don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

(Lc 14,15-24)

 

Gesù non paragona il Regno del Padre a un’assemblea solenne, bensì a una grande Cena!

La proposta di novità festante viene però rifiutata. Gli autosufficienti ed esperti hanno altri impegni e interessi.

L’invito a prendere parte alla Festa è stato inizialmente rivolto ai figli d’Israele, che ancora paragonavano i tempi messianici a un Banchetto, caratterizzato da gratitudine e fraternità [interna].

Nelle prime comunità le difficoltà ad allargare i criteri di comunione venivano appunto dai convertiti dal giudaismo, che per lunga pratica conservavano l’usanza di non condividere il cibo coi lontani; così lo spezzare del Pane eucaristico.

Nell’ambito delle loro usanze e delle norme sacrali attestate nella Torah (Dt 20,5-7) il comportamento di coloro che rifiutano l’invito della parabola del Banchetto (vv.18-20) era legittimo dal punto di vista del diritto riconosciuto - non dell’amicizia.

È per accentuare il senso del gesto che il padrone della festa ordina ai servitori di raccogliere proprio coloro che erano socialmente esclusi dalla religione antica, perché considerati impuri: i pagani, i traballanti. Aperti all’attesa.

Cristo continua a tracciare una linea divisoria tra chi propugna un ordine e ideali intoccabili sopra la realtà umana, e coloro che essendo in periferia sono sempre ben disposti a partecipare alla Festa.

Non sono i “tutti preoccupati del rito”, delle maniere, dell’apparire; ma della vita che spargono.

Questi ultimi non si lasciano condizionare da privilegi, loro cose, e leggi: danno senza tenere conti a partita doppia.

Accettano con prontezza naturale; si rallegrano della realtà e non della distinzione fra sacro e profano.

Non pensano di avere già la risposta, e non finiscono con l’esserne schiavi.

 

L’insegnamento di Gesù invita a non limitare gli affetti e non lasciarsi ingombrare il cuore da consuetudini, dalla mentalità particolare o corrente, da blocchi legalisti - o dalle ‘tante cose’.

Nell’assemblea dei figli non sono i ben provveduti [persone serie, piene d’impegni, che non hanno tempo da perdere, con troppi beni e inviti da gestire] ma la gente dappoco... che passa in primo piano. Malgrado le scarse attitudini.

Tutto ciò, perché caratteristica dei Piccoli e pitocchi è la disponibilità a valicare steccati: ciò che rende atti a cogliere la convocazione di Dio.

I lontani - benché alle strette - riempiono la casa del Padre.

‘In società’ il povero è uno dei tanti, ma l’invito [eucaristico] a Mensa gli trasmette il senso dei valori che non soffocano la vita di meschinità, e legami.

Anzi, l’indigente ha spesso una migliore comprensione delle cose divino-umane.

Questa sempre più cosciente rassomiglianza al Figlio di Dio si accentua nello stento dei ‘mezzi adeguati’: penuria che rende veri, che induce altri a riflettere - restando poco eclatanti, incapaci di “fare fulmini”.

 

La nostra solidarietà non è un fatto di simpatia, interessi comuni e spirito di corpo, bensì il risultato di una Chiamata estesa; di un’unica Vita potente che circola in tutti, rispettandone libertà e realtà - nonché le fasi di mutamento.

Parafrasando l'enciclica Fratelli Tutti [nn.13-15, passim] secondo il passo di Lc bisogna rimanere attenti a non impoverire la vita di Fede, trasformandola in un distaccato impegno alla «colonizzazione culturale».

Se così fosse, anche l’orizzonte universale-cattolico d’una convivialità delle differenze si dissolverebbe in un invito troppo normalizzato, assolutamente prevedibile; infine desertico.

Il rifiuto ingessato o interessato al Banchetto recherebbe con sé - come sotto i nostri occhi - l’«ulteriore disgregazione» del «pensiero critico», dell’azione «per la giustizia», dei suoi «percorsi d’integrazione».

Anche la società ecclesiale può infatti correre il rischio di «alterare le grandi parole», «rischiare d’impoverirsi»; quindi «ridursi alla prepotenza del più forte» e alle «ricette solo effimere di marketing, che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace».

Ma il popolo di Dio non può vivere in un mondo parallelo, scollegato e doppio - come se l’unico Eterno adorato fosse un coacervo di astuzie, marketing e convenienza.

 

 

[Martedì 31.a sett. T.O.  5 Novembre 2024]

(Lc 14,15-24)

 

Gesù non paragona il Regno del Padre a un’assemblea solenne, bensì a una grande Cena!

La proposta di novità festante viene però rifiutata. Gli autosufficienti ed esperti hanno altri impegni e interessi…

Dopo la distruzione del Tempio, il governo delle sinagoghe fu assunto dai farisei, salvatisi dal disastro perché il loro tradizionalismo non aveva esplicite venature politico-nazionaliste.

Ritenevano infatti che l’attesa del Messia non aveva nulla a che fare con la lotta contro Roma; in questo sembravano in sintonia coi cristiani.

Ma di continuo esigevano nei seguaci il rigido compimento delle norme che identificavano la religione giudaica tradizionale.

Dopo l’anno 70 tale pretesa li condusse a una sempre più ossessiva condanna dei giudei convertiti al Signore Gesù - e a fine secolo alla cacciata dalle sinagoghe.

I leaders religiosi fondamentalisti finirono quindi per emarginare anche socialmente i fedeli al più giovane Messia, rei di trascurare le distinzioni fra costumanze d’Israele e quelle di altri popoli.

Nelle comunità di Lc la situazione era meno lacerante, ma ugualmente viva.

I convertiti alla fede in Cristo provenivano in buona parte dal paganesimo, che nonostante diversità di bagaglio culturale e ceto, vivevano qua e là [senza quelle tare ideologiche puriste] l’ideale della condivisione e della comunione anche dei beni.

L’invito a prendere parte alla Festa è stato inizialmente rivolto ai figli d’Israele, che ancora paragonavano i tempi messianici a un grande Banchetto, caratterizzato da gratitudine e fraternità (interna).

Ma le difficoltà ad allargare i criteri di comunione venivano appunto dai convertiti dal giudaismo, che per lunga pratica conservavano l’usanza di non condividere il cibo coi lontani; così lo spezzare del Pane eucaristico.

Nell’ambito delle loro usanze e delle norme sacrali attestate nella Torah (Dt 20,5-7) il comportamento di coloro che rifiutano l’invito della parabola del Banchetto (vv.18-20) era legittimo dal punto di vista del diritto riconosciuto - non dell’amicizia.

È per accentuare il senso del gesto che il padrone della festa ordina ai servitori di raccogliere proprio coloro che erano socialmente esclusi dalla religione antica, perché considerati impuri: i pagani. Aperti all’attesa.

Cristo continua a tracciare una linea divisoria tra chi propugna un ordine e ideali intoccabili sopra la realtà umana, e coloro che essendo in periferia sono sempre ben disposti a partecipare alla Festa.

Non sono i “tutti preoccupati del rito”, delle maniere, dell’apparire; ma della vita che spargono.

Questi ultimi non si lasciano condizionare da privilegi, loro cose, e leggi: danno senza tenere conti a partita doppia, accettano con prontezza naturale; si rallegrano della realtà e non della distinzione fra sacro e profano. Non pensano di avere già la risposta, e non finiscono con l’esserne schiavi.

L’insegnamento di Gesù invita a non limitare gli affetti e non lasciarsi ingombrare il cuore dalle consuetudini, dalla mentalità particolare o corrente, da blocchi legalisti - o dalle ‘tante cose’.

Nell’assemblea dei figli non sono i ben provveduti [persone serie, piene d’impegni, che non hanno tempo da perdere, con troppi beni e inviti da gestire] ma la gente dappoco... che passa in primo piano... malgrado le scarse attitudini.

Tutto ciò, perché caratteristica dei Piccoli e pitocchi è la disponibilità a valicare steccati: ciò che rende atti a cogliere la convocazione di Dio.

I lontani - benché alle strette - riempiono la casa del Padre.

In società il povero è uno dei tanti, ma l’invito a Mensa gli trasmette il senso dei valori che non soffocano la vita di meschinità, e legami; anzi, l’indigente ha spesso una migliore comprensione delle cose divino-umane.

Questa sempre più cosciente rassomiglianza al Figlio di Dio si accentua nello stento dei mezzi “adeguati”: penuria che rende veri, che induce altri a riflettere - restando poco eclatanti, incapaci di fare fulmini.

Tale consapevolezza intima, luminosa, trasfigurante, impallidisce e si spegne nel vortice dei legalismi, delle convenzioni culturali.

Sembra attenuarsi nel moltiplicare vertiginoso delle attività - esse che non riformano: ci rendono esterni e condizionati dai vantaggi della sicurezza mondano-sacrale, purtroppo monopolista.

Un banchetto obbligatorio non sarebbe un Banchetto... certamente non è una Festa, un Dono da curare - confuso con vantaggi o perfezioni [pessima interpretazione dei circoli osservanti cocciuti].

Per questo motivo molti preferiscono il loro purgatorio particolare al Cielo sulla terra che il Padre offre.

La nostra solidarietà non è un fatto di simpatia, interessi comuni e spirito di corpo, bensì il risultato di una Chiamata estesa, di un’unica Vita potente che circola in tutti, rispettandone libertà e realtà - nonché le fasi di mutamento.

Parafrasando l'enciclica Fratelli Tutti (nn.13-15, passim) secondo il passo di Lc bisogna rimanere attenti a non impoverire la vita di Fede, trasformandola in un distaccato impegno alla «colonizzazione culturale».

Se così fosse, anche l’orizzonte universale-cattolico d’una convivialità delle differenze si dissolverebbe in un invito troppo normalizzato, assolutamente prevedibile, infine desertico.

Il rifiuto ingessato o interessato al Banchetto recherebbe con sé - come sotto i nostri occhi - l’«ulteriore disgregazione» del «pensiero critico», dell’azione «per la giustizia», dei suoi «percorsi d’integrazione».

Anche la società ecclesiale può infatti correre il rischio di «alterare le grandi parole», «rischiare d’impoverirsi»; quindi «ridursi alla prepotenza del più forte» e alle «ricette solo effimere di marketing, che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace».

Ma il popolo di Dio non può vivere in un mondo parallelo, scollegato e doppio - come se l’unico Eterno adorato fosse un coacervo di astuzie, marketing e convenienza.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa trasmette l’Eucaristia nella tua realtà ecclesiale o di gruppo? Che invito particolare e speciale comunica?

 

 

La Festa, la Veste

 

Tutti chiamati, ma con quale corredo? Senza artifizi

Mt 22,1-14 (1-21)

 

La «veste di nozze» (vv.11-12) è figura dell’essenziale - l’imprescindibile anche precario, senz’ammennicoli di ricercatezza.

«“Ognuno di voi, dunque, che nella Chiesa ha fede in Dio ha già preso parte al banchetto di nozze, ma non può dire di avere la veste nuziale se non custodisce la grazia della Carità” (Homilia 38,9: PL 76,1287). E questa veste è intessuta simbolicamente di due legni, uno in alto e l’altro in basso: l’amore di Dio e l’amore del prossimo (cfr ibid.,10: PL 76,1288)» (Gregorio Magno; Papa Benedetto, 9 ottobre 2011).

 

Il Regno di Dio annunciato da Gesù è diverso da quello immaginato dai rabbini, la cui dottrina poteva ammettere noncuranze personali e civili [es: venditori nel tempio, fico sterile, obiezione sull’autorità, vignaioli omicidi, così via: Mt 21].

Il Banchetto predicato dal Maestro non è un Giardino di Eden allestito per un futuro nell’aldilà, che intanto - sebbene a sprazzi - possa sopportare l’inautenticità. Bensì un filo diretto.

La sua Mensa imbandita è la nuova condizione in cui viene introdotta la persona che si fida della sua proposta di condivisione.

C’è chi si sente sazio, perché ritiene di possedere già quanto basta per una vita senza troppi problemi - e allora si adatta a qualsiasi occasione, perfino meschina.

Era la situazione delle autorità, soddisfatte della sovrabbondante struttura religiosa, la quale sembrava offrisse una giusta sicurezza sociale, e certezza anche davanti a Dio.

Invece (come dire): non basta avere il proprio nome trascritto nei registri parrocchiali, e poi presentarsi con gli stracci della vita antica.

 

Oggi la rinascita dalla crisi globale chiama a opzioni fondamentali, a cambiare radicalmente mentalità e realtà.

Bisogna davvero rinnovare il “vestiario”, ossia impostare le scelte su nuovi valori. 

È opportuno ridiventare plastici, rimodellarci sulla Persona del Cristo,  non rifiutare i mutamenti che stimolano - sino a costruire un comune progetto di vita, e riedificare il mondo attorno.

Tutti sono chiamati (v.14), però qualcuno non ha mantenuto il vestitino bianco del Battesimo. Ha totalmente cambiato corredo, purtroppo - malgrado in alcuni casi presieda e difenda l’istituzione.

Gesù riprende a parlare con i leaders e li offende senza mezze misure, perché non paragona il Regno del Padre a un’assemblea liturgica delle loro, quelle ben allestite, di grandi autorità, piena di artifici… bensì a una festa nuziale, senza sacri stendardi!

In quella semplicità festosa, nella franchezza immediata e gioconda di uno sposalizio c’è una realtà umana caratterizzante la condizione divina: la Gioia spontanea delle relazioni franche, a tu per tu - ormai smarrita nei formalismi della religione assuefatta.

La proposta di novità festante viene però rifiutata. Gli autosufficienti ed esperti (che la sanno lunga) venerano un altro padrone: l’interesse.

L’opportunismo non può essere ingrediente del Sacro: il tornaconto ripiega le persone su di sé, chiude lo sguardo, rende unilaterali e cupi.

Consegna la Chiesa alle cordate.

Gesù si accorge: tutto quello che gli astuti e affezionati di messinscene facevano era funzione del loro utile. Infatti pensavano il Regno in modo elettivo, già selezionato (e commerciale, solito).

Come per gli operai dell’ultima ora [Mt 20,1-16] unica moneta per tutti è Cristo stesso. Ma ai veterani che si considerano primi della classe per diritto, la felicità delle persone non interessa.

Quindi il destino dei Profeti non era altro che l’esito disattento di calcoli spregevoli [in Luca 14,18-20 “normalissimi” doveri quotidiani] i quali però stavano portando il popolo a distruzione (v.7).

 

Lo sfondo della parabola è l’attrito fra giudei convertiti e pagani convertiti.

Considerandosi prescelti - “eletti” (v.14) - i primi si rifiutavano di spezzare il Pane, condividere e mettersi alla pari coi secondi.

Interessante invece che proprio i servitori fedeli, spingi spingi, si distinguessero a rovescio: già li si riconosceva perché in qualsiasi circostanza restavano disposti a entrare “ultimi” al Banchetto.

Insomma, lo spazio aperto dall’auto-esclusione del popolo chiamato per primo non sarebbe riuscita a mettere la parola “fine” agli sforzi di coloro che da sempre lottano per la vita e l'autenticità.

Gli alberi fruttiferi - sostiene Gesù, e lo vediamo anche oggi ovunque - non amano prevaricare: preferiscono produrre, senza rivendicazioni opportuniste, né invidie.

Rischiano, e occupano solo l’ultimo posto; per stare vicini agli incerti, e incoraggiarli. 

Quindi al v.9 Mt non parla di andare nei crocicchi [traduzione CEI] bensì agli sbocchi delle vie [testo greco].

Papa Francesco direbbe: nelle periferie esistenziali, dove la vita non è scontata, ma pulsa sempre nuova. Lì dove non si può essere indifferenti.

Il termine greco indica la fine delle strade urbane (rassicuranti) e l’inizio dei sentieri poco curati e rischiosi.

Nella mentalità semitica, erano il confine del territorio puro e la soglia dei luoghi precari, contaminati.

Non solo: l’offerta d’amore di Dio raduna per primi i “cattivi” [«malvagi»: v.10 testo greco] per sottolineare che il Cielo non è a punti.

Esso è a disposizione dei bisognosi, di chi si riconosce tale.

 

Però tutti possono essere malvestiti fuori, non dentro: ossia vigili al fratello e diligenti.

Siamo chiamati ad abbandonare trascuratezze e noncuranze.

Per non creare confusione sul Volto di Dio e non rovinare la vita dei più motivati, all’interno della Chiesa è necessario un cambiamento di mentalità.

Una decisa sostituzione di princìpi e convenienze, rovesciando ogni ideologia piramidale, di tornaconto e di potere.

Per Fede che ci incorpora senza condizioni allo Sposo, l’abito pulito e fastoso è sempre messo a disposizione dal Padrone di Casa.

Ma indossarlo è frutto di una scelta consapevole, fatta propria: voler «partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli, dove ci sia posto per ogni scartato» [Fratelli Tutti, n. 278].

Ovvero continueremo a subire il viaggio nel mondo parallelo - talora anche comunitario - dove tutto è scollegato e doppio: esito di pessimi indottrinamenti, corrotte opzioni e diaboliche ragioni.

Come se l’unico Dio adorato fosse marketing e convenienza.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa ritieni diabolico e immagini possa allontanarti dalla via spirituale?Pensi a Dio in modo serioso o lo associ alla gioia di una festa di nozze?

 

 

Restituire a Dio l’immagine dell’umanità vera. Quale Sigla?

 

(Mt 22,15-21)

 

Dopo la cacciata dei venditori dal Tempio, l’obiezione sull’autorità  e le parabole dei due figli, dei vignaioli omicidi, del banchetto rifiutato (riferite tutte all’élite), ecco un altro scontro fra Gesù e i leaders politici e religiosi - questi ultimi piazzati dietro le quinte.

Gesù (nei suoi) smantella sistematicamente le trappole allestite da direttori e soliti esperti.

Con sperimentata doppiezza, essi si accostano a Lui cercando di accarezzarne l’amor proprio (v.16: situazioni che capitano spesso anche ai testimoni critici).

L’interesse dei furbi si scontra però con l'attenzione del Cristo, tutto proteso al bene reale delle persone e al rispetto dell’intelligenza delle cose - non alla smania di approvazioni o all’opportunismo.

Proprio nel Tempio (Mt 21,23) - l’eminente Dimora del Dio unico Signore - questi gendarmi provocano il nuovo Rabbi sul pagamento delle tasse ai romani (22,17).

Sappiamo cosa c’era in ballo: l’accusa di non essere un profeta secondo il Diritto divino, o (viceversa) quella di collaborazionismo con gli occupanti.

Il Maestro non si lascia ingannare dall’ostentazione di vicinanza al Dio d’Israele - falsa perché cercata all’esterno - e li gioca facilmente.

Nel Tempio di Gerusalemme era vietato portare monete romane, che raffiguravano profili e insegne imperiali (contrarie al Comandamento “Non ti farai immagine alcuna”).

Egli però le chiede, perché effettivamente non ne aveva. Ma proprio i paludati gliene porgono una... La scena rasenta il ridicolo.

Traendo la moneta vietata dal sacchetto celato sotto il mantello, proprio i dirigenti palesano il loro vero Dio: l’interesse (ben nascosto sotto maniere devotissime e ostentate, che fanno solo da paravento).

Cristo invita a non lasciarci lusingare dalla doppiezza ostentata delle insegne: quel che conta è non ingannare la gente usando forme pie come maschera da teatranti (v.18 testo greco).

I fanatici della purezza vivono solo l’angolo epidermico; e ad esso si affidano: non di rado nascondono bene le medesime passioni materiali che disdegnano. Con Cristo non funziona.

Ciascuno è chiamato a restituire al suo vero signore l’immagine e somiglianza indelebile che vi è stata incisa. Dunque la moneta venga data indietro al suo padrone.

La donna e l’uomo - creature in cui è impressa l’immagine e somiglianza di Dio - restituiscano se stessi in autenticità, al Creatore (v.21) che dimora nella loro essenza di persone.

L'umanità è siglata da ben altra appartenenza intima e naturale, che quelle di comodo.

L’orizzonte dell’amicizia in cui Gesù ci introduce è poi l’umanità intera: Egli infatti vuol essere per tutti il buon Pastore che dona la propria vita (cfr Gv 10,11), e lo sottolinea fortemente nel discorso del Buon Pastore che è venuto per riunire tutti, non solo il popolo eletto me tutti i figli di Dio dispersi. Perciò anche la nostra sollecitudine pastorale non può che essere universale. Certamente dobbiamo preoccuparci anzitutto di coloro che, come noi, credono e vivono con la Chiesa - è molto importante, pur in questa dimensione di universalità, che vediamo anzitutto quei fedeli che vivono ogni giorno il loro essere Chiesa con umiltà e amore - e tuttavia non dobbiamo stancarci di uscire, come ci chiede il Signore, “per le strade e lungo le siepi” (Lc 14,13), per invitare al banchetto che Dio ha preparato anche coloro che finora non lo hanno conosciuto, o forse hanno preferito ignorarlo.

[Papa Benedetto, discorso alla CEI, 18 maggio 2006]

La dottrina sociale della Chiesa, oggi più di prima, ha il dovere di aprirsi a una prospettiva internazionale in linea col Concilio Vaticano II, con le più recenti Encicliche  e, in particolare, con quella che stiamo ricordando [la Populorum Progressio di Paolo VI]. Non sarà, pertanto, superfluo riesaminarne e approfondirne sotto questa luce i temi e gli orientamenti caratteristici, ripresi dal Magistero in questi anni. Desidero qui segnalarne uno: l'opzione, o amore preferenziale per i poveri. É, questa, una opzione, o una forma speciale di primato nell'esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa. Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano, in quanto imitatore della vita di Cristo, ma si applica egualmente alle nostre responsabilità sociali e, perciò, al nostro vivere, alle decisioni da prendere coerentemente circa la proprietà e l'uso dei beni. Oggi poi, attesa la dimensione mondiale che la questione sociale ha assunto, questo amore preferenziale, con le decisioni che esso ci ispira, non può non abbracciare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto dell'esistenza di queste realtà. L'ignorarle significherebbe assimilarci al «ricco epulone», che fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori della sua porta (Lc 16,19).

La nostra vita quotidiana deve essere segnata da queste realtà, come pure le nostre decisioni in campo politico ed economico. Parimenti i responsabili delle Nazioni e degli stessi Organismi internazionali, mentre hanno l'obbligo di tener sempre presente come prioritaria nei loro piani la vera dimensione umana, non devono dimenticare di dare la precedenza al fenomeno della crescente povertà. Purtroppo, invece di diminuire, i poveri si moltiplicano non solo nei Paesi meno sviluppati, ma, ciò che appare non meno scandaloso, anche in quelli maggiormente sviluppati.

Bisogna ricordare ancora una volta il principio tipico della dottrina sociale cristiana: i beni di questo mondo sono originariamente destinati a tutti. Il diritto alla proprietà privata è valido e necessario, ma non annulla il valore di tale principio: su di essa, infatti, grava «un'ipoteca sociale», cioè vi si riconosce, come qualità intrinseca, una funzione sociale, fondata e giustificata precisamente sul principio della destinazione universale dei beni. Né sarà da trascurare, in questo impegno per i poveri, quella speciale forma di povertà che è la privazione dei diritti fondamentali della persona, in particolare del diritto alla libertà religiosa e del diritto, altresì, all'iniziativa economica.

[Sollicitudo rei socialis n.42]

(Lc 14,12-14)

 

Invitare gli esclusi, senza spirito d’interesse: la comunità cristiana è aperta a tutti, in particolare a chi non ha nulla da porgere in cambio.

Non può essere complice di coloro che trasformano il mondo in un affare.

E davvero oggi stiamo finalmente imparando a invitare gratis, non in modo più interessato e mercantile?

Sappiamo bene che l’intreccio dei circuiti di calcolo che stanno dietro le nostre azioni è sbalorditivo, quasi complesso al pari dei complicatissimi circuiti da calcolatore elettronico.

E qualcuno cerca pure la sacralizzazione:

Prima di esporci in un’opera soppesiamo con rapidità incredibile tutte le possibili ricadute, le reazioni utili o nocive ai nostri interessi.

Anche durante lo svolgimento dell’agire sociale ricalibriamo ogni modifica atta a produrre l’effetto desiderato, e insieme il compenso sperato.

Se questo non dovesse venire, sicuramente immaginiamo che debba esserci stato un guasto (meccanico) da qualche parte.

 

Se non stiamo attenti, buona parte della nostra esistenza si trasforma in una cibernetica dell’interesse.

Succede anche con Dio.

Invece è l’Amore che conquista il mondo.

È il dono senza condizioni che scuote, commuove, conquista; prelude e riflette il Mistero.

Nella trasformazione dei propri beni in Incontro, Relazione, Vita intima e altrui, ecco zampillare la sorgente della Gioia.

Letizia della completezza di essere, Vita stessa della Trinità: Felicità diversa, senza dovuti o attesi ritorni; anticipo di Risurrezione.

Un’esistenza divina, non dietro le nuvole o alla fine della storia, ma fin d’ora.

Nessun contraccambio vale davvero tale vertigine sconfinata e reale.

 

Così il tipo di partecipanti allo spezzare del Pane nelle chiese - oggi di mentalità sempre più variegata - descrive l’essenza di Dio.

Il ‘poliedro’ si fa icona e attributo della tollerante misericordia dell’Eterno.

Ma non si tratta di un rattoppo esterno, o paternalista; né si configura quale salvataggio della situazione [o rimorso di coscienza].

La condizione di peccato non annulla il disegno di salvezza. Piuttosto, accentua l’Esodo personale e la passione delle cose.

I volti e le circostanze differenti diventano sacramenti della Grazia, Amore così aperto che nessuna grettezza umana può chiudere.

Anche una formazione personale non a senso unico è ben richiamata dalle mille insolite presenze di un mondo multipolare [come appello intimo e concreto].

In tal guisa, ogni aspetto eterogeneo viene oggi finalmente apprezzato come valore aggiunto, invece di essere considerato espressione “carnale” o “impurità”.

 

Insomma, la nostra attitudine di sorelle e fratelli imita la magnanimità divina: accogliamo volentieri e gratuitamente i ‘diversi’ e i non dotati di grande energia o appeal.

Non perché siamo o sono “buoni”, ma affinché lo diventiamo tutti. E stando vicini, insieme, in modo imprevisto, quindi vitale; sovreminente.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa non innalza le tue relazioni? e il senso completo di te?

 

 

[Lunedì 31.a sett. T.O.  4 novembre 2024]

Ott 23, 2024

Ricambiare?

Tra i tanti doni che compriamo e riceviamo non dimentichiamo il vero dono: di donarci a vicenda qualcosa di noi stessi! Di donarci a vicenda il nostro tempo. Di aprire il nostro tempo per Dio. Così si scioglie l'agitazione. Così nasce la gioia, così si crea la festa. E ricordiamo nei banchetti festivi di questi giorni la parola del Signore: "Quando offri un banchetto, non invitare quanti ti inviteranno a loro volta, ma invita quanti non sono invitati da nessuno e non sono in grado di invitare te" (cfr Lc 14,12-14). E questo significa, appunto, anche: Quando tu per Natale fai dei regali, non regalare qualcosa solo a quelli che, a loro volta, ti fanno regali, ma dona a coloro che non ricevono da nessuno e che non possono darti niente in cambio. Così ha agito Dio stesso: Egli ci invita al suo banchetto di nozze che non possiamo ricambiare, che possiamo solo con gioia ricevere. Imitiamolo! Amiamo Dio e, a partire da Lui, anche l’uomo, per riscoprire poi, a partire dagli uomini, Dio in modo nuovo!

[Papa Benedetto, omelia 24 dicembre 2006]

12. Basta la giustizia?

Non è difficile constatare che nel mondo contemporaneo il senso della giustizia si è risvegliato su vasta scala; e senza dubbio esso pone maggiormente in rilievo ciò che contrasta con la giustizia sia nei rapporti tra gli uomini, i gruppi sociali o le «classi», sia tra i singoli popoli e stati e, infine, tra interi sistemi politici ed anche tra interi cosiddetti mondi. Questa profonda e multiforme corrente, alla cui base la coscienza umana contemporanea ha posto la giustizia, attesta il carattere etico delle tensioni e delle lotte che pervadono il mondo.

La Chiesa condivide con gli uomini del nostro tempo questo profondo e ardente desiderio di una vita giusta sotto ogni aspetto, e non omette neppure di sottoporre alla riflessione i vari aspetti di quella giustizia, quale la vita degli uomini e delle società esige. Ne è conferma il campo della dottrina sociale cattolica, ampiamente sviluppata nell'arco dell'ultimo secolo. Sulle orme di tale insegnamento procedono sia l'educazione e la formazione delle coscienze umane nello spirito della giustizia, sia anche le singole iniziative, specie nell'ambito dell'apostolato dei laici, che appunto in tale spirito si vanno sviluppando.

Tuttavia, sarebbe difficile non avvedersi che molto spesso i programmi che prendono avvio dall'idea di giustizia e che debbono servire alla sua attuazione nella convivenza degli uomini, dei gruppi e delle società umane, in pratica subiscono deformazioni. Benché essi continuino a richiamarsi alla medesima idea di giustizia, tuttavia l'esperienza dimostra che sulla giustizia hanno preso il sopravvento altre forze negative, quali il rancore, l'odio e perfino la crudeltà. In tal caso, la brama di annientare il nemico, di limitare la sua libertà, o addirittura di imporgli una dipendenza totale, diventa il motivo fondamentale dell'azione; e ciò contrasta con l'essenza della giustizia che, per sua natura, tende a stabilire l'eguaglianza e l'equiparazione tra le parti in conflitto. Questa specie di abuso dell'idea di giustizia e la pratica alterazione di essa attestano quanto l'azione umana possa allontanarsi dalla giustizia stessa, pur se venga intrapresa nel suo nome. Non invano Cristo contestava ai suoi ascoltatori, fedeli alla dottrina dell'Antico Testamento, l'atteggiamento che si manifestava nelle parole: «Occhio per occhio e dente per dente». Questa era la forma di alterazione della giustizia in quel tempo; e le forme di oggi continuano a modellarsi su di essa. È ovvio infatti che in nome di una presunta giustizia (ad esempio storica o di classe) talvolta si annienta il prossimo, lo si uccide, si priva della libertà, si spoglia degli elementari diritti umani. L'esperienza del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all'annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l'amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni. È stata appunto l'esperienza storica che, fra l'altro, ha portato a formulare l'asserzione: sommo diritto, somma ingiustizia (summum ius, summa iniuria). Tale affermazione non svaluta la giustizia e non attenua il significato dell'ordine che su di essa si instaura; ma indica solamente, sotto altro aspetto, la necessità di attingere alle forze dello spirito, ancor più profonde, che condizionano l'ordine stesso della giustizia.

Avendo davanti agli occhi l'immagine della generazione a cui apparteniamo, la Chiesa condivide l'inquietudine di tanti uomini contemporanei. D'altronde, deve anche preoccupare il declino di molti valori fondamentali che costituiscono un bene incontestabile non soltanto della morale cristiana, ma semplicemente della morale umana, della cultura morale, quali il rispetto per la vita umana sin dal momento del concepimento, il rispetto per il matrimonio nella sua unità indissolubile, il rispetto per la stabilità della famiglia. Il permissivismo morale colpisce soprattutto questo ambito più sensibile della vita e della convivenza umana. Di pari passo con ciò vanno la crisi della verità nei rapporti interumani, la mancanza di responsabilità nel parlare, il rapporto puramente utilitario dell'uomo con l'uomo, il venir meno del senso dell'autentico bene comune e la facilità con cui questo viene alienato. Infìne, c'è la desacralizzazione che si trasforma spesso in «disumanizzazione»: l'uomo e la società, per i quali niente è «sacro», decadono moralmente - nonostante ogni apparenza.

[Papa Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia]

Ott 23, 2024

Gratuito

Pubblicato in Angolo dell'apripista

Per la salvezza c’è «un biglietto di entrata». Ma con qualche avvertenza. Anzitutto è gratuito; e poi i titolari saranno sicuramente donne e uomini che hanno «bisogno di cura e di guarigione nel corpo e nell’anima». Facile immaginare che ai primi posti ci siano «peccatori, poveri e ammalati», i cosiddetti «ultimi» insomma. Celebrando la messa a Santa Marta, martedì 7 novembre, Papa Francesco ha rilanciato l’immagine evangelica — tratta dal passo di Luca (14, 15-24) — del banchetto a cui il padrone di casa invita «i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi» dopo il rifiuto dei ricchi che non comprendono il valore della gratuità della salvezza.

«I testi evangelici che abbiamo sentito questa settimana, questi ultimi giorni, sono inquadrati in un banchetto» ha fatto subito notare Francesco. È «il Signore che si reca alla casa di un capo dei farisei per pranzare e lì viene rimproverato perché non fa le abluzioni». Poi, ha proseguito il Papa, «durante il banchetto il Signore consiglia di non cercare i primi posti perché c’è il pericolo che venga uno che sia più importante e il padrone di casa ci dica: “Cedi il posto a questo, spostati!”. Sarebbe una vergogna».

«Il passo continua — ha affermato il Pontefice — con i consigli che dà il Signore a chi si deve invitare a un banchetto a casa». Ed egli indica proprio «quelli che non ti possono fare il contraccambio, cioè quelli che non hanno niente per darti in contraccambio». Ecco «la gratuità del banchetto». Così «quando finì di spiegare questo, uno dei commensali — è il passo di oggi — disse a Gesù: “Beato chi prenderà il cibo nel regno di Dio!”». Il Signore «gli rispose con una parabola, senza spiegazioni, di quest’uomo che diede una grande cena e fece molti invitati». Ma «i primi invitati non hanno voluto andare a cena, non importava né della cena né della gente che c’era lì, né del Signore che li invitava: a loro importavano altre cose».

E infatti uno dopo l’altro cominciarono a scusarsi, Così, ha fatto presente il Papa, «il primo gli disse: “Ho comprato un campo”; l’altro: “Ho comprato cinque paia di buoi”; un altro: “Mi sono sposato”; ma ognuno aveva il proprio interesse e questo interesse era più grande dell’invito». Il fatto è, ha affermato Francesco, che «questi erano attaccati all’interesse: cosa posso guadagnare?». Perciò a un invito gratuito la risposta è: «A me non importa, forse un altro giorno, sono tanto indaffarato, non posso andare». «Indaffarato» ma per i propri «interessi: indaffarato come quell’uomo che voleva, dopo la mietitura, dopo la raccolta del grano, fare dei magazzini per allargare i suoi beni. Poveretto, morì quella notte».

Queste persone sono attaccate «all’interesse a tal punto che» cadono in «una schiavitù dello spirito» e «sono incapaci di capire la gratuità dell’invito». Ma «se non si capisce la gratuità dell’invito di Dio, non si capisce nulla» ha avvertito il Papa. L’iniziativa di Dio, infatti, «è sempre gratuita: per andare a questo banchetto cosa si deve pagare? Il biglietto di entrata è essere ammalato, è essere povero, è essere peccatore». Proprio questo «è il biglietto di entrata: essere bisognoso sia nel corpo sia nell’anima». E «per bisogno», ha rilanciato Francesco, si intende «bisogno di cura, di guarigione, avere bisogno di amore».

«Qui — ha spiegato il Pontefice — si vedono i due atteggiamenti». Quello di Dio «è sempre gratuito: per salvare Dio non fa pagare nulla, è gratuito». E anche, ha aggiunto Francesco, «diciamo la parola, un po’ astratta, “universale”», nel senso che al servo «il padrone “adirato”» dice: «Esci subito per le piazze, per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi, gli zoppi». Nell’altra versione di Matteo, il padrone dice: «buoni e cattivi: tutti, tutti», perché «la gratuità di Dio non ha dei limiti: tutti, lui riceve tutti».

«Invece quelli che hanno il proprio interesse — ha proseguito il Papa — non capiscono la gratuità. Sono come il figlio che è rimasto accanto al padre quando se ne è andato il più piccolo e poi, dopo tanto tempo, è tornato povero e il padre fa festa e questo non vuole entrare a quel banchetto, non vuole entrare a quella festa perché non capisce: “Ha speso tutti i soldi, ha speso l’eredità, con i vizi, con i peccati, tu gli fai festa? E io che sono un cattolico, pratico, vado a messa tutte le domeniche, compio le cose, a me niente?”».

Il fatto è che «non capisce la gratuità della salvezza, pensa che la salvezza è il frutto del “io pago e tu mi salvi”: pago con questo, con questo, con questo». Invece «no, la salvezza è gratuita». E «se tu non entri in questa dinamica della gratuità non capisci nulla».

La salvezza infatti, ha affermato Francesco, «è un dono di Dio al quale si risponde con un altro dono, il dono del mio cuore». Ci sono però coloro «che hanno altri interessi, quando sentono parlare dei doni: “Sì, è vero, sì, ma si devono fare dei doni”. E subito pensano: “Ecco, io farò questo dono e lui domani e dopodomani, in un’altra occasione, me ne farà un altro”». Così c’è «sempre il contraccambio».

Invece «il Signore non chiede nulla in contraccambio: soltanto amore, fedeltà, come lui è amore e lui è fedele». Perché «la salvezza non si compra, semplicemente si entra nel banchetto: “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!”». E «questa è la salvezza».

In realtà, ha confidato il Papa, «io mi domando: cosa sentono questi che non sono disposti a venire a questo banchetto? Si sentono sicuri, si sentono con una sicurezza, si sentono salvi a loro modo fuori dal banchetto». E «hanno perso il senso della gratuità, hanno perso il senso dell’amore e hanno perso una cosa più grande e più bella ancora e questo è molto brutto: hanno perso la capacità di sentirsi amati». E, ha aggiunto, «quando tu perdi — non dico la capacità di amare, perché quella si recupera — la capacità di sentirti amato, non c’è speranza: hai perso tutto».

Del resto, ha concluso il Pontefice, tutto questo «ci fa pensare allo scritto nella porta dell’inferno dantesco “Lasciate la speranza”: hai perso tutto». Da parte nostra, occorre guardare invece il padrone di casa che vuole che la sua casa si riempia: «è tanto amoroso che nella sua gratuità vuole riempire la casa». E così «chiediamo al Signore che ci salvi dal perdere la capacità di sentirsi amati».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 08/11/2017]

Qualche giorno mi trovavo in un bar. C’erano dei giovani che parlavano dei loro problemi quotidiani, quando a un certo punto esce fuori il problema dell’invidia.

La discussione su questo argomento viene  accolta anche dalle  persone che erano lì e qualcuno scherzando o meno (chissà)  ha espresso: ma come si toglie?

Mi sono tornate in mente vecchie pratiche magiche e superstiziose di quando ero bimbo. Oppure di tutte quelle volte che ho sentito dire di fronte a un insuccesso o situazione poco favorevole:  “devo andare a far togliere l’invidia”. E non solo da gente semplice, ma anche da persone con un certo grado di cultura. Come già sostenuto nei precedenti articoletti, anche l’uomo di scienza ha la sua parte irrazionale.

Nel vocabolario Treccani alla voce invidia si legge: “Sentimento spiacevole  per un bene o qualità altrui che si vorrebbero per sé, accompagnato spesso da avversione e rancore per colui che invece le possiede”.

E’ un sentimento che abbiamo tutti e che ci rifiutiamo di riconoscere perché spesso è una cosa di cui ci vergogniamo. Spesso crediamo che questo sentimento  abbia poteri occulti e per questo crediamo che pseudo pratiche magiche possano liberarci. Nulla di più illusorio.

Melanie Klein ha scritto il libro “Invidia e Gratitudine” dove affronta  tale tematica.

Quest’autrice ha indagato a fondo il primo rapporto che il bambino ha con il seno materno e poi con la madre quando riesce a percepirla come oggetto totale. Rapporto primario che può risultare difficile anche per cause materne: non accettazione del bimbo, difficoltà nel parto, o riluttanza nell’allattarlo. 

Ma ci sono cause che possono scaturire anche dal bambino, e fra queste primeggia proprio l’invidia che gli impedisce un bel rapporto col seno.

Il  bimbo può provare un grosso sentimento di rabbia verso il seno, sia che venga percepito come buono, cioè che lo soddisfi, sia come cattivo - perché non  accontenta i suoi bisogni e genera invidia perché possiede qualcosa che lui non ha.

E allora il lattante prova a danneggiarlo come può, mettendoci le sue parti cattive (sputando, orinando, mordendo, ecc.).

In una persona una forte presenza dell’invidia può danneggiare il proprio modo di vivere, e i suoi rapporti con gli altri; non per cause esterne, ma perché non riesce a comprendere l’oggetto buono.

Ritiene di averlo rovinato e reso cattivo.

Non riesce a sentire i suoi sentimenti buoni, e questo aumenta la sua invidia e il suo odio.

Invece il bambino che è più capace di provare amore e gratitudine per il dono che ha ricevuto,  sperimenta maggiormente l’oggetto buono.

Di conseguenza, acquistando fiducia nella propria bontà, supererà invidia e odio con maggiore facilità.

La persona affetta da invidia  difficilmente  riesce a godere delle gioie della vita, perché il rapporto con la madre e poi con qualsiasi altro oggetto di amore è danneggiato.

I sentimenti positivi spingono il bambino a conservare il latte ricevuto come buono.

Saper sperimentare  gratitudine è la base del piacere, e in seguito egli sarà in grado di stabilire rapporti soddisfacenti, perché sono diminuiti i desideri distruttivi: le sue angosce saranno meno forti.

L’invidia non ci fa vivere bene, per il semplice motivo che va in senso contrario alla vita - e il mondo esterno diventa il nostro nemico.  

Oppure essa ci fa vivere un “seno” troppo idealizzato o troppo cattivo.

Una persona con una buona capacita di  voler bene riesce ad amare l’ “oggetto” pur vedendone i limiti.

Una cosa positiva che l’invidia può operare in noi è la possibilità di migliorarci.  

Spesse volte, per chi chiede aiuto ad un professionista, fra le varie tematiche che la persona porta in analisi, si deve affrontare questo problema. 

Se l’analista ha ben cosciente queste sue parti distruttive, riuscirà a  condurre la persona che ha di fronte a riconoscere le parti negative, e a mitigarle con l’amore e i sentimenti positivi.

La persona ben adattata sopporterà meglio i propri sensi di colpa, e non avrà bisogno di vederli addosso agli altri.  .

Molto spesso è difficile sopportare noi stessi.

 

Francesco Giovannozzi Psicologo – Psicoterapeuta.

Nessuna arrendevolezza forzata

(Mc 12,28-34)

 

Quella del ‘comandamento grande’ era la norma di catechismo più conosciuta, persino dagli infanti.

Gesù viene interrogato solo per ribattergli: e tu perché non osservi l’unico comandamento che anche Dio adempie - il riposo del sabato?

La sola disposizione in cui il Padre si riconosce è l’Amore, non un qualche precetto particolare - perché solo la Qualità profonda obbliga.

La proposta spirituale del Maestro fa propria la narrativa del popolo di Dio e la pratica dei Profeti: tutta cuore, piedi, mani - e intelligenza.

L’Amore completo verso Dio avvolge la creatura in ogni decisione [cuore], ogni istante e aspetto della sua “vita” concreta, tutte le proprie risorse [forze].

Mt 22,37 non cita esplicitamente quest’ultimo aspetto, forse per sottolineare che il Padre non assorbe energie in nessun modo, bensì le trasmette.

Ma Gesù aggiunge alle sfumature dell’intesa autentica con Dio enumerate nel Primo Testamento un versante inatteso per chi pensa l’amore come sentimento delicato solo emotivo.

Il Signore suggerisce lo studio, il discernimento e la comprensione delle nostre percezioni (v.30) - l’aspetto mentale e d’intelligenza profonda che integra Dt 6.

A prima vista sembra una sfaccettatura secondaria o addirittura un orpello per il balzo qualitativo da un comune senso religioso all’esistenza di Fede saggiamente e personalmente configurata.

È vero l’esatto contrario: siamo figli di un Padre che non ci soppianta, né assorbe le nostre energie o potenzialità, spersonalizzando; neppure sotto il profilo mentale.

La sola praticità rende fragili, poco consapevoli; e quando non siamo convinti neppure saremo affidabili, sempre in balia di mutevoli situazioni e dell’opinione conformista, alla moda, altrui.

Gesù non parla di amore verso Dio in termini d’intimismo e sentimento, ma di un’affinità totalmente coinvolgente, resa meno oscillante proprio dallo sviluppo della nostra misura sapienziale in merito alle questioni.

Qui c’è un Appuntamento decisivo dell’Amore a tutto tondo.

Innaturale sarebbe riconoscere un Padrone del Cielo che non Viene incontro e viceversa ci sovrasta con un suo obbiettivo, a noi estrinseco e che rende marginali.

 

Amare «Come [e Perché] te stesso»: è una nuova Genesi nello spirito di Dono.

Il paradosso suggerito da Gesù è che amiamo per il fatto che abbiamo cura d’incontrarci - e amiamo noi stessi - dilatando l’io nel Tu.

Il «comando grande» di Dio investe la vita reale e riguarda non solo la qualità di relazione col mondo e il prossimo ma il globale riflessivo con sé. 

Non bisogna aver paura di altre dottrine e discipline, trascurando le sfide anche intellettuali che rimettono in discussione le credenze, le opere, la propria visione del mondo, il linguaggio, lo stile, e il pensiero stesso.

Valore aggiunto.

Inutile poi lamentarsi, se le realtà ecclesiali che non si aggiornano o approfondiscono, e permangono nei luoghi comuni ereditati [o nelle voghe] lentamente decadono, quindi scompaiono.

Per questo alle note antiche del vero amore il Figlio di Dio aggiunge la qualità della mente’: non siamo dei creduloni, sprovveduti, unilaterali.

Le nostre mani tese sono frutto di scelta libera e consapevole. Nessuna arrendevolezza forzata.

«Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» [Giovanni Paolo II].

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cos’è Grande per te? Ti documenti e aggiorni per poter corrispondere meglio alla Chiamata di Dio?

 

 

[31.a Domenica T.O.  B  (Mc 12,28b-34)  3 novembre 2024]

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Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
People have a dream: to guess identity and mission. The feast is a sign that the Lord has come to the family
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione. La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia
“By the Holy Spirit was incarnate of the Virgin Mary”. At this sentence we kneel, for the veil that concealed God is lifted, as it were, and his unfathomable and inaccessible mystery touches us: God becomes the Emmanuel, “God-with-us” (Pope Benedict)
«Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». A questa frase ci inginocchiamo perché il velo che nascondeva Dio, viene, per così dire, aperto e il suo mistero insondabile e inaccessibile ci tocca: Dio diventa l’Emmanuele, “Dio con noi” (Papa Benedetto)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situationsi
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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