don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Assunzione della Beata Vergine Maria [15 Agosto 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Per la Festa dell’Assunzione ho elaborato diversi testi perché sono passaggi biblici che tornano spesso nelle feste mariane e quindi possono spero risultare utili per incontri, catechesi e meditazioni. Auguro di cuore una santa e serena festa dell’Assunzione di Maria a voi tutti.

 

 *Prima Lettura dal Libro dell’Apocalisse (11, 19a; 12, 1-6a. 10ab)

La prima frase che leggiamo è la conclusione del capitolo 11 dell’Apocalisse, che preannuncia  la fine dei tempi e la vittoria di Dio su tutte le forze del male, come già detto al v.15: “Nel cielo si alzarono voci potenti che dicevano: Il regno del mondo appartiene ormai al nostro Signore e al suo Cristo, ed egli regnerà nei secoli dei secoli”. Per esprimere questo messaggio di vittoria, come sempre nell’Apocalisse, san Giovanni usa numerose immagini: abbiamo visto, in successione, l’Arca dell’Alleanza e tre personaggi: la donna, il drago, poi il neonato..L’Arca dell’Alleanza richiama la famosa arca, lo scrigno di legno dorato che accompagnava il popolo durante l’Esodo sul Sinai e che ricordava costantemente al popolo d’Israele l’Alleanza con Dio. In verità l’arca era scomparsa al tempo dell’esilio a Babilonia; si raccontava che Geremia l’avesse nascosta da qualche parte sul monte Nebo (2 Mac 2,8) e si credeva che sarebbe riapparsa al momento della venuta del Messia. Giovanni la vede riapparire: “Si aprì il tempio di Dio, che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua Alleanza” (11,19). Questo è il segno che la fine dei tempi è giunta: l’alleanza eterna di Dio con l’umanità è finalmente compiuta in modo definitivo. Poi appare “una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta, gridava per le doglie e il travaglio del parto”. Chi rappresenti questa donna? L’Antico Testamento ci dà la chiave, perché spesso il rapporto tra Dio e Israele è descritto in termini nuziali come in Osea (2,21-22), mentre Isaia sviluppa il tema delle nozze fino a presentare la venuta del Messia come un parto, poiché è da Israele che deve nascere il Messia (66,7-8). La donna qui descritta rappresenta il popolo eletto che genera il Messia: un parto doloroso per i discepoli di Cristo perseguitati ai quali Giovanni dice: state partorendo l’umanità nuova. Il secondo personaggio è il drago, posto davanti alla donna per divorare il figlio appena nato, che indica la lotta delle forze del male contro il progetto di Dio. Per i cristiani perseguitati ai quali l’Apocalisse si rivolge, la parola “drago” non è esagerata e la descrizione impressionante rivela la violenza che li colpisce: il drago è enorme, rosso fuoco, con sette teste e dieci corna, e sulle teste sette diademi. Teste e corna rappresentano intelligenza e potenza, i diademi indicano il potere imperiale che mostra una reale capacità di nuocere trascinando un terzo delle stelle del cielo e le scaglia sulla terra. Solo un terzo però per cui non è una vera vittoria, e il resto del testo dirà che il potere del male è solo provvisorio. Ed ecco l’infante: “La donna partorì un figlio, un maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro”: si tratta chiaramente del Messia e allude a una frase del Salmo 2: “Il Signore mi ha detto: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti, in possesso le estremità della terra. Le spezzerai con scettro di ferro” (Sal 2,7-9). “Il figlio fu rapito verso Dio e verso il trono” simbolo della risurrezione di Cristo, che i cristiani consideravano il Primogenito, ormai seduto alla destra di Dio. I cristiani vivono in un mondo difficile, ma sono certi della protezione di Dio: questo è il significato del deserto, che richiama ancora una volta l’esodo, durante il quale Dio non ha mai cessato di prendersi cura del suo popolo e per questo possono stare tranquilli: se il drago ha fallito nel cielo, non potrà vincere nemmeno sulla terra. Ai primi cristiani duramente perseguitati l’Apocalisse annuncia la vittoria: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo” (Ap 12,10).

Complementi  1.La lettura liturgica non propone la fine di Ap 11,19, ma vale la pena leggerla: la scena descritta (lampi, voci, tuoni, terremoto) richiama il momento della conclusione dell’Alleanza sul Sinai. «Allora ci furono lampi, voci, tuoni, un terremoto e una forte grandine» (Ap 11,19), da confrontare con: «Il terzo giorno, al mattino, ci furono tuoni, lampi, una nube densa sulla montagna e un suono fortissimo di tromba» (Es 19,16). 

2. l’Apocalisse si rivolge a cristiani perseguitati per sostenerli nella prova: il suo contenuto, dall’inizio alla fine, è messaggio di vittoria; ma tutto è codificato per cui va decifrato e in effetti, fin dalle prime parole, l’autore afferma che il drago non potrà ostacolare la salvezza di Dio. Riguardo allo scettro di ferro del Messia, ci aiuta a capire la profezia di Balaam (Nm 24,17). Una rilettura cristiana successiva ha applicato la visione della donna alla Vergine Maria e per questo la liturgia ci propone questo testo nella festa dell’Assunzione di Maria perché lei è la prima a beneficiare del trionfo di Cristo. Questa lotta del drago contro la donna richiama il racconto della Genesi: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” (Gn 3,15). Testo che offre una bellissima definizione della salvezza: la forza e la regalità del nostro Dio (Ap 12,10).

 

*Salmo responsoriale (44 /45, 11-16)

Oggi leggiamo solo la seconda parte del Salmo 44/45, che si rivolge alla sposa del re di Gerusalemme, nel giorno delle sue nozze. La prima parte del salmo parla del re stesso, coperto di elogi per le sue virtù a cui viene promesso un regno glorioso e che Dio stesso ha scelto. La seconda parte, nella festa dell’Assunzione, si rivolge alla giovane principessa che sta per diventare la sposa del re. A un primo livello, dunque, questo salmo sembra descrivere nozze regali: il re d’Israele si unisce a una principessa straniera per suggellare l’alleanza tra due popoli, caso frequente in Israele come altrove. Nella storia dell’umanità, si sono viste molte alleanze politiche sancite da matrimoni. Ma, poiché la religione di Israele è un’Alleanza esclusiva con l’unico Dio, ogni giovane straniera che diventava regina a Gerusalemme doveva accettare una condizione particolare: sposare anche la religione del re. Concretamente, in questo salmo, la principessa che viene da Tiro — come ci viene detto — e che viene introdotta alla corte del re d’Israele, dovrà rinunciare alle pratiche idolatriche per essere degna del suo nuovo popolo e del suo sposo: “Ascolta, figlia, guarda, porgi l’orecchio: dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre”. Questo fu un problema cruciale al tempo del re Salomone, che aveva sposato donne straniere, e quindi pagane e più tardi, al tempo del re Acab e della regina Gezabele: ricordiamo il grande scontro del profeta Elia contro i numerosi sacerdoti e profeti di Baal che Gezabele aveva portato con sé alla corte di Samaria. Ma, per chi sa leggere tra le righe, questi consigli dati alla principessa di Tiro in realtà sono rivolti a Israele: lo sposo regale descritto nel salmo non è altri che Dio stesso, e questa “figlia di re, condotta tutta adorna verso il suo sposo” è il popolo d’Israele ammesso all’intimità con il suo Dio. Ancora una volta, colpisce l’audacia degli autori dell’Antico Testamento nel descrivere la relazione tra Dio e il suo popolo, e, attraverso di esso, con tutta l’umanità.  Il profeta Osea, per primo, paragonò Israele a una sposa (Os 2,16…18). Dopo di lui, Geremia, Ezechiele, il secondo e il terzo Isaia hanno sviluppato il tema delle nozze tra Dio e il suo popolo;e nei loro testi ritroviamo tutto il vocabolario nuziale: i nomi affettuosi, l’abito da sposa, la corona nuziale, la fedeltà (cf Ger 2,2; Is 62,5). Purtroppo, questa sposa, troppo umana, fu spesso infedele, cioè idolatra e gli stessi profeti definiranno le infedeltà del popolo come adultèri, cioè come ritorni all’idolatria. Il linguaggio allora si precisa: gelosia, adulterio, prostituzione, ma anche riconciliazione e perdono, perché Dio resta sempre fedele. Isaia, per esempio, parla delle deviazioni di Israele come una delusione amorosa nel  celebre canto della vigna (Is 5,1-7; 54,4-10). L’idolatria occupa tanto spazio nei discorsi dei profeti perché l’alleanza tra Dio e l’umanità, questo progetto salvifico, passa attraverso la fedeltà d’Israele. Israele lo sa: la sua elezione non è esclusiva, ma solo restando fedele al Dio unico potrà compiere la sua vocazione di testimone presso tutte le nazioni. In Maria la Bibbia osa affermare che Dio ha chiesto in sposa l’umanità intera. Celebrando l’Assunzione di Maria e la sua introduzione nella gloria di Dio, intuiamo in anticipo l’ingresso dell’intera umanità, sulle sue orme, nell’intimità con il suo Dio.

 

Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinti (1 Cor 15, 20 - 27a)

La liturgia ci propone oggi una meditazione di Paolo sulla risurrezione di Cristo, in contrasto con la morte di Adamo. Abbiamo dunque una pista di riflessione: che cosa hanno in comune Cristo e Maria? E che cosa invece non ha Adamo? Il vangelo della Visitazione ci fa contemplare in Maria colei che ha creduto e ha accettato di entrare nel progetto di Dio, senza capire tutto. La sua risposta all’Angelo è il modello dei credenti: “Avvenga di me secondo la tua parola (Lc 1,38), sono la serva del Signore pronta a mettere la vita al servizio dell’opera di Dio. Nel Magnificat Maria rivela le sue preoccupazioni più profonde rileggendo la propria vita alla luce del grande progetto di Dio per il suo popolo, a favore di Abramo e della sua discendenza per sempre, come aveva promesso ai padri. Fin dall’inizio, nella Bibbia, si era compreso che questa è l’unica cosa che Dio ci chiede: essere pronti a dire: Eccomi. Abramo, Mosè, Samuele – chiamati da Dio – seppero rispondere così. E grazie a loro, l’opera di Dio ha potuto compiere ogni volta un passo avanti. Il Nuovo Testamento propone come esempio Gesù Cristo che nel racconto delle Tentazioni, risponde alle seduzioni del tentatore con le sole parole della fede. E se ci insegna a dire, nel Padre Nostro, sia fatta la tua volontà, è perché questo è il suo pensiero centrale come dice ai discepoli nell’episodio della Samaritana: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34). Nel Getsemani, non si smentisce: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39). E l’autore della Lettera agli Ebrei riassume così tutta la vita di Gesù: «Entrando nel mondo, Cristo dice: Ecco, io vengo per fare la tua volontà» (Eb 10,5…10). Se in ogni tempo e in ogni circostanza Gesù si sottomette alla volontà del Padre, è perché si fida. Anche di lui si potrebbe dire:«Beato colui che ha creduto…».La sua risurrezione dimostra che la via della fede è davvero la via della vita, anche se passa attraverso la morte fisica. Nella Lettera ai Romani e in quella ai Corinzi, Paolo contrappone il comportamento di Cristo a quello di Adamo: Adamo è colui al quale tutto è stato offerto – l’albero della vita, il dominio sul creato – ma non ha creduto alla benevolenza di Dio rifiutando di sottomettersi ai sui comandamenti. L’apostolo non vuole raccontare cosa sarebbe successo se Adamo non avesse peccato, ma intende ricordarci che esiste una sola via che conduce alla vita e c’introduce nella gioia di Dio. Adamo volta le spalle all’albero della vita quando comincia a dubitare di Dio e Paolo lo dice al presente, perché per lui Adamo non è un uomo del passato, ma un un modo di essere uomini.  Come osservano i rabbini: Ognuno è Adamo per sé stesso. Si comprende allora meglio l’affermazione di Paolo che in Adamo tutti muoiono cioè, comportandoci come Adamo, ci allontaniamo da Dio e ci separiamo dalla vita vera che Egli vuole donarci in abbondanza. Al contrario, scegliere la via della fiducia, come ha fatto Cristo, a qualsiasi costo, è entrare la vera vita: “La vita eterna è che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3). Conoscere, nel linguaggio biblico, significa credere, amare, fidarsi. Paolo asserisce che in Cristo tutti torneranno alla vita innestandosi in lui, adottando cioè il suo stesso modo di vivere. L’odierna festa dell’Assunzione di Maria ci aiuta a contemplare la realizzazione del progetto di Dio sull’uomo, quando non viene ostacolato. Maria pienamente umana non ha agito come Adamo ed esprime il destino che ogni uomo avrebbe avuto se non ci fosse stata la caduta dei progenitori. Come ogni essere umano, ha conosciuto l’invecchiamento e un giorno ha lasciato questa vita addormentandosi nel Signore: è la “Dormizione” della Vergine. Possiamo dunque affermare due semplici verità: Il nostro corpo non è programmato per durare eternamente così com’è sulla terra e Maria, tutta pura e piena di grazia, si è addormentata. Adamo però ha ostacolato il progetto di Dio e la trasformazione del corpo che avremmo potuto conoscere, cioè  la dormizione, è diventata morte con il suo seguito di sofferenze e fragilità perché la morte che tanto ci fa soffrire, è entrata nel mondo a causa del peccato. Ma là dove è entrata la forza della morte Dio ridà la vita: Gesù è ucciso dall’odio degli uomini, ma il Padre lo risuscita, il primo dei risorti che ci fa entrare nella vera vita,  in cui regna l’amore. Elisabetta dice a Maria: “Beata colei che ha creduto…”;Gesù applica questa beatitudine a tutti coloro che credono: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21).

NOTA Quando il Risorto apparve a Saulo di Tarso sulla via di Damasco, la regalità di Cristo si impose a lui come una evidenza e questa certezza abiterà tutte le sue parole, tutti i suoi pensieri perché per lui Cristo, vincitore della morte, è anche il vincitore di tutte le forze del male, il Messia atteso da secoli. Per questo, in tutte le sue lettere si riconoscono le espressioni dell’attesa messianica del tempo: “Tutto sarà compiuto quando Cristo consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver distrutto tutte le potenze del male”;oppur “Egli deve regnare finché non avrà posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi”, come leggiamo nel Salmo 110 (109).

 

Dal vangelo secondo Luca (1, 39 – 56)

Dopo i racconti dell’Annunciazione a Zaccaria per la nascita di Giovanni Battista, a Maria per la nascita di Gesù segue l’episodio della “Visitazione” che ha l’aspetto di un racconto familiare, ma non bisogna lasciarsi ingannare: in realtà, Luca sta scrivendo un’opera profondamente teologica. Bisogna dare tutto il peso alla frase centrale: “Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce”: E’ lo Spirito Santo a parlare per annunciare, fin dall’inizio del vangelo, quella che sarà la grande notizia di tutto il racconto di Luca: colui che è stato appena concepito è il Signore. Elisabetta proclama: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo”: Dio agisce in te e per mezzo di te, agisce nel Figlio che porti in grembo e per mezzo di lui. Come sempre, lo Spirito Santo permette di scoprire, nella nostra vita e in quella degli altri — di tutti gli altri — la traccia dell’opera di Dio. Luca certamente non ignora che la frase di Elisabetta, «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo», riprende almeno in parte una frase dell’Antico Testamento che si trova nel libro di Giuditta (Gdt 13,18-19): quando Giuditta torna dall’accampamento nemico, dove ha decapitato il generale Oloferne, viene accolta nel suo campo da Ozia che le dice: «Tu sei benedetta fra tutte le donne e benedetto è il Signore Dio». Maria viene quindi paragonata a Giuditta. E il parallelo tra le due frasi suggerisce due cose: il riprendere l’espressione benedetta fra tutte le donne fa intendere che Maria è la donna vittoriosa che garantisce all’umanità la vittoria definitiva sul male; quanto alla parte finale (per Giuditta: benedetto è il Signore Dio, per Maria: benedetto il frutto del tuo grembo), annuncia che il frutto del grembo di Maria è il Signore stesso. Dunque, questo racconto di Luca non è un semplice aneddoto e si può confrontare la forza delle parole di Elisabetta con il mutismo di Zaccaria.  Piena di Spirito Santo, Elisabetta ha la forza di parlare; Zaccaria resta muto perché aveva dubitato delle parole dell’angelo che gli annunciavano la nascita di Giovanni Battista. Anche Giovanni Battista manifesta la sua gioia: Elisabetta dice che egli “ha sussultato di gioia” appena ha udito la voce di Maria e anche lui è pieno di Spirito Santo, come aveva annunciato l’angelo a Zaccaria: “Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita. Tua moglie Elisabetta ti darà un figlio e tu lo chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno per la sua nascita… egli sarà pieno di Spirito Santo fin dal grembo materno”. Elisabetta si domanda: “A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?”. Anche qui c’è un richiamo a un episodio dell’Antico Testamento: l’arrivo dell’Arca dell’Alleanza a Gerusalemme (2 Sam 6, 2-11). Dopo essersi stabilito come re a Gerusalemme e aver costruito un palazzo degno del re d’Israele, Davide decide di far salire l’Arca dell’Alleanza nella nuova capitale. Ma è diviso tra fervore e timore. All’inizio c’è una tappa vissuta con gioia: “Davide radunò tutta l’élite d’Israele, trentamila uomini. Si mise in cammino con tutto il popolo… per far salire l’arca di Dio sul quale è invocato il Nome, il Nome del Signore degli eserciti che siede sui cherubini…”. Ma accade un incidente: un uomo che tocca l’arca senza esserne autorizzato muore all’istante.Allora la paura ha il sopravvento su Davide, che esclama: “Come potrà venire da me l’arca del Signore?”. Il viaggio si interrompe: Davide preferisce lasciare l’arca nella casa di un certo Obed-Edom, dove rimane tre mesi, portando benedizioni su quella casa. Davide si rassicura: “Fu detto al re Davide: il Signore ha benedetto la casa di Obed-Edom e tutto ciò che gli appartiene, a causa dell’arca di Dio” e fa salire l’arca a Gerusalemme con grande gioia, danzando con tutte le sue forze davanti al Signore. È evidente che Luca ha voluto accumulare nel racconto della Visitazione molti dettagli che richiamano questa salita dell’arca: i due viaggi, quello dell’arca e quello di Maria, avvengono nella stessa regione, i monti di Giudea; l’arca entra nella casa di Obed-Edom e porta benedizione (2 Sam 6,12), Maria entra nella casa di Zaccaria ed Elisabetta e porta benedizione; l’arca resta tre mesi da Obed-Edom, Maria rimane tre mesi da Elisabetta; Davide danza davanti all’arca e Giovanni Battista salta di gioia davanti a Maria. Tutto ciò non è casuale. Luca ci invita a contemplare in Maria la nuova Arca dell’Alleanza. E l’arca era il luogo della Presenza di Dio. Maria porta in sé, misteriosamente, questa Presenza di Dio: d’ora in poi Dio abita la nostra umanità. “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.” Tutto questo, grazie alla fede di Maria: Alle parole di Elisabetta Maria intona il Magnificat.

NOTA SUL MAGNIFICAT. In questa pagina di Luca, troviamo tantissimi riferimenti ad altri testi biblici e si possono riconoscere frammenti di molti salmi in quasi tutte le frasi. Questo significa che Maria non ha inventato le parole della sua preghiera: per esprimere il suo stupore davanti all’azione di Dio, riprende semplicemente espressioni già pronunciate dai suoi antenati nella fede.C’è già qui una doppia lezione: una lezione di umiltà, innanzitutto. Messa davanti a una situazione eccezionale, Maria utilizza semplicemente le parole della preghiera del suo popolo. C’è poi una lezione di senso comunitario, potremmo dire di senso ecclesiale sinodale. Nessuna delle citazioni bibliche contenute nel Magnificat ha un carattere individualista ma tutte riguardano il popolo intero. Questa è una delle grandi caratteristiche della preghiera biblica, e quindi della preghiera cristiana: il credente non dimentica mai di appartenere a un popolo e che ogni vocazione, lungi dal separarlo, lo mette al servizio di quel popolo. Quanto alle radici bibliche del Magnificat si può dire che è una rilettura dell’intera storia della salvezza: Dio ha compiuto meraviglie nei secoli, e continua ad agire nel presente.  A.Nel passato: Ha guardato l’umiltà della sua serva; Ha compiuto grandi cose per Maria; Ha spiegato la potenza del suo braccio; Ha disperso i superbi; Ha rovesciato i potenti dai troni; Ha innalzato gli umili; Ha ricolmato di beni gli affamati; Ha rimandato i ricchi a mani vuote; Ha soccorso Israele, suo servo. B. Nel presente: Maria può proclamare: “Tutte le generazioni mi chiameranno beata” ed è vero ancora oggi. Il Signore fa misericordia di generazione in generazione. La misericordia di Dio è una realtà sempre presente per coloro che lo temono, cioè per coloro che si aprono alla sua grandezza. Il Magnificat ci insegna quindi a contemplare l’opera di Dio in tutta la storia, nella vita del popolo e nella nostra vita.Infine, il Magnificat si inserisce nel cuore della teologia di Luca: Dio capovolge le sorti: i potenti sono abbassati, gli umili innalzati; i ricchi vengono svuotati, i poveri riempiti. Questo “capovolgimento” è già presente nei profeti (soprattutto in Isaia e nel Primo Libro di Samuele), ma Luca lo pone al centro del suo Vangelo, che è pieno di parabole e di racconti in cui Dio dà la preferenza agli ultimi, ai piccoli, ai peccatori, ai poveri. Questa preghiera è dunque profondamente rivoluzionaria: non nel senso di una rivoluzione violenta, ma di una rivoluzione spirituale e sociale che passa per la misericordia, la giustizia, l’umiltà, e la fede.

+ Giovanni D’Ercole

(Mt 18,21-19,1)

 

In tutto il medio Oriente antico la rappresaglia non sproporzionata uno a uno [non crudele] era legge sacra.

Perdonare era un atteggiamento umiliante e assurdo, principio incomprensibile per chiunque vivesse una qualsiasi ingiustizia.

Viceversa, nella dinamica della Fede, perdonare diventa un potere, che non solo rende l’aria respirabile, ma attiva il nostro destino personale.

Pietro invece vuole sapere i limiti del perdono (v.21).

Storicamente, al termine del primo secolo si riaffaccia nei credenti lo stile schizzinoso, severo, della sinagoga e dell’Impero [«divide et impera»]. 

Nasce la domanda: bisognerà fermarsi nell’accogliere?

In aggiunta, nelle stesse chiese si ricomincia a pensare che qualcuno abbia peccato di lesa maestà verso chi - ormai duro e senza cuore - è abituato a farsi riverire.

Veterani che ne combinano più di altri e poi fanno i puntigliosi su minuzie altrui (i fratelli deboli, considerati sottoposti e destinati al rigore fiscale dei moralismi, nonché delle penitenze).

 

Mentre la pratica religiosa esaspera i difetti minuti, l’esperienza stessa della sproporzione tra il perdono ricevuto dal Padre e quello che siamo in grado di offrire ai fratelli, fa capire la necessità della tolleranza.

La Chiesa dovrebbe essere questo spazio dell’esperienza di Dio che restituisce vita, luogo alternativo di fraternità.

 

La società imperiale era dura e senza compassione, priva di spazio per i piccoli e malfermi, i quali senza troppe pretese cercavano un qualsiasi rifugio per il cuore - ma nessuna Religione dava loro risposta.

Anche le sinagoghe identificavano benedizioni materiali e spirituali. Ammantate di esigenze, norme di purità e adempimenti, non offrivano il tepore d’un luogo accogliente per i deboli.

Il guaio era che nelle stesse prime comunità cristiane alcuni puntavano i piedi sul rigore delle norme, consuetudini e gerarchie, pretendendo convivenze improntate secondo il modello giudaizzante.

Inoltre, come testimonia la lettera di Giacomo, verso la fine del primo secolo già iniziavano a manifestarsi nelle chiese di Cristo le identiche divisioni della società, tra indigenti e benestanti!

Lo spazio di accoglienza delle comunità che nello Spirito avevano avuto il compito dal Signore d’illuminare il mondo con il loro germe di vita quali ‘case di tutti’ e di relazioni alternative, correva il rischio di ridiventare luogo di conflitti, giudizio, castigo, condanna.

«Così anche il Padre mio celeste farà a voi, se non condonerete ciascuno al proprio fratello dal vostro cuore» (v.35).

 

Il Perdono divino diventa efficace e palese solo nella testimonianza della Chiesa dove sorelle e fratelli - invece che mostrarsi pignoli, si colgono sospinti e si lasciano guidare da una Visione di nuovi cieli e nuova terra.

Per questo - senza sforzo alcuno, anzi benedicendo le necessità altrui come territori di energie preparatorie - essi vivono la comunione delle risorse e condonano i debiti anche materiali, che poi sono una miseria.

In caso contrario, dovremmo sempre vivere nell’incombenza di un Dio indulgente forse, ma a tempo, che ritratta il fare misericordia.

Sarebbe una vita senza sviluppi da stupore, tutta appesantita nella palude dei pochi spiccioli.

È invece l’energia attiva della Fede quella che non ci condanna ad arrancare.

 

La magnanimità che esce dagli automatismi sposta il nostro sguardo e ci porta un’Onda ineffabile e crescente, molto più avanti di quanto possiamo immaginare.

I nostri cedimenti stanno preparando nuovi sviluppi - quelli che contano, senza limitazioni.

 

L’alternativa “vittoria-o-sconfitta” è falsa: bisogna uscirne.

 

 

[Giovedì 19.a sett. T.O. 14 agosto 2025]

(Mt 18,21-19,1)

 

In tutto il medio Oriente antico la rappresaglia non sproporzionata (uno a uno, non crudele) era legge sacra.

Perdonare era un atteggiamento umiliante e assurdo, principio incomprensibile per chiunque vivesse una qualsiasi ingiustizia o un dramma.

Viceversa, nella dinamica della Fede, perdonare diventa un potere, che non solo rende l’aria respirabile, ma attiva il nostro destino personale.

Il Vangelo secondo Mt dedica massima attenzione al tema del perdono e la necessità di ricomporre le frizioni interne alla chiesa, dove ciascuno sembra voler schiacciare l’altro - anche solo per invidia spirituale.

Ci si chiede: c’è una differente contropartita al principio pagano della giustizia retributiva [uncuique jus suum] che andando sino agli estremi finisce per accentuare le divisioni?

Qual è il comportamento più ragionevole per chi è stato accolto da Dio, e condonato anche in modo esorbitante?

Non è sufficiente contrapporre un valore bonario pur nobile, anzi eccelso - ma per questo motivo, fuori scala - se escludesse il tempo d’un cammino, l’orizzonte dello sviluppo che infine soppianta [e non semplicemente sorvoli: cosiddetto “essere positivi”].

Unica soluzione priva di vendette sopite è avere il senso dell’incommensurabile, del gratuito preveniente - ricevuto senza merito né condizioni; in vista di percorsi nuovi.

Bisogna anzitutto rendersi conto che l’elemento decisivo per vincere gli ostacoli non sono le nostre forze o un volontarismo indotto, che straziano sia noi stessi che i fratelli, e l’atmosfera di convivialità.

Solo un’emozione da capogiro può integrare le pulsioni e tutti gli affetti, e far affiorare i germi delle passioni che danno le vertigini.

Estasi personali o esterne; sconosciute e trascurate o inespresse, cui non abbiamo ancora concesso spazio.

Infatti, nel sommario di tutti i giorni ci pare normale opporre reazioni immediate e violare le situazioni con sfrontatezza, poi allestire il finimondo per lievi inosservanze altrui - con la pretesa pure di soffocare i responsabili dei nonnulla.

Ovviamente, anche subito dopo che nel rito abbiamo supplicato e promesso.

 

Mt propone sfumature anche paradossali sul perdono - sempre collocando le sue catechesi su un piano d’impagabile, nell’ottica della Fede sponsale e creativa.

E v’insiste in diversi passi, perché le comunità cui si rivolge sono ben misere; ancora radicate nella grettezza della religiosità antica.

Come capita non solo nei gruppi legati al bagaglio della tradizione dei “padri” - non del Padre - i membri delle comunità di Galilea e Siria vivevano come affronto la normalità degli screzi, delle opinioni diverse e tutti i conflitti.

Sembra incredibile, ma chi si sente in possesso d’una patente d’immunità [legata a miti futuribili o sacre inibizioni, freni vetusti e osservanze o progetti cosmici di sovvertimento astratto] fa più difficoltà a introdursi nella logica minuta della coesistenza, del confronto - della sproporzione, del senza-confine, del Dono che favorisce la stessa convivenza.

 

Pietro vuole sapere i limiti del perdono (v.21).

Storicamente, al termine del primo secolo si era riaffacciato nei credenti lo stile schizzinoso, severo, della sinagoga e dell’Impero [«divide et impera»].

Nasceva e si riproponeva la domanda: bisognerà fermarsi nell’accogliere?

In aggiunta, nelle stesse chiese si ricominciava a pensare che qualcuno avesse peccato di lesa maestà verso chi - ormai duro e senza cuore - era abituato a farsi riverire.

Veterani che ne combinavano più di altri e poi facevano i puntigliosi su minuzie altrui (i fratelli deboli, considerati sottoposti, e destinati al rigore fiscale dei moralismi nonché delle penitenze).

 

Il debitore insolvibile del Vangelo se la prende con chi gli deve pochi spiccioli?

Il Perdono eccessivo del Dio vivo e vero si può manifestare al mondo solo attraverso una comunità che innalza rancori e rapporti su un nuovo piano - semplicemente più normale.

Dice il Tao Tê Ching (x): «Fa’ vivere le creature e nutrile, falle vivere e non tenerle come tue; opera e non aspettarti nulla, falle crescere e non governarle. Questa è la misteriosa virtù».

A commento, scrive il maestro Wang Pi: «Il Tao in eterno non agisce, le creature da sé si trasformano. Non ostruire la loro sorgente, non ostacolare la loro natura. Le creature da sé s’accrescono e si soddisfano».

Aggiunge il maestro Ho-shang Kung: «Il Tao fa crescere e nutre le diecimila creature, ma non le danneggia governandole come se fossero strumenti. L’attuazione della virtù da parte del Tao è misteriosa e oscura, né può essere scrutata. Vuole indurre gli uomini a essere come il Tao».

 

Ancora oggi, la pratica legalista esaspera i difetti minuti, ma l’esperienza stessa della sproporzione tra il perdono ricevuto dal Padre e quello che siamo in grado di offrire ai fratelli, fa capire la necessità dell’indulgenza.

Tolleranza vissuta, in situazione; non solo in linea di principio.

Ancor più nel tempo della crisi globale, la Chiesa dovrebbe essere questo spazio dell’esperienza di Dio che restituisce vita. Luogo alternativo di fraternità meno dozzinale, meno sofisticata.

 

La società imperiale era dura e senza compassione, priva di spazio per i piccoli e malfermi, che senza troppe pretese cercavano un qualsiasi rifugio per il cuore - ma nessuna religione dava risposta al loro bisogno di comprensione.

Anche le sinagoghe identificavano benedizioni materiali e spirituali. Ammantate di esigenze previe, norme di purità e adempimenti, esse non offrivano il tepore d’un luogo accogliente per i deboli.

Il guaio era che nelle stesse prime comunità cristiane alcuni puntavano i piedi sul rigore delle norme.

Consuetudini e gerarchie cui erano abituati, pretendendo convivenze improntate al modello giudaizzante - o secondo durezza di principi schematici, disincarnati, privi di presa.

Inoltre, come testimonia la lettera di Giacomo, verso la fine del primo secolo già iniziavano a manifestarsi nelle chiese di Cristo le identiche divisioni della società attorno, fra indigenti e benestanti!

Lo spazio di accoglienza delle comunità che nello Spirito avevano avuto il compito dal Signore d’illuminare il mondo con il loro germe di vita quali Case di tutti, di relazioni alternative, correva il rischio di ridiventare luogo di conflitti, giudizio, castigo, condanna.

Come al solito: nessuna Buona Novella per i minimi, ovunque sfiancati. 

E questo clima inqualificabile seminava morte anche per gli altri, persino più fortunati - ma intrappolati nella dura realtà.

Cosa fare?

Funzione educativa fondamentale della Chiesa è tuttora includere; far comprendere che l’iniziativa può essere solo del creditore (vv.21-22.27.33): anch’egli uno “smarrito” (v.25).

Unicamente per opera intima di consapevolezza nella Fede, si valica la spietatezza delle competizioni, della giustizia retributiva.

Non c’è saggezza nel fare i pretenziosi inclementi, pur di sentirsi qualcuno (vv.28-30).

 

I nostri cedimenti stanno preparando nuovi sviluppi - quelli che contano, senza limitazioni.

«Così anche il Padre mio celeste farà a voi, se non condonerete ciascuno al proprio fratello dal vostro cuore» (v.35).

Il Perdono divino diventa efficace e palese nella testimonianza della Chiesa dove sorelle e fratelli, invece che mostrarsi puntigliosi, si colgono sospinti.

Si lasciano guidare da una Visione di nuovi cieli e nuova terra.

Per questo - senza sforzo alcuno, anzi benedicendo le necessità altrui come territori di energie preparatorie - essi vivono la comunione delle risorse e condonano i debiti anche materiali, che poi sono una miseria.

In caso contrario, dovremmo sempre vivere nell’incombenza di un Dio del contraccambio.

E in tal guisa lo riveleremmo: indulgente forse, ma a tempo; che ritratta il «misericordiare» - direbbe Papa Francesco.

Quindi: a vita sotto la sferza degli aguzzini, propugnatori anche dell’esistenza a modo, ma artificiosa. Fatta di scambi senza fantasia.

Un inferno di meschinità anticipato, che sottostima e ridicolizza la Misura dell’Evangelo. Lieta Novella che va insieme con le differenze.

 

Anche il pareggio delle remissioni non ci salverebbe dall’offesa (questa sì enorme) della stasi che livella le essenze - quindi dalla rovina.

È bello e fruttuoso vivere nello squilibrio della gratuità, piuttosto che nel dare e avere. Succede anche con Dio.

Mediante il perdono, non solo miglioriamo l’atmosfera ossessiva e attestiamo di credere - ad es. nella Croce - bensì costruiamo un’esperienza duttile e plasmabile, con pienezza di recuperi e di essere. 

Da stupore; apertura, flessibilità, sproporzione.

Il resto permane solo commento.

Eco d’un soggetto che si propone banalmente di ratificare il “contratto”.

Traccia d’un ambiente che permane lì dov’è - sino a quando non lascerà subentrare forze inedite.

Sarebbe una vita senza sviluppi meravigliosi, tutta appesantita nel «do ut des» e nella palude dei pochi spiccioli.

È invece l’energia attiva della Fede, quella che supera i patti definiti. E non ci condanna ad arrancare.

La magnanimità sempre in aumento che esce dagli automatismi sposta lo sguardo dei piccoli tagli.

Porta un’Onda ineffabile e crescente. Molto più avanti di quanto possiamo immaginare.

 

L’alternativa “vittoria-o-sconfitta” è falsa: bisogna uscirne.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Sai vivere nello squilibrio della gratuità?

Acceleri e giudichi, o percepisci e attendi?

Costitutivo della tua vita di Fede è il dare e avere tipico della religione banale, o la consapevolezza che sei tenuto a riversare l’eco di ciò che il Padre ti ha già stra-donato?

Qual è lo spazio di conciliazione della tua realtà?

Cosa intendi in concreto per Vangelo?

 

 

Perdono e Fede: Incontro vivo

 

Gratis eccentrico, in avanti: Sacramento dell’umanità come tale

(Lc 17,1-6)

 

La conoscenza di Dio non è un bene di confisca o una scienza acquisita e già pignorata: muove da un’azione e un’altra, incessantemente; si realizza in un Incontro sempre vivo, che non ci blocca né dissolve.

Tipica, l’esperienza dei «piccoli» [mikròi v.2]. Sin dalle prime comunità di fede, essi sono stati coloro cui mancavano sicurezze ed energie; instabili e senz’appoggio.

Da sempre, «Piccoli» sono gli incipienti; i nuovi, che hanno sentito parlare di fraternità cristiana, ma che talora sono costretti a mettersi in fila, da parte, o rinunciare al cammino.

Ma il criterio di accoglienza, tolleranza, comunione anche di beni materiali, è stato il primo e principale catalizzatore della crescita delle assemblee.

Addirittura la scaturigine e il senso di tutte le formule e segni della liturgia.

Il centro esistenziale e ideale cui convergere. Per una Fede proattiva e in se stessa trasformativa.

 

Nello Spirito del Maestro, anche per noi la conciliazione degli attriti non si configura come semplice opera di magnanimità.

È inizio del mondo futuro. Principio di un’avventura imprevedibile e indicibile. E noi con esso d’improvviso rinati: venuti a un franco contatto nel Cristo. Colui che non ci spegne affatto.

Di qui il Perdono cristiano dei figli, che non è… “guardare positivo”, e “chiudere un occhio”: piuttosto, Novità di Dio che crea un ambiente di Grazia, propulsivo, con possibilità enormi.

Forza che irrompe e lascia incontrare paradossalmente i poli oscuri, invece di scuoterli di dosso. Eliminando in modo genuino paragoni, parole e zavorre inutili, che bloccano l’Esodo trasparente.

Dinamica che guida all’indispensabile e imprescindibile: onde spostare lo sguardo. Insegnando ad accorgersi dei propri isterismi, conoscersi, affrontare l’ansia, il suo motivo; a gestire situazioni e momenti di crisi.

Virtù plasmabile che pone in ascolto intimo dell’essenza personale.

Quindi Empatia solida, larga, che introduce nuove energie; fa incontrare i propri stati profondi, perfino la vita standard… suscitando altri saperi, diverse prospettive, relazioni inattese.

Così senza troppa lotta ci rinnova, e argina la perdita di veracità [tipica, quella in favore delle maniere di circostanza]. Accentua capacità e gli orizzonti della Pace - sgretolando primati, equilibri paludosi.

La scoperta di nuovi versanti dell’essere che siamo, trasmette un senso di migliore completezza, quindi spontaneamente argina influssi esterni, scioglie pregiudizi, non fa agire su base emotiva, impulsiva.

Colloca piuttosto nella posizione che mette in grado di rivelare il senso nascosto e sbalorditivo dell’essere. Dispiegando l’orizzonte cruciale.

 

Attivare «Perdono» è gratuitamente una restituzione in sovraggiunta del proprio ventaglio caratteriale, di tutta la dignità perduta, e ben oltre.

Deponendo le sentenze, l’arte della tolleranza dilata lo sguardo [anche intimo]. Migliora e potenzia i lati spenti; quelli che noi stessi avevamo detestato.

In tal guisa eccentrica trasforma i considerati lontani o mediocri [mikroi] in battistrada, e geniali inventori. Perché ciò che ieri era impensato, domani sarà di chiarificazione e traino.

Le confusioni acquisteranno un senso - proprio grazie al pensiero delle menti in crisi, e per l’azione dei disprezzati, intrusi, fuori d’ogni giro e prevedibilità.

Vita di pura Fede nello Spirito: ossia, la fantasia dei “fiacchi”… al potere.

Perché è il meccanismo paradossale che fa valutare i crocevia della storia, attiva le passioni, crea condivisione, risolve i veri problemi.

E dunque soppianta in avanti i momenti difficili (riportandoci al vero percorso) orientando la realtà al bene concreto.

Facendola volare verso se stessa.

 

L’alternativa “vittoria-o-sconfitta” è falsa: bisogna uscirne. È in tale “vuoto” e Silenzio che Dio si fa strada.

Mistero della Presenza, che trabocca. Nuova Alleanza.

Le parole pronunciate da Gesù, dopo l'invocazione «Padre», riprendono un'espressione del Salmo 31: «Alle tue mani affido il mio spirito» (Sal 31,6). Queste parole, però, non sono una semplice citazione, ma piuttosto manifestano una decisione ferma: Gesù si «consegna» al Padre in un atto di totale abbandono. Queste parole sono una preghiera di «affidamento», piena di fiducia nell’amore di Dio. La preghiera di Gesù di fronte alla morte è drammatica come lo è per ogni uomo, ma, allo stesso tempo, è pervasa da quella calma profonda che nasce dalla fiducia nel Padre e dalla volontà di consegnarsi totalmente a Lui. Nel Getsemani, quando era entrato nella lotta finale e nella preghiera più intensa e stava per essere «consegnato nelle mani degli uomini» (Lc 9,44), il suo sudore era diventato «come gocce di sangue che cadono a terra» (Lc 22,44). Ma il suo cuore era pienamente obbediente alla volontà del Padre, e per questo «un angelo dal cielo» era venuto a confortarlo (cfr Lc 22,42-43). Ora, negli ultimi istanti, Gesù si rivolge al Padre dicendo quali sono realmente le mani a cui Egli consegna tutta la sua esistenza. Prima della partenza per il viaggio verso Gerusalemme, Gesù aveva insistito con i suoi discepoli: «Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini» (Lc 9,44). Adesso, che la vita sta per lasciarlo, Egli sigilla nella preghiera la sua ultima decisione: Gesù si è lasciato consegnare «nelle mani degli uomini», ma è nelle mani del Padre che Egli pone il suo spirito; così – come afferma l’Evangelista Giovanni – tutto è compiuto, il supremo atto di amore è portato sino alla fine, al limite e al di là del limite.

Cari fratelli e sorelle, le parole di Gesù sulla croce negli ultimi istanti della sua vita terrena offrono indicazioni impegnative alla nostra preghiera, ma la aprono anche ad una serena fiducia e ad una ferma speranza. Gesù che chiede al Padre di perdonare coloro che lo stanno crocifiggendo, ci invita al difficile gesto di pregare anche per coloro che ci fanno torto, ci hanno danneggiato, sapendo perdonare sempre, affinché la luce di Dio possa illuminare il loro cuore; e ci invita a vivere, nella nostra preghiera, lo stesso atteggiamento di misericordia e di amore che Dio ha nei nostri confronti: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori», diciamo quotidianamente nel «Padre nostro». Allo stesso tempo, Gesù, che nel momento estremo della morte si affida totalmente nelle mani di Dio Padre, ci comunica la certezza che, per quanto dure siano le prove, difficili i problemi, pesante la sofferenza, non cadremo mai fuori delle mani di Dio, quelle mani che ci hanno creato, ci sostengono e ci accompagnano nel cammino dell’esistenza, perché guidate da un amore infinito e fedele. Grazie.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 15 febbraio 2012]

2. Il perdono! Cristo ci ha insegnato a perdonare. Molte volte e in vari modi Egli ha parlato di perdono. Quando Pietro gli chiese quante volte avrebbe dovuto perdonare al suo prossimo, "fino a sette volte?", Gesù rispose che doveva perdonare "fino a settanta volte sette" (Mt 18,21s). Ciò vuol dire, in pratica, sempre: infatti il numero "settanta" per "sette" è simbolico, e significa, più che una quantità determinata, una quantità incalcolabile, infinita. Rispondendo alla domanda su come bisogna pregare, Cristo pronunciò quelle magnifiche parole indirizzate al Padre: "Padre nostro che sei nei cieli"; e tra le richieste che compongono questa preghiera, l’ultima parla del perdono: "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo" a coloro che sono colpevoli nei nostri riguardi (= "ai nostri debitori"). Infine Cristo stesso confermò la verità di queste parole sulla Croce, quando, volgendosi al Padre, supplicò: "Perdonali!", "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34).

"Perdono" è una parola pronunciata dalle labbra di un uomo, al quale è stato fatto del male. Anzi, essa è la parola del cuore umano. In questa parola del cuore ognuno di noi si sforza di superare la frontiera dell’inimicizia, che può separarlo dall’altro, cerca di ricostruire l’interiore spazio d'intesa, di contatto, di legame. Cristo ci ha insegnato con la parola del Vangelo, e soprattutto col proprio esempio, che questo spazio si apre non solo davanti all’altro uomo, ma in pari tempo davanti a Dio stesso. Il Padre, che è Dio di perdono e di misericordia, desidera agire proprio in questo spazio del perdono umano, desidera perdonare coloro, che sono reciprocamente capaci di perdonare, coloro che cercano di mettere in pratica quelle parole: "Rimetti a noi... come noi rimettiamo".

Il perdono è una grazia, alla quale si deve pensare con umiltà e gratitudine profonde. Esso è un mistero del cuore umano, sul quale è difficile diffondersi.

5. Cristo ci ha insegnato a perdonare. Il perdono è indispensabile anche perché Dio possa porre alla coscienza umana degli interrogativi, ai quali attende risposta in tutta la verità interiore.

In questo tempo, in cui tanti uomini innocenti periscono per le mani di altri uomini, pare imporsi uno speciale bisogno di avvicinarsi a ciascuno di coloro che uccidono, avvicinarsi col perdono nel cuore ed insieme con la stessa domanda che Dio, Creatore e Signore della vita umana, pose al primo uomo che aveva attentato alla vita del fratello e gliel aveva tolta – aveva tolto ciò che è proprietà solo del Creatore e del Signore della vita.

Cristo ci ha insegnato a perdonare. Ha insegnato a Pietro a perdonare "fino a settanta volte sette" ( Mt 18,22). Dio stesso perdona quando l’uomo risponde alla domanda rivolta alla sua coscienza e al suo cuore con tutta linteriore verità della conversione.

Lasciando a Dio stesso il giudizio e la sentenza nella sua dimensione definitiva, non cessiamo di chiedere: "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori".

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 21 ottobre 1981]

Il brano evangelico […] (cfr Mt 18,21-35) ci offre un insegnamento sul perdono, che non nega il torto subito ma riconosce che l’essere umano, creato ad immagine di Dio, è sempre più grande del male che commette. San Pietro domanda a Gesù: «Se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (v. 21). A Pietro sembra già il massimo perdonare sette volte a una stessa persona; e forse a noi sembra già molto farlo due volte. Ma Gesù risponde: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (v. 22), vale a dire sempre: tu devi perdonare sempre. E lo conferma raccontando la parabola del re misericordioso e del servo spietato, nella quale mostra l’incoerenza di colui che prima è stato perdonato e poi si rifiuta di perdonare.

Il re della parabola è un uomo generoso che, preso da compassione, condona un debito enorme – “diecimila talenti”: enorme – a un servo che lo supplica. Ma quello stesso servo, appena incontra un altro servo come lui che gli deve cento denari – cioè molto meno –, si comporta in modo spietato, facendolo gettare in prigione. L’atteggiamento incoerente di questo servo è anche il nostro quando rifiutiamo il perdono ai nostri fratelli. Mentre il re della parabola è l’immagine di Dio che ci ama di un amore così ricco di misericordia da accoglierci, e amarci e perdonarci continuamente.

Fin dal nostro Battesimo Dio ci ha perdonati, condonandoci un debito insolvibile: il peccato originale. Ma, quella è la prima volta. Poi, con una misericordia senza limiti, Egli ci perdona tutte le colpe non appena mostriamo anche solo un piccolo segno di pentimento. Dio è così: misericordioso. Quando siamo tentati di chiudere il nostro cuore a chi ci ha offeso e ci chiede scusa, ricordiamoci delle parole del Padre celeste al servo spietato: «Io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» (vv. 32-33). Chiunque abbia sperimentato la gioia, la pace e la libertà interiore che viene dall’essere perdonato può aprirsi alla possibilità di perdonare a sua volta.

Nella preghiera del Padre Nostro, Gesù ha voluto inserire lo stesso insegnamento di questa parabola. Ha messo in relazione diretta il perdono che chiediamo a Dio con il perdono che dobbiamo concedere ai nostri fratelli: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). Il perdono di Dio è il segno del suo straripante amore per ciascuno di noi; è l’amore che ci lascia liberi di allontanarci, come il figlio prodigo, ma che attende ogni giorno il nostro ritorno; è l’amore intraprendente del pastore per la pecora perduta; è la tenerezza che accoglie ogni peccatore che bussa alla sua porta. Il Padre celeste – nostro Padre – è pieno, è pieno di amore e vuole offrircelo, ma non lo può fare se chiudiamo il nostro cuore all’amore per gli altri.

La Vergine Maria ci aiuti ad essere sempre più consapevoli della gratuità e della grandezza del perdono ricevuto da Dio, per diventare misericordiosi come Lui, Padre buono, lento all’ira e grande nell’amore.

[Papa Francesco, Angelus 17 settembre 2017]

In mezzo ai riconciliati: il cambiamento di rotta e di sorte nel Regno

(Mt 18,15-20)

 

«Il verbo che l'evangelista usa per "si accorderanno" è synphōnēsōsin: c'è il riferimento ad una "sinfonia" dei cuori» [Papa Benedetto].

Questa nuova energia plasmabile ha una misteriosa presa sul cuore della realtà - che sempre è più forte di noi; svolge la trama e propone, ma qui viceversa ci accoglie.

Ovvero ci disturba con un disagio… che però è già la terapia. Perché ogni lacrima guida verso gli strati profondi del nostro essere primordiale, del nostro seme e del suo mondo di relazioni proprie.

E allora l’anima si scioglie, diventa meno tortuosa, segue un’indicazione che non pensava; ritrova la strada inebriante delle sintonie profonde, abbandona il sentiero scadente.

Predilige la Via che le corrisponde, più delle identificazioni: tutti gli idoli che prima avevano il sopravvento, i quali - malgrado le apparenze - battagliavano con la nostra destinazione essenziale.

E senza fuggire da se stessi, ma solo dalle convenzioni esterne, ‘insieme’ si può passare dall’unilateralità alla completezza, dalla banalità alla pienezza; al motivo per cui siamo al mondo; al destino dell’essere che siamo.

Forse non riuscivamo prima a percepirlo, perché l’occhio rimbalzava tra le pareti della solita domesticazione.

E il pensiero effimero, assuefatto, non distruggeva l’idea [senza percezione] di noi stessi; idea senz’ascolto, che non svaniva.

 

La correzione fraterna ci stringe alla gola, ma è quell’amarezza che riporta l’essenziale; è quell’ansia (se accolta) che ci cura davvero.

 

Mt suggerisce il dialogo, che tenta di capire i motivi dell’altro.

In effetti, nelle prime realtà giudeo cristiane il clima era forse eccessivamente scrupoloso.

Quindi era previsto pure il distacco dalla comunità, ma permaneva la consapevolezza che il peccatore non era comunque un separato da Dio, anche ‘fuori’ della chiesa particolare: «Dove sono due o tre riuniti nel mio Nome» (v.20).

È il centro della nuova concezione pedagogica - non più “religiosa” e di massa, ma di Fede viva e personale.

L’espressione «nel mio Nome» sta a indicare che Gesù stesso ha avuto il suo bel daffare coi giudicanti del suo tempo.

Tutto reale. Anche una esclusione può unire a Lui e farlo rivivere concretamente, altroché.

Se il Cristo vero - non vago - resta il perno della fraternità, il Padre concederà il ritorno del fratello che si è escluso.

Ovviamente, ciò può avvenire solo se l’allontanato sperimenta che per primi i responsabili di comunità cercano il confronto umano - ricalcando la stessa posizione del Maestro: «in mezzo».

Equidistanti da tutti, e ogni tanto con un bel ricambio di mansioni.

Chi ancora oggi ci fa vedere Gesù vivo non sta al di “sopra” degli altri; non si fa capofila, né si colloca “davanti” [in modo che qualcuno sia vicino e altri sempre lontani].

Gente fra la gente. Siamo chiamati a ritrovare la saldatura tra onore a Dio e amore per le sorelle e i fratelli.

L’amore chiama amore, il perdono attira spontaneamente perdono - non per sforzo, non per buone maniere o dovere, bensì come canale per far entrare nel mondo nuove energie preparatorie e colpi di scena.

 

Fragrante segno della Chiesa è il rovesciamento dei ruoli e delle sorti.

 

 

[Mercoledì 19.a sett. T.O.  13 agosto 2025]

In mezzo ai riconciliati: il cambiamento di rotta e di sorte nel Regno

(Mt 18,15-20)

 

«Il verbo che l'evangelista usa per "si accorderanno" è synphōnēsōsin: c'è il riferimento ad una "sinfonia" dei cuori» [papa Benedetto, Vespri a conclusione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, 25 gennaio 2006].

Questa nuova energia plasmabile ha una misteriosa presa sul cuore della realtà - che sempre è più forte di noi; svolge la trama e propone, ma qui viceversa ci accoglie.

Ovvero ci disturba con un disagio… che però è già la terapia. Perché ogni lacrima guida verso gli strati profondi del nostro essere primordiale, del nostro seme e del suo mondo di relazioni proprie.

E allora l’anima si scioglie, diventa meno tortuosa, segue un’indicazione che non pensava; ritrova la strada inebriante delle sintonie profonde, abbandona il sentiero scadente.

Predilige la Via che le corrisponde, più delle identificazioni: tutti gli idoli che prima avevano il sopravvento, i quali - malgrado le apparenze - battagliavano con la nostra destinazione essenziale.

- Senza fuggire da se stessi, ma solo dalle convenzioni esterne, Insieme si può passare dall’unilateralità alla completezza, dalla banalità alla pienezza; al motivo per cui siamo al mondo; al destino dell’essere che siamo.

Forse non riuscivamo prima a percepirlo, perché l’occhio rimbalzava tra le pareti della solita domesticazione.

E il pensiero effimero, assuefatto, non distruggeva l’idea [senza percezione] di noi stessi; idea senz’ascolto, che non svaniva.

 

La correzione fraterna ci stringe alla gola, ma è quell’amarezza che riporta l’essenziale; è quell’ansia (se accolta) che ci cura davvero.

 

Dopo la distruzione di Gerusalemme si andava facendo crescente la contrapposizione fra mondo della sinagoga e nuove fraternità in Cristo.

I convertiti al Signore Gesù delle comunità giudaizzanti di Galilea e Siria vivevano un momento di grande tensione, anche all’interno delle famiglie di provenienza.

Nel contempo, stava iniziando l’afflusso di pagani, che via via accentuavano il distacco col giudaismo - sia nel confronto esterno, tra sinagoga ed ‘ecclesìa’, che nel dibattito interno alle piccole assemblee.

Non era affatto semplice ricostruire i rapporti e porre in dialogo persone di estrazione differente, con un bagaglio culturale segnato dall’adesione a forme di religiosità arcaica; devozione che rendeva ostinati in tutto.

Ma il Risorto vede lontano.

Nello spirito di Fede che soppianta le grettezze delle convinzioni impulsive o idolatriche, Mt cerca di sostenere la convivialità delle differenze nelle sue comunità.

L’evangelista lo fa ponendo l’accento sulla riconciliazione, e la giusta posizione di coloro che desideravano farsi segno vivo della Presenza del Signore.

Alle soglie delle minuscole chiese i nuovi spesso non riuscivano a trovare una serena accoglienza; piuttosto dovevano subire esami e trafile da parte di veterani malfidi, e vivere in clima di sospetto.

I primi della classe, sempre puntigliosi a difesa delle loro credenze e posizioni di spicco, sentivano la presenza di alcuni fratelli di fede (più liberi di loro) come un ingombro e un peso.

Molti pagani inizialmente fiduciosi e motivati da aspettative di candore si stavano anche allontanando, indispettiti dal clima diffidente dei rigoristi. Legalisti che di fatto tendevano a riprodurre la medesima atmosfera competitiva delle religioni antiche.

Altre defezioni erano motivate anche dal sorgere di zone d’ombra e scandali interni.

Alcuni forse approfittavano della gestione dei beni, o malgrado la conversione formale rimanevano egoisti e trattenevano il proprio - usurpando la dignità dei minimi e deturpando l’atmosfera di cordialità.

Quasi tutti costoro [gli stessi che volevano mettere i nuovi o gli erranti alle strette] sgomitavano per le precedenze, creando un clima di risentimento che accentuava gli attriti e attenuava la Fede, sino poi storicamente a rovinarla.

 

Mt suggerisce il dialogo, che tenta di capire i motivi dell’altro.

In effetti, nelle prime realtà giudeo cristiane il clima era forse eccessivamente scrupoloso. [In seguito la scomunica è diventata anche un’arma...].

Quindi era previsto pure il distacco dalla comunità, ma permaneva la consapevolezza che il peccatore non era comunque un separato da Dio, anche ‘fuori’ della chiesa particolare: «Dove sono due o tre riuniti nel mio Nome...» (v.20).

È il centro della nuova concezione pedagogica - non più “religiosa” e di massa, ma di Fede viva e personale.

L’espressione «nel mio Nome» sta a indicare che Gesù stesso ha avuto il suo bel daffare coi giudicanti del suo tempo.

Tutto reale. Anche una esclusione può unire a Lui e farlo rivivere concretamente, altroché.

Se il Cristo vero - non vago - resta il perno della fraternità, il Padre concederà il ritorno del fratello che si è escluso.

Ovviamente, ciò può avvenire solo se l’allontanato sperimenta che per primi i responsabili di comunità cercano il confronto umano - non fare i principini, anzi ricalcare la stessa posizione del Maestro: «in mezzo».

Equidistanti da tutti, e ogni tanto con un bel ricambio di mansioni - evento previsto dal nuovo diritto canonico, ma totalmente disatteso sul territorio - perché ancora solo dei prescelti possono di fatto mettere il naso nelle cose che contano, e mani e piedi nei ruoli di spicco.

Chi ancora oggi ci fa vedere Gesù vivo non sta al di “sopra” degli altri; non si fa capofila, né si colloca “davanti” [in modo che qualcuno sia vicino e altri sempre lontani].

Gente fra la gente. Siamo chiamati a ritrovare la saldatura tra onore a Dio e amore per le sorelle e i fratelli - non solo di fede conforme.

L’amore chiama amore, il perdono attira spontaneamente perdono - non per sforzo, non per buone maniere o dovere, bensì come canale per far entrare nel mondo nuove energie preparatorie e colpi di scena.

 

Fragrante segno della Chiesa è il rovesciamento dei ruoli e delle sorti. L’alternativa “vittoria-o-sconfitta” è falsa: bisogna uscirne.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa convince le persone a perdonare o fare correzione fraterna, forse l’esempio di gratuità e il modo di collocarsi dei responsabili di chiesa? 

Fra loro si correggono amabilmente o c’è invidia e attrito?

Nella tua comunità chi dice di rappresentare Cristo è in mezzo o sempre capofila e capotavola?

Il verbo che l'evangelista usa per "si accorderanno" è synphōnēsōsin: c'è il riferimento ad una "sinfonia" dei cuori. È questo che ha presa sul cuore di Dio. L'accordo nella preghiera risulta dunque importante ai fini del suo accoglimento da parte del Padre celeste. Il chiedere insieme segna già un passo verso l'unità tra coloro che chiedono. Ciò non significa certamente che la risposta di Dio venga in qualche modo determinata dalla nostra domanda. Lo sappiamo bene: l'auspicato compimento dell'unità dipende in primo luogo dalla volontà di Dio, il cui disegno e la cui generosità superano la comprensione dell'uomo e le sue stesse richieste ed attese. Contando proprio sulla bontà divina, intensifichiamo la nostra preghiera comune per l'unità, che è un mezzo necessario e quanto mai efficace, come ha ricordato Giovanni Paolo II nell'Enciclica Ut unum sint: "Sulla via ecumenica verso l'unità, il primato spetta senz'altro alla preghiera comune, all'unione orante di coloro che si stringono insieme attorno a Cristo stesso" (n. 22).

Analizzando poi più profondamente questi versetti evangelici, comprendiamo meglio la ragione per cui il Padre risponderà positivamente alla domanda della comunità cristiana: "Perché - dice Gesù - dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro". È la presenza di Cristo che rende efficace la preghiera comune di coloro che sono riuniti nel suo nome. Quando i cristiani si raccolgono per pregare, Gesù stesso è in mezzo a loro. Essi sono uno con Colui che è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini. La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si riferisce proprio a questo passo del Vangelo per indicare uno dei modi della presenza di Cristo: "Quando la Chiesa prega e canta i Salmi, è presente Lui che ha promesso: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io  sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20)" (Sacrosanctum Concilium, 7).

[Papa Benedetto, Vespri 25 gennaio 2006]

4. «Venite e vedrete». Incontrerete Gesù là dove gli uomini soffrono e sperano: nei piccoli villaggi disseminati lungo i continenti, apparentemente ai margini della storia, come era Nazaret quando Dio inviò il suo Angelo a Maria; nelle immense metropoli dove milioni di esseri umani vivono spesso come estranei. Ogni uomo, in realtà, è «concittadino» di Cristo.

Gesù abita accanto a voi, nei fratelli con cui condividete l'esistenza quotidiana. Il suo volto è quello dei più poveri, degli emarginati, vittime non di rado di un ingiusto modello di sviluppo, che pone il profitto al primo posto e fa dell'uomo un mezzo anziché un fine. La casa di Gesù è dovunque un uomo soffre per i suoi diritti negati, le sue speranze tradite, le sue angosce ignorate. Là, tra gli uomini, è la casa di Cristo, che chiede a voi di asciugare, in suo nome, ogni lacrima e di ricordare a chi si sente solo che nessuno è mai solo se ripone in Lui la propria speranza (Cfr. Mt 25, 31-46).

5. Gesù abita tra quanti lo invocano senza averlo conosciuto; tra quanti, avendo iniziato a conoscerLo, senza loro colpa Lo hanno smarrito; tra quanti lo cercano con cuore sincero, pur appartenendo a situazioni culturali e religiose differenti (Cfr. Lumen gentium, 16). Discepoli e amici di Gesù, fatevi artefici di dialogo e di collaborazione con quanti credono in un Dio che governa con infinito amore l'universo; diventate ambasciatori di quel Messia che avete trovato e conosciuto nella sua «casa», la Chiesa, in modo che tanti altri vostri coetanei possano seguirne le tracce, illuminati dalla vostra fraterna carità e dalla gioia dei vostri sguardi che hanno contemplato il Cristo.

Gesù abita tra gli uomini e le donne «insigniti del nome cristiano» (Cfr. Lumen gentium, 15). Tutti lo possono incontrare nelle Scritture, nella preghiera e nel servizio al prossimo. Alla vigilia del terzo millennio, diventa ogni giorno più urgente il dovere di riparare lo scandalo della divisione tra i cristiani, rafforzando l'unità per mezzo del dialogo, della preghiera comune e della testimonianza. Non si tratta di ignorare le divergenze e i problemi nel disimpegno di un tiepido relativismo, perché sarebbe come coprire la ferita senza guarirla, col rischio di interrompere il cammino prima di aver raggiunto la meta della piena comunione. Si tratta, al contrario, di operare - guidati dallo Spirito Santo - in vista di una reale riconciliazione, confidando nell'efficacia della preghiera pronunciata da Gesù alla vigilia della sua passione: «Padre, che siano come noi una cosa sola» (Cfr. Gv 17, 22). Più vi stringerete a Gesù, più diventerete capaci di essere vicini gli uni agli altri; e nella misura in cui compirete gesti concreti di riconciliazione, entrerete nell'intimità del suo amore.

Gesù abita particolarmente nelle vostre parrocchie, nelle comunità in cui vivete, nelle associazioni e nei movimenti ecclesiali di cui fate parte, come pure in tante forme contemporanee di aggregazione e di apostolato al servizio della nuova evangelizzazione. La ricchezza di tanta varietà di carismi torna a beneficio dell'intera Chiesa e spinge ogni credente a mettere le proprie potenzialità al servizio dell'unico Signore, fonte di salvezza per tutta l'umanità.

7. Gesù vive in mezzo a noi nell'Eucaristia, nella quale si realizza in maniera somma la sua presenza reale e la sua contemporaneità con la storia dell'umanità. Fra le incertezze e distrazioni della vita quotidiana, imitate i discepoli in cammino verso Emmaus e, come loro, dite al Risorto che si rivela nell'atto di spezzare il pane: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino» (Lc 24, 29). Invocate Gesù, perché lungo le strade delle tante Emmaus dei nostri tempi rimanga sempre con voi. Sia Lui la vostra forza, Lui il vostro punto di riferimento, Lui la vostra perenne speranza. Non manchi mai, cari giovani, il Pane eucaristico sulle mense della vostra esistenza. E' da questo Pane che potrete trarre la forza per testimoniare la fede!

Attorno alla mensa eucaristica si realizza e si manifesta l'armoniosa unità della Chiesa, mistero di comunione missionaria, nella quale tutti si sentono figli e fratelli, senza preclusioni o differenze di razza, lingua, età, ceto sociale o cultura. Cari giovani, date il vostro contributo generoso e responsabile per edificare continuamente la Chiesa come famiglia, luogo di dialogo e di reciproca accoglienza, spazio di pace, di misericordia e di perdono.

[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio in occasione della XII Giornata Mondiale della Gioventù, da Castel Gandolfo 15 agosto 1996]

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In the divine attitude justice is pervaded with mercy, whereas the human attitude is limited to justice. Jesus exhorts us to open ourselves with courage to the strength of forgiveness, because in life not everything can be resolved with justice. We know this (Pope Francis)
Nell’atteggiamento divino la giustizia è pervasa dalla misericordia, mentre l’atteggiamento umano si limita alla giustizia. Gesù ci esorta ad aprirci con coraggio alla forza del perdono, perché nella vita non tutto si risolve con la giustizia; lo sappiamo (Papa Francesco)
The Second Vatican Council's Constitution on the Sacred Liturgy refers precisely to this Gospel passage to indicate one of the ways that Christ is present:  "He is present when the Church prays and sings, for he has promised "where two or three are gathered together in my name there am I in the midst of them' (Mt 18: 20)" [Sacrosanctum Concilium, n. 7]
La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si riferisce proprio a questo passo del Vangelo per indicare uno dei modi della presenza di Cristo: "Quando la Chiesa prega e canta i Salmi, è presente Lui che ha promesso: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io  sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20)" [Sacrosanctum Concilium, 7]
This was well known to the primitive Christian community, which considered itself "alien" here below and called its populated nucleuses in the cities "parishes", which means, precisely, colonies of foreigners [in Greek, pároikoi] (cf. I Pt 2: 11). In this way, the first Christians expressed the most important characteristic of the Church, which is precisely the tension of living in this life in light of Heaven (Pope Benedict)
Era ben consapevole di ciò la primitiva comunità cristiana che si considerava quaggiù "forestiera" e chiamava i suoi nuclei residenti nelle città "parrocchie", che significa appunto colonie di stranieri [in greco pàroikoi] (cfr 1Pt 2, 11). In questo modo i primi cristiani esprimevano la caratteristica più importante della Chiesa, che è appunto la tensione verso il cielo (Papa Benedetto)
A few days before her deportation, the woman religious had dismissed the question about a possible rescue: “Do not do it! Why should I be spared? Is it not right that I should gain no advantage from my Baptism? If I cannot share the lot of my brothers and sisters, my life, in a certain sense, is destroyed” (Pope John Paul II)
Pochi giorni prima della sua deportazione la religiosa, a chi le offriva di fare qualcosa per salvarle la vita, aveva risposto: "Non lo fate! Perché io dovrei essere esclusa? La giustizia non sta forse nel fatto che io non tragga vantaggio dal mio battesimo? Se non posso condividere la sorte dei miei fratelli e sorelle, la mia vita è in un certo senso distrutta" (Papa Giovanni Paolo II)
By willingly accepting death, Jesus carries the cross of all human beings and becomes a source of salvation for the whole of humanity. St Cyril of Jerusalem commented: “The glory of the Cross led those who were blind through ignorance into light, loosed all who were held fast by sin and brought redemption to the whole world of mankind” (Catechesis Illuminandorum XIII, 1: de Christo crucifixo et sepulto: PG 33, 772 B) [Pope Benedict]
Accettando volontariamente la morte, Gesù porta la croce di tutti gli uomini e diventa fonte di salvezza per tutta l’umanità. San Cirillo di Gerusalemme commenta: «La croce vittoriosa ha illuminato chi era accecato dall’ignoranza, ha liberato chi era prigioniero del peccato, ha portato la redenzione all’intera umanità» (Catechesis Illuminandorum XIII,1: de Christo crucifixo et sepulto: PG 33, 772 B) [Papa Benedetto]

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