Ascensione del Signore: non siamo orfani
(At 1,1-11)
Al termine del suo Vangelo Lc colloca l’Ascensione di Gesù nel medesimo giorno di Pasqua, a Betania e nell’atto perenne del benedirci (Lc 24,50-51) - con una forma di presentazione comprensibile secondo le conoscenze cosmologiche del tempo.
Lo stesso dicasi in At 1, dove il medesimo redattore situa l’evento dopo quaranta giorni [simbolo della continuità con l’insegnamento di Gesù: v.3] e sul Monte detto degli Ulivi (cf. v.12).
Certo, sul Calvario Gesù aveva promesso allo sventurato che lo chiama per nome: «Oggi con me sarai nel Paradiso» (Lc 23,43).
L'evangelista e autore degli Atti degli Apostoli non vuole trasmettere informazioni, bensì un insegnamento in favore delle sorti missionarie delle sue chiese - fisicamente prive del Maestro.
Lc desidera scuotere e sciogliere i dubbi affiorati nelle comunità, anzitutto circa il senso del passaggio di consegne ai discepoli, quindi della sua Presenza operante nello Spirito (vv.8.16).
Egli illumina i seguaci di terza generazione sul mistero della Pasqua del Signore, usando immagini e un genere letterario comprensibili ai suoi contemporanei, provenienti per lo più dal mondo pagano.
In un clima di attesa viva, gli scrittori apocalittici annunciavano imminente l’avvento del Regno di Dio. E nella mentalità comune l’effusione dello Spirito portava con sé l’inaugurazione del tempo ultimo.
Da tale convinzione scaturiva la speranza di una Manifestazione subitanea (limitata a Israele).
Il Veniente e il suo nuovo ordine di cose sarebbero giunti fra sconvolgimenti cosmici: diluvio, terremoti, fuoco purificatore dal cielo, risurrezione dei giusti e inizio di un mondo finalmente appagante.
Anche in alcuni fedeli si stava creando un clima di esaltazione, il quale però confliggeva con la morte del Maestro e il ritardo della sua apparizione gloriosa attesa.
Ogni speculazione sulla prossimità della fine del mondo antico si risolveva in un fiasco.
Ciò fino a esporsi a facili ironie [2Pt 3,4: «Diranno: Dov’è la sua venuta, che Egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione»].
Ma intanto in tutte le comunità si ripeteva «Vieni Signore!» (Marana tha). Però gli anni passavano e gli eventi scorrevano come prima.
La vita quotidiana - come quella dell’impero - non sembrava cambiare granché.
In tale situazione deludente, che interrogava i membri di comunità circa lo spessore della Fede, Lc si rende conto dell’equivoco: la Risurrezione ha segnato l’inizio del Regno, non la conclusione della storia.
Il mondo nuovo non si edifica attraverso scorciatoie, eventi repentini, situazioni immediate, o per procura - né sorge immaginando particolarismi, che viceversa andavano sgretolati.
I tempi erano e sono sempre lunghi, e l’impegno ricomincia da zero ogni giorno: nessuna facile età dell’oro; nessun personaggio definitivamente risolutore, garante dell’ordine e del benessere - come il Messia atteso.
Per correggere le false aspettative (i coloriti racconti degli apocrifi sono decisamente fantasiosi) At descrive l’evento d’intronizzazione regale [Ef 1,20-22; Ef 4,8-10; ebraico-cultuale in Eb 9,24-28.10,19-21; cf. Sal 110, messianico per eccellenza] in modo sobrio, e lo introduce con il dialogo fra Gesù Risorto e gli Apostoli.
La loro domanda era quella che risuonava sulle labbra dei discepoli al volgere del primo secolo: «Quando?» (v.6).
Il senso del testo: ciò non è importante, bisogna solo non perdere di vista la condizione divina del giudicato dagli uomini ma assunto a sé dal Padre.
A Dio non interessano i dibattiti e le curiosità: conta unicamente la missione universale affidata (vv.7-8).
L’esatto contrario di quanto avveniva in alcune realtà cristiane, dove alcuni avevano addirittura iniziato a trascurare i doveri di ogni giorno.
Si noti che il Risorto si rivolge ai suoi durante lo spezzare del Pane (cf. v.4) - mentre la scena dell’Ascensione si sposta al Monte degli Ulivi (vv.9-11.12).
Lc adopera quale sfondo narrativo l’icona biblica del rapimento di Elia (2Re 2,9-15) per indicare che Cristo effonde il suo Spirito e abilita i fratelli a proseguirne la missione nel mondo.
Infatti il libro dei Re narra delle opere dell’allievo Eliseo: esse avevano ricalcato le medesime del maestro, Elia.
La scenografia grandiosa usata dell'autore degli Atti non deve confondere: è per chiarire il senso del passaggio di consegne e dell’invio.
La vittoria del Risorto è il suo popolo in uscita: tale resta l’accesso alla gloria del Padre.
Nel Primo Testamento la Nube (v.9) indicava la presenza divina in un certo luogo.
Lc impiega tale immagine per indicare che la vita di Gesù non è stata fallimentare, bensì accolta da Dio.
Il mondo di Dio [i due in bianche vesti, gli stessi al sepolcro nel giorno di Pasqua: Lc 24,4-6] lo proclama in verità Signore - sebbene condannato dalle autorità come malfattore, peccatore, maledetto.
I «due uomini» (Lc 24,4) sono probabilmente Mosè ed Elia - come nella Trasfigurazione (Lc 9,30) - ossia la Legge e i Profeti, testimoni fondamentali che Cristo è l’Inviato da Dio.
Lo sguardo rivolto al cielo (vv.10-11) è invece quello dei discepoli che ancora sperano forse in un “ritorno” [termine mai adoperato nei Vangeli] di Gesù, affinché riprenda la sua opera violentemente interrotta.
Ma il messaggio «dal cielo» (v.11) chiarisce che non sarà Lui a portare a compimento il suo stesso Sogno.
Dopo i quaranta giorni [v.3: nel linguaggio del giudaismo, tempo simbolico necessario alla preparazione del discepolo] i seguaci ne hanno ricevuto lo Spirito, la forza interiore arricchita dal discernimento.
Ciò a una condizione, ben compresa dalle icone orientali, le quali nel mistero dell’Ascensione raffigurano appunto due angeli biancovestiti che indicano agli apostoli il nimbo glorioso del Signore.
Come nel racconto del rapimento di Elia, è necessario che i discepoli «vedano» dove è finita una vita donata - anche disprezzata dagli uomini, eppur benedetta dal Padre.
Quindi ne vale la pena.
In tal guisa, bisogna che ciascuno la smetta di rivolgere il nasino all’insù, estraniandosi dal mondo: costi quel che costi.
Infatti, possibile solo... «Se mi vedrai» (2Re 2,10).
Nello Spirito, la Visione-Fede riempie di Cielo i nostri occhi: stacca dai giudizi della religiosità banale; dona l’intelligenza delle pieghe della storia, l’impulso per affrontare la vita faccia a faccia, la comprensione della strabiliante fecondità della Croce; la capacità di cogliere, attivare e anticipare futuro.
Da ciò deriva la «grande gioia» (Lc 24,52) degli apostoli, altrimenti incomprensibile dopo un commiato.
«Cari fratelli e sorelle, il Signore, aprendoci la via del Cielo, ci fa pregustare già su questa terra la vita divina. Un autore russo del Novecento, nel suo testamento spirituale, scriveva: “Osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, … intrattenetevi … col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete” (N. Valentini - L. Žák [a cura], Pavel A. Florenskij. Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, Milano 2000, p. 418)».
[Papa Benedetto, Regina Coeli 16 maggio 2010]