don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Giovedì, 21 Agosto 2025 04:35

Il martirio di San Giovanni Battista

Cari fratelli e sorelle,

[…] ricorre la memoria liturgica del martirio di san Giovanni Battista, il precursore di Gesù. Nel Calendario Romano, è l’unico Santo del quale si celebra sia la nascita, il 24 giugno, sia la morte avvenuta attraverso il martirio. Quella odierna è una memoria che risale alla dedicazione di una cripta di Sebaste, in Samaria, dove, già a metà del secolo IV, si venerava il suo capo. Il culto si estese poi a Gerusalemme, nelle Chiese d’Oriente e a Roma, col titolo di Decollazione di san Giovanni Battista. Nel Martirologio Romano, si fa riferimento ad un secondo ritrovamento della preziosa reliquia, trasportata, per l’occasione, nella chiesa di S. Silvestro a Campo Marzio, in Roma.

Questi piccoli riferimenti storici ci aiutano a capire quanto antica e profonda sia la venerazione di san Giovanni Battista. Nei Vangeli risalta molto bene il suo ruolo in riferimento a Gesù. In particolare, san Luca ne racconta la nascita, la vita nel deserto, la predicazione, e san Marco ci parla della sua drammatica morte nel Vangelo di oggi. Giovanni Battista inizia la sua predicazione sotto l’imperatore Tiberio, nel 27-28 d.C., e il chiaro invito che rivolge alla gente accorsa per ascoltarlo, è quello a preparare la via per accogliere il Signore, a raddrizzare le strade storte della propria vita attraverso una radicale conversione del cuore (cfr Lc 3, 4). Però il Battista non si limita a predicare la penitenza, la conversione, ma, riconoscendo Gesù come «l’Agnello di Dio» venuto a togliere il peccato del mondo (Gv 1, 29), ha la profonda umiltà di mostrare in Gesù il vero Inviato di Dio, facendosi da parte perché Cristo possa crescere, essere ascoltato e seguito. Come ultimo atto, il Battista testimonia con il sangue la sua fedeltà ai comandamenti di Dio, senza cedere o indietreggiare, compiendo fino in fondo la sua missione. San Beda, monaco del IX secolo, nelle sue Omelie dice così: San Giovanni Per [Cristo] diede la sua vita, anche se non gli fu ingiunto di rinnegare Gesù Cristo, gli fu ingiunto solo di tacere la verità. (cfr Om. 23: CCL 122, 354). E non taceva la verità e così morì per Cristo che è la Verità. Proprio per l’amore alla verità, non scese a compromessi e non ebbe timore di rivolgere parole forti a chi aveva smarrito la strada di Dio.

Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio, dalla preghiera, che è il filo conduttore di tutta la sua esistenza. Giovanni è il dono divino lungamente invocato dai suoi genitori, Zaccaria ed Elisabetta (cfr Lc 1,13); un dono grande, umanamente insperabile, perché entrambi erano avanti negli anni ed Elisabetta era sterile (cfr Lc 1,7); ma nulla è impossibile a Dio (cfr Lc 1,36). L’annuncio di questa nascita avviene proprio nel luogo della preghiera, al tempio di Gerusalemme, anzi avviene quando a Zaccaria tocca il grande privilegio di entrare nel luogo più sacro del tempio per fare l’offerta dell’incenso al Signore (cfr Lc 1,8-20). Anche la nascita del Battista è segnata dalla preghiera: il canto di gioia, di lode e di ringraziamento che Zaccaria eleva al Signore e che recitiamo ogni mattina nelle Lodi, il «Benedictus», esalta l’azione di Dio nella storia e indica profeticamente la missione del figlio Giovanni: precedere il Figlio di Dio fattosi carne per preparargli le strade (cfr Lc 1,67-79). L’esistenza intera del Precursore di Gesù è alimentata dal rapporto con Dio, in particolare il periodo trascorso in regioni deserte (cfr Lc 1,80); le regioni deserte che sono luogo della tentazione, ma anche luogo in cui l’uomo sente la propria povertà perché privo di appoggi e sicurezze materiali, e comprende come l’unico punto di riferimento solido rimane Dio stesso. Ma Giovanni Battista non è solo uomo di preghiera, del contatto permanente con Dio, ma anche una guida a questo rapporto. L’Evangelista Luca riportando la preghiera che Gesù insegna ai discepoli, il «Padre nostro», annota che la richiesta viene formulata dai discepoli con queste parole: «Signore insegnaci a pregare, come Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (cfr Lc 11,1).

Cari fratelli e sorelle, celebrare il martirio di san Giovanni Battista ricorda anche a noi, cristiani di questo nostro tempo, che non si può scendere a compromessi con l’amore a Cristo, alla sua Parola, alla Verità. La Verità è Verità, non ci sono compromessi. La vita cristiana esige, per così dire, il «martirio» della fedeltà quotidiana al Vangelo, il coraggio cioè di lasciare che Cristo cresca in noi e sia Cristo ad orientare il nostro pensiero e le nostre azioni. Ma questo può avvenire nella nostra vita solo se è solido il rapporto con Dio. La preghiera non è tempo perso, non è rubare spazio alle attività, anche a quelle apostoliche, ma è esattamente il contrario: solo se se siamo capaci di avere una vita di preghiera fedele, costante, fiduciosa, sarà Dio stesso a darci capacità e forza per vivere in modo felice e sereno, superare le difficoltà e testimoniarlo con coraggio. San Giovanni Battista interceda per noi, affinché sappiamo conservare sempre il primato di Dio nella nostra vita. Grazie.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 29 agosto 2012]

Giovedì, 21 Agosto 2025 04:29

Scorrere attraverso l’uomo interiore

Il primo e principale significato della penitenza è interiore, spirituale. Il principale sforzo della penitenza consiste “nell’entrare in se stesso”, nella propria entità più profonda, entrare in questa dimensione della propria umanità in cui, in un certo senso, ci attende Dio. L’uomo “esteriore” deve – direi – cedere, in ognuno di noi, all’uomo “interiore” e, in un certo senso, “lasciargli il posto”. Nella vita corrente l’uomo non vive abbastanza “interiormente”. Gesù Cristo indica chiaramente che anche gli atti di devozione e di penitenza (come digiuno, elemosina, preghiera) che per la loro finalità religiosa sono principalmente “interiori”, possono cedere all’“esteriorismo” corrente, e quindi possono essere falsificati. Invece la penitenza, come conversione a Dio, richiede soprattutto che l’uomo respinga le apparenze, sappia liberarsi dalla falsità e ritrovarsi in tutta la sua verità interiore. Anche uno sguardo rapido, sommario, nel divino fulgore è già un successo. Bisogna però abilmente consolidare questo successo mediante un lavoro sistematico su se stessi. Tale lavoro viene chiamato “ascesi” (così lo avevano già denominato i Greci dei tempi delle origini del cristianesimo). Ascesi vuol dire sforzo interiore per non lasciarsi rapire e spingere dalle diverse correnti “esteriori”, così da rimanere sempre se stessi e conservare la dignità della propria umanità.

Però il Signore Gesù ci chiama a far ancora qualcosa di più. Quando dice “entra nella tua camera e chiudi la porta”, indica uno sforzo ascetico dello spirito umano, che non deve terminare nell’uomo stesso. Quel chiudersi è, nello stesso tempo, la più profonda apertura del cuore umano. È indispensabile allo scopo di incontrarsi col Padre, e per questo deve essere intrapreso. “Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. Qui si tratta di riacquistare la semplicità del pensiero, della volontà e del cuore, che è indispensabile per incontrarsi nel proprio “io” interiore con Dio. E Dio attende ciò, per avvicinarsi all’uomo internamente raccolto e nel contempo aperto alla sua parola e al suo amore! Dio desidera comunicarsi all’anima così disposta. Desidera donarle la verità e l’amore, che hanno in lui la vera sorgente.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 28 febbraio 1979]

Giovedì, 21 Agosto 2025 04:15

Strade parallele

Un uomo, Giovanni, e una strada, che è quella di Gesù, indicata dal Battista, ma è anche la nostra, nella quale tutti siamo chiamati al momento della prova.

Parte dalla figura di Giovanni, «il grande Giovanni: al dire di Gesù “l’uomo più grande nato da donna”» la riflessione di Papa Francesco nella messa celebrata a Santa Marta venerdì 6 febbraio. Il vangelo di Marco (6, 14-29) racconta della prigionia e del martirio di quest’«uomo fedele alla sua missione; l’uomo che ha sofferto tante tentazioni» e che «mai, mai ha tradito la sua vocazione». Un uomo «fedele» e «di grande autorità, rispettato da tutti: il grande di quel tempo».

Papa Francesco si è soffermato ad analizzare la sua figura: «Quello che gli usciva dalla bocca era giusto. Il suo cuore era giusto». Era tanto grande che «Gesù dirà anche di lui che “è Elia che è tornato, per pulire la casa, per preparare il cammino”». E Giovanni «era cosciente che il suo dovere era soltanto annunziare: annunziare la prossimità del Messia. Lui era cosciente, come ci fa riflettere sant’Agostino, che lui era la voce soltanto, la Parola era un altro». Anche quando «è stato tentato di “rapinare” questa verità, lui è rimasto giusto: “Io non sono, dietro di me viene, ma io non sono: io sono il servo; io sono il servitore; io sono quello che apre le porte, perché lui venga».

A questo punto il Pontefice ha introdotto il concetto di strada, perché, ha ricordato: «Giovanni è il precursore: precursore non solo della entrata del Signore nella vita pubblica, ma di tutta la vita del Signore». Il Battista «va avanti nel cammino del Signore; dà testimonianza del Signore non soltanto mostrandolo — “È questo!”— ma anche portando la vita fino alla fine come l’ha portata il Signore». E finendo la vita «col martirio» è stato «precursore della vita e della morte di Gesù Cristo».

Il Papa ha continuato a riflettere su queste strade parallele lungo le quali «il grande» soffre «tante prove e diventa piccolo, piccolo, piccolo, piccolo fino al disprezzo». Giovanni, come Gesù, «si annienta, conosce la strada dell’annientamento. Giovanni con tutta quella autorità, pensando alla sua vita, comparandola con quella di Gesù, dice alla gente chi è lui, come sarà la sua vita: “Conviene che lui cresca, io invece debbo diminuire”». È questa, ha sottolineato il Papa, «la vita di Giovanni: diminuire davanti a Cristo, perché Cristo cresca». È «la vita del servo che fa posto, fa strada perché venga il Signore».

La vita di Giovanni «non è stata facile»: infatti, «quando Gesù ha incominciato la sua vita pubblica», egli era «vicino agli Esseni, cioè agli osservanti della legge, ma anche delle preghiere, delle penitenze». Così, a un certo punto, nel periodo in cui era in carcere, «ha sofferto la prova del buio, della notte nella sua anima». E quella scena, ha commentato Francesco, «commuove: il grande, il più grande manda da Gesù due discepoli per domandargli: “Ma Giovanni ti domanda: sei tu o ho sbagliato e dobbiamo aspettare un altro?”». Lungo la strada di Giovanni si è affacciato quindi «il buio dello sbaglio, il buio di una vita bruciata nell’errore. E questa per lui è stata una croce».

Alla domanda di Giovanni «Gesù risponde con le parole di Isaia»: il Battista «capisce, ma il suo cuore rimane nel buio». Ciò nonostante si presta alle richieste del re, «al quale piaceva sentirlo, al quale piaceva portare avanti una vita adultera», e «quasi diventava un predicatore di corte, di questo re perplesso». Ma «lui si umiliava» perché «pensava di convertire quest’uomo».

Infine, ha detto il Papa, «dopo questa purificazione, dopo questo calare continuo nell’annientamento, facendo strada all’annientamento di Gesù, finisce la sua vita». Quel re da perplesso «diventa capace di una decisione, ma non perché il suo cuore sia stato convertito»; piuttosto «perché il vino gli dà coraggio».

E così Giovanni finisce la sua vita «sotto l’autorità di un re mediocre, ubriaco e corrotto, per il capriccio di una ballerina e per l’odio vendicativo di un’adultera». Così «finisce il grande, l’uomo più grande nato da donna», ha commentato Francesco che ha confessato: «Quando io leggo questo brano, mi commuovo». E ha aggiunto una considerazione utile alla vita spirituale di ogni cristiano: «Penso a due cose: primo, penso ai nostri martiri, ai martiri dei nostri giorni, quegli uomini, donne, bambini che sono perseguitati, odiati, cacciati via dalle case, torturati, massacrati». E questa, ha sottolineato, «non è una cosa del passato: oggi succede questo. I nostri martiri, che finiscono la loro vita sotto l’autorità corrotta di gente che odia Gesù Cristo». Perciò «ci farà bene pensare ai nostri martiri. Oggi pensiamo a Paolo Miki, ma quello è successo nel 1600. Pensiamo a quelli di oggi, del 2015».

Il Pontefice ha proseguito aggiungendo che questo brano lo spinge anche a riflettere su se stesso: «Anche io finirò. Tutti noi finiremo. Nessuno ha la vita “comprata”. Anche noi, volendo o non volendo, andiamo sulla strada dell’annientamento esistenziale della vita». E ciò, ha detto, lo spinge «a pregare che questo annientamento assomigli il più possibile a Gesù Cristo, al suo annientamento».

Si chiude così il cerchio della meditazione di Francesco: «Giovanni, il grande, che diminuisce continuamente fino al nulla; i martiri, che diminuiscono oggi, nella nostra Chiesa di oggi, fino al nulla; e noi, che siamo su questa strada e andiamo verso la terra, dove tutti finiremo». In questo senso la preghiera finale del Papa: «Che il Signore ci illumini, ci faccia capire questa strada di Giovanni, il precursore della strada di Gesù; e la strada di Gesù, che ci insegna come deve essere la nostra».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 07.02.2015]

Mercoledì, 20 Agosto 2025 12:49

21a Domenica T.O. (anno C)

XXI Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [24 agosto 2025]

 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Utile in questi tempi rileggere questi testi biblici alla luce di quanto sta succedendo nel Medio Oriente.

 

*Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia (66,18-21)

I profeti parlano in nome di Dio e gli ascoltatori lo sanno bene, ma quando vogliono sottolineare l’importanza delle loro affermazioni, ricordano che si tratta proprio della parola del Signore, quindi di qualcosa di molto importante, e in questo brano ci sono almeno due grandi annunci: la dimensione universale del progetto di Dio “ Io verrò a radunare”, e il ruolo del piccolo resto dei credenti, “i superstiti”,  gli scampati che fra lo scoraggiamento generale conservano la fede.  Mentre il primo Isaia o Michea (VIII secolo a.C.) annunciavano soltanto la salvezza del “piccolo Resto d’Israele”, durante e dopo l’esilio (VI secolo) Israele scopre la dimensione universale del progetto di Dio e impara a considerare la propria elezione non come un privilegio esclusivo, ma come una vocazione. Questo è un discorso nuovo perché pone in luce il ruolo missionario che Dio affidata a Israele al servizio dell’intera umanità, la dimensione universale del progetto di Dio: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue” e più sorprendente ancora: “essi verranno e vedranno la mia gloria” (v.18). Il termine gloria indica il fulgore della presenza di Dio (letteralmente in ebraico «peso»). Dio non ha bisogno  che noi lo gloriamo; siamo invece noi a diventare felici quando viviamo nell’alleanza d’amore con Lui. “Vedranno la mia gloria” significa riconoscerlo come unico Dio liberando l’umanità da ogni forma di idolatria. E il testo continua: “Manderò i loro superstiti alle popolazioni più lontane… questi messaggeri annunceranno la mia gloria alle genti .. ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti, come offerta al Signore…al mio santo santo di Gerusalemme”(v.20). Ecco realizzata la vocazione del popolo eletto: essere luce delle nazioni, perché la salvezza giunga fino all’estremità della terra (cf Is 49,6). Questa è anche la vocazione della Chiesa, popolo di Dio chiamato a testimoniare la verità di Dio nel mondo, anche se non sostituisce Israele: annunciare la gloria di Dio a tutti i popoli, testimoniare il vangelo che illumina la vita: “Io porrò in essi un segno” (v.19) e in questa luce comprendiamo quel che Gesù dirà: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me (Gv 12,32). L’ultima frase è un terzo annuncio importante: non solo i popoli si avvicineranno al Signore, ma “anche tra loro prenderò sacerdoti e leviti” (v.21), il che significa che non saranno più richieste le condizioni abituali per il sacerdozio e ogni essere umano può avvicinarsi al Dio vivente. Si capisce perché qualche versetto prima della lettura di questa domenica, Isaia invitava a rallegrarsi Gerusalemme tutti quelli che l’amano perché il Signore farà “scorrere verso di essa, come un fiume, la pace, e come un torrente in piena la gloria delle nazioni” (Is 66,10…12).

Alcune Note *Scrive sant’Agostino: «Chi sarebbe tanto folle da credere che Dio abbia bisogno dei sacrifici che gli si offrono? Il culto reso a Dio giova all’uomo e non a Dio. Non è alla sorgente che giova se vi si beve, né alla luce se la si vede» (La città di Dio, X, 5-6).

*Nel Terzo Isaia (profeta del dopo l’silio) si ritrova la teologia del “resto salvatore”, di cui leggiamo una traccia nel Salmo 39/40: “Molti vedranno, avranno timore e confideranno nel Signore” (Sal 39/40,4) da accostare all’annuncio che troviamo qui in Isaia (vv20-21) 

*Nella Bibbia, non sempre si parla delle nazioni in modo positivo e il termine è carico di significati talvolta decisamente negativi: Il libro del Deuteronomio, ad esempio, parla delle “abominazioni delle nazioni” (18,9-12) a causa delle loro pratiche religiose in generale e i sacrifici umani in particolare. Nella pedagogia biblica, il popolo eletto viene guidato a restare fedele a Dio, a scoprire il volto del Dio unico, evitando ogni contatto con le nazioni a rischio di contagio idolatrico. Questa visione positiva è già con Abramo: «In te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gn 12,3). Con fede più salda, Israele scoprirà l’universalismo del progetto di Dio comprendendo progressivamente di essere il fratello maggiore, non il figlio unico con il ruolo di aprire a tutta l’umanità la via verso il suo Dio: se Dio è l’unico vero Dio, è il Dio di tutti.

 

Salmo responsoriale 116/117

Questo salmo è più breve del salterio che potrebbe riassumersi in una sola parola: Alleluia, ultima parola del salmo, ma anche la prima, poiché, Lodate il Signore (v. 1) equivale a Alleluia: “Allelu” è imperativo: Lodate e “Ia” è la prima sillaba del nome di Dio. L’obiettivo dell’intero salterio, che significa “Lodi” (in ebraico Tehillim), deriva dalla stessa radice di Alleluia. Ecco il commento che i rabbini fanno dell’Alleluia: “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre allo splendore, dalla schiavitù alla redenzione. Per questo, cantiamo davanti a lui l’Alleluia». “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà”: è ciò che Dio ha fatto per il suo popolo, ma è anche il progetto di Dio per tutta l’umanità. La salvezza del suo popolo è l’inizio e promessa di ciò che Dio farà per tutta l’umanità quando annunciò ad Abramo: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3). E già Salomone lo aveva sognato: «Tutti i popoli della terra, come il tuo popolo Israele, riconosceranno il tuo Nome e ti adoreranno» (1Re 8,41-43; cfr. la prima lettura). Da qui la struttura di questo salmo, molto semplice ma suggestiva: “Lodate Dio”(v.1); “Poiché ha dimostrato il suo amore (v.2)”. Guardando più da vicino, leggiamo: “Lodate Dio, voi tutte le nazioni”(v.1); Per la sua opera a favore del suo popolo: “Poiché ha dimostrato il suo amore per noi”. Qui il «poiché» è molto importante: quando le nazioni vedranno ciò che Dio ha fatto per noi, crederanno. In altre parole: poiché Dio ha dato prova di sé salvando il suo popolo, le altre nazioni potranno credere in lui. Lo stesso ragionamento si trova nel Salmo 39/40 (XX domenica dell’anno C) dove il salmista dice: “Dio mi ha tratto dalla fossa della morte… vedendo questo, molti saranno presi da timore e confideranno nel Signore” (Sal 39/40,4). Allo stesso modo, il Salmo 125/126 canta, a proposito dell’esilio a Babilonia: «Allora si diceva fra le nazioni: Grandi cose ha fatto il Signore per loro!» (Sal 125/126,2). Questa idea si incontra più volte nei profeti: quando il popolo è nella disgrazia, le altre nazioni possono dubitare della potenza di Dio. È in questo senso che Ezechiele osa dire che l’esilio a Babilonia è una vergogna per Dio e arriva perfino ad affermare che l’esilio del popolo di Dio “profanava” il nome di Dio, mentre la liberazione, al contrario, sarà davanti a tutti la prova della sua potenza liberatrice. Questo lo porta a proclamare, in pieno esilio babilonese: “Mostrerò la santità del mio grande nome, profanato fra le nazioni, che voi avete profanato in mezzo a loro; allora le nazioni sapranno che io sono il Signore…quando avrò mostrato la mia santità in voi sotto i loro occhi” (Ez 36,23; 36,36). Riconoscere il Nome di Dio nel linguaggio biblico significa scoprire il Dio di tenerezza e fedeltà rivelato a Mosè (Es 34,6): tenerezza e fedeltà che Israele ha sperimentato lungo tutta la sua storia. Questo è il senso del secondo versetto del salmo: ” forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore  dura per sempre”.  Ultima osservazione: questo salmo fa parte dell’Hallel (dal salmo 112/113 a 117/118) e occupa un posto particolare nella liturgia di Israele perché la sua recitazione segue il pasto pasquale. Gesù stesso lo ha cantato la sera del Giovedì Santo e  i vangeli di Matteo e Marco ne fanno eco (cf. Mt 26,30; Mc 14,26). Possiamo ripetere anche noi: “Ha dimostrato il suo amore per noi” ascoltando Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13)  e “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

 

Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (12, 5-7.11-13)

I destinatari della Lettera agli Ebrei, cristiani che attraversano un periodo di forte persecuzione, hanno già molto sofferto per la loro fede, come appare chiaramente nel capitolo   10,32-34. L’autore per consolarli e infondere coraggio, dice loro di non dimenticare l’esortazione a loro rivolta e si immerge nell’Antico Testamento riprendendo ciò che il profeta Isaia diceva ai suoi compatrioti esiliati in Babilonia: “Rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche” (v12). Parla loro come se anche essi vivessero un esilio e affronta il problema della sofferenza non per giustificarla o spiegarla, ma per darle un senso. Invita alla perseveranza, virtù indispensabile nei tempi della prova quando Dio come un Padre mostra il suo amore anche con modi apparentemente assurdi. L’immagine dominante è dunque quella paterno pedagogica di Dio presente nella letteratura sapienziale della Bibbia, dove la sofferenza può diventare un cammino, una prova per la fede del credente, il quale sa che, qualunque cosa accada, Dio tace, ma non è né sordo né indifferente. Al contrario, come un padre, ci accompagna su questo difficile sentiero e da ogni male ci aiuta a uscire rafforzati. Quello che sopportate è dunque una “correzione”  con richiami al libro dei Proverbi:”Non disprezzare, figlio mio, la correzione del Signore, e non stancarti delle sue riprensioni. Perché il Signore corregge colui che ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3,11-12). Per i primi cristiani, questo tema era familiare, poiché conoscevano bene il libro del Deuteronomio, che paragonava Dio a un pedagogo che accompagna la crescita di coloro che educa (cf Dt 8,2-5). Vissuta nella fiducia in Dio, la sofferenza può diventare un’occasione di testimonianza della speranza e della pace interiore che dona lo Spirito. La sofferenza può dunque diventare una scuola, in cui impariamo a vivere nello Spirito tutto ciò che accade perché, come scrive san Paolo, la tribolazione produce perseveranza, la perseveranza una virtù provata, la virtù provata la speranza che non delude grazie all’amore riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfRm 5,3-4). La sofferenza dunque fa parte della condizione umana: anche in una tale situazione Dio ci affida l’onore e la responsabilità di testimoniare la fede e, se la persecuzione fa parte del cammino della vita, non è perché Dio la voglia, ma per cause legate a comportamenti umani. Quando Gesù diceva che è necessario che  il Figlio dell’uomo soffra, non parlava di una richiesta di Dio, ma della triste realtà dell’opposizione umana e san Paolo, rivolgendosi  alle prime comunità dell’Asia Minore, anch’esse perseguitate ricordava  che dobbiamo entrare nel Regno di Dio attraverso molte tribolazioni (cf. At 14,22).

 

Dal vangelo secondo Luca (13,22-30)

  Gesù è in cammino verso Gerusalemme e, visibilmente, non perde occasione di insegnare, ma ciò che dice non è sempre quello che ci si aspetta. Qui, per esempio, qualcuno fa una domanda concernente la salvezza e lui non risponde direttamente: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” (v.23). La risposta non riguarda chi si salva, come se ci fossero in anticipo degli eletti e degli esclusi, ma quale è la condizione per entrare nel regno: passare per porta! “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrare e non ci riusciranno” (v.24). L’immagine della porta stretta è suggestiva ed eloquente: un tale eccessivamente obeso o chi si carica di pacchi ingombranti non riesce a passare per una porta stretta,  a meno che non compia una forte cura dimagrante o decida di abbandonare ogni ingombro. Il testo che segue permette di capire quale sia l’obesità spirituale e quali i bagagli con cui non si riesce a transitare.  Bussando alla porta questi diranno: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza, e tu hai insegnato nelle nostre piazze” (vv25-26). Qui Gesù denuncia la sicurezza dei suoi interlocutori, convinti che, per il solo fatto di essere nati nel popolo eletto, abbiano diritto alla salvezza e che per loro la porta si aprirà. Gesù però precisa che la porta è la stessa per tutti e allora  perché non riusciranno a passarla?  Anzi il padrone preciserà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia” (v.27). È vero che Gesù è uno di loro, che ha mangiato e bevuto con loro e ha insegnato in mezzo a loro; è vero che i loro antenati Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i profeti sono nel Regno di Dio, ma tutto ciò non dà loro diritti. L’obesità spirituale e i pesi ingombranti sono le loro certezze: non accolgono il regno di Dio come un dono, convinti di avere dei diritti. Allora appare chiara l’ultima frase: “vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi” (v30).  I primi nel disegno di Dio, come  afferma san Paolo, sono i figli d’Israele, ai quali appartengono l’adozione, la gloria, le alleanze, la Legge, il culto, le promesse, i patriarchi, ed è da loro che è nato il Cristo. (cf.Rm 9,4-5). Il popolo ebraico è il popolo dell’Alleanza per scelta sovrana di Dio come leggiamo nel Deuteronomio: «Solo ai tuoi padri il Signore si è attaccato per amarli; e dopo di loro, è la loro discendenza, cioè voi, che ha scelto fra tutti i popoli.» (Dt 10,15). E con giusto motivo, il popolo d’Israele era felice e fiero di essere scelto da Dio come è detto nel salmo 32/33: “Beata la nazione che ha il Signore per Dio. Beato il popolo che si è scelto come patrimonio… Noi aspettiamo il Signore. Egli è il nostro aiuto e il nostro scudo. La gioia del nostro cuore viene da lui e la nostra fiducia è nel suo santo nome.» (Sal 32/33,12.20-21). Ma, come ogni vocazione, la scelta di Dio è una missione: i primi invitati al regno avevano il compito di farvi entrare tutta l’umanità come Isaia ricordava più volte (cf Is 42,6; 49,5-6) perché la salvezza la raggiungesse tutta. Quando Gesù parla, loro rifiutano il suo insegnamento perché disturba le loro certezze e il loro compiacimento di sé  e quando Gesù dice loro di allontanarsi perché compiono il male non intende azioni malvagie, ma si riferisce a questa chiusura del cuore. Poco prima egli aveva guarito una donna inferma in una sinagoga di sabato e invece di gioire per la guarigione, avevano criticato il luogo e il momento. Questa stessa ottusità spirituale e visione egoistica della fede può segnare la nostra vita di cristiani. Chiudendo il cuore alla Grazia diventiamo ciechi e obesi spiritualmente perché, come alcuni contemporanei di Gesù chiusi nelle loro certezze, non riuscirono a riconoscerlo e seguirlo come il Messia. Papa Francesco ripeteva che un cuore chiuso non ascolta la voce di Dio né riconosce il volto dei fratelli.  Accogliamo allora l’invito del Signore a togliere dal nostro cuore la durezza, per ricevere in dono un cuore di carne: solo così potremo comprendere la sua volontà e annunciare il suo vangelo con gioia.

+ Giovanni D’Ercole

Mercoledì, 20 Agosto 2025 03:30

Vigilanza è adesso

(Mt 24,42-51)

 

Chiave di lettura del brano potrebbe essere la celebre espressione di s. Agostino: «Timeo Dominum transeuntem».

Incarnazione è filo diretto con la realtà e la condizione divina insieme.

 

Il tempo della persona di Fede è come stagione d’attesa, ma non di provvisorietà: piuttosto, capitalizzazione e rivolgimento continui.

Né il momento della Chiesa si configura come periodo istituzionale, un lasso di pausa - a orario, con scadenza.

Certo, non è neppure un’età d’allestimento a partire dalle nostre idee, bensì di accoglienza del Regno, che giunge nel suo Appello - oggi con proposte chiarissime (perfino nelle sue sottrazioni).

Siamo chiamati a essere pronti in ogni istante, e veloci come un ‘ladro di notte’…

Forse vuol portarci via qualcosa che crediamo assolutamente nostro, cui però siamo troppo legati.

 

Fin dalle prime generazioni di credenti sorgevano gruppi di visionari - purtroppo sprovveduti - collegati a un’idea di catastrofe imminente.

L’attesa del ‘ritorno’ subitaneo d’un Messia che doveva porre fine all’ingiustizia e realizzare il Giudizio finale, era aspettativa comune di quanti desideravano s’inaugurasse una nuova fase della storia.

Tuttavia, in nessun punto dei Vangeli è scritto: Gesù “torna”, come se si fosse allontanato.

Egli sopraggiunge, certo: «Viene» - non “ritorna”.

Nel Nuovo Testamento il Risorto è Veniente [‘o Erchòmenos] ossia Colui che irrompe, che incessantemente si rende Presente.

 

Il punto della Vita è accorgersi, percepire la Presenza di Qualcuno dentro qualcosa; nelle cose sommarie e nelle vicende di liberazione.

Anche nel dramma della rinascita dalla crisi globale.

Nessuna forma di alienazione proviene dai Vangeli: Cristo è «con-noi» in ogni momento; nel nostro impegno in favore della natura, delle culture, della vita di tutti.

L’esperienza piena, totale, di completezza, non è data nel tempo particolare.

Ma ad es. lo spirito di disinteresse che si diffonde e già rende nuove le relazioni e le cose rimane una garanzia del Regno.

Seme e preludio del nuovo mondo che la Chiesa è chiamata ad annunciare e costruire - includendolo a braccia aperte.

 

Con a centro il «Figlio dell’uomo» che «viene», passo dopo passo, non perdiamo l‘intesa.

Ogni momento è buono per acuire la perspicacia nello Spirito.

La flessibilità del cuore prevarrà sui pronostici, sugli imperativi della mente.

Ecco l’accorgersi e percepire le opportunità; aprire gli occhi, decifrare gli accadimenti, spostare lo sguardo - onde cogliere la Venuta del Signore, fiutarne il Senso, intuirla come Fonte di Speranza.

 

Nell’Eucaristia proclamiamo appunto la Venuta del Signore, perché la vita in Cristo è in ogni evento anticipazione e preparazione all’Incontro sponsale.

In ottica di Fede, qualsiasi istante critico coopera al bene.

È Chiamata e opportunità di risposta, non timore permanente.

 

 

[Giovedì 21.a sett. T.O.  28 agosto 2025]

Mercoledì, 20 Agosto 2025 03:26

Incarnazione. La Sicurezza è nella insicurezza

Venuta, Preghiera e svolta, tra fragore di flutti.

(Mt 24,37-51)

 

Che tipo di Venuta è?

E per quale motivo vogliamo che il Signore si renda presente nella nostra vita?

Attendiamo una scorciatoia - un atto di potenza - che pareggi il mare grosso in tempesta?

Infatti non sembra nello stile d’una Buona Notizia riesumare i «giorni di Noè» e il diluvio che «travolse tutti».

Ma c’è un modo sapiente per intendere queste espressioni, che non è quello già collocato nel paradigma morale delle culture religiose.

 

Nella tradizione osservante di tutti i popoli, l’insicurezza è percepita come uno svantaggio.

Secondo luoghi comuni, i maestri spirituali constatano il progresso quando un’anima dall’esistenza mescolata e disordinata supera i suoi parapiglia in favore dell’ordine e della tranquillità.

Ma l’esperienza nello Spirito è più intimamente inquieta che palese. Né è lo stesso di generica “vita spirituale” animata da un senso devoto che si distacca da istanze trasversali, per un ideale di “calma coerente”.

 

Così condizionati da un indottrinamento omologato al saper “stare in società”, attendiamo d’incontrare piamente nostro Signore nei momenti bui, ma affinché ridoni fortuna.

Lo aspettiamo nel tempo dei problemi economici, perché ci renda vantaggio con una vincita; nelle vicende umilianti, per farci risalire la china.

Nella solitudine, perché faccia incontrare la persona giusta. 

Nei pericoli… desiderando che almeno Lui trasmetta forza per ribaltare la situazione.

E nella malattia immaginiamo ridoni vigore giovanile.

Così nella babele, che (infine, almeno) comunichi relax - meglio, trionfo.

 

Nei Vangeli Gesù cerca di far capire ai suoi dove e quando incontrare autenticamente Dio.

Ma nell’attesa delle sue «Promesse» - e che si manifesti addirittura come nuova Giustizia, senza più «l’arte della guerra» [prima Lettura] - facciamo difficoltà a procedere oltre l’esteriore.

Proiettiamo le nostre idee anche in religione - però la Fede se ne distacca. Valuta con mentalità opposta.

Ad esempio, capita di non riuscire a incontrare un amico perché sbagliamo tempi e luoghi dell’appuntamento.

Succede anche con Dio.

L’insicurezza proclamata dai Vangeli somiglia proprio a un «diluvio che porta via tutto» [cf. v.39]… ma si tratta di Lieta Novella!

Sebbene tendiamo a dare un senso di permanenza a ciò che abbiamo vissuto e credevamo di “essere”, ripetutamente sperimentiamo che le nostre certezze mutano - proprio come i flutti.

 

Gesù insegna che la vera dubbiosità sorge paradossalmente da un qualche nostro identificativo che tenta (comicamente) di pareggiare le onde della vita.

Invece l’essenza di ciascuno sgorga da una Sorgente vivace, che tutti i giorni fa quel che deve.

Abitudini, visuali, modi di essere rassicuranti di stare con le persone e affrontare situazioni, tagliano fuori la ricchezza delle nostre sfumature preziose; buona parte dei nostri stessi volti.

E nascite e ringiovanimenti che ci appartengono.

L’impatto interiore delle molte sollecitazioni di questo Nucleo cosmico [e personale] insinua uno squilibrio inevitabile e fecondo, che rischiamo però d’interpretare in modo negativo; appunto, come fastidio.

Nella mente dell’uomo che schiva le oscillazioni, quel genere di «onda» che viene per farci ragionare sulle cose antiche è subito identificata come pericolo identitario.

La stessa Provvidenza - l’«onda» che vede avanti - è forse bollata d’inquietudine, anche da chi ci consiglia.

Nell’uomo ideale come cesellato dai moralismi normalizzanti, l’«acqua» paludosa delle pulsioni è quella che sporca e trascina a terra. E il Cielo sarebbe sempre limpido e netto “sopra” la terra.

Invece spesso è il pensiero, un’identificazione culturale a monte, che produce insicurezza e tormento.

Il pregiudizio ci vessa ben più della realtà oggettiva, che scende in campo per rinfrescare la nostra anima e renderla lieve come la «spuma del mare» crudamente incarnata.

 

Per una evoluzione verso il miglioramento, Gesù vuole un discepolo permeabile alle Novità che scuotono l’antico «status».

La mancanza di dubbio che il Signore intende trasmettere non fa rima con il meccanismo delle abitudini.

La certezza che desidera donarci non è quella falsa - dell’immutabilità pigra di cose sempre uguali.

Lo stato di difesa e “prevenzione” sarà forse caratteristica d’una vita trascorsa nel ripiegamento interessato, che dribbla gli scossoni - non cifra della Vita nello Spirito.

 

Il Vangelo di oggi augura ai credenti di essere fortemente critici, e pure insicuri: non dice «tu devi essere così», né «tu sei questo» - «noi ce l’abbiamo fatta, perché non tu?».

[L’identità di s. Benedetto non è quella di s. Francesco, sebbene siano entrambe figure radicate a fondo (come le circostanze) nella medesima Sorgente; Fonte originaria, però di Acqua zampillante].

 

Bisogna tuffarsi nei «flutti», bisogna conoscere queste «onde»; perché il nostro punto fermo non è nelle cose esterne o che lasciamo notare in vetrina, ma alla Scaturigine dell’Essere.

La scorza delle apparenze condanna alla peggiore fluttuazione, alla meno vantaggiosa delle insicurezze: credere che mantenendo (ad es.) i livelli economici o il prestigio, raggiungendo quel traguardo, scalando il tabellone dei titoli, così via, eviteremo frustrazioni, scanseremo angosce, saremo finalmente senza contrasti e persino felici.

Ma in tal guisa la nostra anima non si rafforza, né vola verso territori ancora sconosciuti; piuttosto, si posa nel recinto dell’aia più omologante.

Invece siamo vivi, e la giovinezza che conquista il Regno viene dal caos dei sommovimenti.

I missionari sono animati da questa sola sicurezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel «fragore del mare e dei flutti» dove nessuna onda somiglia alle altre.

 

Insomma, sulla base della Parola di Dio, forse anche il colore liturgico viola dovrebbe assumere una reinterpretazione - assai più vitale, graffiante e profonda di quella che pensavamo di aver capito.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Avvento: per quale motivo vuoi che il Signore Venga e si renda Presente nella tua vita? 

 

 

Vigilanza è adesso

(Mt 24,42-51)

 

Chiave di lettura del brano potrebbe essere la celebre espressione di s. Agostino: «Timeo Dominum transeuntem». Incarnazione è filo diretto con la realtà e la condizione divina insieme.

Il tempo della persona di Fede è come stagione d’attesa, ma non di provvisorietà: piuttosto, capitalizzazione e rivolgimento continui.

Né il momento della Chiesa si configura come periodo istituzionale, un lasso di pausa - a orario, con scadenza.

Certo, non è neppure un’età d’allestimento a partire dalle nostre idee, bensì di accoglienza del Regno, che giunge nel suo Appello - oggi con proposte chiarissime (perfino nelle sue sottrazioni).

Siamo chiamati a essere pronti in ogni istante, e veloci come un “ladro di notte”… forse vuol portarci via qualcosa che crediamo assolutamente nostro, cui però siamo troppo legati.

Fin dalle prime generazioni di credenti sorgevano gruppi di visionari - purtroppo sprovveduti - collegati a un’idea di catastrofe imminente.

L’attesa del “ritorno” subitaneo d’un Messia che doveva porre fine all’ingiustizia e realizzare il Giudizio finale, era aspettativa comune di quanti desideravano s’inaugurasse una nuova fase della storia.

Tuttavia, in nessun punto dei Vangeli è scritto: Gesù “torna”, come se si fosse allontanato. Egli sopraggiunge, certo: «Viene» - non “ritorna”.

Nel Nuovo Testamento il Risorto è Veniente [‘o Erchòmenos] ossia Colui che irrompe, che incessantemente si rende Presente.

La fine del mondo e il ritorno del Signore su una nuvola bianca è una suggestione che ancora oggi viene usata per intimidire la gente semplice e condizionarla a gruppi di fanatici. I social networks ne sono colmi.

Il punto della Vita è accorgersi, percepire la Presenza di Qualcuno dentro qualcosa, nelle cose sommarie e nelle vicende di liberazione; anche nel dramma della rinascita dalla crisi globale.

Nessuna forma di alienazione proviene dai Vangeli: Cristo è con-noi in ogni momento, nel nostro impegno in favore della natura, delle culture e della vita di tutti.

L’esperienza piena, totale, di completezza, non è data nel tempo particolare. Ma ad es. lo spirito di disinteresse che si diffonde e già rende nuove le relazioni e le cose rimane una garanzia del Regno.

Seme e preludio del nuovo mondo che la Chiesa è chiamata ad annunciare e costruire - includendolo a braccia aperte.

Con a centro il «Figlio dell’uomo» che «viene», passo dopo passo, non perdiamo l‘intesa.

Ogni momento è buono per acuire la perspicacia nello Spirito. La flessibilità del cuore prevarrà sui pronostici, sugli imperativi della mente.

Ecco l’accorgersi e percepire le opportunità; aprire gli occhi, decifrare gli accadimenti, spostare lo sguardo - onde cogliere la Venuta del Signore, fiutarne il Senso, intuirla come fonte di Speranza.

Nell’Eucaristia proclamiamo appunto la Venuta del Signore, perché la vita in Cristo è in ogni evento anticipazione e preparazione all’Incontro sponsale.

In ottica di Fede, qualsiasi istante critico coopera al bene. È Chiamata e opportunità di risposta, non timore permanente.

 

 

Figlio dell’uomo

 

«Figlio dell’uomo» non è dunque un titolo “religioso” o selettivo, ma una possibilità per tutti coloro che danno adesione alla proposta di vita del Signore, e la reinterpretano in modo creativo.

Essi superano i fermi e propri confini naturali, facendo spazio al Dono; accogliendo da Dio pienezza di essere, nei suoi nuovi, irripetibili binari.

Sentendosi totalmente e immeritatamente amati, scoprono altre sfaccettature, cambiano il modo di stare con se stessi, e possono crescere: si realizzano, fioriscono e irradiano la completezza ricevuta.

 

Uscendo dall’idea scarsa o statica che abbiamo di noi - problema grave in molte anime sensibili e dedite - anche la personalità relazionale può iniziare a immaginare.

E sognare, scoprire di poter non dare più peso a coloro che vogliono plagiare il cammino di persona (in pienezza di essere e vocazione).

Chi attiva l’idea di potercela fare, trasmette poi la forza dello Spirito che ha ricevuto e accolto, e il mondo fiorisce.

Emanando una differente atmosfera, la persona integrata nei suoi lati anche opposti, sente nascere consapevolezze, crea progetti, emette e attrae altre energie; le fa attivare.

Dio vuole estendere l’ambito in cui “regna” - rapportandosi in modo interpersonale - a tutta l’umanità… Chiesa senza confini visibili, che inizierà con il «Figlio dell’uomo» (figura non esclusiva di Gesù).

 

Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33). Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.

[Papa Benedetto, Concistoro 24 novembre 2012]

 

Con l’immagine del Figlio d’uomo, già il profeta Daniele voleva indicare un ribaltamento dei criteri di autenticità (umana e divina): un uomo o un popolo, leader, finalmente dal cuore di carne invece che di belva.

Nell’icona del “Figlio dell’uomo” gli evangelisti desiderano far trapelare e innescare il trionfo dell’umano sul disumano, la progressiva scomparsa di tutto ciò che blocca la comunicazione di vita piena.

Il Popolo che riluce in modo divino non si trova più impigliato da paure o isterismi, anzi porta al massimo tutta la sua variegata potenzialità d’amore, di effusione di vita.

«Figlio dell’uomo» - realtà possibile - è chiunque raggiunga pienezza, fioritura della capacità di essere, nell’estensione dei rapporti… entrando in sintonia con la sfera di Dio Creatore, Amante della vita.

Lo fa nelle sue variegate sfaccettature, e si fonde con Lui - diventando Uno. Creando abbondanza.

«Figlio dell’uomo» è l’uomo che si comporta sulla terra come farebbe Dio stesso, che rende presente il divino e la sua forza nella storia.

Quindi può permettersi di sostituire la cupa seriosità dell’essere pio e sottoposto, con la sapiente spensieratezza che rende tutto lieve.

«Figlio dell’uomo» raffigura il massimo dell’umano, la Persona per eccellenza - che diventa liberante invece che opprimente.

Le conseguenze sono inimmaginabili, perché ciascuno di noi in Cristo (e per i fratelli) non ha più percorsi morti da rifare.

 

 

«"Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà" (Mt 24,42). Gesù, che nel Natale è venuto tra noi e tornerà glorioso alla fine dei tempi, non si stanca di visitarci continuamente, negli eventi di ogni giorno. Ci chiede e ci avverte di attenderlo vegliando, poiché la sua venuta non può essere programmata o pronosticata, ma sarà improvvisa e imprevedibile. Solo chi è desto non è colto alla sprovvista. Che non vi succeda, Egli avverte, quel che avvenne al tempo di Noè, quando gli uomini mangiavano e bevevano spensieratamente, e furono colti impreparati dal diluvio (cfr Mt 24,37-38). Che cosa il Signore vuole farci comprendere con questo ammonimento, se non che non dobbiamo lasciarci assorbire dalle realtà e preoccupazioni materiali sino al punto da restarne irretiti?

"Vegliate dunque…". Ascoltiamo l’invito di Gesù nel Vangelo e prepariamoci a rivivere con fede il mistero della nascita del Redentore, che ha riempito l’universo di gioia; prepariamoci ad accogliere il Signore nel suo incessante venirci incontro negli eventi della vita, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia; prepariamoci ad incontrarlo nell’ultima sua definitiva venuta. Il suo passaggio è sempre fonte di pace e, se la sofferenza, retaggio dell’umana natura, diventa talora quasi insopportabile, con l’avvento del Salvatore "la sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode" (Enc. Spe salvi, 37)».

[Papa Benedetto, omelia all’ospedale romano s. Giovanni Battista, 2 dicembre 2007]

Mercoledì, 20 Agosto 2025 03:22

Nonostante tutto

"Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà" (Mt 24,42). Gesù, che nel Natale è venuto tra noi e tornerà glorioso alla fine dei tempi, non si stanca di visitarci continuamente, negli eventi di ogni giorno. Ci chiede e ci avverte di attenderlo vegliando, poiché la sua venuta non può essere programmata o pronosticata, ma sarà improvvisa e imprevedibile. Solo chi è desto non è colto alla sprovvista. Che non vi succeda, Egli avverte, quel che avvenne al tempo di Noè, quando gli uomini mangiavano e bevevano spensieratamente, e furono colti impreparati dal diluvio (cfr Mt 24,37-38). Che cosa il Signore vuole farci comprendere con questo ammonimento, se non che non dobbiamo lasciarci assorbire dalle realtà e preoccupazioni materiali sino al punto da restarne irretiti?

"Vegliate dunque…". Ascoltiamo l’invito di Gesù nel Vangelo e prepariamoci a rivivere con fede il mistero della nascita del Redentore, che ha riempito l’universo di gioia; prepariamoci ad accogliere il Signore nel suo incessante venirci incontro negli eventi della vita, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia; prepariamoci ad incontrarlo nell’ultima sua definitiva venuta. Il suo passaggio è sempre fonte di pace e, se la sofferenza, retaggio dell’umana natura, diventa talora quasi insopportabile, con l’avvento del Salvatore "la sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode" (Enc. Spe salvi, 37).

[Papa Benedetto, omelia all’ospedale romano s. Giovanni Battista, 2 dicembre 2007]

Mercoledì, 20 Agosto 2025 03:08

Fede Attesa Vigilanza

1. “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”(Eb 11, 1).
Con queste parole ci parla l’autore della lettera agli Ebrei nella seconda lettura della messa di oggi.

La fede, che fa passare l’uomo dal mondo delle cose visibili alla realtà invisibile di Dio e alla vita eterna, rassomiglia a quel cammino, al quale fu chiamato da Dio Abramo - qualificato perciò come “padre di tutti coloro che credono” (cf. Rm 4, 11.12). In seguito leggiamo nella lettera agli Ebrei: “Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa . . .” (Eb 11, 8-9). Sì, è così. La fede è il pellegrinaggio spirituale in cui l’uomo s’incammina, seguendo la parola del Dio vivente, per arrivare alla terra della pace promessa e della felicità, all’unione con Dio “faccia a faccia”; a quella unione che riempirà, nel cuore umano, la fame e la sete più profonda: la fame della verità e la sete dell’amore.

Perciò, come ascoltiamo in seguito nella liturgia dell’odierna domenica, l’atteggiamento di spirito, che si addice al credente, è l’atteggiamento di vigilanza: “Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate” (Lc 12, 40). Una simile vigilanza è anche l’espressione dell’aspirazione spirituale a Dio mediante la fede.

[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 10 agosto 1980]

Mercoledì, 20 Agosto 2025 02:53

Non per la noia, semmai per la pazienza

Oggi vorrei soffermarmi su quella dimensione della speranza che è l’attesa vigilante. Il tema della vigilanza è uno dei fili conduttori del Nuovo Testamento. Gesù predica ai suoi discepoli: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito» (Lc 12,35-36). In questo tempo che segue la risurrezione di Gesù, in cui si alternano in continuazione momenti sereni e altri angosciosi, i cristiani non si adagiano mai. Il Vangelo raccomanda di essere come dei servi che non vanno mai a dormire, finché il loro padrone non è rientrato. Questo mondo esige la nostra responsabilità, e noi ce la assumiamo tutta e con amore. Gesù vuole che la nostra esistenza sia laboriosa, che non abbassiamo mai la guardia, per accogliere con gratitudine e stupore ogni nuovo giorno donatoci da Dio. Ogni mattina è una pagina bianca che il cristiano comincia a scrivere con le opere di bene. Noi siamo già stati salvati dalla redenzione di Gesù, però ora attendiamo la piena manifestazione della sua signoria: quando finalmente Dio sarà tutto in tutti (cfr 1 Cor 15,28). Nulla è più certo, nella fede dei cristiani, di questo “appuntamento”, questo appuntamento con il Signore, quando Lui verrà. E quando questo giorno arriverà, noi cristiani vogliamo essere come quei servi che hanno passato la notte con i fianchi cinti e le lampade accese: bisogna essere pronti per la salvezza che arriva, pronti all’incontro. Avete pensato, voi, come sarà quell’incontro con Gesù, quando Lui verrà? Ma, sarà un abbraccio, una gioia enorme, una grande gioia! Dobbiamo vivere in attesa di questo incontro!

Il cristiano non è fatto per la noia; semmai per la pazienza. Sa che anche nella monotonia di certi giorni sempre uguali è nascosto un mistero di grazia. Ci sono persone che con la perseveranza del loro amore diventano come pozzi che irrigano il deserto. Nulla avviene invano, e nessuna situazione in cui un cristiano si trova immerso è completamente refrattaria all’amore. Nessuna notte è così lunga da far dimenticare la gioia dell’aurora. E quanto più oscura è la notte, tanto più vicina è l’aurora. Se rimaniamo uniti a Gesù, il freddo dei momenti difficili non ci paralizza; e se anche il mondo intero predicasse contro la speranza, se dicesse che il futuro porterà solo nubi oscure, il cristiano sa che in quello stesso futuro c’è il ritorno di Cristo. Quando questo succederà, nessuno lo sa ma il pensiero che al termine della nostra storia c’è Gesù Misericordioso, basta per avere fiducia e non maledire la vita. Tutto verrà salvato. Tutto. Soffriremo, ci saranno momenti che suscitano rabbia e indignazione, ma la dolce e potente memoria di Cristo scaccerà la tentazione di pensare che questa vita è sbagliata.

Dopo aver conosciuto Gesù, noi non possiamo far altro che scrutare la storia con fiducia e speranza. Gesù è come una casa, e noi ci siamo dentro, e dalle finestre di questa casa noi guardiamo il mondo. Perciò non ci richiudiamo in noi stessi, non rimpiangiamo con malinconia un passato che si presume dorato, ma guardiamo sempre avanti, a un futuro che non è solo opera delle nostre mani, ma che anzitutto è una preoccupazione costante della provvidenza di Dio. Tutto ciò che è opaco un giorno diventerà luce.

E pensiamo che Dio non smentisce sé stesso. Mai. Dio non delude mai. La sua volontà nei nostri confronti non è nebulosa, ma è un progetto di salvezza ben delineato: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4). Per cui non ci abbandoniamo al fluire degli eventi con pessimismo, come se la storia fosse un treno di cui si è perso il controllo. La rassegnazione non è una virtù cristiana. Come non è da cristiani alzare le spalle o piegare la testa davanti a un destino che ci sembra ineluttabile.

Chi reca speranza al mondo non è mai una persona remissiva. Gesù ci raccomanda di attenderlo senza stare con le mani in mano: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli» (Lc 12,37). Non c’è costruttore di pace che alla fine dei conti non abbia compromesso la sua pace personale, assumendo i problemi degli altri. La persona remissiva, non è un costruttore di pace ma è un pigro, uno che vuole stare comodo. Mentre il cristiano è costruttore di pace quando rischia, quando ha il coraggio di rischiare per portare il bene, il bene che Gesù ci ha donato, ci ha dato come un tesoro.

In ogni giorno della nostra vita, ripetiamo quell’invocazione che i primi discepoli, nella loro lingua aramaica, esprimevano con le parole Marana tha, e che ritroviamo nell’ultimo versetto della Bibbia: «Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20). È il ritornello di ogni esistenza cristiana: nel nostro mondo non abbiamo bisogno di altro se non di una carezza del Cristo. Che grazia se, nella preghiera, nei giorni difficili di questa vita, sentiamo la sua voce che risponde e ci rassicura: «Ecco, io vengo presto» (Ap 22,7)!

[Papa Francesco, Udienza Generale 11 ottobre 2017]

(Mt 23,27-32)

 

Giovanni Crisostomo scrive nel Commento al Vangelo di Mt:

«Se si potesse aprire la coscienza di ciascuno, quanti vermi, quanta putredine e quale lezzo inimmaginabile vi troveremmo dentro. Desideri turpi e perversi, più sudici degli stessi vermi» (73,2).

Nel puntuale Commento al Vangelo di Mt, s. Girolamo scrive:

«I sepolcri all’esterno sono candidi di calce, adorni di marmi e d’oro, splendenti nei loro colori; ma all’interno sono pieni di ossa di morti. Così anche i maestri perversi, che una cosa dicono e l’altra fanno: nell’abito mostrano la purezza e nella parola l’umiltà; ma dentro sono pieni d’ogni marciume e di ogni desiderio impuro» (4).

 

Gesù prende posizione contro l’ipocrisia e l’estrinsecismo incoerente. Lo fa nei confronti delle autorità che salvano le vesti, le idee e l’immagine, ma radicalmente infedeli.

Si duole del loro apparire fittizio e corretto, mentre dentro sono la negazione totale del rispetto verso Dio che allestiscono in vetrina.

Così fanno stagnare il lato oscuro del mondo, invece di aiutarci a rimuoverlo.

La pietà ostentata per i grandi antenati denuncia un complesso di colpa (vv.29-32), non una cifra intima profonda - ambito unificatore dell’essere e dell’agire.

I maestri spirituali sono in campo non per fare mostra di sé - bensì per beneficare, dare colore, nuova linfa; promuovere situazioni autentiche e rallegranti, creative.

Il Signore propone un rinnovamento che giunga in profondità, più intimo dell’agitarsi epidermico; che tocchi il luogo e la dimensione dell’incontro col Padre.

Egli non si accontenta di ‘monumenti’ con la sorpresina dentro.

 

Siamo sempre tentati di rimanere sul piano d’una superficie abbellita, alla ricerca di facili e immediate soddisfazioni, stima, onore - soprattutto noi preti, che non di rado amiamo cullarci nei riconoscimenti.

Ci appaghiamo di cose epidermiche, perché? Incontrare se stessi, gli altri e la realtà richiede un impegno gravoso: quello di mettersi in discussione; uscire dalle forme, e dalle mode esterne.

Le tombe imbiancate appaiono sacre e graziose, ma si sa cosa talora contengono.

Non sempre diamanti cristallini; non sempre espressioni di filo diretto con gli altri e con Dio.

Insomma, la vistosità di fastigi e parvenze, o di patinature che strizzano sempre l’occhiolino, è una sorta di proiezione.

Artificio che non consente di elaborare pensieri; solo allontana gli incubi faticosi - nel modo più puerile.

L’Amore invece vive di scintille reali - non le varca indenne accontentandosi di autorappresentarsi nei segni decorativi, o nell’ideologia che adesca gli ingenui.

Paraventi d’incredibile vuoto.

 

Pur riconoscendo lecite le sfaccettature di grandi espressioni artistiche e le opinioni difformi, Gesù avrebbe sottoscritto un principio dei laici puritani: «Maggiori sono le cerimonie, minore è la Verità».

 

 

[Mercoledì 21.a sett. T.O. 27 agosto 2025]

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«The Russian mystics of the first centuries of the Church gave advice to their disciples, the young monks: in the moment of spiritual turmoil take refuge under the mantle of the holy Mother of God». Then «the West took this advice and made the first Marian antiphon “Sub tuum Praesidium”: under your cloak, in your custody, O Mother, we are sure there» (Pope Francis)
«I mistici russi dei primi secoli della Chiesa davano un consiglio ai loro discepoli, i giovani monaci: nel momento delle turbolenze spirituali rifugiatevi sotto il manto della santa Madre di Dio». Poi «l’occidente ha preso questo consiglio e ha fatto la prima antifona mariana “Sub tuum praesidium”: sotto il tuo mantello, sotto la tua custodia, o Madre, lì siamo sicuri» (Papa Francesco)
The Cross of Jesus is our one true hope! That is why the Church “exalts” the Holy Cross, and why we Christians bless ourselves with the sign of the cross. That is, we don’t exalt crosses, but the glorious Cross of Christ, the sign of God’s immense love, the sign of our salvation and path toward the Resurrection. This is our hope (Pope Francis)
La Croce di Gesù è la nostra unica vera speranza! Ecco perché la Chiesa “esalta” la santa Croce, ed ecco perché noi cristiani benediciamo con il segno della croce. Cioè, noi non esaltiamo le croci, ma la Croce gloriosa di Gesù, segno dell’amore immenso di Dio, segno della nostra salvezza e cammino verso la Risurrezione. E questa è la nostra speranza (Papa Francesco)
The basis of Christian construction is listening to and the fulfilment of the word of Christ (Pope John Paul II)
Alla base della costruzione cristiana c’è l’ascolto e il compimento della parola di Cristo (Papa Giovanni Paolo II)
«Rebuke the wise and he will love you for it. Be open with the wise, he grows wiser still; teach the upright, he will gain yet more» (Prov 9:8ff)
«Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s)
These divisions are seen in the relationships between individuals and groups, and also at the level of larger groups: nations against nations and blocs of opposing countries in a headlong quest for domination [Reconciliatio et Paenitentia n.2]
Queste divisioni si manifestano nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle più vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in un'affannosa ricerca di egemonia [Reconciliatio et Paenitentia n.2]
But the words of Jesus may seem strange. It is strange that Jesus exalts those whom the world generally regards as weak. He says to them, “Blessed are you who seem to be losers, because you are the true winners: the kingdom of heaven is yours!” Spoken by him who is “gentle and humble in heart”, these words present a challenge (Pope John Paul II)
È strano che Gesù esalti coloro che il mondo considera in generale dei deboli. Dice loro: “Beati voi che sembrate perdenti, perché siete i veri vincitori: vostro è il Regno dei Cieli!”. Dette da lui che è “mite e umile di cuore”, queste parole  lanciano una sfida (Papa Giovanni Paolo II)
The first constitutive element of the group of Twelve is therefore an absolute attachment to Christ: they are people called to "be with him", that is, to follow him leaving everything. The second element is the missionary one, expressed on the model of the very mission of Jesus (Pope John Paul II)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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