Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Il Vangelo […] propone un duplice comandamento sulla fede: credere in Dio e credere in Gesù. Il Signore, infatti, dice ai suoi discepoli: «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1). Non sono due atti separati, ma un unico atto di fede, la piena adesione alla salvezza operata da Dio Padre mediante il suo Figlio Unigenito. Il Nuovo Testamento ha posto fine all’invisibilità del Padre. Dio ha mostrato il suo volto, come conferma la risposta di Gesù all’apostolo Filippo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Il Figlio di Dio, con la sua incarnazione, morte e risurrezione, ci ha liberati dalla schiavitù del peccato per donarci la libertà dei figli di Dio e ci ha fatto conoscere il volto di Dio che è amore: Dio si può vedere, è visibile in Cristo. Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6: Opere Complete, Milano 1998, 1001). Quindi solo credendo in Cristo, rimanendo uniti a Lui, i discepoli, tra i quali siamo anche noi, possono continuare la sua azione permanente nella storia: «In verità, in verità io vi dico – dice il Signore –: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio» (Gv 14,12).
La fede in Gesù comporta seguirlo quotidianamente, nelle semplici azioni che compongono la nostra giornata. «È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso. Solo pian piano Egli costruisce nella grande storia dell’umanità la sua storia. Diventa uomo ma in modo da poter essere ignorato dai contemporanei, dalle forze autorevoli della storia. Patisce e muore e, come Risorto, vuole arrivare all’umanità soltanto attraverso la fede dei suoi ai quali si manifesta. Di continuo Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apriamo, lentamente ci rende capaci di “vedere”» (Gesù di Nazareth II, 2011, 306). Sant’Agostino afferma che «era necessario che Gesù dicesse: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), perché una volta conosciuta la via, restava da conoscere la meta» (Tractatus in Ioh., 69, 2: CCL 36, 500), e la meta è il Padre. Per i cristiani, per ciascuno di noi, dunque, la Via al Padre è lasciarsi guidare da Gesù, dalla sua parola di Verità, e accogliere il dono della sua Vita. Facciamo nostro l’invito di San Bonaventura: «Apri dunque gli occhi, tendi l’orecchio spirituale, apri le tue labbra e disponi il tuo cuore, perché tu possa in tutte le creature vedere, ascoltare, lodare, amare, venerare, glorificare, onorare il tuo Dio» (Itinerarium mentis in Deum, I, 15).
Cari amici, l’impegno di annunciare Gesù Cristo, “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), costituisce il compito principale della Chiesa. Invochiamo la Vergine Maria perché assista sempre i Pastori e quanti nei diversi ministeri annunciano il lieto Messaggio di salvezza, affinché la Parola di Dio si diffonda e il numero dei discepoli si moltiplichi (cfr At 6,7).
[Papa Benedetto, Regina Coeli 22 maggio 2011]
Il Papa osserva che «l’economia di mercato sembra aver conquistato virtualmente tutto il mondo» e sottolinea che la Chiesa guarda all’Accademia «per le idee che potranno rendere possibile un discernimento migliore delle questioni etiche che la globalizzazione comporta». Aggiunge che è necessario «evitare di ridurre tutti i rapporti sociali a fattori economici» e ciò significa che la globalizzazione deve «essere a servizio della solidarietà e del bene comune». C’è il pericolo che la decostruzione culturale portata dalla globalizzazione possa avere effetti dannosi sulle comunità umane e che le scoperte biomediche non vengano sottoposte a sufficienti controlli. Si richiede quindi un approccio etico alla globalizzazione, che sappia riconoscere «il valore inalienabile della persona umana» e «il valore delle culture umane».
Signore e Signori della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali,
1. Il vostro Presidente ha appena espresso la vostra gioia di essere qui in Vaticano per affrontare un argomento che è motivo di preoccupazione sia per le scienze sociali sia per il Magistero della Chiesa. La ringrazio, professor Malinvaud, per le sue cortesi parole, e ringrazio tutti voi per l’aiuto che offrite generosamente alla Chiesa nel vostro campo di competenza. In occasione della Settima Sessione plenaria dell’Accademia avete deciso di affrontare in modo più profondo il tema della globalizzazione, prestando un’attenzione particolare alle sue implicazioni etiche. A partire dal crollo del sistema collettivistico in Europa centrale e orientale, con le sue importanti conseguenze per il terzo mondo, l’umanità è entrata in una nuova fase nella quale l’economia di mercato sembra aver conquistato virtualmente tutto il mondo. Ciò ha portato con sé non solo una crescente interdipendenza delle economie e dei sistemi sociali, ma anche la diffusione di nuove idee filosofiche ed etiche basate sulle nuove condizioni di lavoro e di vita introdotte in quasi tutte le parti del mondo. La Chiesa esamina attentamente questi nuovi fatti alla luce dei principi della sua dottrina sociale. Per farlo, deve approfondire la sua conoscenza oggettiva dei fenomeni emergenti. È questo il motivo per cui la Chiesa guarda alla vostra opera per trarne idee che potranno rendere possibile un discernimento migliore delle questioni etiche che la globalizzazione comporta.
2. La globalizzazione del commercio è un fenomeno complesso e in rapida evoluzione. La sua caratteristica principale è la crescente eliminazione delle barriere che ostacolano la mobilità delle persone, dei beni e dei capitali. È la consacrazione di un sorta di trionfo del mercato e della sua logica, che a sua volta provoca rapidi cambiamenti nelle culture e nei sistemi sociali. Molte persone, in particolare quelle più svantaggiate, la vivono come un’imposizione piuttosto che come un processo al quale possono partecipare attivamente. Nella mia Lettera Enciclica Centesimus annus ho osservato che l’economia di mercato è un modo per rispondere adeguatamente alle necessità economiche delle persone pur rispettando la loro libera iniziativa, ma che deve essere controllata dalla comunità, dal corpo sociale con il suo bene comune1. Ora il commercio e le comunicazioni non sono più costretti entro i confini del Paese di appartenenza, è il bene universale a esigere che la logica intrinseca al mercato sia accompagnata da meccanismi di controllo. Ciò è essenziale al fine di evitare di ridurre tutti i rapporti sociali a fattori economici e di tutelare quanti sono vittime di forme di esclusione e di emarginazione. La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno. Nessun sistema è fine a se stesso ed è necessario insistere sul fatto che la globalizzazione, come ogni altro sistema, deve essere al servizio della persona umana, della solidarietà e del bene comune.
3. Una delle preoccupazioni della Chiesa circa la globalizzazione è che è divenuta rapidamente un fenomeno culturale. Il mercato come meccanismo di scambio è divenuto lo strumento di una nuova cultura. Molti osservatori hanno colto il carattere intrusivo, perfino invasivo, della logica di mercato, che riduce sempre più l’area disponibile alla comunità umana per l’azione pubblica e volontaria a ogni livello. Il mercato impone il suo modo di pensare e di agire e imprime sul comportamento la sua scala di valori. Le persone che ne sono soggette spesso considerano la globalizzazione come un’inondazione distruttiva che minaccia le norme sociali che le hanno tutelate e i punti di riferimento culturali che hanno dato loro un orientamento di vita. Ciò che sta accadendo è che i cambiamenti nella tecnologia e nei rapporti di lavoro si muovono troppo velocemente perché la cultura sia in grado di rispondere. Le tutele culturali, legali e sociali, che sono il risultato degli sforzi volti alla difesa del bene comune, sono di importanza vitale per far sì che gli individui e i gruppi intermedi mantengano la propria centralità. Tuttavia la globalizzazione spesso rischia di distruggere queste strutture edificate con tanta cura, pretendendo l’adozione di nuovi stili di lavoro, di vita e di organizzazione delle comunità. Parimenti, a un altro livello, l’utilizzazione delle scoperte in campo biomedico tende a cogliere i legislatori impreparati. La ricerca stessa è spesso finanziata da gruppi privati e i suoi risultati vengono commercializzati anche prima che il processo di controllo sociale abbia avuto la possibilità di reagire. Ci troviamo di fronte a un aumento prometeico di potere sulla natura umana, al punto che il codice genetico umano stesso viene misurato in termini di costi e benefici. Tutte le società riconoscono la necessità di controllare questi sviluppi e di garantire che le nuove pratiche rispettino i valori umani fondamentali e il bene comune.
4. L’affermazione della priorità dell’etica corrisponde a un’esigenza essenziale della persona e della comunità umane. Tuttavia non tutte le forme di etica sono degne di questo nome. Assistiamo all’emergere di modelli di pensiero etico che sono sottoprodotti della globalizzazione stessa e che recano il marchio dell’utilitarismo. Tuttavia i valori etici non possono essere dettati dalle innovazioni tecnologiche, dalla tecnica e dall’efficienza. Essi sono radicati nella natura stessa della persona umana. L’etica non può essere la giustificazione o la legittimazione di un sistema, ma piuttosto deve essere la tutela di tutto ciò che c’è di umano in ogni sistema. L’etica richiede che i sistemi si adattino alle esigenze dell’uomo, e non che l’uomo venga sacrificato per la salvezza del sistema. Una conseguenza evidente di questo è che le commissioni etiche, ora presenti in quasi tutti i settori, dovrebbero essere completamente indipendenti dagli interessi finanziari, dalle ideologie e dalle concezioni politiche di parte. La Chiesa da parte sua, continua ad affermare che il discernimento etico nel contesto della globalizzazione deve basarsi su due principi inseparabili:
– Primo, il valore inalienabile della persona umana, fonte di tutti i diritti umani e di tutti gli ordini sociali. L’essere umano deve essere sempre un fine e mai un mezzo, un soggetto e non un oggetto né un prodotto di mercato.
– Secondo, il valore delle culture umane che nessun potere esterno ha il diritto di sminuire e ancor meno di distruggere. La globalizzazione non deve essere un nuovo tipo di colonialismo. Deve rispettare la diversità delle culture che, nell’ambito dell’armonia universale dei popoli, sono le chiavi interpretative della vita. In particolare, non deve privare i poveri di ciò che resta loro di più prezioso, incluse le credenze e le pratiche religiose, poiché convinzioni religiose autentiche sono la manifestazione più chiara della libertà umana. L’umanità nell’intraprendere il processo di globalizzazione non può più fare a meno di un codice etico comune. Con ciò non si intende un unico sistema socio-economico dominante o un’unica cultura che imporrebbero i propri valori e criteri all’etica. È nell’uomo in sé, nell’umanità universale scaturita dalla mano di Dio, che bisogna ricercare le norme di vita sociale. Questa ricerca è indispensabile affinché la globalizzazione non sia solo un altro nome della relativizzazione assoluta dei valori e dell’omogeneizzazione degli stili di vita e delle culture. In tutte le varie forme culturali esistono valori umani universali che devono essere espressi e sottolineati quale forza d’orientamento dello sviluppo del progresso.
5. La Chiesa continuerà a operare con tutte le persone di buona volontà per garantire che in questo processo vinca l’umanità tutta e non solo un’élite prospera che controlla la scienza, la tecnologia, la comunicazione e le risorse del pianeta a detrimento della stragrande maggioranza dei suoi abitanti. La Chiesa spera veramente che tutti gli elementi creativi nella società cooperino alla promozione di una globalizzazione al servizio di tutta la persona umana e di tutte le persone. Con queste riflessioni vi incoraggio a continuare a cercare una concezione sempre più profonda nella realtà della globalizzazione, e come pegno della mia vicinanza spirituale invoco di cuore su di voi le benedizioni di Dio Onnipotente.
[Papa Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali su “Globalizzazione: implicazioni etiche e istituzionali” 27 aprile 2001]
La fede non è né una alienazione né una truffa, ma è un cammino concreto di bellezza e di verità, tracciato da Gesù, per preparare i nostri occhi a fissare senza occhiali «il volto meraviglioso di Dio» nel posto definitivo che è preparato per ciascuno. È un invito a non farsi prendere dalla paura e a vivere la vita come una preparazione a vedere meglio, ascoltare meglio e amare di più […]
Papa Francesco ha centrato l’omelia sul passo evangelico di san Giovanni (14, 1-6): «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via».
«Queste parole di Gesù — ha commentato il Pontefice — sono proprio parole bellissime. In un momento di congedo, Gesù parla ai suoi discepoli proprio dal cuore. Lui sa che i suoi discepoli sono tristi, perché si accorgono che la cosa non va bene». Ecco, allora, che Gesù li incoraggia, li rincuora, li rassicura, propone loro un orizzonte di speranza: «Non sia turbato il vostro cuore! E comincia a parlare così, come un amico, anche con l’atteggiamento di un pastore. Io dico: la musica di queste parole di Gesù è l’atteggiamento del pastore, come il pastore fa con le sue pecorelle. “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me”».
Pronunciare queste parole, secondo la narrazione evangelica di san Giovanni, Gesù — ha detto il Papa — «comincia a parlare: di che? Del cielo, della patria definitiva. “Abbiate fede anche in me: io rimango fedele” è come se dicesse questo». E utilizzando la metafora, «la figura dell’ingegnere, dell’architetto dice loro quello che andrà a fare: “Vado a prepararvi un posto, nella casa del Padre mio vi sono molte dimore”. E Gesù va a prepararci un posto».
«Com’è — si è chiesto Papa Francesco — questa preparazione? Come avviene? Com’è quel posto? Cosa significa preparare il posto? Affittare una stanza lassù?». Preparare il posto significa «preparare la nostra possibilità di godere, la nostra possibilità di vedere, di sentire, di capire la bellezza di quello che ci aspetta, di quella patria verso la quale noi camminiamo».
«E tutta la vita cristiana — ha proseguito il Pontefice — è un lavoro di Gesù, dello Spirito Santo per prepararci un posto, prepararci gli occhi per poter vedere». «“Ma, Padre, io vedo bene! Non ho bisogno degli occhiali!”. Ma quella è un’altra visione. Pensiamo a quelli che sono malati di cataratta e devono farsi operare la cataratta: loro vedono, ma dopo l’intervento cosa dicono? “Mai ho pensato che si potesse vedere così, senza occhiali, tanto bene!”. Gli occhi nostri, gli occhi della nostra anima hanno bisogno, hanno necessità di essere preparati per guardare quel volto meraviglioso di Gesù». Si tratta, allora, di «preparare l’udito per poter sentire le cose belle, le parole belle. E principalmente preparare il cuore: preparare il cuore per amare, amare di più».
«Nel cammino della vita — ha spiegato il Pontefice — il Signore sempre fa questo: con le prove, con le consolazioni, con le tribolazioni, con le cose buone. Tutto il cammino della vita è un cammino di preparazione. Alcune volte il Signore deve farlo in fretta, come ha fatto con il buon ladrone: aveva soltanto pochi minuti per prepararlo e l’ha fatto. Ma la normalità della vita è andare così: lasciarsi preparare il cuore, gli occhi, l’udito per arrivare a questa patria. Perché quella è la nostra patria».
Papa Francesco ha messo in guardia dal perdere di vista questa dimensione fondamentale della nostra vita e del cammino di fede e dalle obiezioni di chi non riconosce una prospettiva di eternità: «“Ma, Padre, io sono andato da un filosofo e mi ha detto che tutti questi pensieri sono una alienazione, che noi siamo alienati, che la vita è questa, il concreto, e di là non si sa cosa sia …”. Alcuni la pensano così. Ma Gesù ci dice che non è così e ci dice: “abbiate fede anche in me. Questo che io ti dico è la verità: io non ti truffo, io non ti inganno”. Siamo in cammino verso la patria, noi figli della stirpe di Abramo, come dice san Paolo nella prima lettura» (Atti degli apostoli 13, 26-33).
«E dal tempo di Abramo — ha affermato il Papa — siamo in cammino, con quella promessa della patria definitiva. Se noi andiamo a leggere il capitolo undicesimo della lettera agli Ebrei troveremo quella bella figura dei nostri antenati, dei nostri padri, che hanno fatto questo cammino verso la patria e la salutavano da lontano. Prepararsi al cielo è incominciare a salutarlo da lontano». E «questa non è alienazione: questa è la verità, questo è lasciare che Gesù prepari il nostro cuore, i nostri occhi per quella bellezza tanto grande. È il cammino della bellezza. Anche il cammino del ritorno alla patria».
Il Papa ha concluso l’omelia auspicando «che il Signore ci dia questa speranza forte» e «ci dia anche il coraggio di salutare la patria da lontano». E infine «ci dia l’umiltà di lasciarci preparare, cioè di lasciare il Signore preparare la dimora, la dimora definitiva, nel nostro cuore, nei nostri occhi e nel nostro udito».
[Papa Francesco, omelia s. Marta in L’Osservatore Romano 26 aprile 2013] [cf. https://www.vatican.va/content/francesco/en/cotidie/2013/documents/papa-francesco-cotidie_20130425_magnanimity-humility.html]
IV Domenica di Pasqua, Domenica del Buon Pastore [11 Maggio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Siamo in una settimana decisiva per la Chiesa e i testi biblici di questa domenica aiutano a comprendere meglio la missione del nuovo pontefice successore di Pietro, chiamato a conservare salda la fiducia del popolo cristiano in Gesù il vero Pastore che conosce e ama tutte le sue pecore. Sì, noi siamo suoi e a lui apparteniamo. I discepoli di Gesù, nel corso della storia, hanno davvero bisogno di poggiarsi sulla certezza che nessuno può strapparli dalla mano del Padre!
*Prima Lettura dagli Atti degli Apostoli (13, 14.43-52)
Siamo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (nel cuore dell’Asia Minore, oggi Turchia occidentale) un sabato per la celebrazione dello shabbat. C’è molta gente con alcune differenze: ci sono ebrei di nascita, alcuni proseliti cioè persone non ebree ma convertite alla religione ebraica che Luca chiama “convertiti al giudaismo” e pagani chiamati “timorati di Dio” perché essendo sono stati attratti dalla religione ebraica si recano in sinagoga il sabato per lo shabbat, ma pur conoscendo le Scritture ebraiche non accettano la circoncisione e l’insieme delle pratiche giudaiche. Paolo arrivato in città va in sinagoga e vuole anzitutto parlare di Gesù di Nazaret ai suoi fratelli ebrei. Gli apostoli erano tutti ebrei che riconoscevano il Cristo come il Messia e cercavano di convincere gli altri ebrei a convertirsi a Cristo. Paolo predicando nelle sinagoghe pensava che quando tutto il popolo ebraico sarà convertito, si passerà alla conversione dei pagani poiché il piano di Dio prevedeva due tappe: la scelta del popolo eletto al quale si è rivelato (è l’elezione di Israele) e al popolo eletto è affidato il compito di annunciare la salvezza ai pagani. Di questa “logica dell’elezione” del piano di Dio scrive il profeta Isaia: “Ti ho stabilito come luce delle nazioni, perché la mia salvezza giunga fino all’estremità della terra” (Is49,6) e, sempre in questa logica, anche Gesù all’inizio aveva detto agli apostoli: “Non andate fra i pagani… andate piuttosto verso le pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10,5). Fin dal primo sabato, Paolo e Barnaba si recano perciò nella sinagoga dove ricevono un’accoglienza favorevole che fa loro sperare che alcuni diventino cristiani. Il sabato successivo tornano in sinagoga e molte persone vanno per ascoltarli. Questo loro successo comincia però a infastidire i giudeii che “quando videro quella moltitudine, furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo”. Luca chiama “giudei” quegli ebrei che rifiuteranno categoricamente di riconoscere Gesù come il Messia. Al contrario i pagani (cioè i timorati di Dio) sembrano più favorevoli come annota subito dopo: “I pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero”. Ad Antiochia di Pisidia Paolo decide di modificare i suoi piani: se soltanto alcuni ebrei accettano e va abbandonata per ora la speranza di convertire l’intero popolo ebraico a Cristo, il rifiuto della maggioranza degli ebrei non deve però ritardare l’annuncio del Messia ai pagani. Al riguardo sapeva bene che a salvare Israele e l’intera umanità sarà il “piccolo Resto”, di cui Isaia lungamente parla (cf. cap. 1- 12 del libro del profeta Isaia). Paolo capisce che il piccolo Resto formato da Paolo e Barnaba con quanti vogliono seguirli, deve assumere la vocazione di apostoli di Israele e delle nazioni pagane e afferma: “Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci rivolgiamo ai pagani” e da quel momento orientano la loro energia missionaria verso i “timorati di Dio” innanzitutto e successivamente verso i pagani. Come appare chiaramente, qui ad Antiochia di Pisidia c’è stata una svolta decisiva nella vita dei primi cristiani.
*Salmo responsoriale (99 (100) 1-3.5)
Questo salmo è stato composto appositamente per accompagnare un sacrificio di ringraziamento ed è chiamato “salmo per la todah” (in ebraico, “grazie” si dice todah).
Già dai primi versetti si vede chiaramente che è pensato per accompagnare una celebrazione nel Tempio: “Acclamate… Servite… presentatevi a lui con esultanza”. Come spesso all’ingresso delle chiese si trova il libretto dei canti, così il libro dei Salmi è il libro dei cantici del Tempio di Gerusalemme adatti ai vari tipi di celebrazioni. Questo salmo fu composto per un sacrificio di ringraziamento e, in Israele, quando si rende grazie, è sempre per l’Alleanza. Salmo molto breve, ogni riga evoca l’intera storia e la fede di Israele e quasi ogni parola richiama l’Alleanza. Del resto, il cuore della tradizione, della fede e della preghiera di questo popolo, la memoria che si trasmette di generazione in generazione è questa fede comune: l’elezione, la liberazione, l’Alleanza. In fondo tutta la Bibbia è qui. Esaminiamo qualche parola: “Acclamate”, la parola impiegata indica un’acclamazione speciale riservata al nuovo re il giorno della sua incoronazione e quindi significa che Il vero re è Dio stesso. “Acclamate il Signore”: nel testo ebraico la parola Signore è espressa con le quattro lettere YHWH (il Tetragramma), che non sappiamo nemmeno pronunciare né tradurre perché Dio è al di là della nostra comprensione, e Dio si è rivelato con questo nome durante a Mosè nel roveto ardente (Es 3). Mosè scopri in quell’occasione la grandezza di Dio, il Totalmente Altro. Al tempo stesso Mosè riceve la rivelazione della totale vicinanza di Dio: “Ho visto, sì, ho visto la miseria del mio popolo… Ho udito il suo grido… Conosco le sue sofferenze”. “Tutta la terra”: anticipando un evento futuro, Israele intravede già il giorno in cui tutta l’umanità verrà ad acclamare il suo Signore e il popolo d’Israele ha scoperto che la sua elezione è una vocazione a servizio di tutti. In effetti nei salmi ritroviamo sempre legati i due temi: l’elezione di Israele e l’universalismo della salvezza divina. “Riconoscete che solo il Signore è Dio”: c’è qui la professione di fede di Israele: Shema Israel: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno”. “Servite il Signore nella gioia”: nella memoria di Israele, l’Egitto della schiavitù sarà chiamato la “casa di schiavitù”. D’ora in poi il popolo eletto imparerà il “servizio” come scelta di uomini liberi e per questo si può dire che l’esodo fu per il popolo ebreo il passaggio “dalla schiavitù al servizio”. “Ci ha fatti e noi siamo suoi”: questa formula non è un richiamo alla creazione, ma alla liberazione dall’Egitto: il popolo non dimentica di essere stato schiavo in Egitto e che Dio l’ha reso libero, da fuggitivi ha fatto degli ebrei un popolo. Lungo tutta la traversata del Sinai Israele ha imparato a vivere nell’Alleanza proposta da Dio e l’espressione “Ci ha fatti e noi siamo suoi” è diventata una formula abituale dell’Alleanza. Il primo articolo del «Credo» di Israele non è Credo in Dio creatore, ma Credo in Dio liberatore.
NOTA: La Bibbia non è stata scritta nell’ordine in cui la leggiamo: non si è cominciato raccontando la creazione, poi gli eventi della vita del popolo eletto, come in un reportage. La riflessione sulla creazione è venuta solo molto dopo. Avendo fatto l’esperienza di Dio come liberatore, Israele ha compreso che quest’opera di liberazione dura fin dalla creazione del mondo e la riflessione sulla creazione nasce dalla fede in un Dio che libera. L’antica formula “Noi, suo popolo” tipica della fede ebraica è un richiamo all’Alleanza, perché Dio, proponendo l’Alleanza, aveva promesso: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio”. L’espressione poi “Noi, suo popolo e gregge del suo popolo” è tipica d’Israele dove il gregge era la ricchezza del proprietario, il suo vanto, ma anche oggetto della sua sollecitudine e delle sue cure ed è per le esigenze del gregge che il pastore nomade spostava la sua tenda nel deserto, seguendo le zolle d’erba per il nutrimento degli animali. Allo stesso modo Dio si spostava con il suo popolo durante il cammino nel deserto del Sinai. Infine “Il suo amore è per sempre” è un ritornello dell’Alleanza che conosciamo bene perché ricorre in altri salmi e qui si unisce al versetto seguente con un’altra formula tradizionale: “La sua fedeltà di generazione in generazione”: “amore e fedeltà” è uno dei pochi modi per parlare di Dio senza tradirlo
*Seconda Lettura, dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (7, 9 -17)
Il riferimento alla “moltitudine immensa che nessuno poteva contare” richiama la promessa di Dio ad Abramo di una discendenza innumerevole: “Renderò numerosa la tua discendenza come la polvere della terra: se si potesse contare i granelli di polvere, si potrebbero contare i tuoi discendenti!” (Gen 13,16); e poco più avanti: “Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci… così sarà la tua discendenza!» (Gen 15,5); e ancora: “Renderò la tua discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare” (Gen 22,17). L’Apocalisse, l’ultimo libro della Bibbia, ci fa contemplare il progetto di Dio realizzato: una moltitudine composta da tutte le nazioni, razze, popoli e lingue, quattro termini per indicare l’intera umanità, come aveva annunciato Isaia: “Tutti i confini della terra hanno visto la salvezza del nostro Dio” (Is 52,10). La salvezza di cui parla Isaia è l’eliminazione di ogni fame, sete, lacrima e al capitolo 49 si legge testualmente: “Non avranno più fame né sete; il vento infuocato e il sole non li colpiranno più. Colui che ha compassione di loro li guiderà e li condurrà verso sorgenti d’acqua” (Is 49,10). E, soprattutto, la salvezza è la presenza di Colui che è alla radice della vera felicità: “pieno di compassione”, dice Isaia e Giovanni traduce qui : “Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro”. Quando usa questa espressione, i suoi lettori sanno a cosa si riferisce: da sempre il popolo ebraico aspira a questo – che Dio “pianti la sua tenda” in mezzo a loro cioè che Dio abiti stabilmente in mezzo a loro: è il mistero della vicinanza, dell’intimità, della presenza divina permanente. A questo proposito, notiamo che Giovanni nel vangelo ha usato gli stessi termini per il Cristo: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Nel popolo ebraico, alcuni avevano l’onore di vivere già, in un certo modo, un’anticipazione di questa intimità: erano i sacerdoti, che servivano Dio giorno e notte nel Tempio di Gerusalemme, segno visibile della presenza di Dio. Qui l’autore sacro intravede il giorno in cui tutta l’umanità sarà introdotta nell’intimità con Dio: “Vidi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare… tutti stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio”. Per descrivere quest’immensa moltitudine egli usa immagini della liturgia ebraica e della liturgia cristiana: tutto questo arricchisce il testo rendendolo al tempo stesso complesso. Quando fa riferimento alla liturgia ebraica, Giovanni allude alla festa delle Capanne o tende (Sukkot), festa che è memoria del passato e anticipazione del futuro promesso da Dio. Si ricorda il tempo trascorso nel deserto quando si era scoperta l’Alleanza proposta dal Dio vicino e si abitava per otto giorni in capanne costruite appositamente. Allo stesso tempo, gli otto giorni annunciavano il futuro promesso da Dio, la creazione nuova (come ricorda ogni volta la cifra otto, anticipo del trionfo del Messia e con lui il compimento del progetto di Dio che consiste nella felicità per tutti). Tra i riti della festa delle Capanne, Giovanni ricorda le palme portate in processioni attorno all’altare dei sacrifici nel Tempio di Gerusalemme. In realtà in tali processioni ciascuno agitava un mazzo (il lulav) composto da vari rami, tra cui una palma (lulav), un rametto di mirto (Hadas), uno di salice (Aravah) insieme a un cedro (Etrog) frutto simile al limone cantando «Hosanna», che significa sia “Dio dà la salvezza” sia “ti preghiamo, Signore, donaci la salvezza”. Leggiamo il testo dell’Apocalisse senza tagli: “Ho visto: ecco una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare… stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, vestiti di bianche vesti e con palme in mano. E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio che siede sul trono e all’Agnello!”. Un altro rito della festa delle Capanne era il rito della “Libagione dell’acqua”(Nisuakh haMayim), la processione alla piscina di Siloe, l’ottavo e ultimo giorno della festa recando in corteo dell’acqua per aspergere l’altare, un rito di purificazione che prefigura la purificazione definitiva promessa da Dio per mezzo dei profeti, in particolare Zaccaria: “In quel giorno, acque vive usciranno da Gerusalemme, metà verso il mare orientale e metà verso il mare occidentale” (Zc 14,8). Fu proprio durante una festa delle Capanne, l’ottavo giorno, che Gesù disse (ed è ancora san Giovanni a riferirlo): “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, dal suo cuore sgorgheranno fiumi di acqua viva” (Gv 7,37). Qui, in eco, Giovanni predice: “L’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle sorgenti delle acque della vita”. Dalla liturgia cristiana, san Giovanni ha ripreso la veste bianca dei battezzati e il sangue dell’Agnello, segno della vita donata per dirci che tutto ciò che la festa delle Capanne annunciava simbolicamente è ormai compiuto. In Gesù Cristo si compie l’attesa del popolo di Dio di una purificazione definitiva, una nuova Alleanza, presenza perfetta di Dio con noi. Con il Battesimo e l’Eucaristia l’umanità partecipa alla vita del Risorto ed entra così nell’intimità di Dio definitivamente.
NOTA: Nella moltitudine immensa (v. 9) la tradizione identifica la Chiesa anche se alla fine del primo secolo i cristiani non erano molti. C’è però una possibile diversa interpretazione: nei versetti precedenti (v 3-8), Giovanni descrive una prima folla (“i servitori del nostro Dio” la cui “fronte è segnato con il sigillo”) e si ritiene che siano i battezzati cioè la Chiesa. La folla immensa vestita di bianche vesti (la veste nuziale) sarebbe allora la moltitudine dei salvati, nella linea della teologia del Servo (cfr. i quattro canti del secondo libro di Isaia), di cui gli scritti giovannei, e non solo, sono tutti impregnati. Pertanto la folla immensa (vv9 e seguenti) sarebbe la “moltitudine” giustificata dal Servo: “Il giusto, mio servo, giustificherà le moltitudini” (Is 53,11). Confrontati allora con la persecuzione, i cristiani trovavano qui un motivo per resistere perché sapevano che il loro sacrificio era seme di salvezza per la moltitudine.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (10, 27-30)
Giusto dopo il testo che ci propone la liturgia di questa domenica, san Giovanni scrive: “I giudei raccolsero di nuovo delle pietre per lapidarlo” (v.31). Perché reagirono così fortemente e che aveva detto di così straordinario Gesù? In realtà, non è stato lui a prendere l’iniziativa ma si è limitato a rispondere a una domanda.L’evangelista narra che si trovava nel Tempio di Gerusalemme, sotto il portico chiamato “Portico di Salomone”, e i giudei per metterlo alle strette gli chiesero: “Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente”(v24). Insomma, siamo davanti a una sorta di ultimatum, del tipo: Sei tu il Cristo (cioè il Messia) oppure no dillo chiaramente una volta per tutte. Invece di rispondere “sì, sono il Messia”, Gesù parla delle pecore “sue”, ma è la stessa cosa perché il popolo d’Israele si paragonava volentieri a un gregge: “Siamo il popolo di Dio, il gregge che egli conduce”, quest’espressione ricorre spesso nei salmi, in particolare, nel salmo di questa domenica: “Egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo”; un gregge spesso maltrattato, trascurato, o mal guidato dai re succedutisi sul trono di Davide. Si sapeva però che il Messia sarebbe stato un pastore attento per cui Gesù si presenta veramente come il Messia. I suoi interlocutori lo capirono benissimo e Gesù li porta molto oltre perché parlando delle pecore “sue” osa affermare: “Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano” (v. 28). Ma chi può mai dare la vita eterna? L’espressione “essere nella mano di Dio”, era abituale nell’Antico Testamento come troviamo ad esempio in Geremia: «Come l’argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa d’Israele!» (Ger 18,16, oppure nel libro del Qoelet (Ecclesiaste): «I giusti, i saggi e le loro azioni sono nelle mani di Dio» (Qo 9,1) e anche nel Deuteronomio: «Io faccio morire e vivere, io ferisco e io guarisco, e nessuno può liberare dalla mia mano» (Dt 32,39), e poco più avanti: «Tutti i santi sono nella tua mano» (Dt 33,3). Gesù fa riferimento a tutto questo e aggiunge: “Nessuno può strapparle dalla mano del Padre” (v.29) mettendo sullo stesso piano “la mia mano” e “la mano del Padre”. E non si ferma lì perché afferma: “Io e il Padre siamo una sola cosa” (v.30) che è dire: “sì, sono il Cristo, cioè il Messia” facendosi uguale a Dio, egli stesso Dio. Per i suoi interlocutori, questo era inaccettabile perché si aspettava un Messia che fosse un uomo ma non si poteva immaginare che potesse essere Dio: la fede nel Dio unico era affermata con tale forza in Israele che era praticamente impossibile per dei giudei ferventi credere nella divinità di Gesù. Professando ogni giorno la la fede ebraica: «Shema Israel», «Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio è il Signore uno solo», non potevano tollerare di sentire Gesù affermare: “Io e il Padre siamo una cosa sola”. Questo spiega perché l’opposizione più accanita a Gesù venne proprio dai capi religiosi. La reazione fu immediata e mentre si preparavano a lapidarlo, lo accusarono di aver bestemmiato facendosi Dio. Ancora una volta, Gesù si scontra con l’incomprensione di coloro che pure attendevano il Messia con maggiore fervore e questo è una riflessione costante in Giovanni: «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto». Tutto il mistero di Cristo è racchiuso in questo, e anche, in filigrana, il suo processo. Eppure, non tutto è perduto; Gesù ha affrontato l’incomprensione, perfino l’odio, è stato perseguitato, eliminato, ma alcuni hanno creduto in lui; lo stesso Giovanni lo dice nel Prologo del suo vangelo: «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto… ma a quanti lo hanno accolto, a quelli che credono nel suo nome, ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,11-12). E sappiamo bene che è grazie a questi che la rivelazione ha continuato a diffondersi. Da quel piccolo Resto è nato il popolo dei credenti: «Le mie pecore ascoltano la mia voce; io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna». Nonostante l’opposizione che Gesù incontra qui, nonostante l’esito tragico già prevedibile, c’è indubbiamente in queste parole un linguaggio di vittoria: «Nessuno le strapperà dalla mia mano»… «Nessuno può strapparle dalla mano del Padre»: si percepisce qui come un’eco di un’altra frase di Gesù riportata dallo stesso evangelista: “Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo” (Gv16,33). I discepoli di Gesù, nel corso della storia, hanno davvero bisogno di poggiarsi sulla certezza che nessuno può strapparli dalla mano del Padre.
+Giovanni D’Ercole
Comunione: Radice dell’essere, Energia sognante che rilegge la storia
(Gv 13,16-20)
Nel contesto della lavanda dei piedi, Gesù ricorda che il discepolo autentico non deve farsi illusioni: non avrà meno persecuzioni del Maestro.
Un «inviato» non è più di colui che lo manda (v.16). La nuova traduzione CEI precisa che Gesù non elegge Dodici Apostoli come si trattasse di capi destinati ad avere posizioni favolose.
Gli apostoli sono “mandati” in tal senso, come il Figlio dal Padre. Dentro tale flusso divengono luce rivelatrice, pienamente, senza chiusure.
Insomma, uno dei modi di lavarsi i piedi gli uni gli altri (v.14) è proprio quello di venire e sentirsi propriamente «inviati» - raffigurando una sorta di concatenazione sognante: Gesù e Dio stesso, che ci attraversano.
Possiamo diventare continuazione del Mistero che avvolge la Persona di Cristo solo se consapevoli che non siamo “più” di altri - figuriamoci del Maestro.
Ne I Promessi Sposi Manzoni narra che il marchese successore di don Rodrigo [«brav’uomo, non un originale»] serve a tavola gli invitati alle nozze di Renzo e Lucia.
Poi però si ritira a pranzare in disparte con don Abbondio: «d’umiltà n’aveva quanta bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar in loro pari».
Un tempo si faceva così: lo imponeva l’etichetta sociale.
Stile a modo, grazie al quale per voler piacere si accettava di adattarsi a gesti (estemporanei) di elemosina e benevolenza, fra ottime persone ben educate - ovviamente tutelando il protagonismo delle posizioni.
L’allinearsi ai modelli non fa uscire dalle gabbie; anzi, ci nasconde nell’illusione di un cambiamento che in realtà non è in atto, perché l’ordine fasullo resta, malgrado l’altruismo delle apparenze.
Il portento cui siamo chiamati e inviati non è quello di fare spazio a sentimenti convenienti, ma passare dalla nostra vetta all’altrui livello e starci gomito a gomito, per donare a tutti l’emozione di sentirsi adeguati.
Dal servizio alla Comunione: unico clima [non sempre “secondo etichetta” ma autenticamente nostro e sognante] d’intima potenza che sviluppa fioriture, innescando recuperi impossibili.
Da qui si rilegge la storia.
È la via della Beatitudine (v.17) - quella del Signore vivo. Il nucleo della Chiesa in uscita: aggiungere a insegnamenti belli e pratici la dimensione essenziale, che punta verso il basso.
Nell’azione si esprimerà l’essere profondo dell’Amico che ha la libertà di scendere. Egli si rivela promotore dei malfermi, non sottile prevaricatore.
Tale il cammino plausibile e amabile, evangelizzatore delle nostre Radici. Che non chiede “resilienza” nei rapporti, solo agli “inferiori” del mondo.
«Io Sono» di Es 3,14 diviene - senza sforzo - il Popolo comunionale e accogliente dei servitori ricolmi di dignità donata.
L’elemento eterno del Verbo è conservato e sviluppato dai suoi inviati e dalla chiesa ministeriale, ‘apostolica’: sia nel suo carattere originario e fondante, che di legame alla storia di ciascuno.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa significa per te passare dal servire a fare comunione? Lo ritieni un eccesso fastidioso?
Ti basta far stare bene gli altri a tratti, da protagonista e in modo compiaciuto, o t’impegni a farli sentire adeguati?
[Giovedì 4.a sett. di Pasqua, 15 maggio 2025]
Puntando verso il basso, dal servizio alla Comunione
Gv 13,16-20 (.21-38)
Un «inviato» non è più di colui che lo manda (v.16). La nuova traduzione CEI precisa che Gesù non elegge Dodici Apostoli come si trattasse di capi e fenomeni destinati ad avere posizioni favolose.
I suoi sono persone del tutto comuni, mandate ad annunciare; non direttori forniti di carica, bensì di un umile incarico: essere se stessi e lavare i piedi agli altri. Questa la loro stoffa.
La Chiesa ministeriale non è quella dei personaggi con titolo e ruoli, ma del servizio autentico, non di maniera: dimesso e anticonformista.
Possiamo diventare continuazione del Mistero che avvolge la Persona di Cristo solo se consapevoli che non siamo fotocopie duali, né “più” di altri - figuriamoci del Maestro.
Ne I Promessi Sposi Manzoni narra che il marchese successore di don Rodrigo [«brav’uomo, non un originale»] serve a tavola gli invitati alle nozze di Renzo e Lucia.
Poi però si ritira a pranzare in disparte con don Abbondio: «d’umiltà n’aveva quanta bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar in loro pari».
Un tempo si faceva così: lo imponeva l’etichetta sociale.
Stile a modo, grazie al quale per voler piacere si accettava di adattarsi a gesti (estemporanei) di elemosina e benevolenza, fra ottime persone assai educate - ovviamente tutelando il protagonismo delle posizioni.
Ma allinearsi ai modelli non fa uscire dalle solite gabbie; anzi, ci nasconde nell’illusione d’un cambiamento che in realtà non è in atto. Ciò perché l’ordine fasullo resta, malgrado l’altruismo delle apparenze - indossate per buonismi di circostanza.
Il portento cui siamo chiamati e mandati non è quello di fare spazio a sentimenti convenienti.
L’autentica ‘cifra’ è passare dalla nostra vetta esterna all’altrui livello e starci gomito a gomito, per donare a tutti l’emozione di sentirsi adeguati.
Dal servizio alla Comunione: unico clima [non sempre “secondo etichetta” ma autenticamente nostro e sognante] d’intima potenza che sviluppa fioriture, innescando recuperi impossibili.
Da qui si rilegge la storia.
Eppure tutti si chiedono con quali energie attuarla, se talora noi stessi ci sentiamo incompleti, incerti nell’operare; non all’altezza.
Nel contesto della lavanda dei piedi, Gesù ricorda che il discepolo non deve farsi illusioni: non avrà in dote una splendida carriera, riconoscimenti mondani, o meno persecuzioni del Maestro.
Secondo mentalità antica, maltrattare un ambasciatore o un messaggero significava offendere chi rappresentava; accettarlo significava riconoscergli onore.
Si giunge qui alla radice della Missione di svelamento: accogliendo l’inviato si onora Cristo, e in lui Dio stesso (v.20).
Gli apostoli sono ‘mandati’ in tal senso, come il Figlio dal Padre. Dentro tale flusso divengono luce rivelatrice, pienamente, senza chiusure.
Insomma, uno dei modi di lavarsi i piedi gli uni gli altri (v.14) è proprio quello di venire e sentirsi propriamente «inviati» - raffigurando Gesù e Dio stesso, che ci attraversano.
È la via della Beatitudine (v.17) - quella del Signore vivo. Il nucleo della Chiesa in uscita: aggiungere a insegnamenti belli e pratici la dimensione essenziale.
Tale il cammino plausibile e amabile, evangelizzatore delle nostre Radici. Viaggio il quale non chiede “resilienza” nei rapporti, solo agli “inferiori” del mondo.
Salvezza in dimensione divina, che assume valore. Redenzione operata dal di dentro della coscienza, la quale trova stima e volto, e libero fermento che apre la speranza, orientando.
Nell’azione si esprimerà l’essere profondo dell’Amico che ha la libertà di scendere.
Egli si rivela promotore dei malfermi, non sottile prevaricatore.
Facendo ogni esodo, il nostro tratto vocazionale porta in sé uno scrigno prezioso, la consapevolezza della Sorgente intima dell’apostolato, e la sua preziosa concatenazione che tramuta il passato in futuro.
Il senso di completezza e significato radicale che ne deriva è efficace.
Lo è per chi scova, incontra, sente viva, la propria Fonte missionaria - e ne è il testimone.
Esprimendo semplicemente e con naturalezza se stesso, senza forzature o artificiosità - lo è al contempo per i fratelli da riconoscere.
Insomma, il servizio della comunità ministeriale non è nella dimensione del servaggio, bensì d’un flusso di energie primigenie, di stoffa; onda su onda genuine.
In tutto ciò, sviluppo dopo sviluppo, riattualizziamo l’epifania del Logos in Cristo. Nell’oggi dell’essere persone [malferme eppure convinte, tenaci] legate da una cifra fraterna di peso.
«Io Sono» di Es 3,14 diviene - senza sforzo - il Popolo comunionale e accogliente dei servitori ricolmi di dignità donata.
L’elemento eterno del Verbo è conservato e sviluppato dai suoi inviati e dalla chiesa ministeriale, ‘apostolica’: sia nel suo carattere originario e fondante, che di legame alla storia di ciascuno.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa significa per te passare dal servire a fare comunione? Lo ritieni un eccesso fastidioso?
Ti basta far stare bene gli altri a tratti, da protagonista e in modo compiaciuto, o t’impegni a farli sentire adeguati?
Dare la vita e rapidamente tradire
(Gv 13,21-33.36-38)
«Darò la mia vita per te» - pur di comandare.
Gli apostoli darebbero tutto per vincere, non per perdere; per trionfare, non per farsi beffeggiare o darsi in alimento, e curare il mondo.
Meglio negoziare. Altro che lavarsi i piedi a vicenda!
Perciò il Signore desidera che ciascuno di noi commensali si ponga il quesito se per caso non siamo implicati in qualche tradimento.
Non per colpevolizzare e piantarsi lì, ma per incontrarci: ciascuno è ammiratore e avversario del Maestro.
Siamo fulgore e tenebra - fianchi compresenti, più o meno integrati, anche competitivi.
È la Risurrezione che si annida nell’effervescenza della vita, a riscattare poi le motivazioni egoistiche, e trasfigurare in energie collimanti altrove i lati oscuri e in attrito.
Aspetti che diventano come cibi da neonato, per ogni nuova genesi - i quali una volta emersi [piantati sulla terra e accostati alle radici] possono diventare punti di forza.
La strada si blocca solo davanti alla persona che continua a farsi condizionare l’anima da opinioni e mali antichi o à la page.
Lì non si rivela nulla; non avverrà il prodigio della trasmutazione del nostro abisso.
La liturgia della Parola ci mette a contatto con un Gesù pervaso dal senso di debolezza; la sua solitudine si fa acuta.
In missione, anche noi siamo talvolta in balia dello sconforto: forse Dio ci ha ingannati, trascinandoci in una impresa assurda?
No, non siamo ingaggiati e abbandonati a una logica ignobile, a una generazione perversa: la stessa forza della vita è disseminata di pietre tombali ed ha varie facce. Influssi benefici.
Il cammino favorevole è spoglio di prestigio, di mansioni riconosciute e maestà: esse tendono a placarci, e non scavare.
Spesso sono proprio i disturbi che migliorano la capacità di giudizio.
Lo stillicidio può suscitare la voce della parte più autentica di noi stessi, farsi eco incisivo per ritrovarsi, e completarsi - portando avanti il cuore pioniere, invece di trattenerlo.
La strada della prova e dello squilibrio ci desta dall’invecchiamento nocivo dello spirito.
Essa recupera le energie contrarie, i versanti opposti, e i desideri incompatibili, le passioni (alleate) cui non abbiamo dato spazio.
Anche nell’esperienza torturante del limite, Dio vuole raggiungere la nostra semente variegata, affinché essa non si lasci depredare - neppure dallo sgomento di aver attinto insieme il boccone ed essere stati noi i traditori.
Nulla è invalidante.
C’è un solo ambito tossico, cronico, di morte, che annienta tutto e non ha insito nessun germe attivo: quello che offusca e detesta il cambiamento primario.
Lì l’orizzonte si stringe e rimane solo un baratro - o il blando che contagia per farci mollare, e arretrare senza posa, rinnegare e regredire ancora.
Restano infine solo le paure, le mezze scelte, le nevrosi tacitate dal compromesso che tenta di colmare il prezioso senso di vuoto.
Siamo davanti a un Signore ridotto a niente, affinché anche noi ci comprendiamo nelle nostre defezioni; negli episodi in cui accampiamo inutili e devianti artifici, tutti misurati, che affaticano invano.
La storia dell’incomprensibile solitudine del Cristo accanto al traditore e al rinnegato ci sta scritta nel cuore.
È tutta realtà, ma per la salvezza, per una rinnovata intimità e convinzione.
La vocazione missionaria si spegne e ristagna solo per zavorre di calcolo e mentalità comune - ove non si scuote (né tintinna) la nuda povertà dell’essere discorde che siamo.
Senza l’abbandono subìto, l’uomo non diventa universale, anzi tende ad attenuare i migliori strumenti della potenza di Dio.
Su quel terreno stepposo Egli ci sta donando l’amicizia di uno spostamento di sguardo.
Senza l’inquietudine del turbamento profondo e umiliante - senza la consegna della propria umanità nell’estrema debolezza - la nostra marionetta insoddisfatta indugia, accontentandosi.
Malgrado l’ammirazione per i valori, diviene anch’essa larva residuale. Una caricatura dell’essere che potevamo: donne e uomini dall’occhio contemplativo.
Compiuti a partire da dentro, come Gesù.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa tramo quando il Signore mi chiede di rischiare?
Cos’hanno significato per te i gesti non amici, e il rigetto, negli esiti paradossali?
Amare è creare: Gloria che volta pagina
Comandamento Liberazione. Causa Fonte
(Gv 13,31-35)
L’unione vicendevole è l’ultima volontà del Signore. Gesù affida ai discepoli il suo testamento, con una novità radicale.
L’amore al prossimo figurava già fra le prescrizioni antiche, e Cristo sembra ricalcarne la formulazione stessa (Lv 19,18).
Ma il Figlio di Dio non allude solo a compatrioti e proseliti della medesima religione. Egli abbatte le barriere sinora considerate ovvie.
Eppure la grande novità è nelle motivazioni fondamentali.
L’amore reciproco è sulla stessa linea dell’incontro con se stessi - dove per grazia e vocazione si annida un possesso di ricchezze, perfezioni crescenti, che vogliono affiorare.
Da tale scrigno, conoscenza, piattaforma solida, sorge l’afflato del poter donare la vita: ma per accrescerla, renderla piena e rallegrarla - a partire non da condizionamenti esterni e mansioni da espletare o sfruttare.
Infatti il comandamento è «nuovo» non solo perché edificante e di stimolo, ma anzitutto perché rivelatore della propria vocazione e della vita intima di Dio, del rapporto fra il Padre e il Figlio, assunto.
È un legame manifestativo, che diviene fondamento, motivo crescente e motore; energia lucida, che ci dà la capacità di spostare lo sguardo e voltare pagina: introduce una nuova età, un nuovo regno.
Il comandamento «nuovo» dell’amore - unica consegna del Cristo - è cifra della vittoria di Pasqua, teofania e testimonianza del suo popolo autentico: «non con misura» (Gv 3,31-36: 34).
Il «senza misura» è quello delle nozze mistiche fra le due “nature”, dell’amicizia intima che penetra la vita del Padre.
Anche nell’attesa, il senza-confini vivifica l’esistenza e la compie, provenendo dall’esperienza della sostanza e della vertigine - già in se stessi.
È la vita del Figlio in noi: percezione di un poter “stare” costitutivo. Quindi senza perdere interesse nel tempo dell’assenza.
E di poter cambiare; intuizione d’una differente «gloria» (irriducibile) dalle caratteristiche speciali.
Ora non vale più la morale delle religioni: la nostra è un’etica vocazionale e pasquale, nello Spirito che rinnova la faccia della terra.
Ogni proposito, ciascun ruolo, qualsiasi ministero, viene illuminato dalla vittoria della vita sulla morte.
In tal guisa, il comportamento va configurato al Mistero.
Viviamo in Cristo, uomo nuovo: non siamo più sotto doveri “a posto” e prescrizioni. L’attitudine battesimale non può venire misurata.
L’unzione e l’appello ricevuti rispondono all’intima passione, al senso di reciprocità e Pienezza personale, che trasbordano.
Così smuovono mète eminenti: nella partecipazione alla vita colma, eccesso non assimilabile a conformismi e orizzonti medi.
Per un pio israelita avere gloria è dare peso specifico alla propria esistenza, e rivelare il suo completo valore - ma in senso elettivo.
«Fu vera gloria?» - si chiede Manzoni: dalla gloria-vana e vanesia si rotola giù. Tutt’altra la Gloria quale Presenza reale di Dio.
Ecco i dissidi fra comunità e umanità (persone in pienezza); liturgia e realtà, preghiera e ascolto, teologia e vita, proclami e dietro le quinte.
Mentre i Sinottici annunciano Amore universale, l’autore del quarto Vangelo è preoccupato che la testimonianza inespressa dei figli non sia una clamorosa smentita della santità predicata agli altri [dagli “eletti”].
Come diceva Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri». Non solo per un’opportuna e dovuta valutazione di coerenza morale, ma perché rimandano al Mistero, all’Oro divino.
Solo se collocati sulla medesima onda di bellezza e fascino del «Figlio dell’uomo» contribuiamo a non farlo tramontare o escludere: quanto più si è umani senza doppiezze, tanto più si manifesta il Cielo che è in noi.
Certo, sembra impossibile amare «come» Lui (v.34), ma qui l’espressione greca ha un’altra possibilità di lettura. Il termine originario non indica solo un orizzonte ideale o la misura alta - irraggiungibile per sforzo.
«Kathòs» [avverbio e congiunzione] è dotato di valore generativo, oltre che comparativo.
L’espressione chiave del brano si può intendere: «Amatevi gli uni gli altri per il fatto che Io vi ho amati senza condizioni» ovvero «Perché Io vi ho amati gratuitamente, proprio su tale onda di vita, ora potete amarvi».
Vuol dire: far sentire il prossimo già abilitato - adeguato e libero - è l’unico contrassegno non ridotto della Fede in Cristo.
Insomma, il Padre non è il Dio delle prescrizioni: non assorbe le nostre energie, ma le genera e dilata.
Non pretende di soffocare e sfiancarci.
Il distintivo, l’emblema della testimonianza piena dei figli e delle comunità schiette non è produzione propria.
Conserva una qualità indistruttibile di elasticità e Relazione che non sgomenta, né lascia cadere le braccia: dona respiro.
Non è opera di fanatici spartiacque pro e contro, né d’un individualismo devoto che predica la “salvezza della propria anima” - esasperazione della pietà religiosa e della pedestre morale retributiva dei «meriti».
È il dispiegarsi dell’azione del Figlio dell’uomo (v. 31) che rende potente il calpestato e meschino.
Il Maestro non s’accontenta di fare il gregario accodato, come l’eterodiretto Giuda, apostolo zelante in apparenza.
«Figlio dell’uomo» indica Gesù che manifesta il Padre, l’uomo che rende palese la condizione divina.
La Persona che nella sua pienezza umana riflette il disegno sano delle Origini - possibilità per tutti i rinati in Cristo.
Il sentimento carnale ha fretta di regolarsi sulla base di traguardi e titoli; delle imprese e del successo, o di perfezioni e prestigio dell’amato.
Stabilisce confini.
L’Amore divino (e quello dei figli) è sproporzionato, ha un’altra condotta: previene, recupera; non rompe l’intesa, aiuta.
L’Amore non vagabondo conosce il piccolo, l’incerto e il debole. Sa che essi crescono solo attraverso l’esperienza del Dono, altrimenti si bloccano.
Se il Gratis non soppianta il merito, nessuno si rafforza; anzi, tutti - anche gli energici - rattrappiscono. Condannati a una cappa esterna di norme e dottrine, o di astrazioni e sofisticazioni disincarnate.
Per questo il «Figlio dell’uomo» - lo sviluppo genuino e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato da pubblici peccatori, bensì da coloro che suppongono di sé e avrebbero il ministero di farlo conoscere!
La Gloria divina non ha a che fare con divise, paltò, coccarde o distintivi epidermici; si palesa nella Comunione senza previe interdizioni, nel servizio che si porge agli insufficienti e non ammanicati - da cui sperare... zero.
Nulla che possa essere integrato poi, aggiungendo qualcosina - un semplice “completamento” - alle norme della Prima Alleanza [che non insisteva sulla somiglianza con Dio ma sull’obbedienza di massa].
Le inclinazioni di natura fondamentalista, o le maniere di circostanza e à la page, la brama di prestigio mondano - in realtà - dividono.
La convivialità delle differenze comprende, dilata, accentua l’amalgama e unisce, arricchendo. Apre all’inconsueto e inimmaginabile.
I fondatori di religioni propongono una visione del mondo e sono modelli statici di comportamento.
Non prospettano un’offerta crescente (Gv 14,12: «opere più grandi»). Invito diffusamente personale - profondo e nitido, più del loro.
Gesù non è un “modello” prevedibile da imitare.
È anzitutto - ribadiamo - un Motivo e un Motore: amiamo come e perché Cristo. Vivendo di Lui, ciascuno.
Rischiamo tutto perché siamo all’interno d’un Evento che abbiamo visto, d’una Relazione che non solo persuade, ma ci porta e genera oltre; non in calando.
Non siamo più sotto una Legge che nomina Dio per obbligo, ma nella sfida d’un gesto che ri-crea e via via realizza, rendendo forte la nostra debolezza.
Tanto da stupire dei lati in ombra divenuti risorse e sbalordimento. Tutto senza spersonalizzare; anzi, sottolineando l’unicità.
Questo il comandamento «nuovo».
«Kainòs» è un termine greco che marca differenza, eclissa il resto - nel senso che riassume, supera e sostituisce. Soppianta tutti i comandamenti: ovvi e sotto condizione.
E non ce ne sarà uno migliore, perché la nostra speranza non è il Cielo (già pronto), ma il Cielo sulla terra.
Più del troppo in là del vecchio Paradiso finale a tariffa invariabile e compimento prevedibile. Modico, conformista, a settori; perfino lì articolato secondo ruoli.
E piramidale.
Non abbiate paura di andare controcorrente per incontrare Gesù, di puntare verso l’alto per incrociare il suo sguardo. Nel “logo” di questa mia Visita pastorale è rappresentata la scena di Marco che consegna il Vangelo a Pietro, tratta da un mosaico di questa Basilica. Oggi, simbolicamente, vengo a riconsegnare il Vangelo a voi, figli spirituali di san Marco, per confermarvi nella fede e incoraggiarvi dinanzi alle sfide del momento presente. Avanzate fiduciosi nel sentiero della nuova evangelizzazione, nel servizio amorevole dei poveri e nella testimonianza coraggiosa all’interno delle varie realtà sociali. Siate consapevoli d’essere portatori di un messaggio che è per ogni uomo e per tutto l’uomo; un messaggio di fede, di speranza e di carità […]
Cari amici, la missione della Chiesa porta frutto perché Cristo è realmente presente tra noi, in modo del tutto particolare nella Santa Eucaristia. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a Sé. Cristo ci attira a Sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli: la comunione con il Signore è sempre anche comunione con gli altri. Per questo la nostra vita spirituale dipende essenzialmente dall’Eucaristia. Senza di essa la fede e la speranza si spengono, la carità si raffredda.
[Papa Benedetto, Assemblea per la chiusura della Visita pastorale Venezia 8 maggio 2011]
5. Assieme a tutti i discepoli di Cristo, la Chiesa cattolica fonda sul disegno di Dio il suo impegno ecumenico di radunare tutti nell'unità. Infatti "la Chiesa non è una realtà ripiegata su se stessa bensì permanentemente aperta alla dinamica missionaria ed ecumenica, perché inviata al mondo ad annunciare e testimoniare, attualizzare ed espandere il mistero di comunione che la costituisce: raccogliere tutti e tutto in Cristo; ad essere per tutti "sacramento inseparabile di unità"".
Già nell'Antico Testamento, riferendosi a quella che era allora la situazione del popolo di Dio, il profeta Ezechiele, ricorrendo al semplice simbolo di due legni prima distinti, poi accostati l'uno all'altro, esprimeva la volontà divina di "radunare da ogni parte" i membri del suo popolo lacerato: "Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Le genti sapranno che io sono il Signore che santifico Israele" (cfr. 37,16-28). Il Vangelo giovanneo, da parte sua, e di fronte alla situazione del popolo di Dio a quel tempo, vede nella morte di Gesù la ragione dell'unità dei figli di Dio: "Doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (11,51-52). Infatti, spiegherà la Lettera agli Efesini, "abbattendo il muro di separazione, [...] per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia", di ciò che era diviso egli ha fatto una unità (cfr. 2,14-16).
6. L'unità di tutta l'umanità lacerata è volontà di Dio. Per questo motivo Egli ha inviato il suo Figlio perché, morendo e risorgendo per noi, ci donasse il suo Spirito d'amore. Alla vigilia del sacrificio della Croce, Gesù stesso chiede al Padre per i suoi discepoli, e per tutti i credenti in lui, che siano una cosa sola, una comunione vivente. Da ciò deriva non soltanto il dovere, ma anche la responsabilità che incombe davanti a Dio, di fronte al suo disegno, su quelli e quelle che per mezzo del Battesimo diventano il Corpo di Cristo, Corpo nel quale debbono realizzarsi in pienezza la riconciliazione e la comunione. Come è mai possibile restare divisi, se con il Battesimo noi siamo stati "immersi" nella morte del Signore, vale a dire nell'atto stesso in cui, per mezzo del Figlio, Dio ha abbattuto i muri della divisione? La "divisione contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ed è di scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo a ogni creatura".
[Ut Unum sint]
Il cristiano non cammina da solo: è inserito in un popolo, in una storia secolare ed è chiamato a mettersi al servizio degli altri. «Memoria» e «servizio» sono le parole chiave della riflessione di Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta giovedì 30 aprile. La storia — e quindi la memoria che si ha di essa — e il servizio sono, ha detto il Pontefice, i «due tratti dell’identità del cristiano» sui quali ci fa riflettere «la liturgia di oggi».
Il richiamo è dato dal brano degli Atti degli apostoli (13, 13-25) in cui si legge che Paolo, arrivando ad Antiochia, «come abitualmente lui faceva, andò il sabato in sinagoga» e lì «fu invitato a parlare». Era questa, infatti, «un’abitudine degli ebrei di quel tempo» quando giungeva un ospite. Presa la parola, Paolo «cominciò a predicare Gesù Cristo». Ma, ha sottolineato il Papa, «lui non disse: “Io predico Gesù Cristo, il Salvatore; è venuto dal Cielo; Dio lo ha inviato; ci ha salvato tutti e ci ha dato questa rivelazione”. No, no, no». Per spiegare chi è Gesù, l’apostolo «incomincia a raccontare tutta la storia del popolo». Si legge allora nella Scrittura: «Si alzò Paolo e fatto cenno con la mano disse: “Ascoltate, il Dio di questo popolo di Israele scelse i nostri padri...”». E, partendo da Abramo, Paolo «racconta tutta la storia».
Non è una scelta casuale. Nella sua riflessione Francesco ha fatto notare come la stessa cosa fece «Pietro nei suoi discorsi, dopo la Pentecoste», e anche «Stefano, davanti al Sinedrio». Loro, cioè, «non annunziavano un Gesù senza storia», ma «Gesù nella storia del popolo, un popolo che Dio ha fatto camminare da secoli per arrivare a questa maturità, alla pienezza dei tempi, come dice Paolo». Da questo racconto si comprende che «quando questo popolo arriva alla pienezza dei tempi, viene il Salvatore, e il popolo continua a camminare perché questo Salvatore tornerà».
Ecco, allora, ha ribadito il Papa, uno dei tratti della identità cristiana: «è essere uomo e donna di storia, capire che la storia non comincia con me e finisce con me». Tutto è cominciato, infatti, quando il Signore è entrato nella storia.
A conforto di quanto detto, il Pontefice ha ricordato il salmo «tanto bello» recitato all’inizio della messa: «Quando avanzavi Signore col tuo popolo e quando gli aprivi la strada e abitavi con loro — ricordo che Dio camminava col suo popolo — tremò la terra, strillarono i Cieli. Ammirabile». Quindi «il cristiano è uomo e donna di storia, perché non appartiene a se stesso, è inserito in un popolo, un popolo che cammina». Da qui l’impossibilità di pensare a «un egoismo cristiano». Non c’è, cioè, il cristiano perfetto, «un uomo, una donna spirituale di laboratorio», ma sempre un uomo o una donna spirituali inseriti «in un popolo, che ha una storia lunga e continua a camminare fino a che il Signore torni».
Proprio guardando a questa vicenda concreta che si è dipanata nei secoli e che continua ancora oggi, il Pontefice ha aggiunto che se assumiamo «di essere uomini e donne di storia», ci rendiamo anche conto che questa è «storia di grazia di Dio, perché Dio avanzava col suo popolo, apriva la strada, abitava con loro». Ma è anche «storia di peccato». E ha ricordato il Papa: «Quanti peccatori, quanti crimini...». Anche nel brano degli Atti degli apostoli, ad esempio, «Paolo menziona il re Davide, santo», ma che «prima di diventare santo è stato un grande peccatore». E questo, ha sottolineato, vale «anche oggi» quando la «storia personale di ognuno» deve assumere «il proprio peccato e la grazia del Signore che è con noi». Dio infatti ci accompagna nel peccato «per perdonare», ci accompagna «nella grazia».
È quindi una realtà molto concreta che attraversa i secoli, quella richiamata da Francesco nell’omelia: «Noi — ha detto — non siamo senza radici», abbiamo «radici profonde» che non dobbiamo mai dimenticare e che vanno dal «nostro padre Abramo fino ad oggi».
Comprendere però che non siamo soli, che siamo strettamente legati a un popolo che cammina da secoli significa anche comprendere un altro tratto caratteristico del cristiano e che è «quello che Gesù ci insegna nel Vangelo: il servizio». Nel brano di Giovanni proposto dalla liturgia del giovedì della quarta settimana di Pasqua, «Gesù lava i piedi ai discepoli. E dopo che ebbe lavato i piedi, disse loro: “In verità, in verità io vi dico, un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica. Io ho fatto questo con voi, voi fate lo stesso con gli altri. Io sono venuto da voi come servo, voi dovete farvi servi l’uno dell’altro, servire”».
Appare chiaro, ha evidenziato il Pontefice, che «l’identità cristiana è il servizio, non l’egoismo». Qualcuno, ha detto, potrebbe ribattere: «Ma padre, tutti siamo egoisti», ma questo «è un peccato, è un’abitudine dalla quale dobbiamo staccarci»; dobbiamo allora «chiedere perdono, che il Signore ci converta». Essere cristiano, infatti, «non è un’apparenza o anche una condotta sociale, non è un po’ truccarsi l’anima, perché sia un po’ più bella». Essere cristiano, ha detto con decisione il Papa, «è fare quello che ha fatto Gesù: servire. Lui è venuto non per essere servito, ma per servire».
Da qui alcuni suggerimenti del Pontefice per la vita quotidiana di ciascuno di noi. Innanzitutto, «pensate a queste due cose: io ho senso della storia? Mi sento parte di un popolo che cammina da lontano?». Utile potrebbe essere «prendere la Bibbia, il Libro del Deuteronomio, capitolo 26, e leggerlo». Qui, ha detto, s’incontra «la memoria, la memoria dei giusti» e «come il Signore vuole che noi siamo “memoriosi”», che ricordiamo, cioè, «il cammino percorso dal nostro popolo». E poi ci farà anche bene pensare: «nel mio cuore cosa faccio di più? Mi faccio servire dagli altri, mi servo degli altri, della comunità, della parrocchia, della mia famiglia, dei miei amici o servo, sono al servizio»?
«Memoria e servizio», quindi, sono i due atteggiamenti del cristiano, quelli con i quali anche si partecipa alla celebrazione eucaristica «che è proprio memoria del servizio che ha fatto Gesù; memoria reale, con Lui, del servizio che ci ha reso: dare la sua vita per noi».
[Papa Francesco, omelia s. Marta in L’Osservatore Romano 01/05/2015]
(Gv 15,9-17)
Gesù si è appena servito dell’immagine della ‘vigna’ per configurare il carattere del nuovo popolo e la ‘circolazione di vita’ con chi crede in Lui.
L’allegoria della vite e dei tralci è ora tradotta in termini esistenziali.
La propagazione del dinamismo divino in noi dà il via a una corrente e comunicazione di amore. Movimento d’amore autentico: che Viene.
È un Flusso ininterrotto di rassomiglianze della condizione divina.
Sintonia trasparente dal valore generativo, portata dal Figlio: «come» e «per il fatto che» [ho amato voi] (v.12 testo greco).
Il Signore non chiede di “essere amato” [a partire da noi stessi, non saremmo affidabili], ma di ‘accogliere’ la modalità di Dio - il Dono che discende dal Padre e da Lui.
La Gioia che ne sgorga non sarà d’euforia o esaltazione: è frutto d’una consapevolezza che coniuga la divina proposta di ‘somiglianza non possessiva’ con la nostra capacità di fare spazio dentro.
E in tale intercapedine, incontrare i nostri lati profondi - non il distaccarci dal Nucleo, per diventare esterni.
Permanendo nella circolazione d’amore Padre-Figlio siamo avvolti da una Felicità personale.
Essa intuisce il senso e l'unicità del nostro ‘seme’ e senza sforzo cambia il modo di vedere la vita, le sofferenze, le relazioni, e la Gioia.
«Nessuno ha amore più grande di questo: che uno deponga la propria vita per i suoi amici» (v.13).
Differenza tra religiosità e Fede? L’Amicizia, ch’è più forte sia di alchimie cerebrali che del volontarismo.
L’Amico condivide intenti, coltiva comunione di vita.
Il «servo» (v.15) resta inaffidabile e rancoroso, perché semplice esecutore di ordini altrui - i quali non riguardano le irriducibili ‘radici’ nascoste, la Sorgente cui il cuore attinge e che gli appartiene (v.16).
Così l’Amico fidato è lieto non solo quando si realizza in prima persona, ma anche quando può dilatare e rallegrare la vita del suo diletto. Egli ben volentieri si spodesta dal primo seggio in favore dell’amato.
Gv non parla di amore ai nemici come fa Mt 5 nel Discorso della Montagna, ma insiste sull’amore vicendevole [interno alla comunità dei credenti] come relazione con la stessa vita divina.
Qui si nota un cruccio particolare verso le singole persone e il clima fra amici di Fede, i quali devono prima essi stessi rovesciare le posizioni di privilegio - e incarnare lo spirito di disinteresse e verità che predicano agli altri.
In tal guisa, il Signore non ci chiede “frutti” [ovvero molteplici opere esteriori, spesso venate da esibizionismo] bensì ‘una’ sola opera: l’Amore senza doppiezze, remore, forzature, dissociazioni.
Nella singolare e inedita personalizzazione del «Frutto» (v.16), Cristo non rimane un Modello da imitare, bensì una Vita reale che continua in noi.
Unico tigre nel motore; invitando e ospitando dentro il mistero dell’Eros fondante, che dilata l’Io nel Tu:
Nell’Amicizia, nei sentimenti opposti che affiorano, nella crescente unità di pensiero e di aspirazioni; nelle persone che si avvicinano, nella comunione del desiderio e delle circostanze… le volontà si accomunano.
In tale Empatia divino-umana [più persuasiva del volontarismo] i codici di comportamento, o il progetto estrinseco, condizionato, estraneo, cui (prima) piegarsi, ora tessono un dialogo; infine si uniscono - per Nome.
Ecco l’accendersi e il riversarsi della Comunione, su un alto terreno d’intesa; senza conflitti celati. Con mente larga, che valica l’ossessione dei disagi e dei confronti.
Con mente amniotica, in grado di partorire novità senza servaggio.
Insomma, nell’Ideale come nel Sogno preferiamo l’Amicizia.
E percorriamo la Via della Fede nel Crocifisso - quella del «Frutto» autentico e felice: dello ‘smacco e squilibrio d’amore’.
[S. Mattia, 14 maggio]
«Abide in me, and I in you» (v. 4). This abiding is not a question of abiding passively, of “slumbering” in the Lord, letting oneself be lulled by life [Pope Francis]
«Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Questo rimanere non è un rimanere passivo, un “addormentarsi” nel Signore, lasciandosi cullare dalla vita [Papa Francesco]
سَلامي أُعطيكُم – My peace I give to you! (Jn 14:27). This is the true revolution brought by Christ: that of love […] You will come to know inconceivable joy and fulfilment! To answer Christ’s call to each of us: that is the secret of true peace (Pope Benedict)
سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!]. Qui è la vera rivoluzione portata da Cristo, quella dell'amore [...] Conoscerete una gioia ed una pienezza insospettate! Rispondere alla vocazione di Cristo su di sé: qui sta il segreto della vera pace (Papa Benedetto)
Spirit, defined as "another Paraclete" (Jn 14: 16), a Greek word that is equivalent to the Latin "ad-vocatus", an advocate-defender. The first Paraclete is in fact the Incarnate Son who came to defend man (Pope Benedict)
Spirito, definito "un altro Paraclito" (Gv 14,16), termine greco che equivale al latino "ad-vocatus", avvocato difensore. Il primo Paraclito infatti è il Figlio incarnato, venuto per difendere l’uomo (Papa Benedetto)
The Lord gives his disciples a new commandment, as it were a Testament, so that they might continue his presence among them in a new way: […] If we love each other, Jesus will continue to be present in our midst, to be glorified in this world (Pope Benedict)
Quasi come Testamento ai suoi discepoli per continuare in modo nuovo la sua presenza in mezzo a loro, dà ad essi un comandamento: […] Se ci amiamo gli uni gli altri, Gesù continua ad essere presente in mezzo a noi, ad essere glorificato nel mondo (Papa Benedetto)
St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6) [Papa Benedetto]
Dear friends, the mission of the Church bears fruit because Christ is truly present among us in a quite special way in the Holy Eucharist. His is a dynamic presence which grasps us in order to make us his, to liken us to him. Christ draws us to himself, he brings us out of ourselves to make us all one with him. In this way he also inserts us into the community of brothers and sisters: communion with the Lord is always also communion with others (Pope Benedict)
Cari amici, la missione della Chiesa porta frutto perché Cristo è realmente presente tra noi, in modo del tutto particolare nella Santa Eucaristia. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a Sé. Cristo ci attira a Sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli: la comunione con il Signore è sempre anche comunione con gli altri (Papa Benedetto)
Jesus asks us to abide in his love, to dwell in his love, not in our ideas, not in our own self-worship. Those who dwell in self-worship live in the mirror: always looking at themselves. He asks us to overcome the ambition to control and manage others. Not controlling, serving them (Pope Francis)
don Giuseppe Nespeca
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