Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Tra i tanti doni che compriamo e riceviamo non dimentichiamo il vero dono: di donarci a vicenda qualcosa di noi stessi! Di donarci a vicenda il nostro tempo. Di aprire il nostro tempo per Dio. Così si scioglie l'agitazione. Così nasce la gioia, così si crea la festa. E ricordiamo nei banchetti festivi di questi giorni la parola del Signore: "Quando offri un banchetto, non invitare quanti ti inviteranno a loro volta, ma invita quanti non sono invitati da nessuno e non sono in grado di invitare te" (cfr Lc 14,12-14). E questo significa, appunto, anche: Quando tu per Natale fai dei regali, non regalare qualcosa solo a quelli che, a loro volta, ti fanno regali, ma dona a coloro che non ricevono da nessuno e che non possono darti niente in cambio. Così ha agito Dio stesso: Egli ci invita al suo banchetto di nozze che non possiamo ricambiare, che possiamo solo con gioia ricevere. Imitiamolo! Amiamo Dio e, a partire da Lui, anche l’uomo, per riscoprire poi, a partire dagli uomini, Dio in modo nuovo!
[Papa Benedetto, omelia 24 dicembre 2006]
12. Basta la giustizia?
Non è difficile constatare che nel mondo contemporaneo il senso della giustizia si è risvegliato su vasta scala; e senza dubbio esso pone maggiormente in rilievo ciò che contrasta con la giustizia sia nei rapporti tra gli uomini, i gruppi sociali o le «classi», sia tra i singoli popoli e stati e, infine, tra interi sistemi politici ed anche tra interi cosiddetti mondi. Questa profonda e multiforme corrente, alla cui base la coscienza umana contemporanea ha posto la giustizia, attesta il carattere etico delle tensioni e delle lotte che pervadono il mondo.
La Chiesa condivide con gli uomini del nostro tempo questo profondo e ardente desiderio di una vita giusta sotto ogni aspetto, e non omette neppure di sottoporre alla riflessione i vari aspetti di quella giustizia, quale la vita degli uomini e delle società esige. Ne è conferma il campo della dottrina sociale cattolica, ampiamente sviluppata nell'arco dell'ultimo secolo. Sulle orme di tale insegnamento procedono sia l'educazione e la formazione delle coscienze umane nello spirito della giustizia, sia anche le singole iniziative, specie nell'ambito dell'apostolato dei laici, che appunto in tale spirito si vanno sviluppando.
Tuttavia, sarebbe difficile non avvedersi che molto spesso i programmi che prendono avvio dall'idea di giustizia e che debbono servire alla sua attuazione nella convivenza degli uomini, dei gruppi e delle società umane, in pratica subiscono deformazioni. Benché essi continuino a richiamarsi alla medesima idea di giustizia, tuttavia l'esperienza dimostra che sulla giustizia hanno preso il sopravvento altre forze negative, quali il rancore, l'odio e perfino la crudeltà. In tal caso, la brama di annientare il nemico, di limitare la sua libertà, o addirittura di imporgli una dipendenza totale, diventa il motivo fondamentale dell'azione; e ciò contrasta con l'essenza della giustizia che, per sua natura, tende a stabilire l'eguaglianza e l'equiparazione tra le parti in conflitto. Questa specie di abuso dell'idea di giustizia e la pratica alterazione di essa attestano quanto l'azione umana possa allontanarsi dalla giustizia stessa, pur se venga intrapresa nel suo nome. Non invano Cristo contestava ai suoi ascoltatori, fedeli alla dottrina dell'Antico Testamento, l'atteggiamento che si manifestava nelle parole: «Occhio per occhio e dente per dente». Questa era la forma di alterazione della giustizia in quel tempo; e le forme di oggi continuano a modellarsi su di essa. È ovvio infatti che in nome di una presunta giustizia (ad esempio storica o di classe) talvolta si annienta il prossimo, lo si uccide, si priva della libertà, si spoglia degli elementari diritti umani. L'esperienza del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all'annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l'amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni. È stata appunto l'esperienza storica che, fra l'altro, ha portato a formulare l'asserzione: sommo diritto, somma ingiustizia (summum ius, summa iniuria). Tale affermazione non svaluta la giustizia e non attenua il significato dell'ordine che su di essa si instaura; ma indica solamente, sotto altro aspetto, la necessità di attingere alle forze dello spirito, ancor più profonde, che condizionano l'ordine stesso della giustizia.
Avendo davanti agli occhi l'immagine della generazione a cui apparteniamo, la Chiesa condivide l'inquietudine di tanti uomini contemporanei. D'altronde, deve anche preoccupare il declino di molti valori fondamentali che costituiscono un bene incontestabile non soltanto della morale cristiana, ma semplicemente della morale umana, della cultura morale, quali il rispetto per la vita umana sin dal momento del concepimento, il rispetto per il matrimonio nella sua unità indissolubile, il rispetto per la stabilità della famiglia. Il permissivismo morale colpisce soprattutto questo ambito più sensibile della vita e della convivenza umana. Di pari passo con ciò vanno la crisi della verità nei rapporti interumani, la mancanza di responsabilità nel parlare, il rapporto puramente utilitario dell'uomo con l'uomo, il venir meno del senso dell'autentico bene comune e la facilità con cui questo viene alienato. Infìne, c'è la desacralizzazione che si trasforma spesso in «disumanizzazione»: l'uomo e la società, per i quali niente è «sacro», decadono moralmente - nonostante ogni apparenza.
[Papa Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia]
Per la salvezza c’è «un biglietto di entrata». Ma con qualche avvertenza. Anzitutto è gratuito; e poi i titolari saranno sicuramente donne e uomini che hanno «bisogno di cura e di guarigione nel corpo e nell’anima». Facile immaginare che ai primi posti ci siano «peccatori, poveri e ammalati», i cosiddetti «ultimi» insomma. Celebrando la messa a Santa Marta, martedì 7 novembre, Papa Francesco ha rilanciato l’immagine evangelica — tratta dal passo di Luca (14, 15-24) — del banchetto a cui il padrone di casa invita «i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi» dopo il rifiuto dei ricchi che non comprendono il valore della gratuità della salvezza.
«I testi evangelici che abbiamo sentito questa settimana, questi ultimi giorni, sono inquadrati in un banchetto» ha fatto subito notare Francesco. È «il Signore che si reca alla casa di un capo dei farisei per pranzare e lì viene rimproverato perché non fa le abluzioni». Poi, ha proseguito il Papa, «durante il banchetto il Signore consiglia di non cercare i primi posti perché c’è il pericolo che venga uno che sia più importante e il padrone di casa ci dica: “Cedi il posto a questo, spostati!”. Sarebbe una vergogna».
«Il passo continua — ha affermato il Pontefice — con i consigli che dà il Signore a chi si deve invitare a un banchetto a casa». Ed egli indica proprio «quelli che non ti possono fare il contraccambio, cioè quelli che non hanno niente per darti in contraccambio». Ecco «la gratuità del banchetto». Così «quando finì di spiegare questo, uno dei commensali — è il passo di oggi — disse a Gesù: “Beato chi prenderà il cibo nel regno di Dio!”». Il Signore «gli rispose con una parabola, senza spiegazioni, di quest’uomo che diede una grande cena e fece molti invitati». Ma «i primi invitati non hanno voluto andare a cena, non importava né della cena né della gente che c’era lì, né del Signore che li invitava: a loro importavano altre cose».
E infatti uno dopo l’altro cominciarono a scusarsi, Così, ha fatto presente il Papa, «il primo gli disse: “Ho comprato un campo”; l’altro: “Ho comprato cinque paia di buoi”; un altro: “Mi sono sposato”; ma ognuno aveva il proprio interesse e questo interesse era più grande dell’invito». Il fatto è, ha affermato Francesco, che «questi erano attaccati all’interesse: cosa posso guadagnare?». Perciò a un invito gratuito la risposta è: «A me non importa, forse un altro giorno, sono tanto indaffarato, non posso andare». «Indaffarato» ma per i propri «interessi: indaffarato come quell’uomo che voleva, dopo la mietitura, dopo la raccolta del grano, fare dei magazzini per allargare i suoi beni. Poveretto, morì quella notte».
Queste persone sono attaccate «all’interesse a tal punto che» cadono in «una schiavitù dello spirito» e «sono incapaci di capire la gratuità dell’invito». Ma «se non si capisce la gratuità dell’invito di Dio, non si capisce nulla» ha avvertito il Papa. L’iniziativa di Dio, infatti, «è sempre gratuita: per andare a questo banchetto cosa si deve pagare? Il biglietto di entrata è essere ammalato, è essere povero, è essere peccatore». Proprio questo «è il biglietto di entrata: essere bisognoso sia nel corpo sia nell’anima». E «per bisogno», ha rilanciato Francesco, si intende «bisogno di cura, di guarigione, avere bisogno di amore».
«Qui — ha spiegato il Pontefice — si vedono i due atteggiamenti». Quello di Dio «è sempre gratuito: per salvare Dio non fa pagare nulla, è gratuito». E anche, ha aggiunto Francesco, «diciamo la parola, un po’ astratta, “universale”», nel senso che al servo «il padrone “adirato”» dice: «Esci subito per le piazze, per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi, gli zoppi». Nell’altra versione di Matteo, il padrone dice: «buoni e cattivi: tutti, tutti», perché «la gratuità di Dio non ha dei limiti: tutti, lui riceve tutti».
«Invece quelli che hanno il proprio interesse — ha proseguito il Papa — non capiscono la gratuità. Sono come il figlio che è rimasto accanto al padre quando se ne è andato il più piccolo e poi, dopo tanto tempo, è tornato povero e il padre fa festa e questo non vuole entrare a quel banchetto, non vuole entrare a quella festa perché non capisce: “Ha speso tutti i soldi, ha speso l’eredità, con i vizi, con i peccati, tu gli fai festa? E io che sono un cattolico, pratico, vado a messa tutte le domeniche, compio le cose, a me niente?”».
Il fatto è che «non capisce la gratuità della salvezza, pensa che la salvezza è il frutto del “io pago e tu mi salvi”: pago con questo, con questo, con questo». Invece «no, la salvezza è gratuita». E «se tu non entri in questa dinamica della gratuità non capisci nulla».
La salvezza infatti, ha affermato Francesco, «è un dono di Dio al quale si risponde con un altro dono, il dono del mio cuore». Ci sono però coloro «che hanno altri interessi, quando sentono parlare dei doni: “Sì, è vero, sì, ma si devono fare dei doni”. E subito pensano: “Ecco, io farò questo dono e lui domani e dopodomani, in un’altra occasione, me ne farà un altro”». Così c’è «sempre il contraccambio».
Invece «il Signore non chiede nulla in contraccambio: soltanto amore, fedeltà, come lui è amore e lui è fedele». Perché «la salvezza non si compra, semplicemente si entra nel banchetto: “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!”». E «questa è la salvezza».
In realtà, ha confidato il Papa, «io mi domando: cosa sentono questi che non sono disposti a venire a questo banchetto? Si sentono sicuri, si sentono con una sicurezza, si sentono salvi a loro modo fuori dal banchetto». E «hanno perso il senso della gratuità, hanno perso il senso dell’amore e hanno perso una cosa più grande e più bella ancora e questo è molto brutto: hanno perso la capacità di sentirsi amati». E, ha aggiunto, «quando tu perdi — non dico la capacità di amare, perché quella si recupera — la capacità di sentirti amato, non c’è speranza: hai perso tutto».
Del resto, ha concluso il Pontefice, tutto questo «ci fa pensare allo scritto nella porta dell’inferno dantesco “Lasciate la speranza”: hai perso tutto». Da parte nostra, occorre guardare invece il padrone di casa che vuole che la sua casa si riempia: «è tanto amoroso che nella sua gratuità vuole riempire la casa». E così «chiediamo al Signore che ci salvi dal perdere la capacità di sentirsi amati».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 08/11/2017]
In occasione della recente scomparsa dei miei genitori, allo strazio della malattia e della perdita di entrambi (a breve) si è aggiunto il fastidio di un ambiente che continuava a farmi le “condoglianze”.
Come per buona educazione, certo, ma chi ha assimilato il linguaggio della Fede non fa cordoglio alcuno, né parla di “morti” bensì di Defunti. Essi vivono.
Non da sopravvissuti ai colpi che la vita riserva, ma come dei ‘dilatati’, autentici, adorni - e finalmente realizzati appieno.
Donne e uomini ‘fioriti’ in tutto, che hanno sperimentato un nuovo genere di essere nella propria essenza; un’esistenza differente.
Come in una atmosfera d’amore puro, dove come Gesù non si vive più per se stessi, ma uno con l’altro e uno per l’altro.
Senza i cronometri pressanti, né gli abbandoni.
Il termine Defunti deriva dal verbo latino «defungor» [infinito «defungi»] il quale indica il termine parziale di una vicenda, non un compimento totale.
Non un confine definitivo che si aprirebbe sull’abisso nullificante e cavernicolo di ombre smarrite o larve senza slancio, prive d’identità e futuro - dopo il transito nel tempo.
Le condoglianze [dal latino «cum-dolēre»] si porgevano volentieri all’interno di una mentalità prettamente pagana o legata a un senso archetipo di religiosità.
Quel genere di convinzioni induceva nei parenti e amici un affliggersi - un piangere senza speranza - che Gesù rimprovera apertamente [Gv 11,33 testo greco; la traduzione italiana è incerta].
Credere che con la morte tutto finisca significa immaginare che l’esistenza sia un progressivo decadere nel vuoto.
Tale convinzione fa ritenere assurdo ogni cammino di crescita anche spirituale. E postula l’insensatezza di coinvolgersi, d’impegnarsi nell’ideale del Bene duraturo - per un Bello che prosegua oltre la nostra vicenda terrena e in favore del prossimo.
Le “condoglianze” stanno quindi per sé a indicare che tutto è finito.
In epigrafe al portale di un cimitero di una cittadina non troppo lontana da me si legge una scritta in caratteri cubitali: «qui nei secoli posano affetti vanità speranze».
Il freddo della fine di tutte le cose belle, e il “ghiaccio” del neoclassico rivisitato in stile primo Novecento... perfettamente abbinati su rivestimento di travertino imbiancato.
Invece la Speranza ci attira e rinfranca lo spirito, supera l’oltraggio, dona senso al nostro andare.
Già i credenti dei primi secoli avevano soppiantato l’idea pagana dell’appuntamento di nostra sorella morte quale «dies infaustus», sostituendolo nel suo opposto: «dies Natalis».
Giorno della vera Nascita, all’interno di una stessa Vita; ora completa, risanata.
Vita, che appunto continua - oltre i parametri temporali o di località.
Senza la fatica dell’esistere che sperimentiamo. Immersi nella vastità dell’essere.
Vita senza le lotte contro di sé, e che prosegue nell’Abbraccio appagante, benedicente, di un Padre che non spersonalizza ma dilata l’esistere caratteriale, le qualità dei suoi figli.
In tale sbocciare pieno di luce e calore siamo come rifoggiati sul prototipo-Progetto dell’autentico Figlio.
Tratto di Alleanza che dovevamo e forse potevamo essere.
Sopraffatti di Felicità beata, perché la nostra parte-ombra è ora inclusa; priva di giudizi e commenti.
[Tutti i Fedeli Defunti, 2 novembre]
(Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti)
«Io vedo questi paurosi spazi dell’universo che mi circondano, ed io mi trovo attaccato ad un cantuccio di questa immensità, senza ch’io sappia perché io sia collocato in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché il poco tempo che m’è dato da vivere mi sia assegnato a questo punto, piuttosto che in un altro da tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi succede. Io non vedo che estensioni infinite da ogni parte, che mi racchiudono come un atomo e come un’ombra che non dura che un istante senza ritorno. Tutto ciò ch’io conosco è che devo ben presto morire; ma ciò ch’io più ignoro è questa morte stessa, a cui non mi è dato sfuggire» [Pascal, Pensées, 194].
In occasione della recente scomparsa dei miei genitori, allo strazio della malattia e della perdita di entrambi (a breve) si è aggiunto il fastidio di un ambiente che continuava a farmi le “condoglianze”.
Come per buona educazione, certo, ma chi ha assimilato il linguaggio della Fede non fa cordoglio alcuno, né parla di “morti” bensì di Defunti. Essi vivono.
Non da sopravvissuti ai colpi che la vita riserva, ma come dei dilatati, autentici, adorni e finalmente realizzati appieno.
Donne e uomini fioriti in tutto, che hanno sperimentato un nuovo genere di essere nella propria essenza, un’esistenza differente.
Come in una atmosfera d’amore puro, dove (come Gesù) non si vive più per se stessi, ma uno con l’altro e uno per l’altro.
Senza i cronometri pressanti, né gli abbandoni.
Il termine Defunti deriva dal verbo latino «defungor» [infinito «defungi»] il quale indica il termine parziale di una vicenda, non un compimento totale.
Non un confine definitivo che si aprirebbe sull’abisso nullificante e cavernicolo di ombre smarrite o larve senza slancio, prive d’identità e futuro - dopo il transito nel tempo.
Le “condoglianze” [dal latino «cum-dolēre»] si porgevano volentieri all’interno di una mentalità prettamente pagana o legata a un senso archetipo di religiosità.
Quel genere di convinzioni induceva nei parenti e amici un affliggersi - un piangere senza speranza - che Gesù rimprovera apertamente [Gv 11,33 testo greco; la traduzione italiana è incerta].
Credere che con la morte tutto finisca significa immaginare che l’esistenza sia un progressivo decadere nel vuoto.
Tale convinzione fa ritenere assurdo ogni cammino di crescita anche spirituale. E postula l’insensatezza di coinvolgersi, d’impegnarsi nell’ideale del Bene duraturo - per un Bello che prosegua oltre la nostra vicenda terrena (e in favore del prossimo).
Le condoglianze stanno quindi per sé a indicare che tutto è finito.
In epigrafe al portale di un cimitero di una cittadina non troppo lontana da me si legge una scritta in caratteri cubitali: «qui nei secoli posano affetti vanità speranze».
Il freddo della fine di tutte le cose belle, e il “ghiaccio” del neoclassico rivisitato in stile primo Novecento... perfettamente abbinati su rivestimento di travertino imbiancato.
Invece la Speranza ci attira e rinfranca lo spirito, supera l’oltraggio, dona senso al nostro andare.
Già i credenti dei primi secoli avevano soppiantato l’idea pagana dell’appuntamento di nostra sorella morte quale «dies infaustus», sostituendolo nel suo opposto: «dies Natalis».
Giorno della vera Nascita, all’interno di una stessa Vita; ora completa, risanata.
Vita, che appunto continua - oltre i parametri temporali o di località.
Senza la fatica dell’esistere che sperimentiamo. Immersi nella vastità dell’essere.
Vita senza le lotte contro di sé, e che prosegue nell’Abbraccio appagante, benedicente, di un Padre che non spersonalizza ma dilata l’esistere caratteriale, le qualità dei suoi figli.
In tale sbocciare pieno di luce e calore siamo come rifoggiati sul prototipo-Progetto dell’autentico Figlio.
Tratto di Alleanza che dovevamo e forse potevamo essere.
Sopraffatti di Felicità beata, perché la nostra parte-ombra è ora inclusa; priva di giudizi e commenti.
In «Speranza del grano di senape» leggiamo una gemma di Joseph Ratzinger, che ha avuto il fegato di scrivere parole da scolpire seriamente sui fregi delle trabeazioni (in luogo di altre superficialità a effetto - purtroppo diffuse):
«Oggi appare chiaro che il fuoco del Giudizio di cui parla la Bibbia non indica una specie di prigione dell’aldilà, bensì il Signore stesso che nel momento del giudizio si incontra con l’uomo [...]».
«Nell’uomo che si presenta allo sguardo del Signore tutto ciò che nella sua vita è ‘paglia e fieno’ brucia e rimane soltanto ciò che può davvero avere consistenza. E significa che attraverso l’incontro con Cristo l’uomo viene rifuso e rimodellato secondo ciò che egli doveva e poteva propriamente essere. L’opzione fondamentale di un tale uomo è il Sì che lo rende capace di accogliere la misericordia di Dio; ma questa decisione fondamentale è molte volte intorpidita e intirizzita, fa capolino soltanto faticosamente dai ceppi dell’egoismo da cui l’uomo non ha mai potuto liberarsi. L’incontro con il Signore è questa trasformazione, il fuoco che lo brucia e lo scioglie, facendolo diventare quella figura, quella forma senza scorie che può divenire recipiente dell’eterna Gioia».
Il fuoco che brucia: Cristo stesso
Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L'incontro con Lui è l'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa « come attraverso il fuoco ». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. È chiaro che la « durata » di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il « momento » trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno – è tempo del cuore, tempo del « passaggio » alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo. Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L'incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l'uno con l'altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro « avvocato », parakletos (cfr 1 Gv 2,1).
[Papa Benedetto, enciclica Spe Salvi n.47]
12. Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo. La parola « vita eterna » cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura; « vita » ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l'altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell'immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo.
[Papa Benedetto, Spe salvi]
Carissimi Fratelli e Sorelle!
1. Dopo aver celebrato ieri la Solennità di Tutti i Santi, oggi, due novembre, il nostro sguardo orante si volge a coloro che hanno lasciato questo mondo e attendono di raggiungere la Città celeste. Da sempre la Chiesa ha esortato a pregare per i defunti. Essa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna. "Mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno - leggiamo nel prefazio odierno -, viene preparata un’abitazione eterna nel Cielo".
2. E’ importante e doveroso pregare per i defunti, perché anche se morti nella grazia e nell’amicizia di Dio, essi forse abbisognano ancora di un’ultima purificazione per entrare nella gioia del Cielo (cfr Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1030). Il suffragio per loro si esprime in vari modi, tra i quali anche la visita ai cimiteri. Sostare in questi luoghi sacri costituisce un’occasione propizia per riflettere sul senso della vita terrena e per alimentare, al tempo stesso, la speranza nell'eternità beata del Paradiso.
Maria, Porta del cielo, ci aiuti a non dimenticare e a non perdere mai di vista la Patria celeste, meta ultima del nostro pellegrinaggio qui sulla Terra.
[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 2 novembre 2003]
Giobbe sconfitto, anzi, finito nella sua esistenza, per la malattia, con la pelle strappata via, quasi sul punto di morire, quasi senza carne, Giobbe ha una certezza e la dice: «Io so che il mio Redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!» (Gb 19,25). Nel momento in cui Giobbe è più giù, giù, giù, c’è quell’abbraccio di luce e calore che lo assicura: Io vedrò il Redentore. Con questi occhi lo vedrò. «Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro» (Gb 19,27).
Questa certezza, nel momento proprio quasi finale della vita, è la speranza cristiana. Una speranza che è un dono: noi non possiamo averla. È un dono che dobbiamo chiedere: “Signore, dammi la speranza”. Ci sono tante cose brutte che ci portano a disperare, a credere che tutto sarà una sconfitta finale, che dopo la morte non ci sia nulla… E la voce di Giobbe torna, torna: «Io so che il mio Redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! […] Io lo vedrò, io stesso», con questi occhi.
«La speranza non delude» (Rm 5,5), ci ha detto Paolo. La speranza ci attira e dà un senso alla nostra vita. Io non vedo l’aldilà, ma la speranza è il dono di Dio che ci attira verso la vita, verso la gioia eterna. La speranza è un’ancora che noi abbiamo dall’altra parte, e noi, aggrappati alla corda, ci sosteniamo (cfr Eb 6,18-20). “Io so che il mio Redentore è vivo e io lo vedrò”. E questo, ripeterlo nei momenti di gioia e nei momenti brutti, nei momenti di morte, diciamo così.
Questa certezza è un dono di Dio, perché noi non potremo mai avere la speranza con le nostre forze. Dobbiamo chiederla. La speranza è un dono gratuito che noi non meritiamo mai: è dato, è donato. È grazia.
E poi, il Signore conferma questo, questa speranza che non delude: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me» (Gv 6,37). Questo è il fine della speranza: andare da Gesù. E «colui che viene a me, io non lo caccerò fuori perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,37-38). Il Signore che ci riceve là, dove c’è l’ancora. La vita in speranza è vivere così: aggrappati, con la corda in mano, forte, sapendo che l’ancora è laggiù. E quest’ancora non delude, non delude.
Oggi, nel pensiero di tanti fratelli e sorelle che se ne sono andati, ci farà bene guardare i cimiteri e guardare su. E ripetere, come Giobbe: “Io so che il mio Redentore è vivo, e io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro”. E questa è la forza che ci dà la speranza, questo dono gratuito che è la virtù della speranza. Che il Signore la dia a tutti noi.
[Papa Francesco, omelia 2 novembre 2020]
Tutti i Santi, tra senso religioso e Fede
(Mt 5,1-12)
Incarnando lo spirito delle Beatitudini, ci chiediamo quale sia la differenza tra ‘sentire religioso’ comune, e ‘vivere di Fede’.
Nelle devozioni antiche il Santo è l’uomo compos sui, perfetto e distaccato [ma prevedibile]; e il contrario di Santo è «peccatore».
Nella proposta di vita piena nel Signore, il «santo» è persona d’intesa comunicativa e che vive per la convivialità, creandola dove non c’è.
Nel cammino dei figli il Santo è sì l’uomo eccellente, ma nel suo senso compiuto - pieno e dinamico, poliedrico; perfino eccentrico. Non in una accezione unilaterale.
In Cristo l’uomo vero è un «distaccato» [‘santo’] dalla mentalità comune, in quanto fedele a se stesso, al proprio Fuoco che non si estingue - alle passioni, alla propria irripetibile unicità e Vocazione.
E insieme, «separato» da criteri competitivi esterni: dell’avere, del potere, dell’apparire. Potenze autodistruttive.
A queste ultime, sostituisce concretamente la fraternità del donare, del servire e dello sminuirsi [dal “personaggio”]. Energie feconde.
In tal guisa, il «santo» vive la Beatitudine essenziale dei perseguitati (Mt 5,11-12; Lc 6,22-23) perché ha la libertà di ‘scendere’ per essere in sintonia con la propria essenza; coesistendo nella sua originalità.
In termini di Fede, il Santo non è più dunque un fisicamente «separato», bensì «Unito» a Cristo - e messo al bando come Lui, nei fratelli deboli.
Insomma, il Disegno divino è comporre Famiglia di piccoli e malfermi, non ritagliarsi un gruppo di amici forti, e ‘migliori’ degli altri.
L’Appello che la Parola rivolge è a intraprendere un itinerario; questo il punto. E da sempre noi siamo «quelli della Via» e che non passano oltre, non girano lo sguardo dall’altra parte [cf. Lc 10,31-33; FT, 56ss].
Per la mentalità pagana classica, la donna e l’uomo sono essenzialmente ‘natura’, quindi il loro essere nel mondo è condizionato, persino determinato dalla nascita (fortunata o meno).
Secondo la Bibbia la donna e l’uomo sono creature, splendide e adeguate in sé alla propria missione, ma pellegrine e carenti.
Dio è Colui che li «chiama» a completarsi, recuperando gli aspetti difformi.
La santità di una persona si coniuga dunque con moltissimi dei suoi stati d’insoddisfazione, di confine, e persino di fallimento parziale - ma sempre pensando e sentendo la realtà.
Per una Nuova Alleanza.
Con Gesù la Perfezione non riguarda il ‘pensiero’, né il rispetto di un Codice di osservanze astratto. La Compiutezza è in riferimento a una qualità di Esodo e Relazione.
Nella Scrittura i Santi conoscono i problemi, le debolezze, le gioie e i dolori della vita quotidiana, la ricerca della propria identità-carattere, o inclinazione profonda.
E l’apostolato; la famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro. La forza di seduzione del male, perfino.
Contrapposto di Dio non sono dunque “i peccati”, bensì «il» Peccato [al singolare, termine teologico, non moralistico].
‘Peccato’ è l’incapacità di corrispondere a una Chiamata indicativa, che fa da molla per completarci, per rigenerarci non-parziali.
Ciò, armonizzando i lati opposti - nell’essere noi stessi ed essere-Con.
Qui è la Fede che «salva», nel punto in cui ci troviamo - perché annienta «il peccato del mondo» (Gv 1,29) ossia la disistima e senso di colpa; l’umiliazione delle distanze incolmabili.
A nessuno nei Vangeli il Cristo dice «fatti santo», bensì con Lui, come Lui e in Lui - Unito, per incontrare incessantemente i propri stati profondi.
Riconoscendoli meglio, anche grazie al Tu e al Noi: «sperimentando che gli altri sono “nostra stessa carne”» (FT n.84).
[1 Novembre, Ognissanti]
Hanno fatto passare la Luce
Incarnando lo spirito delle Beatitudini, ci chiediamo quale sia la differenza tra “sentire religioso” comune, e “vivere di Fede”.
Nelle devozioni antiche il Santo è l’uomo compos sui, perfetto e distaccato [ma prevedibile]; e il contrario di Santo è «peccatore».
Nella proposta di vita piena nel Signore, il «santo» è persona d’intesa comunicativa e che vive per la convivialità, creandola dove non c’è.
Nel cammino dei figli il Santo è sì l’uomo eccellente, ma nel suo senso compiuto - pieno e dinamico, poliedrico; perfino eccentrico. Non in una accezione unilaterale, moralistica o sentimentale.
Nella lingua latina perfìcere significa condurre a termine, andare sino in fondo.
In tale accezione completa e integrale, “perfetto” diventa un valore incarnato autentico: attributo possibile - d’ogni persona consapevole della propria condizione di vulnerabilità, e non la disprezza.
La donna e l’uomo di Fede valorizzano ogni occasione o emozione che mettono a nudo la condizione di nudità [non colpa] per aprire nuove strade e rinnovarsi.
In ottica di vita nello Spirito il santo [in ebraico Qadosh, attributo divino] è sì l’uomo «distacccato», ma non in senso parziale o fisico, bensì ideale.
Non è la persona che a un certo punto della vita prende le distanze dalla famiglia umana per intraprendere un sentiero di purificazione che la innalzerebbe. Illudendosi di migliorare.
Come sottolinea l'enciclica Fratelli Tutti: «Un essere umano [...] non si realizza, non sviluppa, non può trovare la propria pienezza [... e] non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri» (n.87).
Il testimone autentico non è animato dal disprezzo del caos esistenziale - né desideroso di appaltare le difficoltà di gestione della propria libertà consegnandola a un’agenzia alienante, dalla mentalità appartata (che risolva il dramma delle scelte personali).
In Cristo l’uomo è un «disgiunto» dalla mentalità comune, in quanto fedele a se stesso, al proprio Fuoco che non si estingue - alle passioni, alla propria irripetibile unicità e Vocazione.
E insieme, «separato» da criteri competitivi esterni: dell’avere, del potere, dell’apparire. Potenze autodistruttive.
A queste ultime, sostituisce concretamente la fraternità del donare, del servire e dello sminuirsi [dal “personaggio”]. Energie feconde.
Tutto per la Comunione globale, e in Verità anche con il proprio intimo seme caratteriale - evitando proselitismi e il farsi notare nelle passerelle.
Il vero credente conosce il suo limite redento, vede le possibilità dell’imperfezione... Così sostituisce i presupposti del trattenere per sé, del salire sugli altri e del dominarli, con un fondamentale trittico umanizzante: elargire, libertà di “scendere”, collaborare.
Questo l’autentico Distacco, che non fugge le proprie e altrui inclinazioni, né disprezza il tratto complesso della condizione umana.
In tal guisa, il «santo» vive la Beatitudine essenziale dei perseguitati (Mt 5,11-12; Lc 6,22-23) perché ha la libertà di “abbassarsi” per essere in sintonia con la propria essenza; coesistendo nella sua originalità.
In termini di Fede, il Santo non è più dunque un fisicamente «separato», bensì «Unito» a Cristo - e messo al bando come Lui, nei fratelli deboli.
Insomma, il Disegno divino è comporre Famiglia di piccoli e malfermi, non ritagliarsi un gruppo di amici “forti”, e “migliori” degli altri.
Solo quest’orizzonte di Focolare ci spinge a partire.
Di conseguenza, contrario di Santo non è «peccatore», bensì irrealizzato o incompiuto.
Vediamone ancora il motivo (vocazionale e per strade personali).
Gesù era amico di pubblicani e pubblici peccatori non perché migliori dei buoni, ma perché in religione i «giusti» risultano non di rado poco spontanei; rendendosi impermeabili, chiusi, refrattari all’azione dello Spirito.
Con sorpresa, il Signore stesso ha fatto ripetuta esperienza che proprio le persone devotamente carenti erano volte a interrogarsi, accorgersi, rielaborare, deviare dall’assuefazione - per l’edificazione di nuovi sentieri, anche procedendo a tastoni.
Non potendo godere del mantello perbenista di paraventi sociali, dopo una presa di coscienza della propria situazione (e nel tempo) - rispetto a coloro che si ritenevano “arrivati” e amici di Dio - da “lontani” diventavano persone più degli “impeccabili” disposte ad amare.
Il mettersi in discussione è fondamentale in ottica biblica.
Ad ogni pie’ sospinto la Scrittura ci propone una spiritualità dell’Esodo, ossia una strada di liberazione da pastoie e percorsa come a piedi, passo dopo passo. Quindi che valorizza sentieri di ricerca, esplorazione, scoperta di sé e della Novità di un Dio che non ripete, ma crea.
L’Appello che la Parola rivolge è a intraprendere un itinerario; questo il punto. E da sempre noi siamo «quelli della Via» e che non passano oltre, non girano lo sguardo dall’altra parte [cf. Lc 10,31-33; FT, 56ss].
Per la mentalità pagana classica, la donna e l’uomo sono essenzialmente “natura”, quindi il loro essere nel mondo è condizionato [ricordo che il mio professore di antropologia teologica Ignazio Sanna diceva addirittura «de-centrato»], persino determinato dalla nascita (fortunata o meno).
Secondo la Bibbia la donna e l’uomo sono creature, splendide e adeguate in sé alla propria missione, ma pellegrine e carenti.
Dio è Colui che li «chiama» a completarsi, recuperando gli aspetti difformi.
Per giungere a essere immagine e somiglianza del Signore, dobbiamo sviluppare capacità di risposta a una Vocazione che ci rende non dei fenomeni, né “perfetti” eccezionali, bensì Testimoni particolari.
Scelti per Nome, così come siamo; che abbracciano il loro essere profondo - anche inespresso - fino a riconoscerlo nel Tu, e dispiegarlo nel Noi.
La santità di una persona si coniuga dunque con moltissimi dei suoi stati d’insoddisfazione, di confine, e persino di fallimento parziale - ma sempre pensando e sentendo la realtà.
Per una Nuova Alleanza.
Nell’Antico Testamento il credente entrava in contatto con la purità divina frequentando luoghi sacri, adempiendo prescrizioni, recitando preghiere, rispettando tempi e spazi, scansando situazioni imbarazzanti; così via.
La nostra esperienza e coscienza attestano infallibilmente che l’osservanza rigorosa è troppo rara, o di maniera: dentro, spesso non ci corrisponde - né umanizza.
Essa diventa presto o tardi un castello di carte, malfermo tanto più punta “in alto”. Basta disporne una sola in modo maldestro, e la costruzione artificiosa crolla.
Ci rendiamo conto della nostra naturale impossibilità a soddisfare sterilizzazioni, mappe (altrui) e standard così elevati.
Con Gesù la Perfezione non riguarda il “pensiero”, né il rispetto di un Codice di osservanze astratto. La Compiutezza è in riferimento a una qualità di Esodo e Relazione.
In antichi contesti il cammino dei figli è stato ammantato d’una proposta misticheggiante o rinunciataria fatta di astinenze, digiuni, ritiri, vita appartata, adempimenti cultuali ossessivi... che in molte situazioni hanno costituito la trama portante della spiritualità pre-Conciliare.
Ma nella Scrittura i Santi non hanno l’aureola e neppure le ali.
Non sono tali per aver compiuto miracoli di guarigione incomparabili e stupefacenti: bensì donne e uomini inseriti nel mondo comune e negli aspetti più ordinari.
Essi conoscono i problemi, le debolezze, le gioie e i dolori della vita quotidiana; la ricerca della propria identità-carattere, o inclinazione profonda.
E l’apostolato; la famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro. La forza di seduzione del male, perfino.
Nel Primo Testamento «Qadosh» designava esclusivamente un attributo dell’Eterno [unica Persona non intermittente] - e la sua separatezza dall’intreccio delle spesso confuse ambizioni terrene.
Malgrado i difetti, però, in Cristo diventiamo capaci di ascolto, di percezione; quindi abilitati a cogliere ogni opportunità per rendere testimonianza della Gratuità innata, vitale, dell’iniziativa divina e reale.
Incessantemente la vita provvidente si propone e viene incontro per aprire varchi impensabili, che fanno breccia.
I suoi inediti tragitti di crescita rinnovano l’esistere tutto concatenato e conforme.
Ciò anche facendoci stupire delle risorse intime, prima inconsapevoli o inconfessate e sottaciute, ovvero imprevedibilmente nascoste dietro lati oscuri.
Quel ch’è Insigne non viene più spostato dietro nuvolette e collocato in recinti muniti.
Pertanto, avversario di Dio non sarà la trasgressione: diventa viceversa la mancanza di spirito di Comunione, nelle differenze.
Nemico della storia di Salvezza non è l’incompletezza religiosa, ma il divario dalle Beatitudini - e dallo spirito in fieri del «viandante» per il quale “peregrinare” è sinonimo [non paradossale] anche di “errare”.
Contrapposto di Dio non sono dunque “i peccati”, bensì «il» Peccato [al singolare, termine teologico, non moralistico].
“Peccato” è l’incapacità di corrispondere a una Chiamata indicativa, che fa da molla per completarci, per rigenerarci non parziali. Ciò armonizzando i lati opposti - nell’essere noi stessi ed essere-Con.
Qui è la Fede che «salva», nel punto in cui ci troviamo - perché annienta «il peccato del mondo» (Gv 1,29) ossia la disistima e senso di colpa; l’umiliazione delle distanze incolmabili.
Infatti Gesù non raccomanda dottrine, né di parcellizzare la propria vicenda con etilismi puntuali. Neppure prospetta alcuna religiosa scalata [in termini di progressività] condita di sforzi.
A nessuno nei Vangeli il Cristo dice «fatti santo», bensì con Lui, come Lui e in Lui - Unito, per incontrare incessantemente i propri stati profondi.
Riconoscendoli meglio, anche grazie al Tu e al Noi.
Il Santo è il piccolo, non l’eroe tutto d’un pezzo, uniforme, pronosticabile, scontato.
Santo è colui che percorrendo la propria via nella scia del Risorto, ha imparato a «identificarsi con l'altro, senza badare a dove [né] da dove [...] in definitiva sperimentando che gli altri sono sua stessa carne» (cf. FT 84).
The community of believers is a sign of God’s love, of his justice which is already present and active in history but is not yet completely fulfilled and must therefore always be awaited, invoked and sought with patience and courage (Pope Benedict)
La comunità dei credenti è segno dell’amore di Dio, della sua giustizia che è già presente e operante nella storia ma che non è ancora pienamente realizzata, e pertanto va sempre attesa, invocata, ricercata con pazienza e coraggio (Papa Benedetto)
"In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet". This refers to the solidity of the Word. It is solid, it is the true reality on which one must base one's life (Pope Benedict)
«In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet». Si parla della solidità della Parola. Essa è solida, è la vera realtà sulla quale basare la propria vita (Papa Benedetto)
It has made us come here the veneration of martyrdom, on which, from the beginning, the kingdom of God is built, proclaimed and begun in human history by Jesus Christ (Pope John Paul II)
Ci ha fatto venire qui la venerazione verso il martirio, sul quale, sin dall’inizio, si costruisce il regno di Dio, proclamato ed iniziato nella storia umana da Gesù Cristo (Papa Giovanni Paolo II)
The evangelization of the world involves the profound transformation of the human person (Pope John Paul II)
L'opera evangelizzatrice del mondo comporta la profonda trasformazione delle persone (Papa Giovanni Paolo II)
The Church, which is ceaselessly born from the Eucharist, from Jesus' gift of self, is the continuation of this gift, this superabundance which is expressed in poverty, in the all that is offered in the fragment (Pope Benedict)
La Chiesa, che incessantemente nasce dall’Eucaristia, dall’autodonazione di Gesù, è la continuazione di questo dono, di questa sovrabbondanza che si esprime nella povertà, del tutto che si offre nel frammento (Papa Benedetto)
He is alive and wants us to be alive; he is our hope (Pope Francis)
È vivo e ci vuole vivi. Cristo è la nostra speranza (Papa Francesco
The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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