano vengono a coincidere in un Patto fervente, che si annida e cova frutti persino nei momenti del travaglio e paradosso.
Qui unica risorsa necessaria è la forza spirituale di andare sino in fondo… nei controsensi d’altro versante.
Così anche la famiglia o il “clan” di appartenenza vanno condotti a un differente mondo di convinzioni; non senza contrasti laceranti (v.16).
La Torah stessa obbligava alla denuncia degli infedeli alla religione dei padri - perfino parenti strettissimi - sino a metterli a morte (Dt 13,7-12) [nei fatti, solo per designare la gravità di quel tipo di trasgressione].
L’Annuncio non poteva che causare divisioni estreme, e su temi di fondo come il successo, o il progresso in questa vita - la visione di un mondo nuovo, dell’utopia di altre e altrui esigenze.
Tutto sembrerà congiurare e farsi beffe del nostro ideale (v.17).
Il riferimento al Nome allude alla vicenda storica di Gesù di Nazaret, col suo carico non solo di bontà ideale ed esplicita, ma pure di attività di denuncia contro l’istituzione ufficiale e le false guide che avevano messo sotto sequestro il Dio dell’Esodo.
Malgrado le interferenze, l’essere fraintesi, calunniati, messi in ridicolo, ricattati e odiati... ancorati a Cristo sperimenteremo che le tappe della storia e della vita procedono verso la Speranza.
La “protezione” di Dio non preserva da tinte cupe, né dal subire danni, ma garantisce che nulla vada perduto, neppure un capello (v.18).
Anche questo esempio spontaneo che Gesù trae dalla natura - eco della vita conciliante sognata per noi dal Padre - introduce alla Felicità che fa consapevoli di esistere in tutta la personale realtà.
L’espressione mostra infatti il valore delle cose genuine, silenti, poco eclatanti, le quali però ci abitano - non sono “ombre”. E le percepiamo senza sforzo né impegno cerebrale.
Nel tempo delle scelte epocali, dell’emergenza che sembra mettere tutto in scacco - ma vuole farci meno artificiali - tale consapevolezza può rovesciare il nostro giudizio di sostanza, sul piccolo e il grande.
Infatti, per l’avventura d’amore non c’è contabilità né clamore.
È nel Signore e nella realtà insidiosa o sommaria il “posto” per ciascuno di noi. Non senza lacerazioni.
Eppure traiamo energia spirituale dalla conoscenza del Cristo, dal senso di legame profondo con Lui e la realtà anche minuta e variegata, o temibile - sempre personale (v.18).
E (appunto) l’aldilà non è impreciso.
Non bisogna snaturarsi per avere consenso… tantomeno per il “Cielo” che vince la morte.
Il destino dell’unicità non va in rovina: è prezioso e caro, come lo è in natura.
Bisogna scorgerne la Bellezza, futura e già attuale.
Neppure conterà collocarsi sopra e davanti: piuttosto sullo sfondo, già ricchi e perfetti, nel senso intimo della pienezza di essere.
Così non dovremo calpestarci a vicenda (Lc 12,1)... anche per incontrare Gesù.
«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra - e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima anche perché non è universale».
(Rabindranath Tagore)
Gesù ci mette in guardia: non potremo contare su amicizie inattaccabili, né su potenze umane schierate a difesa della trama terrestre.
Anche colui che credevamo vicino ci scruterà con sospetto: il prezzo della verità sta sempre nella scelta contraria al mondo della menzogna [anche sacrale, datata o effimera] tutto coalizzato contro.
La nostra vicenda non sarà come un romanzo facile e a lieto fine.
Ma avremo possibilità di testimoniare nel presente le più genuine radici antiche: che in ogni istante Dio chiama, si manifesta - e ciò che sembra fallimento diviene Cibo e sorgente di Vita.
Ostinati solo nel cambio di proporzioni, tra spogliamento ed elevazione. Nella contrapposizione dei criteri e dei fondamenti stessi del pensare.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Che tipo di lettura fai, e come ti collochi negli eventi di persecuzione?
Sei consapevole che gli intoppi non vengono per la disperazione, bensì per liberarti dalla chiusura in schemi culturali stagnanti (e non tuoi)?
Sull’altro versante del mondo
I cristiani devono dunque farsi trovare sempre sull’“altro versante” del mondo, quello scelto da Dio: non persecutori, ma perseguitati; non arroganti, ma miti; non venditori di fumo, ma sottomessi alla verità; non impostori, ma onesti.
Questa fedeltà allo stile di Gesù – che è uno stile di speranza – fino alla morte, verrà chiamata dai primi cristiani con un nome bellissimo: “martirio”, che significa “testimonianza”. C’erano tante altre possibilità, offerte dal vocabolario: lo si poteva chiamare eroismo, abnegazione, sacrificio di sé. E invece i cristiani della prima ora lo hanno chiamato con un nome che profuma di discepolato. I martiri non vivono per sé, non combattono per affermare le proprie idee, e accettano di dover morire solo per fedeltà al vangelo. Il martirio non è nemmeno l’ideale supremo della vita cristiana, perché al di sopra di esso vi è la carità, cioè l’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo dice benissimo l’apostolo Paolo nell’inno alla carità, intesa come l’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo dice benissimo l’Apostolo Paolo nell’inno alla carità: «Se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1Cor 13,3). Ripugna ai cristiani l’idea che gli attentatori suicidi possano essere chiamati “martiri”: non c’è nulla nella loro fine che possa essere avvicinato all’atteggiamento dei figli di Dio.
A volte, leggendo le storie di tanti martiri di ieri e di oggi - che sono più numerosi dei martiri dei primi tempi -, rimaniamo stupiti di fronte alla fortezza con cui hanno affrontato la prova. Questa fortezza è segno della grande speranza che li animava: la speranza certa che niente e nessuno li poteva separare dall’amore di Dio donatoci in Gesù Cristo (cfr Rm 8,38-39).
Che Dio ci doni sempre la forza di essere suoi testimoni. Ci doni di vivere la speranza cristiana soprattutto nel martirio nascosto di fare bene e con amore i nostri doveri di ogni giorno. Grazie.
(Papa Francesco, Udienza Generale 28 giugno 2017)
Il tema del sangue, legato a quello dell’Agnello pasquale, è di primaria importanza nella Sacra Scrittura. L’aspersione col sangue degli animali sacrificati rappresentava e stabiliva, nell’Antico Testamento, l’alleanza tra Dio e il popolo, come si legge nel libro dell’Esodo: “Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo dicendo: Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!” (Es 24,8).
A questa formula si rifà esplicitamente Gesù nell’Ultima Cena, quando, offrendo il calice ai discepoli, dice: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati” (Mt 26,28). Ed effettivamente, a partire dalla flagellazione, fino alla trafittura del costato dopo la morte di croce, Cristo ha versato tutto il suo sangue, quale vero Agnello immolato per la redenzione universale. Il valore salvifico del suo sangue è affermato espressamente in molti passi del Nuovo Testamento. Basti citare, in questo Anno Sacerdotale, la bella espressione della Lettera agli Ebrei: “Cristo… entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?” (9,11-14).
Cari fratelli, sta scritto nella Genesi che il sangue di Abele, ucciso dal fratello Caino, grida a Dio dalla terra (cfr 4,10). E purtroppo, oggi come ieri, questo grido non cessa, perché continua a scorrere sangue umano a causa della violenza, dell’ingiustizia e dell’odio. Quando impareranno gli uomini che la vita è sacra e appartiene a Dio solo? Quando comprenderanno che siamo tutti fratelli? Al grido per il sangue versato, che si eleva da tante parti della terra, Dio risponde con il sangue del suo Figlio, che ha donato la vita per noi. Cristo non ha risposto al male con il male, ma con il bene, con il suo amore infinito. Il sangue di Cristo è il pegno dell’amore fedele di Dio per l’umanità. Fissando le piaghe del Crocifisso, ogni uomo, anche in condizioni di estrema miseria morale, può dire: Dio non mi ha abbandonato, mi ama, ha dato la vita per me; e così ritrovare speranza. La Vergine Maria, che sotto la croce, insieme con l’apostolo Giovanni, raccolse il testamento del sangue di Gesù, ci aiuti a riscoprire l’inestimabile ricchezza di questa grazia, e a sentirne intima e perenne gratitudine.
[Papa Benedetto, Angelus 5 luglio 2009]
«Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gn 4, 8): alla radice della violenza contro la vita.
7. «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza... Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (Sap 1, 13-14; 2, 23-24).
Il Vangelo della vita, risuonato al principio con la creazione dell'uomo a immagine di Dio per un destino di vita piena e perfetta (cf. Gn 2, 7; Sap 9, 2-3), viene contraddetto dall'esperienza lacerante della morte che entra nel mondo e getta l'ombra del non senso sull'intera esistenza dell'uomo.
La morte vi entra a causa dell'invidia del diavolo (cf. Gn 3, 1.4-5) e del peccato dei progenitori (cf. Gn 2, 17; 3, 17-19). E vi entra in modo violento, attraverso l'uccisione di Abele da parte del fratello Caino: «Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gn 4, 8).
Questa prima uccisione è presentata con una singolare eloquenza in una pagina paradigmatica del libro della Genesi: una pagina ritrascritta ogni giorno, senza sosta e con avvilente ripetizione, nel libro della storia dei popoli.
Vogliamo rileggere insieme questa pagina biblica, che, pur nella sua arcaicità ed estrema semplicità, si presenta quanto mai ricca di insegnamenti.
«Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo. Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta.
Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: "Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala".
Caino disse al fratello Abele: "Andiamo in campagna!". Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise.
Allora il Signore disse a Caino: "Dov'è Abele, tuo fratello?". Egli rispose: "Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?". Riprese: "Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra".
Disse Caino al Signore: "Troppo grande è la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere".
Ma il Signore gli disse: "Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!". Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden» (Gn 4, 2-16).
8. Caino è «molto irritato» e ha il volto «abbattuto» perché «il Signore gradì Abele e la sua offerta» (Gn 4, 4). Il testo biblico non rivela il motivo per cui Dio preferisce il sacrificio di Abele a quello di Caino; indica però con chiarezza che, pur preferendo il dono di Abele, non interrompe il suo dialogo con Caino. Lo ammonisce ricordandogli la sua libertà di fronte al male: l'uomo non è per nulla un predestinato al male. Certo, come già Adamo, egli è tentato dalla potenza malefica del peccato che, come bestia feroce, è appostata alla porta del suo cuore, in attesa di avventarsi sulla preda. Ma Caino rimane libero di fronte al peccato. Lo può e lo deve dominare: «Verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala!» (Gn 4, 7).
Sull'ammonimento del Signore hanno il sopravvento la gelosia e l'ira, e così Caino s'avventa sul proprio fratello e lo uccide. Come leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «la Scrittura, nel racconto dell'uccisione di Abele da parte del fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza nell'uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale. L'uomo è diventato il nemico del suo simile».10
Il fratello uccide il fratello. Come nel primo fratricidio, in ogni omicidio viene violata la parentela «spirituale», che accomuna gli uomini in un'unica grande famiglia,11 essendo tutti partecipi dello stesso bene fondamentale: l'uguale dignità personale. Non poche volte viene violata anche la parentela «della carne e del sangue», ad esempio quando le minacce alla vita si sviluppano nel rapporto tra genitori e figli, come avviene con l'aborto o quando, nel più vasto contesto familiare o parentale, viene favorita o procurata l'eutanasia.
Alla radice di ogni violenza contro il prossimo c'è un cedimento alla «logica» del maligno, cioè di colui che «è stato omicida fin da principio» (Gv 8, 44), come ci ricorda l'apostolo Giovanni: «Poiché questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello» (1 Gv 3, 11-12). Così l'uccisione del fratello, fin dagli albori della storia, è la triste testimonianza di come il male progredisca con rapidità impressionante: alla rivolta dell'uomo contro Dio nel paradiso terrestre si accompagna la lotta mortale dell'uomo contro l'uomo.
Dopo il delitto, Dio interviene a vendicare l'ucciso. Di fronte a Dio, che lo interroga sulla sorte di Abele, Caino, anziché mostrarsi impacciato e scusarsi, elude la domanda con arroganza: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4, 9). «Non lo so»: con la menzogna Caino cerca di coprire il delitto. Così è spesso avvenuto e avviene quando le più diverse ideologie servono a giustificare e a mascherare i più atroci delitti verso la persona. «Sono forse io il guardiano di mio fratello?»: Caino non vuole pensare al fratello e rifiuta di vivere quella responsabilità che ogni uomo ha verso l'altro. Viene spontaneo pensare alle odierne tendenze di deresponsabilizzazione dell'uomo verso il suo simile, di cui sono sintomi, tra l'altro, il venir meno della solidarietà verso i membri più deboli della società — quali gli anziani, gli ammalati, gli immigrati, i bambini — e l'indifferenza che spesso si registra nei rapporti tra i popoli anche quando sono in gioco valori fondamentali come la sussistenza, la libertà e la pace.
9. Ma Dio non può lasciare impunito il delitto: dal suolo su cui è stato versato, il sangue dell'ucciso esige che Egli faccia giustizia (cf. Gn 37, 26; Is 26, 21; Ez 24, 7-8). Da questo testo la Chiesa ha ricavato la denominazione di «peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio» e vi ha incluso, anzitutto, l'omicidio volontario.12 Per gli ebrei, come per molti popoli dell'antichità, il sangue è la sede della vita, anzi «il sangue è la vita» (Dt 12, 23) e la vita, specie quella umana, appartiene solo a Dio: per questo chi attenta alla vita dell'uomo, in qualche modo attenta a Dio stesso.
Caino è maledetto da Dio e anche dalla terra, che gli rifiuterà i suoi frutti (cf. Gn 4, 11-12). Ed èpunito: abiterà nella steppa e nel deserto. La violenza omicida cambia profondamente l'ambiente di vita dell'uomo. La terra da «giardino di Eden» (Gn 2, 15), luogo di abbondanza, di serene relazioni interpersonali e di amicizia con Dio, diventa «paese di Nod» (Gn 4, 16), luogo della «miseria», della solitudine e della lontananza da Dio. Caino sarà «ramingo e fuggiasco sulla terra» (Gn 4, 14): incertezza e instabilità lo accompagneranno sempre.
Dio, tuttavia, sempre misericordioso anche quando punisce, «impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato» (Gn 4, 15): gli dà, dunque, un contrassegno, che ha lo scopo non di condannarlo all'esecrazione degli altri uomini, ma di proteggerlo e difenderlo da quanti vorranno ucciderlo fosse anche per vendicare la morte di Abele. Neppure l'omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante. Ed è proprio qui che si manifesta il paradossale mistero della misericordiosa giustizia di Dio, come scrive sant'Ambrogio: «Poiché era stato commesso un fratricidio, cioè il più grande dei crimini, nel momento in cui si introdusse il peccato, subito dovette essere estesa la legge della misericordia divina; perché, se il castigo avesse colpito immediatamente il colpevole, non accadesse che gli uomini, nel punire, non usassero alcuna tolleranza né mitezza, ma consegnassero immediatamente al castigo i colpevoli. (...) Dio respinse Caino dal suo cospetto e, rinnegato dai suoi genitori, lo relegò come nell'esilio di una abitazione separata, per il fatto che era passato dall'umana mitezza alla ferocia belluina. Tuttavia Dio non volle punire l'omicida con un omicidio, poiché vuole il pentimento del peccatore più che la sua morte».13
«Che hai fatto?» (Gn 4, 10): l'eclissi del valore della vita
10. Il Signore disse a Caino: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gn 4, 10). La voce del sangue versato dagli uomini non cessa di gridare, di generazione in generazione, assumendo toni e accenti diversi e sempre nuovi.
La domanda del Signore «Che hai fatto?», alla quale Caino non può sfuggire, è rivolta anche all'uomo contemporaneo perché prenda coscienza dell'ampiezza e della gravità degli attentati alla vita da cui continua ad essere segnata la storia dell'umanità; vada alla ricerca delle molteplici cause che li generano e li alimentano; rifletta con estrema serietà sulle conseguenze che derivano da questi stessi attentati per l'esistenza delle persone e dei popoli.
Alcune minacce provengono dalla natura stessa, ma sono aggravate dall'incuria colpevole e dalla negligenza degli uomini che non raramente potrebbero porvi rimedio; altre invece sono il frutto di situazioni di violenza, di odi, di contrapposti interessi, che inducono gli uomini ad aggredire altri uomini con omicidi, guerre, stragi, genocidi.
E come non pensare alla violenza che si fa alla vita di milioni di esseri umani, specialmente bambini, costretti alla miseria, alla sottonutrizione e alla fame, a causa di una iniqua distribuzione delle ricchezze tra i popoli e le classi sociali? o alla violenza insita, prima ancora che nelle guerre, in uno scandaloso commercio delle armi, che favorisce la spirale dei tanti conflitti armati che insanguinano il mondo? o alla seminagione di morte che si opera con l'inconsulto dissesto degli equilibri ecologici, con la criminale diffusione della droga o col favorire modelli di esercizio della sessualità che, oltre ad essere moralmente inaccettabili, sono anche forieri di gravi rischi per la vita? È impossibile registrare in modo completo la vasta gamma delle minacce alla vita umana, tante sono le forme, aperte o subdole, che esse rivestono nel nostro tempo!
11. Ma la nostra attenzione intende concentrarsi, in particolare, su un altro genere di attentati, concernenti la vita nascente e terminale, che presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di «delitto» e ad assumere paradossalmente quello del «diritto», al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l'intervento gratuito degli stessi operatori sanitari. Tali attentati colpiscono la vita umana in situazioni di massima precarietà, quando è priva di ogni capacità di difesa. Ancora più grave è il fatto che essi, in larga parte, sono consumati proprio all'interno e ad opera di quella famiglia che costitutivamente è invece chiamata ad essere «santuario della vita».
Come s'è potuta determinare una simile situazione? Occorre prendere in considerazione molteplici fattori. Sullo sfondo c'è una profonda crisi della cultura, che ingenera scetticismo sui fondamenti stessi del sapere e dell'etica e rende sempre più difficile cogliere con chiarezza il senso dell'uomo, dei suoi diritti e dei suoi doveri. A ciò si aggiungono le più diverse difficoltà esistenziali e relazionali, aggravate dalla realtà di una società complessa, in cui le persone, le coppie, le famiglie rimangono spesso sole con i loro problemi. Non mancano situazioni di particolare povertà, angustia o esasperazione, in cui la fatica della sopravvivenza, il dolore ai limiti della sopportabilità, le violenze subite, specialmente quelle che investono le donne, rendono le scelte di difesa e di promozione della vita esigenti a volte fino all'eroismo.
Tutto ciò spiega, almeno in parte, come il valore della vita possa oggi subire una specie di «eclissi», per quanto la coscienza non cessi di additarlo quale valore sacro e intangibile, come dimostra il fatto stesso che si tende a coprire alcuni delitti contro la vita nascente o terminale con locuzioni di tipo sanitario, che distolgono lo sguardo dal fatto che è in gioco il diritto all'esistenza di una concreta persona umana.
12. In realtà, se molti e gravi aspetti dell'odierna problematica sociale possono in qualche modo spiegare il clima di diffusa incertezza morale e talvolta attenuare nei singoli la responsabilità soggettiva, non è meno vero che siamo di fronte a una realtà più vasta, che si può considerare come una vera e propria struttura di peccato, caratterizzata dall'imporsi di una cultura anti-solidaristica, che si configura in molti casi come vera «cultura di morte». Essa è attivamente promossa da forti correnti culturali, economiche e politiche, portatrici di una concezione efficientistica della società.
Guardando le cose da tale punto di vista, si può, in certo senso, parlare di una guerra dei potenti contro i deboli: la vita che richiederebbe più accoglienza, amore e cura è ritenuta inutile, o è considerata come un peso insopportabile e, quindi, è rifiutata in molte maniere. Chi, con la sua malattia, con il suo handicap o, molto più semplicemente, con la stessa sua presenza mette in discussione il benessere o le abitudini di vita di quanti sono più avvantaggiati, tende ad essere visto come un nemico da cui difendersi o da eliminare. Si scatena così una specie di «congiura contro la vita». Essa non coinvolge solo le singole persone nei loro rapporti individuali, familiari o di gruppo, ma va ben oltre, sino ad intaccare e stravolgere, a livello mondiale, i rapporti tra i popoli e gli Stati.
13. Per facilitare la diffusione dell'aborto, si sono investite e si continuano ad investire somme ingenti destinate alla messa a punto di preparati farmaceutici, che rendono possibile l'uccisione del feto nel grembo materno, senza la necessità di ricorrere all'aiuto del medico. La stessa ricerca scientifica, su questo punto, sembra quasi esclusivamente preoccupata di ottenere prodotti sempre più semplici ed efficaci contro la vita e, nello stesso tempo, tali da sottrarre l'aborto ad ogni forma di controllo e responsabilità sociale.
Si afferma frequentemente che la contraccezione, resa sicura e accessibile a tutti, è il rimedio più efficace contro l'aborto. Si accusa poi la Chiesa cattolica di favorire di fatto l'aborto perché continua ostinatamente a insegnare l'illiceità morale della contraccezione.
L'obiezione, a ben guardare, si rivela speciosa. Può essere, infatti, che molti ricorrano ai contraccettivi anche nell'intento di evitare successivamente la tentazione dell'aborto. Ma i disvalori insiti nella «mentalità contraccettiva» — ben diversa dall'esercizio responsabile della paternità e maternità, attuato nel rispetto della piena verità dell'atto coniugale — sono tali da rendere più forte proprio questa tentazione, di fronte all'eventuale concepimento di una vita non desiderata. Di fatto la cultura abortista è particolarmente sviluppata proprio in ambienti che rifiutano l'insegnamento della Chiesa sulla contraccezione. Certo, contraccezione ed aborto, dal punto di vista morale, sono mali specificamente diversi: l'una contraddice all'integra verità dell'atto sessuale come espressione propria dell'amore coniugale, l'altro distrugge la vita di un essere umano; la prima si oppone alla virtù della castità matrimoniale, il secondo si oppone alla virtù della giustizia e viola direttamente il precetto divino «non uccidere».
Ma pur con questa diversa natura e peso morale, essi sono molto spesso in intima relazione, come frutti di una medesima pianta. È vero che non mancano casi in cui alla contraccezione e allo stesso aborto si giunge sotto la spinta di molteplici difficoltà esistenziali, che tuttavia non possono mai esonerare dallo sforzo di osservare pienamente la Legge di Dio. Ma in moltissimi altri casi tali pratiche affondano le radici in una mentalità edonistica e deresponsabilizzante nei confronti della sessualità e suppongono un concetto egoistico di libertà che vede nella procreazione un ostacolo al dispiegarsi della propria personalità. La vita che potrebbe scaturire dall'incontro sessuale diventa così il nemico da evitare assolutamente e l'aborto l'unica possibile risposta risolutiva di fronte ad una contraccezione fallita.
Purtroppo la stretta connessione che, a livello di mentalità, intercorre tra la pratica della contraccezione e quella dell'aborto emerge sempre di più e lo dimostra in modo allarmante anche la messa a punto di preparati chimici, di dispositivi intrauterini e di vaccini che, distribuiti con la stessa facilità dei contraccettivi, agiscono in realtà come abortivi nei primissimi stadi di sviluppo della vita del nuovo essere umano.
14. Anche le varie tecniche di riproduzione artificiale, che sembrerebbero porsi a servizio della vita e che sono praticate non poche volte con questa intenzione, in realtà aprono la porta a nuovi attentati contro la vita. Al di là del fatto che esse sono moralmente inaccettabili, dal momento che dissociano la procreazione dal contesto integralmente umano dell'atto coniugale,14 queste tecniche registrano alte percentuali di insuccesso: esso riguarda non tanto la fecondazione, quanto il successivo sviluppo dell'embrione, esposto al rischio di morte entro tempi in genere brevissimi. Inoltre, vengono prodotti talvolta embrioni in numero superiore a quello necessario per l'impianto nel grembo della donna e questi cosiddetti «embrioni soprannumerari» vengono poi soppressi o utilizzati per ricerche che, con il pretesto del progresso scientifico o medico, in realtà riducono la vita umana a semplice «materiale biologico» di cui poter liberamente disporre.
Le diagnosi pre-natali, che non presentano difficoltà morali se fatte per individuare eventuali cure necessarie al bambino non ancora nato, diventano troppo spesso occasione per proporre e procurare l'aborto. È l'aborto eugenetico, la cui legittimazione nell'opinione pubblica nasce da una mentalità — a torto ritenuta coerente con le esigenze della «terapeuticità» — che accoglie la vita solo a certe condizioni e che rifiuta il limite, l'handicap, l'infermità.
Seguendo questa stessa logica, si è giunti a negare le cure ordinarie più elementari, e perfino l'alimentazione, a bambini nati con gravi handicap o malattie. Lo scenario contemporaneo, inoltre, si fa ancora più sconcertante a motivo delle proposte, avanzate qua e là, di legittimare, nella stessa linea del diritto all'aborto, persino l'infanticidio, ritornando così ad uno stadio di barbarie che si sperava di aver superato per sempre.
15. Minacce non meno gravi incombono pure sui malati inguaribili e sui morenti, in un contesto sociale e culturale che, rendendo più difficile affrontare e sopportare la sofferenza, acuisce la tentazione di risolvere il problema del soffrire eliminandolo alla radice con l'anticipare la morte al momento ritenuto più opportuno.
In tale scelta confluiscono spesso elementi di diverso segno, purtroppo convergenti a questo terribile esito. Può essere decisivo, nel soggetto malato, il senso di angoscia, di esasperazione, persino di disperazione, provocato da un'esperienza di dolore intenso e prolungato. Ciò mette a dura prova gli equilibri a volte già instabili della vita personale e familiare, sicché, da una parte, il malato, nonostante gli aiuti sempre più efficaci dell'assistenza medica e sociale, rischia di sentirsi schiacciato dalla propria fragilità; dall'altra, in coloro che gli sono effettivamente legati, può operare un senso di comprensibile anche se malintesa pietà. Tutto ciò è aggravato da un'atmosfera culturale che non coglie nella sofferenza alcun significato o valore, anzi la considera il male per eccellenza, da eliminare ad ogni costo; il che avviene specialmente quando non si ha una visione religiosa che aiuti a decifrare positivamente il mistero del dolore.
Ma nell'orizzonte culturale complessivo non manca di incidere anche una sorta di atteggiamento prometeico dell'uomo che, in tal modo, si illude di potersi impadronire della vita e della morte perché decide di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza. Riscontriamo una tragica espressione di tutto ciò nella diffusione dell'eutanasia, mascherata e strisciante o attuata apertamente e persino legalizzata. Essa, oltre che per una presunta pietà di fronte al dolore del paziente, viene talora giustificata con una ragione utilitaristica, volta ad evitare spese improduttive troppo gravose per la società. Si propone così la soppressione dei neonati malformati, degli handicappati gravi, degli inabili, degli anziani, soprattutto se non autosufficienti, e dei malati terminali. Né ci è lecito tacere di fronte ad altre forme più subdole, ma non meno gravi e reali, di eutanasia. Esse, ad esempio, potrebbero verificarsi quando, per aumentare la disponibilità di organi da trapiantare, si procedesse all'espianto degli stessi organi senza rispettare i criteri oggettivi ed adeguati di accertamento della morte del donatore.
16. Un altro fenomeno attuale, al quale si accompagnano frequentemente minacce e attentati alla vita, è quello demografico. Esso si presenta in modo differente nelle diverse parti del mondo: nei Paesi ricchi e sviluppati si registra un preoccupante calo o crollo delle nascite; i Paesi poveri, invece, presentano in genere un tasso elevato di aumento della popolazione, difficilmente sopportabile in un contesto di minore sviluppo economico e sociale, o addirittura di grave sottosviluppo. Di fronte alla sovrapopolazione dei Paesi poveri mancano, a livello internazionale, interventi globali — serie politiche familiari e sociali, programmi di crescita culturale e di giusta produzione e distribuzione delle risorse — mentre si continua a mettere in atto politiche antinataliste.
Contraccezione, sterilizzazione e aborto vanno certamente annoverati tra le cause che contribuiscono a determinare le situazioni di forte denatalità. Può essere facile la tentazione di ricorrere agli stessi metodi e attentati contro la vita anche nelle situazioni di «esplosione demografica».
L'antico faraone, sentendo come un incubo la presenza e il moltiplicarsi dei figli di Israele, li sottopose ad ogni forma di oppressione e ordinò che venisse fatto morire ogni neonato maschio delle donne ebree (cf. Es 1, 7-22). Allo stesso modo si comportano oggi non pochi potenti della terra.
Essi pure avvertono come un incubo lo sviluppo demografico in atto e temono che i popoli più prolifici e più poveri rappresentino una minaccia per il benessere e la tranquillità dei loro Paesi. Di conseguenza, piuttosto che voler affrontare e risolvere questi gravi problemi nel rispetto della dignità delle persone e delle famiglie e dell'inviolabile diritto alla vita di ogni uomo, preferiscono promuovere e imporre con qualsiasi mezzo una massiccia pianificazione delle nascite. Gli stessi aiuti economici, che sarebbero disposti a dare, vengono ingiustamente condizionati all'accettazione di una politica antinatalista.
17. L'umanità di oggi ci offre uno spettacolo davvero allarmante, se pensiamo non solo ai diversi ambiti nei quali si sviluppano gli attentati alla vita, ma anche alla loro singolare proporzione numerica, nonché al molteplice e potente sostegno che viene loro dato dall'ampio consenso sociale, dal frequente riconoscimento legale, dal coinvolgimento di parte del personale sanitario.
Come ebbi a dire con forza a Denver, in occasione dell'VIII Giornata Mondiale della Gioventù, «con il tempo, le minacce contro la vita non vengono meno. Esse, al contrario, assumono dimensioni enormi. Non si tratta soltanto di minacce provenienti dall'esterno, di forze della natura o dei "Caino" che assassinano gli "Abele"; no, si tratta di minacce programmate in maniera scientifica e sistematica. Il ventesimo secolo verrà considerato un'epoca di attacchi massicci contro la vita, un'interminabile serie di guerre e un massacro permanente di vite umane innocenti. I falsi profeti e i falsi maestri hanno conosciuto il maggior successo possibile».15 Al di là delle intenzioni, che possono essere varie e magari assumere forme suadenti persino in nome della solidarietà, siamo in realtà di fronte a una oggettiva «congiura contro la vita» che vede implicate anche Istituzioni internazionali, impegnate a incoraggiare e programmare vere e proprie campagne per diffondere la contraccezione, la sterilizzazione e l'aborto. Non si può, infine, negare che i mass media sono spesso complici di questa congiura, accreditando nell'opinione pubblica quella cultura che presenta il ricorso alla contraccezione, alla sterilizzazione, all'aborto e alla stessa eutanasia come segno di progresso e conquista di libertà, mentre dipinge come nemiche della libertà e del progresso le posizioni incondizionatamente a favore della vita.
«Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4, 9): un'idea perversa di libertà
18. Il panorama descritto chiede di essere conosciuto non soltanto nei fenomeni di morte che lo caratterizzano, ma anche nelle molteplici cause che lo determinano. La domanda del Signore «Che hai fatto?» (Gn 4, 10) sembra essere quasi un invito rivolto a Caino ad andare oltre la materialità del suo gesto omicida, per coglierne tutta la gravità nelle motivazioni che ne sono all'origine e nelle conseguenze che ne derivano.
Le scelte contro la vita nascono, talvolta, da situazioni difficili o addirittura drammatiche di profonda sofferenza, di solitudine, di totale mancanza di prospettive economiche, di depressione e di angoscia per il futuro. Tali circostanze possono attenuare anche notevolmente la responsabilità soggettiva e la conseguente colpevolezza di quanti compiono queste scelte in sé criminose. Tuttavia oggi il problema va ben al di là del pur doveroso riconoscimento di queste situazioni personali. Esso si pone anche sul piano culturale, sociale e politico, dove presenta il suo aspetto più sovversivo e conturbante nella tendenza, sempre più largamente condivisa, a interpretare i menzionati delitti contro la vita come legittime espressioni della libertà individuale, da riconoscere e proteggere come veri e propri diritti.
In questo modo giunge ad una svolta dalle tragiche conseguenze un lungo processo storico, che dopo aver scoperto l'idea dei «diritti umani» — come diritti inerenti a ogni persona e precedenti ogni Costituzione e legislazione degli Stati — incorre oggi in una sorprendente contraddizione: proprio in un'epoca in cui si proclamano solennemente i diritti inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto alla vita viene praticamente negato e conculcato, in particolare nei momenti più emblematici dell'esistenza, quali sono il nascere e il morire.
Da un lato, le varie dichiarazioni dei diritti dell'uomo e le molteplici iniziative che ad esse si ispirano dicono l'affermarsi a livello mondiale di una sensibilità morale più attenta a riconoscere il valore e la dignità di ogni essere umano in quanto tale, senza alcuna distinzione di razza, nazionalità, religione, opinione politica, ceto sociale.
Dall'altro lato, a queste nobili proclamazioni si contrappone purtroppo, nei fatti, una loro tragica negazione. Questa è ancora più sconcertante, anzi più scandalosa, proprio perché si realizza in una società che fa dell'affermazione e della tutela dei diritti umani il suo obiettivo principale e insieme il suo vanto. Come mettere d'accordo queste ripetute affermazioni di principio con il continuo moltiplicarsi e la diffusa legittimazione degli attentati alla vita umana? Come conciliare queste dichiarazioni col rifiuto del più debole, del più bisognoso, dell'anziano, dell'appena concepito? Questi attentati vanno in direzione esattamente contraria al rispetto della vita e rappresentano una minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti dell'uomo. È una minaccia capace, al limite, di mettere a repentaglio lo stesso significato della convivenza democratica: da società di «con- viventi», le nostre città rischiano di diventare società di esclusi, di emarginati, di rimossi e soppressi. Se poi lo sguardo si allarga ad un orizzonte planetario, come non pensare che la stessa affermazione dei diritti delle persone e dei popoli, quale avviene in alti consessi internazionali, si riduce a sterile esercizio retorico, se non si smaschera l'egoismo dei Paesi ricchi che chiudono l'accesso allo sviluppo dei Paesi poveri o lo condizionano ad assurdi divieti di procreazione, contrapponendo lo sviluppo all'uomo? Non occorre forse mettere in discussione gli stessi modelli economici, adottati sovente dagli Stati anche per spinte e condizionamenti di carattere internazionale, che generano ed alimentano situazioni di ingiustizia e violenza nelle quali la vita umana di intere popolazioni viene avvilita e conculcata?
19. Dove stanno le radici di una contraddizione tanto paradossale?
Le possiamo riscontrare in complessive valutazioni di ordine culturale e morale, a iniziare da quella mentalità che, esasperando e persino deformando il concetto di soggettività, riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta con piena o almeno incipiente autonomia ed esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri. Ma come conciliare tale impostazione con l'esaltazione dell'uomo quale essere «indisponibile»? La teoria dei diritti umani si fonda proprio sulla considerazione del fatto che l'uomo, diversamente dagli animali e dalle cose, non può essere sottomesso al dominio di nessuno. Si deve pure accennare a quella logica che tende a identificare la dignità personale con la capacità di comunicazione verbale ed esplicita e, in ogni caso, sperimentabile. È chiaro che, con tali presupposti, non c'è spazio nel mondo per chi, come il nascituro o il morente, è un soggetto strutturalmente debole, sembra totalmente assoggettato alla mercé di altre persone e da loro radicalmente dipendente e sa comunicare solo mediante il muto linguaggio di una profonda simbiosi di affetti. È, quindi, la forza a farsi criterio di scelta e di azione nei rapporti interpersonali e nella convivenza sociale. Ma questo è l'esatto contrario di quanto ha voluto storicamente affermare lo Stato di diritto, come comunità nella quale alle «ragioni della forza» si sostituisce la «forza della ragione».
Ad un altro livello, le radici della contraddizione che intercorre tra la solenne affermazione dei diritti dell'uomo e la loro tragica negazione nella pratica risiedono in una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell'altro. Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte, nel suo insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica che finisce per essere la libertà dei «più forti» contro i deboli destinati a soccombere.
Proprio in questo senso si può interpretare la risposta di Caino alla domanda del Signore «Dov'è Abele, tuo fratello?»: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4, 9). Sì, ogni uomo è «guardiano di suo fratello», perché Dio affida l'uomo all'uomo. Ed è anche in vista di tale affidamento che Dio dona a ogni uomo la libertà, che possiede un'essenziale dimensione relazionale. Essa è grande dono del Creatore, posta com'è al servizio della persona e della sua realizzazione mediante il dono di sé e l'accoglienza dell'altro; quando invece viene assolutizzata in chiave individualistica, la libertà è svuotata del suo contenuto originario ed è contraddetta nella sua stessa vocazione e dignità.
C'è un aspetto ancora più profondo da sottolineare: la libertà rinnega sé stessa, si autodistrugge e si dispone all'eliminazione dell'altro quando non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità. Ogni volta che la libertà, volendo emanciparsi da qualsiasi tradizione e autorità, si chiude persino alle evidenze primarie di una verità oggettiva e comune, fondamento della vita personale e sociale, la persona finisce con l'assumere come unico e indiscutibile riferimento per le proprie scelte non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il suo capriccio.
20. In questa concezione della libertà, la convivenza sociale viene profondamente deformata. Se la promozione del proprio io è intesa in termini di autonomia assoluta, inevitabilmente si giunge alla negazione dell'altro, sentito come un nemico da cui difendersi. In questo modo la società diventa un insieme di individui posti l'uno accanto all'altro, ma senza legami reciproci: ciascuno vuole affermarsi indipendentemente dall'altro, anzi vuol far prevalere i suoi interessi. Tuttavia, di fronte ad analoghi interessi dell'altro, ci si deve arrendere a cercare qualche forma di compromesso, se si vuole che nella società sia garantito a ciascuno il massimo di libertà possibile. Viene meno così ogni riferimento a valori comuni e a una verità assoluta per tutti: la vita sociale si avventura nelle sabbie mobili di un relativismo totale. Allora tutto è convenzionabile, tutto è negoziabile: anche il primo dei diritti fondamentali, quello alla vita.
È quanto di fatto accade anche in ambito più propriamente politico e statale: l'originario e inalienabile diritto alla vita è messo in discussione o negato sulla base di un voto parlamentare o della volontà di una parte — sia pure maggioritaria — della popolazione. È l'esito nefasto di un relativismo che regna incontrastato: il «diritto» cessa di essere tale, perché non è più solidamente fondato sull'inviolabile dignità della persona, ma viene assoggettato alla volontà del più forte. In questo modo la democrazia, ad onta delle sue regole, cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo. Lo Stato non è più la «casa comune» dove tutti possono vivere secondo principi di uguaglianza sostanziale, ma si trasforma in Stato tiranno, che presume di poter disporre della vita dei più deboli e indifesi, dal bambino non ancora nato al vecchio, in nome di una utilità pubblica che non è altro, in realtà, che l'interesse di alcuni.
Tutto sembra avvenire nel più saldo rispetto della legalità, almeno quando le leggi che permettono l'aborto o l'eutanasia vengono votate secondo le cosiddette regole democratiche. In verità, siamo di fronte solo a una tragica parvenza di legalità e l'ideale democratico, che è davvero tale quando riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana, è tradito nelle sue stesse basi: «Come è possibile parlare ancora di dignità di ogni persona umana, quando si permette che si uccida la più debole e la più innocente? In nome di quale giustizia si opera fra le persone la più ingiusta delle discriminazioni, dichiarandone alcune degne di essere difese, mentre ad altre questa dignità è negata?».16 Quando si verificano queste condizioni si sono già innescati quei dinamismi che portano alla dissoluzione di un'autentica convivenza umana e alla disgregazione della stessa realtà statuale.
Rivendicare il diritto all'aborto, all'infanticidio, all'eutanasia e riconoscerlo legalmente, equivale ad attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa è la morte della vera libertà: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34).
«Mi dovrò nascondere lontano da te» (Gn 4, 14): l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo
21. Nel ricercare le radici più profonde della lotta tra la «cultura della vita» e la «cultura della morte», non ci si può fermare all'idea perversa di libertà sopra ricordata. Occorre giungere al cuore del dramma vissuto dall'uomo contemporaneo:l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo, tipica del contesto sociale e culturale dominato dal secolarismo, che coi suoi tentacoli pervasivi non manca talvolta di mettere alla prova le stesse comunità cristiane. Chi si lascia contagiare da questa atmosfera, entra facilmente nel vortice di un terribile circolo vizioso: smarrendo il senso di Dio, si tende a smarrire anche il senso dell'uomo, della sua dignità e della sua vita; a sua volta, la sistematica violazione della legge morale, specie nella grave materia del rispetto della vita umana e della sua dignità, produce una sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire la presenza vivificante e salvante di Dio.
Ancora una volta possiamo ispirarci al racconto dell'uccisione di Abele da parte del fratello. Dopo la maledizione inflittagli da Dio, Caino così si rivolge al Signore: «Troppo grande è la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere» (Gn 4, 13-14).
Caino ritiene che il suo peccato non potrà ottenere perdono dal Signore e che il suo destino inevitabile sarà di doversi «nascondere lontano» da lui. Se Caino riesce a confessare che la sua colpa è «troppo grande», è perché egli sa di trovarsi di fronte a Dio e al suo giusto giudizio. In realtà, solo davanti al Signore l'uomo può riconoscere il suo peccato e percepirne tutta la gravità. È questa l'esperienza di Davide, che dopo «aver fatto male agli occhi del Signore», rimproverato dal profeta Natan (cf. 2 Sam 11-12), esclama: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto» (Sal 511, 5-6).
22. Per questo, quando viene meno il senso di Dio, anche il senso dell'uomo viene minacciato e inquinato, come lapidariamente afferma il Concilio Vaticano II: «La creatura senza il Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa».17 L'uomo non riesce più a percepirsi come «misteriosamente altro» rispetto alle diverse creature terrene; egli si considera come uno dei tanti esseri viventi, come un organismo che, tutt'al più, ha raggiunto uno stadio molto elevato di perfezione. Chiuso nel ristretto orizzonte della sua fisicità, si riduce in qualche modo a «una cosa» e non coglie più il carattere «trascendente» del suo «esistere come uomo». Non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà «sacra» affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole custodia, alla sua «venerazione». Essa diventa semplicemente «una cosa», che egli rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile.
Così, di fronte alla vita che nasce e alla vita che muore, non è più capace di lasciarsi interrogare sul senso più autentico della sua esistenza, assumendo con vera libertà questi momenti cruciali del proprio «essere». Egli si preoccupa solo del «fare» e, ricorrendo ad ogni forma di tecnologia, si affanna a programmare, controllare e dominare la nascita e la morte. Queste, da esperienze originarie che chiedono di essere «vissute», diventano cose che si pretende semplicemente di «possedere» o di «rifiutare».
Del resto, una volta escluso il riferimento a Dio, non sorprende che il senso di tutte le cose ne esca profondamente deformato, e la stessa natura, non più «mater», sia ridotta a «materiale» aperto a tutte le manipolazioni. A ciò sembra condurre una certa razionalità tecnico-scientifica, dominante nella cultura contemporanea, che nega l'idea stessa di una verità del creato da riconoscere o di un disegno di Dio sulla vita da rispettare. E ciò non è meno vero, quando l'angoscia per gli esiti di tale «libertà senza legge» induce alcuni all'opposta istanza di una «legge senza libertà», come avviene, ad esempio, in ideologie che contestano la legittimità di qualunque intervento sulla natura, quasi in nome di una sua «divinizzazione», che ancora una volta ne misconosce la dipendenza dal disegno del Creatore. In realtà, vivendo «come se Dio non esistesse», l'uomo smarrisce non solo il mistero di Dio, ma anche quello del mondo e il mistero del suo stesso essere.
23. L'eclissi del senso di Dio e dell'uomo conduce inevitabilmente al materialismo pratico, nel quale proliferano l'individualismo, l'utilitarismo e l'edonismo. Si manifesta anche qui la perenne validità di quanto scrive l'Apostolo: «Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno» (Rm 1, 28). Così i valori dell'essere sono sostituiti da quelli dell'avere.
L'unico fine che conta è il perseguimento del proprio benessere materiale. La cosiddetta «qualità della vita» è interpretata in modo prevalente o esclusivo come efficienza economica, consumismo disordinato, bellezza e godibilità della vita fisica, dimenticando le dimensioni più profonde — relazionali, spirituali e religiose — dell'esistenza.
In un simile contesto la sofferenza, inevitabile peso dell'esistenza umana ma anche fattore di possibile crescita personale, viene «censurata», respinta come inutile, anzi combattuta come male da evitare sempre e comunque. Quando non la si può superare e la prospettiva di un benessere almeno futuro svanisce, allora pare che la vita abbia perso ogni significato e cresce nell'uomo la tentazione di rivendicare il diritto alla sua soppressione.
Sempre nel medesimo orizzonte culturale, il corpo non viene più percepito come realtà tipicamente personale, segno e luogo della relazione con gli altri, con Dio e con il mondo. Esso è ridotto a pura materialità: è semplice complesso di organi, funzioni ed energie da usare secondo criteri di mera godibilità ed efficienza. Conseguentemente, anche la sessualità è depersonalizzata e strumentalizzata: da segno, luogo e linguaggio dell'amore, ossia del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro secondo l'intera ricchezza della persona, diventa sempre più occasione e strumento di affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri e istinti. Così si deforma e falsifica il contenuto originario della sessualità umana e i due significati, unitivo e procreativo, insiti nella natura stessa dell'atto coniugale, vengono artificialmente separati: in questo modo l'unione è tradita e la fecondità è sottomessa all'arbitrio dell'uomo e della donna. La procreazione allora diventa il «nemico» da evitare nell'esercizio della sessualità: se viene accettata, è solo perché esprime il proprio desiderio, o addirittura la propria volontà, di avere il figlio «ad ogni costo» e non, invece, perché dice totale accoglienza dell'altro e, quindi, apertura alla ricchezza di vita di cui il figlio è portatore.
Nella prospettiva materialistica fin qui descritta, le relazioni interpersonali conoscono un grave impoverimento. I primi a subirne i danni sono la donna, il bambino, il malato o sofferente, l'anziano. Il criterio proprio della dignità personale — quello cioè del rispetto, della gratuità e del servizio — viene sostituito dal criterio dell'efficienza, della funzionalità e dell'utilità: l'altro è apprezzato non per quello che «è», ma per quello che «ha, fa e rende». È la supremazia del più forte sul più debole.
24. È nell'intimo della coscienza morale che l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo, con tutte le sue molteplici e funeste conseguenze sulla vita, si consuma. È in questione, anzitutto, la coscienza di ciascuna persona, che nella sua unicità e irripetibilità si trova sola di fronte a Dio.18 Ma è pure in questione, in un certo senso, la «coscienza morale» della società: essa è in qualche modo responsabile non solo perché tollera o favorisce comportamenti contrari alla vita, ma anche perché alimenta la «cultura della morte», giungendo a creare e a consolidare vere e proprie «strutture di peccato» contro la vita. La coscienza morale, sia individuale che sociale, è oggi sottoposta, anche per l'influsso invadente di molti strumenti della comunicazione sociale, a un pericolo gravissimo e mortale: quello della confusione tra il bene e il male in riferimento allo stesso fondamentale diritto alla vita. Tanta parte dell'attuale società si rivela tristemente simile a quell'umanità che Paolo descrive nella Lettera ai Romani. È fatta «di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia» (1, 18): avendo rinnegato Dio e credendo di poter costruire la città terrena senza di lui, «hanno vaneggiato nei loro ragionamenti» sicché «si è ottenebrata la loro mente ottusa» (1, 21); «mentre si dichiaravano sapienti sono diventati stolti» (1, 22), sono diventati autori di opere degne di morte e «non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa» (1, 32). Quando la coscienza, questo luminoso occhio dell'anima (cf. Mt 6, 22-23), chiama «bene il male e male il bene» (Is 5, 20), è ormai sulla strada della sua degenerazione più inquietante e della più tenebrosa cecità morale.
Eppure tutti i condizionamenti e gli sforzi per imporre il silenzio non riescono a soffocare la voce del Signore che risuona nella coscienza di ogni uomo: è sempre da questo intimo sacrario della coscienza che può ripartire un nuovo cammino di amore, di accoglienza e di servizio alla vita umana.
[Papa Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae]
Non si può mai chiudere la porta in faccia ai genitori che chiedono il battesimo per il loro figlio, anche se non sono sposati in chiesa: il cristiano, e soprattutto il pastore, non dovrebbe mai dimenticare la gratuità della salvezza, la vicinanza di Dio e la concretezza delle opere di misericordia, materiali o spirituali. È il forte invito ad aprire sempre le porte agli altri, e anche a se stessi, suggerito da Papa Francesco nella messa celebrata giovedì mattina, 19 ottobre, a Santa Marta.
«Questo passo del Vangelo — ha subito fatto notare il Papa, riferendosi al brano di Luca (11, 47-54) — entra in quello stile dell’evangelista» che è proprio «sia di Luca che di Matteo». È «potremmo dire» uno «stile» che indica «i guai: Guai a voi, dottori della legge: guai a voi, farisei». Infatti, ha spiegato Francesco, «il Signore è molto forte, molto forte: bastona con tanta forza». In particolare, «nel passo di oggi c’è un’espressione che fa pensare: “Guai a voi dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito”».
In realtà, ha riconosciuto il Pontefice, «questo versetto è un po’ oscuro: cosa significa “portare via la chiave della conoscenza”, con la conseguenza di non entrare nel Regno e neppure lasciare entrare gli altri?». E così, ha affermato il Papa, «questo portare via la capacità di capire la rivelazione di Dio, di capire il cuore di Dio, di capire la salvezza di Dio — la chiave della conoscenza — possiamo dire che è una grave dimenticanza». Perché «si dimentica la gratuità della salvezza, si dimentica la vicinanza di Dio e si dimentica la misericordia di Dio». E proprio «quelli che dimenticano la gratuità della salvezza, la vicinanza di Dio e la misericordia di Dio hanno portato via la chiave della conoscenza». Tanto che, ha insistito il Papa, «non si può capire il Vangelo senza queste tre cose».
«Hanno dimenticato la gratuità», dunque. E «Paolo parla di questo nella prima lettura» ha detto ancora Francesco riferendosi al passo della lettera ai romani (3, 21-30): «Siete giustificati gratuitamente per la sua grazia». Ma, ha avvertito il Pontefice, «questa gente dimentica che tutto è gratuito, che è stata l’iniziativa di Dio a salvarci e si schierano dalla parte della legge e cercano di aggrapparsi alla legge e, quanto più è dettagliata, è meglio: la salvezza è lì per loro». E «così — ha proseguito — sono tanto aggrappati alla legge che non ricevono la forza della giustizia di Dio: c’è un inganno dietro il giustificare se stessi con la legge: “Io faccio questo, questo, questo, questo e sono felice, sono giustificato” — “Ma questo come devo farlo?” — “No, devi farlo così, così, così, così” — “Ma questo “così” come devo farlo?” – “Così, così, così così”».
Ecco che, ha affermato il Papa, costoro «arrivano a un mucchio di prescrizioni e per loro questa è la salvezza: hanno perso la chiave dell’intelligenza che, in questo caso, è la gratuità della salvezza». In realtà «la legge è una risposta all’amore gratuito di Dio: è Lui che ha preso l’iniziativa di salvarci e perché tu mi hai amato tanto, io cerco di andare per la tua strada, quella che tu mi hai indicato», in una parola «io compio la legge». Ma «è una risposta» perché «la legge, sempre, è una risposta e quando si dimentica la gratuità della salvezza si cade, si perde la chiave dell’intelligenza della storia della salvezza».
E, ancora, ha rilanciato il Pontefice, quelle persone «hanno perso la chiave dell’intelligenza perché hanno perso il senso della vicinanza di Dio: per loro Dio è quello che ha fatto la legge» ma «questo non è il Dio della rivelazione». In realtà «il Dio della rivelazione è Dio che ha incominciato a camminare con noi da Abramo fino a Gesù Cristo: Dio che cammina con il suo popolo». Perciò «quando si perde questo rapporto vicino con il Signore, si cade in questa mentalità ottusa che crede nell’autosufficienza della salvezza con il compimento della legge».
Ecco, allora, «la vicinanza di Dio» ha rimarcato Francesco, facendo riferimento a «un passo tanto bello, quasi alla fine del Deuteronomio, nel capitolo 31; quando Mosè finisce di scrivere la legge, la consegna ai leviti, quelli che custodivano l’arca, e dice loro “prendete questo libro della legge e mettetelo a fianco all’Arca, vicino a Dio, perché io conosco la tua ribellione — parla al popolo — e la durezza della tua cervice”».
«Invece vicino al Signore — ha fatto presente il Papa — la legge è rivelazione del Signore ma si stacca, la legge diventa autonoma e diventa dittatoriale, quando manca la vicinanza di Dio». Del resto, ha suggerito, «pensiamo nella preghiera: quando manca la preghiera non si può insegnare la dottrina, neppure fare teologia né teologia morale». Oltretutto, ha rilanciato, «la teologia si fa in ginocchio, sempre vicino a Dio: questa gente aveva perso quel senso della vicinanza, aveva dimenticato la vicinanza di Dio».
Inoltre, ha spiegato il Pontefice, così facendo quelle persone hanno anche «perso la memoria della misericordia di Dio». Infatti «nella parola di Dio, il Signore ripete tanto, tanto e tanto “misericordia voglio, non sacrifici”». E «questa vicinanza di Dio, della quale abbiamo parlato, arriva al punto più alto di Gesù Cristo crocifisso». Lo stesso «Paolo ci ricorda che siamo stati giustificati per il sangue di Cristo, la carne di Cristo, il sangue di Cristo». Mentre invece quella gente finisce per dimenticare proprio «la carne di Cristo: dimenticano la misericordia e per questo finiscono senza conoscere il nocciolo della legge che è misericordia, sempre». Tanto che, ha spiegato Francesco, «le opere di misericordia sono la pietra di paragone del compimento della legge, perché» ci consentono di «toccare la carne di Cristo, toccare Cristo che soffre in una persona, sia corporalmente sia spiritualmente».
In proposito il Papa ha invitato a pensare «al ricco Epulone che nell’inferno chiese ad Abramo di inviare ai suoi fratelli uno dei morti per predicare, così si sarebbero potuti salvare». Ma «che cosa dice Abramo: “No, questo non va, perché se non sono capaci di ascoltare Mosè e i profeti, neppure ascolteranno uno che risorge dai morti”». Difatti, «se non hanno la misericordia come lui — Epulone non ne aveva — niente vale!». Francesco ha dunque presentato «queste tre dimenticanze» che «sono la radice: la dimenticanza della gratuità della salvezza, la dimenticanza della vicinanza di Dio e la dimenticanza della misericordia». E così l’allontanarsi dalla salvezza è anche alla radice del «portare via la chiave della conoscenza: non si conosce la salvezza così». Da qui l’esortazione del Pontefice a interrogarsi: «Quali sono le conseguenze?».
Proprio «il passo evangelico di oggi ne segnala due», è stata la risposta. «Prima di tutto la chiusura: “Voi non siete entrati e a quelli che volevano entrare, voi l’avete impedito”». Sì, «questa gente chiudeva la porta ai fedeli e i fedeli non capivano: loro, tutta la loro teologia morale, facevano del manierismo intellettuale, ma non arrivava alla gente e, con questo, allontanavano la gente. No, questa non è la religione che io volevo: questa non è la verità della salvezza in Gesù Cristo». E, ha precisato il Pontefice, «io qui penso alla responsabilità che abbiamo noi pastori: quando noi pastori perdiamo o portiamo via la chiave dell’intelligenza, chiudiamo la porta a noi e agli altri».
«Mi viene alla memoria — ha confidato — e lo dico per nostra edificazione» il fatto che «nel mio Paese ho sentito parecchie volte di parroci che non battezzavano i figli delle ragazze madri, perché non erano nati nel matrimonio canonico: chiudevano la porta, scandalizzavano il popolo di Dio perché il cuore di questi parroci aveva perso la chiave della conoscenza». Di più: «Senza andare tanto lontano nel tempo e nello spazio, tre mesi fa, in un paese, in una città, una mamma voleva battezzare il figlio appena nato, ma lei era sposata civilmente con un divorziato. Il parroco ha detto “sì, sì, battezzo il bambino ma tuo marito è divorziato, rimanga fuori, non può essere presente alla cerimonia”». E «questo succede oggi» ha affermato perché «i farisei, i dottori della legge non sono cose di quei tempi: anche oggi ce ne sono tante».
Per questa ragione, ha affermato il Papa, «è necessario pregare per noi pastori, perché non perdiamo la chiave della conoscenza e non chiudiamo la porta a noi e alla gente che vuole entrare».
«E la seconda conseguenza — ha proseguito — la dice anche il dice il Vangelo: “Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo in modo ostile e a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli insidie per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca”». Questo è «un atteggiamento corrotto» e «questa è la seconda conseguenza: quando si perde la chiave della conoscenza, sia nella gratuità della salvezza sia nella vicinanza di Dio sia nelle opere di misericordia, si arriva alla corruzione». E «i pastori di quei tempi come finiscono? Tendendo insidie al Signore per farlo cadere nel tranello e poi poter accusarlo e condannarlo, come hanno fatto». In conclusione, il Pontefice ha suggerito di chiedere «al Signore la grazia della memoria della nostra salvezza, della gratuità della salvezza, della vicinanza di Dio — e questo ci faccia pregare — e della concretezza delle opere di misericordia che il Signore vuole da noi, che siano materiali o spirituali, ma concrete». Con l’auspicio che il Signore «ci dia questa grazia» perché «possiamo diventare persone che aiutano ad aprire la porta e a noi stessi e agli altri».
[Papa Francesco, s. Marta, in L'Osservatore Romano 20/10/2017]
XXVIII Domenica Tempo Ordinario (anno C) [12 Ottobre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Riflettere sulla gratitudine che è più facile notare fra coloro che sono lontani è un invito a rivedere la nostra personale relazione con Dio.
Prima Lettura dal secondo libro dei Re (5, 14-17)
La lettura di questa domenica comincia nel momento in cui il generale Naaman, apparentemente docile come un agnello, si immerge nell’acqua del Giordano, su ordine del profeta Eliseo; ma ci manca l’inizio della storia: ve lo racconto. Naaman è un generale siriano molto stimato dal re di Aram (l’attuale Damasco). Ovviamente, per il popolo di Israele, egli è uno straniero e in certi periodi addirittura un nemico e soprattutto essendo un pagano non appartiene al popolo eletto. Ancora più grave: è lebbroso, il che significa che presto tutti lo eviteranno e per lui è una vera maledizione. Fortunatamente per lui, sua moglie ha una schiava israelita la quale dice alla padrona: “A Samaria c’è un grande profeta che potrebbe sicuramente guarire Naaman”. La padrona lo riferisce al marito Naaman, il quale lo dice al re di Aram: il profeta di Samaria può guarirmi. E poiché Naaman gode di grande favore, il re scrive una lettera di presentazione al re di Samaria raccomandando Naaman affetto da lebbra perché vada dal profeta Eliseo. Il re di Israele non sa che il profeta Eliseo può guarire anzi è nel panico perché pensa che il re di Siria sta cercando un pretesto per fargli guerra. Eliseo viene a sapere e chiede di venire Naaman che arriva con tutta la sua scorta e i bagagli pieni di doni per il guaritore. In realtà, solamente un servo socchiude la porta e si limita a dirgli che il suo padrone gli ordina di immergersi sette volte nel Giordano per essere purificato. Naaman ritiene questo offensivo e a che serve tuffarsi nel Giordano dato che in Siria ci sono fiumi ben più belli del Giordano. Infuriato riprende la strada verso Damasco, ma fortunatamente i suoi servi gli dicono: Ti aspettavi che il profeta ti chiedesse cose straordinarie per guarirti e le avresti fatte. Ora ti ordina una cosa ordinaria perché non puoi farla? Naaman si lascia convincere e comincia da questo punto la lettura di oggi. Naaman obbedisce a un ordine semplice immergendosi sette volte nel Giordano ed è guarito. A noi sembra semplice, ma per un grande generale di un esercito straniero è proprio questa obbedienza che non è affatto semplice! Il seguito del testo lo dimostra. Naaman è guarito e torna da Eliseo per dirgli due cose. La prima: “Ora so che non c’è Dio, su tutta la terra, se non in Israele” e aggiungerà dopo che tornato nel suo paese, gli offrirà sacrifici. L’autore di questo passo approfitta per dire agli Ebrei: voi avete da secoli la protezione dell’unico Dio e ora vedete che Dio è anche per gli stranieri, mentre voi continuate a lasciarvi tentare dall’idolatria. Questo straniero, invece ha capito in fretta da dove gli viene la guarigione. Inoltre Naaman dice a Eliseo che vuole dargli un dono per ringraziarlo, ma il profeta rifiuta energicamente: i doni di Dio non si comprano.. Infine perché Naaman vuol portare con sé un po’ di terra d’Israele? Egli motiva la richiesta perché non vuole offrire olocausti e sacrifici ad altri dèi, ma solo al Dio d’Israele. Questo fa capire che, al tempo del profeta Eliseo, tutti i popoli vicini a Israele credevano che le divinità regnassero su territori specifici e per offrire sacrifici al Dio d’Israele, Naaman crede dunque di dover portare con sé della terra sulla quale regna questo Dio.
Salmo Responsoriale (97/98, 1-4)
Nella prima lettura Naaman, generale siriano quindi un pagano, viene guarito dal profeta Eliseo e, grazie a questo, scopre il Dio d’Israele. Naaman è dunque del tutto adatto a cantare questo salmo, nel quale si parla dell’amore di Dio sia per i pagani, quelli che la Bibbia chiama le nazioni (o le genti), sia per Israele. “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” (v.2) e subito dopo (v 3): “Si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele”, che è l’espressione consacrata per ricordare l’elezione d’Israele, la relazione del tutto privilegiata che lega questo piccolo popolo al Dio dell’universo. Le semplici parole “la sua fedeltà”, “il suo amore” sono il richiamo all’Alleanza: è attraverso queste parole che, nel deserto, Dio si è fatto conoscere al popolo che ha scelto. La frase “Dio di amore e di fedeltà” indica che Israele è il popolo eletto ma la frase precedente ricorda che, se Israele è stato scelto, non è per godere egoisticamente del privilegio, non per considerarsi figlio unico, ma per comportarsi come fratello maggiore e il suo ruolo è annunciare l’amore di Dio per tutti gli uomini, così da integrare a poco a poco tutta l’umanità nell’Alleanza. In questo salmo, questa certezza segna perfino la composizione del testo; se lo si guarda più da vicino, si nota la costruzione in inclusione dei versetti 2 e 3. Ricordo che l’inclusione è un procedimento letterario che si trova spesso nella Bibbia. È un po’ come un riquadro in un giornale o in una rivista; ovviamente, lo scopo è mettere in evidenza il testo scritto all’interno del riquadro. Nella Bibbia, funziona allo stesso modo: il testo centrale viene messo in risalto, incorniciato da due frasi identiche, una prima e una dopo. Qui, la frase centrale parla di Israele, il popolo eletto, ed è incorniciata da due frasi che parlano delle nazioni: la prima frase “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” e la seconda riguarda Israele: “Si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele” e la terza: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Qui non compare il termine “le genti” ma è sostituito dall’espressione “tutti i confini della terra”. Il che significa che l’elezione d’Israele è centrale, ma non bisogna dimenticare che deve irradiare su tutta l’umanità. Una seconda sottolineatura di questo salmo è la proclamazione molto marcata della regalità di Dio. Per esempio, nel Tempio di Gerusalemme si canta: “Acclamate il Signore, terra intera, acclamate il vostro re”. Questo salmo è un grido di vittoria, il grido che si innalza sul campo di battaglia dopo il trionfo, la teru‘ah in onore del vincitore. La vittoria di Dio, di cui qui si parla, è duplice: è innanzitutto la vittoria della liberazione dall’Egitto e poi la vittoria attesa per la fine dei tempi, la vittoria definitiva di Dio contro tutte le forze del male. E già allora si acclamava Dio come un tempo si acclamava il nuovo re nel giorno della sua incoronazione, con grida di vittoria al suono delle trombe, dei corni e tra gli applausi della folla. Ma mentre con i re della terra si andava sempre verso la delusione, questa volta si sa che non si sarà delusi; ecco perché stavolta la teru‘ah deve essere particolarmente vibrante! I cristiani acclamano Dio con ancora più forza, perché hanno visto con i loro occhi il re del mondo: dall’Incarnazione del Figlio, essi sanno e affermano, contro ogni evento apparentemente contrario, che il Regno di Dio, cioè dell’amore, è già cominciato.
Seconda Lettura dalla seconda Lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (2, 8 – 13)
Il canto «Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti; egli è la nostra salvezza, la nostra gloria eterna» si trova nel suo contesto originale nella seconda lettera a Timoteo, dove Paolo scrive: «Ricordati di Gesù Cristo, discendente di Davide». In ambiente ebraico era essenziale affermare che Gesù fosse davvero della stirpe di Davide per essere riconosciuto come Messia. Paolo aggiunge: «Egli è risorto dai morti: questo è il mio Vangelo». La questione è radicale: o Gesù è risorto, o non lo è. Paolo, inizialmente convinto che fosse un’invenzione, aveva cercato di impedire la diffusione di tale annuncio. Ma, dopo l’esperienza sulla via di Damasco, ha visto il Risorto e ne è diventato testimone. Gesù è vincitore della morte e del male, e con lui nasce il mondo nuovo, a cui i credenti devono partecipare con tutta la loro vita. Per questo Paolo si consacra all’annuncio del Vangelo e invita Timoteo a fare lo stesso, preparandolo alle opposizioni e incoraggiandolo a combattere la buona battaglia con coraggio, dolcezza e fiducia nello Spirito ricevuto. La risurrezione è il cuore della fede cristiana. Se per molti Ebrei la risurrezione della carne era credibile, per i Greci era difficile da accogliere, come mostra il fallimento della predicazione di Paolo ad Atene. Proprio per l’annuncio della risurrezione Paolo ha conosciuto più volte il carcere: «Cristo è risorto dai morti, questo è il mio Vangelo. Per lui soffro, fino a essere incatenato come un malfattore». Anche Timoteo, ammonisce Paolo, dovrà soffrire per il Vangelo. Le catene di Paolo non fermano la verità: «Sono incatenato, ma la Parola di Dio non è incatenata». Gesù stesso aveva detto che se taceranno loro, grideranno le pietre perché nulla può fermare la verità. Paolo aggiunge che sopporta tutto per gli eletti, affinché ottengano anch’essi la salvezza che è in Cristo Gesù, con la gloria eterna. Qui riecheggia il canto iniziale e .segue probabilmente un antico inno battesimale introdotto con la formula: Ecco una parola degna di fede:Se siamo morti con lui, con lui vivremo; se perseveriamo, con lui regnerem». È il mistero del Battesimo, già spiegato in Romani 6: con esso siamo immersi nella morte e risurrezione di Cristo, uniti a lui in modo inseparabile. Passione, morte e risurrezione costituiscono un unico evento che ha inaugurato una nuova epoca per l’umanità. Le ultime frasi mettono in luce la tensione tra libertà umana e fedeltà di Dio perché se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà: Dio rispetta il nostro rifiuto consapevole. Se manchiamo di fede, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso dato che Dio resta sempre fedele anche di fronte alle nostre fragilità.
Dal Vangelo secondo Luca (17, 11-19)
Gesù è in cammino verso Gerusalemme, dove lo attendono passione, morte e risurrezione. Luca sottolinea l’itinerario perché ciò che narra è legato al mistero della salvezza. Durante il viaggio, incontra dieci lebbrosi che, costretti a restare a distanza secondo la Legge, gridano verso di lui chiamandolo “Maestro”: è segno insieme della loro debolezza e della fiducia che ripongono in lui. Diversamente da un altro episodio (Lc 5,12), questa volta Gesù non li tocca, ma ordina soltanto di andare a presentarvi ai sacerdoti, passo necessario per il riconoscimento ufficiale della guarigione. L’ordine è già promessa di salvezza. Il racconto richiama l’episodio di Naaman e del profeta Eliseo (2Re 5) della prima lettura perché mentre i dieci si mettono in cammino, la loro lebbra scompare: la loro fiducia li salva. La malattia li aveva uniti, ma la guarigione rivela la differenza dei cuori: nove Giudei vanno verso i sacerdoti, uno solo,- un Samaritano, considerato eretico — torna indietro. Egli riconosce che la vita e la guarigione vengono da Dio, glorifica Dio a gran voce, si prostra ai piedi di Gesù rendendogli grazie: un atteggiamento riservato a Dio. Così riconosce il Messia e comprende che il vero luogo per rendere gloria a Dio non è più il Tempio di Gerusalemme, ma Gesù stesso. Il suo ritorno è conversione, e Gesù lo proclama: “Àlzati e va’: la tua fede ti ha salvato”. Degli altri nove, Gesù chiede conto: hanno incontrato il Messia ma non lo hanno riconosciuto, scegliendo di correre subito verso il Tempio per compiere la Legge senza fermarsi a ringraziare. Il Vangelo sottolinea così un tema ricorrente: la salvezza è per tutti, ma spesso non sono i più vicini a Dio ad accoglierla: “Venne tra i suoi e i suoi non lo hanno riconosciuto”. Già l’Antico Testamento affermava l’universalità della salvezza (cf. Sal 97/98). La prima lettura ricorda la conversione di Naaman, straniero, e Gesù aveva rimproverato a Nazaret, citando l’esempio del Siro guarito mentre molti lebbrosi in Israele non lo furono (Lc 4,27), suscitando la collera della sinagoga. Negli Atti, Luca mostrerà ancora il contrasto tra il rifiuto di parte d’Israele e l’accoglienza dei pagani. Questa questione era viva nelle prime comunità cristiane: bisognava essere Giudei per ricevere il battesimo, o anche i pagani potevano essere accolti? Il racconto del Samaritano convertito ricorda tre verità: la salvezza portata da Cristo con passione, morte e risurrezione è per tutti; il rendimento di grazie è spesso compiuto meglio dagli stranieri o dagli eretici; i poveri sono i più disponibili a incontrare Dio. In conclusione, sul cammino verso Gerusalemme, cioè verso la salvezza, Gesù conduce tutti gli uomini disposti a convertirsi, qualunque sia la loro origine o religione.
+ Giovanni D’Ercole
Servire se stessi e “il pubblico”
(Lc 11,42-46)
Il conflitto tra Gesù e le autorità religiose assume tratti violentissimi.
La scelta ideologica o devota può perdersi nel formalismo di chi discute senza fine di minuzie e dimentica le mète dell’impegno interiore, in favore di una sorta di spettacolo circense (v.43).
Quando i notabili disdegnano il servizio e scelgono gli onori, il semplice passar loro accanto fa contrarre la medesima impurità dell’anima: vita media e normale, corruzione interna.
Insomma, la Legge divina è stata talmente appesantita da rendere la prassi devota asfissiante, preoccupata di quisquillie.
Per chi ce la fa a sopportare le trafile, poi, la perfezione nelle cose esteriori può nutrire la superbia anche nelle relazioni interumane. E la Grazia che arricchisce non detterà più la condotta.
La disponibilità a edificare Chiesa in Cristo impone di essere autentici e semplici, non disumanizzati; segno di Alleanza, non odiosi.
C’è una contro-testimonianza che soffoca il crescere della vita e coarta la libertà di chi è animato dallo Spirito di Dio.
Fra l’altro, proprio i leaders e i giuristi lasciano ben volentieri la loro privacy fuori dalle disposizioni che impongono agli altri (v.46).
Insomma, la cura di dettagli e inezie è buona e propulsiva (v.42) solo se si unisce all’intima scoperta della propria Missione e Chiamata, carattere promotore di crescita e nostro avvenire.
Mentre Mt 23,27 parla di tombe imbiancate, Lc parla di sepolcri nascosti, che non si vedono (v.44).
Le persone semplici, ingenue, pure, le quali vi si accostano, non si rendono conto d’insistere su idoli morti.
Nella mentalità semitica, toccare o calpestare un sepolcro significava contrarre impurità.
Gesù vuol dire che bisogna stare molto molto attenti a queste persone pericolosissime, che ghermiscono e plagiano le anime, allontanandole da Dio in nome di Dio.
Guide manipolatrici, che distolgono dal senso della Lieta Notizia a nostro favore, inoculando una mentalità che annienta la crescita.
In ogni tempo la recita della santità disincarnata, schematica, fuori scala o confusionaria e vuota conserva apparenze devianti.
Ma i propugnatori della morte dell’anima si riconoscono immediatamente: son coloro che insistono su visioni del mondo sofisticate, su idee astratte; sulle bagatelle dei vezzi, o di apparenze disciplinari - e dimenticano gli obbiettivi del Regno.
Il tema è cruciale:
«Vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità […] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione» (FT n.276).
Opera decisiva, ottenuta in modo laborioso e «artigianale» (n.217).
Al pari delle mode, l’attenzione al troppo grande o ai nonnulla disincarnati avvicina la gente agli scheletri.
Aiutiamoci dunque a riportare il Verbo dentro, affinché diventi il nostro volto fattivo, senza doppiezze, dalla speranza larga, separato dalla scena presente e da qualsiasi bottega narcisistica.
[Mercoledì 28.a sett. T.O. 15 ottobre 2025]
There is work for all in God's field (Pope Benedict)
C'è lavoro per tutti nel campo di Dio (Papa Benedetto)
The great thinker Romano Guardini wrote that the Lord “is always close, being at the root of our being. Yet we must experience our relationship with God between the poles of distance and closeness. By closeness we are strengthened, by distance we are put to the test” (Pope Benedict)
Il grande pensatore Romano Guardini scrive che il Signore “è sempre vicino, essendo alla radice del nostro essere. Tuttavia, dobbiamo sperimentare il nostro rapporto con Dio tra i poli della lontananza e della vicinanza. Dalla vicinanza siamo fortificati, dalla lontananza messi alla prova” (Papa Benedetto)
The present-day mentality, more perhaps than that of people in the past, seems opposed to a God of mercy, and in fact tends to exclude from life and to remove from the human heart the very idea of mercy (Pope John Paul II)
La mentalità contemporanea, forse più di quella dell'uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l'idea stessa della misericordia (Papa Giovanni Paolo II)
«Religion of appearance» or «road of humility»? (Pope Francis)
«Religione dell’apparire» o «strada dell’umiltà»? (Papa Francesco)
Those living beside us, who may be scorned and sidelined because they are foreigners, can instead teach us how to walk on the path that the Lord wishes (Pope Francis)
Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole (Papa Francesco)
Many saints experienced the night of faith and God’s silence — when we knock and God does not respond — and these saints were persevering (Pope Francis)
Tanti santi e sante hanno sperimentato la notte della fede e il silenzio di Dio – quando noi bussiamo e Dio non risponde – e questi santi sono stati perseveranti (Papa Francesco)
In some passages of Scripture it seems to be first and foremost Jesus’ prayer, his intimacy with the Father, that governs everything (Pope Francis)
In qualche pagina della Scrittura sembra essere anzitutto la preghiera di Gesù, la sua intimità con il Padre, a governare tutto (Papa Francesco)
It is necessary to know how to be silent, to create spaces of solitude or, better still, of meeting reserved for intimacy with the Lord. It is necessary to know how to contemplate. Today's man feels a great need not to limit himself to pure material concerns, and instead to supplement his technical culture with superior and detoxifying inputs from the world of the spirit [John Paul II]
Occorre saper fare silenzio, creare spazi di solitudine o, meglio, di incontro riservato ad un’intimità col Signore. Occorre saper contemplare. L’uomo d’oggi sente molto il bisogno di non limitarsi alle pure preoccupazioni materiali, e di integrare invece la propria cultura tecnica con superiori e disintossicanti apporti provenienti dal mondo dello spirito [Giovanni Paolo II]
This can only take place on the basis of an intimate encounter with God, an encounter which has become a communion of will, even affecting my feelings (Pope Benedict)
Questo può realizzarsi solo a partire dall'intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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