don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 17 Marzo 2025 23:36

3a Domenica di Quaresima (C)

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

3a Domenica di Quaresima (anno C)  [23 Marzo 2025]

 

*Prima Lettura dal libro dell’Esodo (3, 1-8a.10.13-15)

Questo testo ha un’importanza fondamentale per la fede di Israele e anche per noi perché per la prima volta l’umanità scopre di essere amata da Dio, un Dio che vede, sente e conosce le nostre sofferenze. Mai l’uomo avrebbe potuto giungere a tanto se Dio stesso non avesse deciso di rivelarsi e, proprio a partire dalla sua autonoma rivelazione, è nata la fede d’Israele e, di conseguenza, anche la nostra. Dobbiamo cogliere la forza di questo testo biblico che purtroppo la traduzione liturgica rende debolmente. Quando leggiamo: “ho osservato la miseria del mio popolo”, il testo ebraico è molto più insistente per cui sarebbe più corretto tradurre così, sentendo la voce Dio: “davvero ho visto, sì, ho visto” la miseria del mio popolo in Egitto. Una miseria reale come si evince dalla storia del popolo ebreo emigrato secoli prima a causa di una carestia, e, mentre all’inizio le cose andavano bene, poi essendo cresciuto il loro numero, proprio quando nacque Mosè gli Egiziani cominciarono a preoccuparsi. Trattennero gli Ebrei come manodopera a basso costo, ma vollero impedirne la crescita demografica facendo uccidere ogni neonato maschio dalle levatrici. Mosè si salvò perché adottato dalla figlia del Faraone e crebbe alla sua corte non potendo però dimenticare le sue origini, continuamente diviso tra la sua famiglia adottiva e i suoi fratelli di sangue, ridotti all’impotenza e alla rivolta. Finché un giorno uccise un egiziano che usava violenza verso un ebreo, ma il giorno dopo, intervenendo tra due ebrei che litigavano gli dissero di non intromettersi e questo voleva dire che non gli riconoscevano la responsabilità di guidare una ribellione contro il Faraone mentre il Faraone aveva deciso di punirlo per l’omicidio dell’egiziano. Mosè si vide costretto, per evitare la vendetta, a fuggire nel deserto del Sinai, dove prese come sposa una madianita, Sippora, figlia di Ietro e l’odierno testo parte da qui. Mentre pascolava il gregge del suocero, un giorno arrivò oltre il deserto al monte di Dio, l’Oreb dove incontrò Dio che gli affidò la grande missione. Attenzione! Mosè sentiva la miseria dei suoi fratelli e aveva rischiato la vita per loro uccidendo un egiziano, ma dovette riconoscere la sua impotenza per cui era fuggito emarginato dai suoi fratelli di sangue che non riconoscevano a lui nessuna autorità. E’ dunque un uomo umanamente fallito che si avvicina a uno strano roveto ardente e da qui la sua storia cambia totalmente. Chiudo con due riflessioni. La prima: Mosè incontra il Dio trascendente e al tempo stesso il Dio vicino. Trascendente perché ci si può avvicinare solo con timore e rispetto, ma anche il Dio vicino, che vede la miseria del suo popolo e suscita un liberatore. Cogliamo la santità di Dio e il profondo rispetto dell’uomo di fronte alla sua presenza in queste espressioni: “l'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto”. Per indicare la presenza di Dio si usa la perifrasi: “l’Angelo del Signore” che è un modo rispettoso di parlare di Dio, come pure le parole: “Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo”; e infine “Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio”. Dio però si rivela come il Dio vicino all’uomo, colui che si china sulla sua sofferenza. La seconda riflessione concerne il modo come Dio interviene: vede la sofferenza degli uomini, agisce e invia Mosè. Dio chiama un collaboratore, ma perché la liberazione si compia, colui che viene chiamato deve accettare di rispondere, e colui che soffre deve accettare di essere salvato. -

 

*Salmo responsoriale (102 (103), 1-2, 3-4, 6-7, 8.11)

Nella prima lettura, racconto del roveto ardente tratto dal libro dell’Esodo capitolo 3, Dio rivela il suo Nome: “Io sono” … cioè “con voi” nel profondo delle vostre sofferenze. Quasi facendo eco, il salmo responsoriale proclama: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all'ira e grande nell'amore”. Le due formulazioni del Mistero di Dio: “Io sono” e “Misericordioso e pietoso” si completano reciprocamente. Nell’episodio del roveto ardente l’espressione “Io sono” o “Io sono colui che sono” non va presa come la definizione di un concetto filosofico. La ripetizione del verbo “sono” è una forma idiomatica della lingua ebraica che serve a esprimere intensità e Dio comincia richiamando la lunga storia dell’Alleanza con i Padri: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” per esprimere la sua fedeltà con il suo popolo attraverso i secoli. Poi volle manifestare la sua compassione per Israele umiliato, ridotto in schiavitù in Egitto e solo allora rivela il suo Nome “Io sono”. La prima scoperta di Mosè sul Sinai fu proprio l’intensa presenza di Dio nel cuore della disperazione degli uomini: “Ho visto – diceva Dio – sì, ho visto la miseria del mio popolo in Egitto, e ho udito i suoi gridi sotto le percosse dei sorveglianti. Sì, conosco le sue sofferenze. Sono disceso per liberarlo…” Mosè conservò in maniera profonda tale memoria da trarne l’incredibile energia che lo trasformò da uomo solo, esiliato e rifiutato da tutti, nel condottiero instancabile e liberatore del suo popolo. Quando però Israele ricorda questa inedita avventura, sa benissimo che il suo primo liberatore è Dio, mentre Mosè ne è soltanto lo strumento. L’“Eccomi” di Mosè (come quello di Abramo, e di tanti altri in seguito) è la risposta che permette a Dio di realizzare la liberazione dell’umanità. E, d’ora in poi, quando si dice “”Il Signore” – traduzione delle quattro lettere (YHVH) del nome di Dio – si evoca la presenza liberatrice di Dio. Per meglio comprendere il mistero della presenza di Dio occorre tornare al racconto del roveto ardente: il roveto ardeva per il fuoco, ma non si consumava (cf Es 3,2). Dio si rivela in due modi: attraverso questa visione come attraverso la parola che proclama il suo Nome. Di fronte alla fiamma che arde un roveto senza consumarlo, Mosè è invitato a comprendere che Dio, paragonabile a un fuoco, è nel mezzo del suo popolo (il roveto) come presenza che non si consuma e non distrugge il popolo; Mosè si velò il volto e comprese che non bisogna aver paura. Così avvenne la vocazione d’Israele, luogo scelto dal Signore per manifestare la sua presenza e, da allora in poi, il popolo eletto testimonierà che Dio è tra gli uomini e non c’è nulla da temere.  Lo proclama il salmo responsoriale: “Misericordioso e pietoso è il Signore”, cioè tenerezza e pietà riprendendo un’altra rivelazione di Dio a Mosè (Es 34,6) e le due si fondono in un’unica verità. Il salmo continua: “Il Signore compie cose giuste, difende i diritti di tutti gli oppressi. Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d'Israele”. Dio è lo stesso da sempre a per sempre: è in mezzo a noi, fiamma, fuoco di tenerezza e pietà e Israele è chiamato a testimoniare questo nel mondo che ha bisogno di tale messaggio perché soffre se non vi arde tale fuoco. Da qui nasce la predicazione dei profeti che sempre pongono in luce due aspetti della vocazione di Israele: Proclamare la propria fede rivelando la verità di cui si è portatori ed agire a immagine del proprio Signore, operando cioè nella giustizia a difesa degli oppressi. Tutti i profeti lottarono contro l’idolatria perché un popolo che ha sperimentato la presenza del Dio che vede le sue sofferenze non può riporre fiducia in idoli di legno o di pietra e al tempo stesso deve difendere i diritti degli oppressi, come dice Isaia: “Il digiuno che mi piace…è condividere il tuo pane con chi ha fame, accogliere in casa i poveri senzatetto, vestire chi trovi nudo, non voltare le spalle al tuo simile” (Is 58,6-7). 

 

*Seconda lettura dalla Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (10, 1-6.10-12)

Per mettere in guardia la comunità di Corinto, essendo importante quanto sta per dire, Paolo inizia così: “Non voglio che ignoriate, fratelli”, ricorda poi ciò che è accaduto durante l’uscita dall’Egitto e termina con “quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”, cioè non sopravvalutatevi dato che nessuno è al riparo dalla tentazione. Nei primi capitoli della lettera l’Apostolo ha posto in guardia i cristiani di Corinto dai tanti rischi di corruzione e immoralità esistenti, invitando ad essere umili. Propone loro una rilettura dell’intera storia del popolo d’Israele durante l’Esodo: storia dove non sono mancati i doni di Dio, ma emerge sempre la volubilità dell’uomo. Dio promise a Mosè di essere il Dio fedele, presente al suo popolo nel difficile cammino verso la libertà, attraverso il deserto del Sinai, ma in cambio in molte occasioni il popolo ha tradito la sua Alleanza. L’Apostolo ripercorre le tappe narrate nel libro dell’Esodo, fin dalla partenza dall’Egitto prima ancora del passaggio del Mar Rosso, quando il Signore stesso aveva preso in mano la guida delle operazioni marciando alla loro testa di giorno in una colonna di nube, per indicar loro la via e di notte con una colonna di fuoco (cf Es 13,21-22). Fin dal primo accampamento, però, il popolo vedendo gli Egiziani alle spalle ebbe paura e si ribellò contro Mosè: “Forse perché in Egitto non c’erano tombe, ci hai portati a morire nel deserto? Che cosa ci hai fatto, facendoci uscire dall’Egitto? … Lasciaci stare, vogliamo servire gli Egiziani. Per noi è meglio servire gli Egiziani che morire nel deserto!”» (cf Es 14,10-11). E questo si ripeterà a ogni difficoltà perché il cammino della libertà è pieno di ostacoli e costante la tentazione di ricadere nella vecchia schiavitù. Paolo trasmette ai Corinzi questo messaggio: Cristo vi ha liberati, spesso però siete tentati di ricadere nei vecchi errori e non vi rendete conto che questi comportamenti vi rendono schiavi. Il cammino di Cristo vi sembra difficile, ma fidatevi di lui: solo lui è il vero liberatore. Anche nel passaggio del Mar Rosso, in una situazione umanamente disperata, Dio intervenne (cf Es 14,19) e il popolo poté attraversarlo perché le acque si aprirono per lasciarlo passare: «Il Signore durante tutta la notte sospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero» (Es 14,21). Le prove continueranno e, in molte occasioni, gli Israeliti torneranno a rimpiangere la sicurezza della schiavitù in Egitto. Si lamentano e a ribellarno invece di avere fiducia pur sapendo che Dio intervene sempre. L’episodio che meglio evidenzia questa crisi è quando nel deserto il popolo iniziò a soffrire realmente la sete e cominciò a protestare accusando Mosè e, attraverso di lui, Dio stesso: “Perché ci hai fatti salire dall’Egitto? Per farci morire di sete, noi, i nostri figli e il nostro bestiame?” (Es 17,3). Fu allora che Mosè colpì la Roccia e ne sgorgò acqua e diede a quel luogo il nome di Massa e Meriba, che significa “Prova e Contesa”, perché  i figli d’Israele avevano contestato il Signore (Es 17,7). I problemi dei Corinzi, ovviamente, non sono gli stessi, ma esistono altre “Egitto” e altre forme schiavitù: per questi nuovi cristiani ci sono delle scelte da compiere in nome del loro battesimo, ci sono comportamenti che non si possono più mantenere. E queste scelte diventano talora dolorose. Pensiamo alle esigenze del catecumenato che comportavano vere rinunce a certi comportamenti, a certe relazioni e talvolta persino a un mestiere; rinunce che si possono accettare soltanto quando si pone tutta la fiducia in Gesù Cristo. Nella società mista e particolarmente permissiva di Corinto, mantenere un comportamento cristiano richiedeva coraggio, ma sottolinea Paolo, ciò che sembra follia agli uomini è vera saggezza agli occhi di Dio. Non è un caso che, durante la Quaresima, la Chiesa c’invita a meditare questo testo di Paolo, che ricorda quando dobbiamo essere esigenti con noi stessi per non cadere nelle vecchie schiavitù, e invece quanta rinnovata fiducia va posta in Dio sempre e in ogni occasione.

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (13, 1-9)

 Nel vangelo di questa domenica troviamo il racconto di due fatti di cronaca nera, il commento di Gesù con la parabola del fico e il loro accostamento sorprende, anche se sicuramente l’evangelista ce lo propone intenzionalmente. Pertanto è proprio la parabola a poterci aiutare a comprendere il senso di che cosa Gesù vuol dire sui due fatti di cronaca.

Il primo concerne un massacro di pellegrini galilei venuti a Gerusalemme per offrire nel Tempio un sacrificio. Sono eventi che all’epoca non erano inusuali dato che era nota la crudeltà di Pilato e spesso i pellegrini erano accusati di essere oppositori del potere romano.  In verità la maggioranza del popolo ebreo mal tollerava l’occupazione dei romani e proprio dalla Galilea, all’epoca della nascita di Gesù, era partita la rivolta di Giuda il Galileo. Il secondo fatto di cronaca, il crollo della torre di Siloe con 18 vittime, era una tragedia come tante. Dalle parole di Gesù possiamo intuire la domanda che i discepoli avevano sulle labbra e che spesso sentiamo ripetere anche oggi: “Che hanno fatto di male per meritare questo castigo divino? È la grande domanda sulla sofferenza che fino ad a oggi è un problema irrisolto. Nella Bibbia, il libro di Giobbe pone il problema nel modo più drammatico e i tre amici – Elifaz, Bildad e Zofar – cercano di spiegare la sua sofferenza attraverso il principio della giustizia retributiva, secondo cui la sofferenza è una punizione per il peccato e quindi Giobbe deve aver commesso qualche colpa nascosta che giustifica le sue afflizioni.  Tuttavia, Giobbe si dichiara innocente e rifiuta queste spiegazioni. Alla fine del libro, Dio interviene e rimprovera gli amici di Giobbe per aver parlato in modo scorretto di Lui, rapprovando invece la sincerità di Giobbe nella sua ricerca di risposte. Complesso è il tema della sofferenza e Dio, che pur riconosce inefficaci tutti i tentativi umani d’interpretare il dolore perché il controllo degli eventi sfugge all’intelligenza dell’uomo, invita l’uomo a mantenere la fiducia in Dio in ogni difficoltà anche la più drammatica. Di fronte all’orrore del massacro dei Galilei e del crollo della torre di Siloe, Gesù è categorico: non c’è legame diretto tra la sofferenza e il peccato per cui quei galilei non erano più peccatori degli altri e né le diciotto persone schiacciate dalla torre di Siloe erano più colpevoli degli altri abitanti di Gerusalemme. Poi però, partendo da questi due eventi, invita i discepoli a una vera conversione, anzi insiste sull’urgenza di convertirsi, facendo eco agli appelli dei profeti come Amos, Isaia e tanti altri. Segue la parabola del fico, che attenua la durezza apparente delle sue parole perché mostra che i pensieri di Dio sono molto diversi da quelli degli uomini e ci mostra il volto di un Dio paziente e misericordioso. Per noi un fico sterile che sfrutta inutilmente il terreno va tagliato, cioè qualcuno che fa del male va punito subito e persino eliminato, ma non così pensa il nostro Dio che anzi afferma: “Com’è vero che io vivo – oracolo del Signore Dio – non provo piacere nella morte del malvagio, ma nella sua conversione, affinché viva” (Ez 33,11).  Gesù non ci chiede in primo luogo di cambiare i nostri comportamenti, ma di cambiare con urgenza l’immagine di un Dio che punisce. Anzi, proprio di fronte al male il Signore è “misericordioso e pietoso”, come dice il Salmo di questa domenica: misericordioso, cioè chinato sulle nostre miserie e la conversione che attende da noi è affidarci alla sua infinita e paziente misericordia. Insomma, riprendendo le conclusioni del libro di Giobbe, Gesù invita a non cercare di spiegare la sofferenza con il peccato e con altre teorie essendo un mistero, ma a conservare nonostante tutto la fiducia in Dio. E quando dice: “se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” vuole significare che l’umanità va verso la rovina quando perde la fiducia in Dio. Come Israele nel deserto, di cui Paolo ricorda l’avventura nella seconda lettura, anche noi siamo provocati a scegliere sempre se fidarci o nutrire il sospetto verso Dio. Dobbiamo però sapere che il suo disegno è sempre a nostro favore e se cambia il nostro cuore (è la conversione), cambierà anche il volto del mondo.

+Giovanni D’Ercole

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Ecco il commento ai testi di domenica prossima con l’assicurazione della preghiera per il Papa e per le grandi esigenze spiritual e sociali della nostra società.

2a Domenica di Quaresima anno C (16 Marzo 2025)

 

*Prima Lettura dal libro della Genesi (15,5-12.17-18)

 All’epoca di Abramo, l’alleanza fra due capi di tribù avveniva con un cerimoniale simile a quello qui descritto: si sacrificavano animali adulti nel pieno della loro forza che venivano squartati in due come a dire: mi succeda come a questi se non sarò fedele all’alleanza che stiamo stipulando. Inoltre entrambi i contraenti passavano a piedi nudi tra le carcasse volendo così condividere il sangue, cioè la vita e diventavano come consanguinei. Gli animali dovevano avere tre anni perché le madri allattavano i figli fino ai tre anni e il numero 3 era diventato simbolo di maturità cosi ché l’animale di tre anni veniva considerato adulto. Abramo compie questi riti abituali per un’alleanza con Dio che all’apparenza sembra rispettare i riti tradizionali eppure tutto è differente perché per la prima volta, nella storia umana, uno dei contraenti è Dio stesso. Simile a riti analoghi è che Abramo squarta gli animali in due e pone ogni metà una di fronte all’altra senza però dividere gli uccelli perché i rapaci calavano sulle carcasse e li scacciava considerandoli uccelli di male augurio (Abramo, pur avendo scoperto il vero Dio, conservava ancora una certa superstizione). Ciò che invece è diverso è che al tramonto Abramo cade in un sonno misterioso accompagnato da un’angoscia oscura e profonda e in quel momento vede passare tra i pezzi degli animali un braciere fumante e una fiaccola ardente. Il testo parla di un sonno misterioso, ma usa una parola che non è di uso comune ma già usata per indicare il sonno di Adamo mentre Dio creava la donna. E’ dunque un modo per dire due cose: anzitutto l’uomo non può assistere all’opera di Dio e quando l’uomo si risveglia (che sia Adamo o Abramo), ha inizio un nuovo giorno, una nuova creazione; inoltre mostra che l’uomo e Dio non sono sullo stesso piano perché nell’opera della creazione e dell’alleanza Dio prende tutta l’iniziativa mentre per l’uomo basterà fidarsi: Abramo ebbe fede nel Signore e il Signore lo considerò giusto. La presenza di Dio è simboleggiata dal fuoco, come spesso accade nella Bibbia: “un braciere fumante e una fiaccola ardente”, come il roveto ardente, il fumo del Sinai, la colonna di fuoco che accompagnava il popolo durante l’Esodo nel deserto, fino alle lingue di fuoco della Pentecoste. Questi i termini dell’alleanza: Dio promette ad Abramo una discendenza e una terra, discendenza e terra termini posti in inclusione nel racconto: all’inizio, Dio aveva detto: guarda il cielo e conta le stelle, se riesci… così sarà la tua discendenza, “Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra” e alla fine: «Alla tua discendenza io do questa terra”.  Sorprendente è questa promessa a un vecchio senza figli e non è la prima volta che Dio gliela fa anche se fino ad ora Abramo non ha visto nemmeno l’ombra della sua realizzazione pur continuando a camminare sostenuto unicamente dalla promessa di un Dio a lui sconosciuto. Ricordiamo i precedenti della sua vocazione: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò. Farò di te una grande nazione (Gn 12,1) e la Bibbia ha sempre sottolineato l’indomita fede di Abramo che “partì come il Signore gli aveva detto” (Gen 12,4). Qui, il testo afferma: “Abramo ebbe fede nel Signore, e il Signore lo considerò giusto”. È la prima apparizione della parola fede nella Bibbia: è l’irruzione della fede nella storia dell’umanità. Il verbo credere in ebraico deriva da una radice che significa stare fermamente: Amen deriva dalla stessa radice. Credere significa stare saldo, fidarsi fino in fondo, anche nel dubbio, nello scoraggiamento e nell’angoscia. Questa è l’attitudine di Abramo; ed è per questo che Dio lo considera giusto e nella Bibbia il giusto è colui la cui volontà è secondo la volontà di Dio. Più tardi, san Paolo si baserà su questa frase per affermare che la salvezza non è questione di meriti: «Se credi… sarai salvato» (Rm 10,9). A ben riflettere, Dio dona e ci chiede una sola cosa… crederci, cioè fidarci di lui. 

Note d’approfondimento.

v.7: «Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei»; è lo stesso verbo usato per l’uscita dall’Egitto con Mosè, seicento anni dopo: l’opera di Dio è presentata fin dall’inizio come un’opera di liberazione.

• v.12: «sonno misterioso» = tardemah = stessa parola usata per Adamo, Abramo e Saul (1 Sam 26).

 

*Salmo responsoriale (26 (27),1.7-8.9a-d.13-14)

 Questo salmo presenta degli stati d’animo così contrastanti che si potrebbe quasi dubitare che sia la stessa persona a parlare dall’inizio alla fine, ma, a ben considerare, esprime sempre la stessa fede che si manifesta sia nell’esultanza che nella supplica secondo gli stati dell’animo dell’orante che si sente autorizzato a dire tutto al Signore. E così la preghiera abbraccia l’intera esistenza dell’uomo: serenità che nasce dalla certezza – “Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita:di chi avrò paura?”, unita a un’ardente supplica – “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!”.Israele ha sempre mantenuto salda la fiducia in mezzo alle sue vicissitudini e anzi nelle difficoltà ha reso più vera la propria fede. Infine, tra la prima e l’ultima strofa, c’è il passaggio dal presente al futuro: nella prima strofa, “Il Signore è mia luce e mia salvezza” che è il linguaggio della fede, cioè della fiducia incrollabile, mentre nell’ultima strofa, “Sono certo di contemplare la bontà del Signore… e spera nel Signore, sii forte” esprime speranza coniugata insieme a fede al futuro. C’è modo di commentare questo salmo spesso nel ciclo liturgico triennale per cui oggi ci fermiamo solo su questi due versetti: “Il tuo volto, Signore, io cerco” e “sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”.  Prima di tutto, “Il tuo volto, Signore, io cerco”: vedere il volto di Dio è il desiderio, la sete di ogni credente perché siamo creati a immagine di Dio e siamo attratti da lui, nostro Creatore. Il desiderio di  cercare il suo volto si fa più intenso nel tempo di Quaresima. Come il Signore disse a Mosè, noi non possiamo vederlo e restare in vita (cf Es 33,18-23. In questo testo è presente insieme alla grandezza e alla inaccessibilità di Dio, anche tutta la tenera vicinanza di Dio, talmente immenso che non possiamo vederlo con i nostri occhi. Il fulgore della sua Presenza ineffabile, inaccessibile – ciò che i testi chiamano la sua gloria – è infatti troppo accecante per noi. Possono i nostri occhi fissare il sole? Come potranno allora guardare Dio? Questa grandezza però non schiaccia l’uomo, anzi, lo protegge, è la sua sicurezza e il profondo rispetto che invade il credente davanti a Dio non suscita paura, ma un misto di totale fiducia e infinito rispetto che la Bibbia chiama “timore di Dio”. Questo ci aiuta a comprendere il primo versetto: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?” Cioè: chi crede non ha più paura di niente, nemmeno della morte, e nessun altro dio potrà mai suscitare in lui quel sentimento religioso di timore, come ribadisce il versetto successivo: “il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura? Fiducia che troviamo ancora nell’ultima strofa: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. Ma quale è la terra dei viventi? Di certo la terra donata al suo popolo e di cui il possesso è diventato per Israele un simbolo dei doni di Dio, ma c’è anche il richiamo alle esigenze dell’Alleanza: la terra santa è stata data al popolo eletto affinché vi viva santamente. E questo è è uno dei temi principali del libro del Deuteronomio (cf Dt 5,32-33), dove i viventi nel senso biblico sono i credenti.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi (3,17-4,1)

La questione fondamentale del cristianesimo e centrale nella storia dell’umanità, come emerge nel vangelo, negli Atti degli Apostoli, nelle lettere di Paolo e che continua ancor oggi ad essere attuale, è questa: l’incarnazione, la passione, morte e risurrezione di Cristo che l’apostolo chiama qui “la croce di Cristo”.  Se Cristo è veramente morto e risuscitato, il volto del mondo è cambiato perché lui ha fatto la pace con il sangue della sua croce. Per Paolo la croce di Cristo è davvero l’evento cruciale del cristiano per cui cambia il modo di pensare, di ragionare e di vivere. Chi pensa che il rito della circoncisione rimane anche ora indispensabile, agisce come se l’evento della “croce di Cristo” non è avvenuto e san Paolo li chiama i “nemici della croce di Cristo”. I Filippesi forse erano titubanti, ma san Paolo li mette in guardia in maniera severa invitandoli a fare attenzione ai cani, ai cattivi operai e ai falsi circoncisi (3,2) aggiungendo che i circoncisi (veri) siamo noi, che rendiamo culto per mezzo dello Spirito di Dio ponendo la nostra gloria in Gesù Cristo senza confidare in noi stessi. Usa persino un paradosso: i veri circoncisi sono quelli che non sono circoncisi nella loro carne, ma battezzati in Gesù Cristo perché tutta la loro esistenza e la loro salvezza é in Gesù Cristo e sanno di essere salvati dalla croce di Cristo e non dalle pratiche rituali. Falsi circoncisi sono invece quanti hanno ricevuto la circoncisione nella loro carne, secondo la legge di Mosè e attribuiscono a questo rito una importanza più grande del battesimo. E quando Paolo afferma che “il ventre è il loro dio” si riferisce proprio alla circoncisione. Inoltre Paolo intravede un’altra insidia nell’attitudine del credente: la salvezza si guadagna con le proprie pratiche oppure la riceviamo gratuitamente da Dio? Quando dice che il ventre è il loro dio vuol far capire che queste persone scommettono sulle pratiche rituali ebraiche e si sbagliano: “si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra” per cui “la loro sorte finale sarà la perdizione”.  E continua indicando quale sia la scelta giusta: ricorda ai Filippesi che la nostra cittadinanza è nei cieli mentre attendiamo come salvatore Gesù Cristo, che trasformerà i nostri poveri corpi a immagine del suo corpo glorioso, con la potenza attiva che lo rende perfino capace di sottomettere ogni cosa al suo dominio. Se lo attendiamo come salvatore significa riconoscere che tutta la nostra fiducia è posta in lui e non in noi stessi e nei nostri meriti. Siamo così i veri circoncisi e rendiamo culto per mezzo dello Spirito di Dio, perché la nostra gloria è posta in Gesù Cristo e non confidiamo in noi stessi. A questo punto Paolo si pone come modello dato che se c’era uno con meriti da far valere secondo la legge ebraica era proprio lui. Scrive infatti che se qualcun altro crede di poter confidare in sé stesso, io posso farlo ancor di più, io, circonciso l’ottavo giorno, della discendenza d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo, figlio di Ebrei; per la legge, fariseo; per lo zelo, persecutore della Chiesa; per la giustizia che si trova nella legge, divenuto irreprensibile. Ora tutte queste cose, che per me erano guadagni, le ho ritenute come una perdita a causa di Cristo (cf Fil 3,4-7). In sintesi,  prendere esempio da Paolo significa fare di Gesù Cristo – e non delle nostre pratiche – il centro della nostra vita e questo significa  essere “cittadini dei cieli”.

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (9, 28-36)

Nel capitolo nove Luca racconta che Gesù, mentre stava pregando in un luogo solitario, pose ai discepoli questa domanda: “le folle chi dicono che io sia?”, poi a loro: “Ma voi chi dite che io sia? e Pietro rispose: “Il Cristo (cioè il Messia) di Dio”. Gesù annunciò allora la necessità  del sacrificio del Figlio dell’uomo respinto dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, messo a morte ma risorto il terzo giorno. L’odierno episodio sembra riprendere lo stesso discorso otto giorni dopo. Gesù conduce Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte perché desidera nuovamente pregare con loro ed è in tale contesto che Dio sceglie di rivelare a questi tre privilegiati il mistero del Messia. Qui non sono più gli uomini, la folla o i discepoli, a esprimere la loro opinione, ma è Dio stesso che ci invita a contemplare il mistero del Cristo: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!” Il monte della Trasfigurazione fa pensare al Sinai e Luca sceglie un vocabolario che evoca il contesto della rivelazione di Dio sul Sinai: il monte, la nube, la gloria, la voce che risuona, le tende. Comprensibile la presenza di Mosè ed Elia visto che Mosè trascorse quaranta giorni sul Sinai in presenza di Dio e discese con il volto così raggiante da stupire tutti. Elia invece camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte dove Dio si rivelò in un modo totalmente inatteso: non nella potenza del vento, del fuoco, del terremoto, ma nel dolce sussurro di una brezza leggera. I due personaggi dell’Antico Testamento che ebbero il privilegio di vedere la gloria di Dio, sono presenti anche qui dove si manifesta la gloria di Cristo. Soltanto Luca precisa il contenuto del loro colloquio con Gesù, cioè stavano parlando del suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme. Luca usa la parola esodo perché non si può separare la gloria di Cristo dalla Croce e dalla risurrezione, che chiama la Pasqua di Cristo. Come la Pasqua di Mosè inaugurò l’Esodo d’Israele dalla schiavitù in Egitto verso la terra della libertà, la Pasqua di Cristo apre il cammino della liberazione per tutta l’umanità. Dalla nube una voce dice: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”. Queste tre parole: Figlio mio, Eletto, Ascoltatelo esprimevano al tempo di Cristo la diversità dei ritratti con cui si immaginava il Messia. Il titolo di Figlio di Dio veniva conferito ai re il giorno della loro consacrazione; l’Eletto è uno dei nomi del servo di Dio di cui parla Isaia nei Canti del servo: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio Eletto”; Ascoltatelo, sembra alludere alla promessa che Dio fece a Mosè di suscitare dopo di lui un profeta: “Susciterò loro un profeta come te tra i loro fratelli; metterò le mie parole nella sua bocca” (Dt 18, 18) e alcuni ne deducevano che il Messia atteso sarebbe stato un profeta. “Ascoltatelo”, non è l’ordine di un maestro esigente o dominante, ma una supplica: Ascoltatelo, cioè abbiate fiducia in lui. Pietro, contemplando il volto trasfigurato di Gesù, propone di stabilirsi sul monte tutti insieme, ma Luca precisa che non sapeva quello che diceva perché non è il caso di isolarsi dal mondo e dai suoi problemi dato che il tempo è breve. Il progetto di Dio non è per pochi eletti: Pietro, Giacomo e Giovanni devono piuttosto affrettarsi a raggiungere gli altri e lavorare perché nell’ultimo giorno, sarà l’intera umanità a essere trasfigurata. Paolo nella lettera ai Filippesi lo dice alla sua maniera: “noi siamo cittadini del cielo”.

+Giovanni D’Ercole

 

 

Ecco una sintesi per coloro che lo desiderano 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

 

*Prima Lettura dal libro della Genesi (15,5-12.17-18)

 All’epoca di Abramo, l’alleanza fra due capi di tribù avveniva con un cerimoniale simile a quello qui descritto: si sacrificavano animali adulti nel pieno della loro forza squartati in due come a dire: mi succeda come a questi se non sarò fedele all’alleanza che stiamo stipulando. Inoltre entrambi i contraenti passavano a piedi nudi tra le carcasse volendo così condividere il sangue, cioè la vita e diventavano come consanguinei. Gli animali dovevano avere tre anni perché le madri allattavano i figli fino ai tre anni e il numero 3 era diventato simbolo di maturità cosi ché l’animale di tre anni veniva considerato adulto. Abramo compie questi riti abituali per un’alleanza con Dio. All’apparenza sembra rispettare i riti tradizionali eppure tutto è differente perché per la prima volta nella storia umana, uno dei contraenti è Dio stesso. Vediamo da vicino anzitutto ciò che è simile: Abramo squarta gli animali in due e pone ogni metà una di fronte all’altra senza però dividere gli uccelli perché i rapaci calavano sulle carcasse e Abramo li scacciava considerandoli uccelli di male augurio. Ma c’è qualcosa d’insolito: al tramonto, Abramo cade in un sonno misterioso accompagnato da un’angoscia oscura e profonda. Il testo parla di un sonno misterioso, una parola già usata per indicare il sonno di Adamo mentre Dio creava la donna e serve per dire due cose: anzitutto l’uomo non può assistere all’opera di Dio e quando l’uomo si risveglia (che sia Adamo o Abramo), ha inizio un nuovo giorno, una nuova creazione. Inoltre l’uomo e Dio non sono sullo stesso piano perché nell’opera della creazione e dell’alleanza Dio prende tutta l’iniziativa mentre all’uomo basterà fidarsi: Abramo ebbe fede e il Signore lo considerò giusto. La presenza di Dio è simboleggiata dal fuoco, come spesso accade nella Bibbia: “un braciere fumante e una fiaccola ardente”, come il roveto ardente, il fumo del Sinai, la colonna di fuoco che accompagnava il popolo durante l’Esodo nel deserto, fino alle lingue di fuoco della Pentecoste. Questi i termini dell’alleanza: Dio promette ad Abramo una discendenza e una terra, promessa già fatta a un vecchio senza figli anche se fino ad ora Abramo non ha visto nemmeno l’ombra della sua realizzazione, ma continua a fidarsi di un Dio a lui sconosciuto. Per la prima appare la parola fede nella Bibbia: è l’irruzione della fede nella storia dell’umanità. Il verbo credere in ebraico deriva da una radice che significa stare fermamente: Amen deriva dalla stessa radice. Credere significa stare saldo, fidarsi fino in fondo, anche nel dubbio, nello scoraggiamento e nell’angoscia. Questa è l’attitudine di Abramo; ed è per questo che Dio lo considera giusto. Il testo afferma: “Abramo ebbe fede nel Signore, e il Signore lo considerò giusto”. Più tardi, san Paolo si baserà su questa frase per affermare che la salvezza non è una questione di meriti: «Se credi… sarai salvato» (Rm 10,9). A ben riflettere, Dio dona tutto e ci chiede una sola cosa: fidarci di lui. 

 

*Salmo responsoriale (26 (27),1.7-8.9a-d.13-14)

 Questo salmo presenta degli stati d’animo così contrastanti che si potrebbe quasi dubitare che sia la stessa persona a parlare dall’inizio alla fine, ma, a ben considerare, esprime sempre la stessa fede che si manifesta sia nell’esultanza che nella supplica secondo gli stati dell’animo nei quali ci troviamo perché la preghiera abbraccia l’intera esistenza dell’uomo. La serenità nasce dalla certezza – “Il Signore è mia luce e mia salvezza… è difesa della mia vita: di chi avrò paura?”, insieme all’ardente supplica – “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!”. Nei momenti di gioia e in quelli di prova Israele ha sempre mantenuto salda la fiducia e anzi nelle difficoltà ha reso più vera la propria fede. Questo salmo torna spesso nel ciclo liturgico triennale per cui oggi ci fermiamo solo su questi due versetti: “Il tuo volto, Signore, io cerco” e “sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”.  Vedere il volto di Dio è il desiderio di ogni credente perché siamo creati a immagine di Dio e siamo attratti da lui, ma il fulgore della sua Presenza ineffabile, che la Bibbia chiama la sua gloria, è troppo accecante per noi. Possono i nostri occhi fissare il sole? Come potranno allora guardare Dio? Questa grandezza però non schiaccia l’uomo, anzi, lo protegge, è la sua sicurezza e il profondo rispetto che invade il credente davanti a Dio non suscita paura, ma un misto di totale fiducia e infinito rispetto che la Bibbia chiama “timore di Dio”. Questo ci aiuta a comprendere il primo versetto: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?” Cioè: il credente non ha più paura di nulla e di nessuno, nemmeno della morte, e nessun altro dio potrà mai più suscitare in lui quel sentimento religioso di timore, come ribadisce il versetto successivo: “il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura? Troviamo la fiiducia ancora nell’ultima strofa: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. E i viventi nel senso biblico sono i credenti.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi (3,17-4,1)

La questione fondamentale del cristianesimo e centrale nella storia dell’umanità, come emerge nel vangelo, negli Atti degli Apostoli, nelle lettere di Paolo e che continua ancor oggi ad essere attuale, è questa: l’incarnazione, la passione, morte e risurrezione di Cristo che l’apostolo chiama qui “la croce di Cristo”.  Se Cristo è veramente morto e risuscitato, il volto del mondo è cambiato perché lui ha fatto la pace con il sangue della sua croce. Per Paolo la croce di Cristo è davvero l’evento cruciale del cristiano per cui cambia il modo di pensare, di ragionare e di vivere. Chi pensava che il rito della circoncisione era anche indispensabile, agiva come se l’evento della “croce di Cristo” non fosse avvenuto e san Paolo li chiama i “nemici della croce di Cristo”. I Filippesi forse erano titubanti e san Paolo li invita a fare attenzione ai falsi circoncisi (3,2) aggiungendo che i veri circoncisi siamo noi, che poniamo tutta la nostra fiducia in Gesù Cristo. E arriva a usare un paradosso: i veri circoncisi sono quelli che non sono circoncisi nella loro carne, ma battezzati in Gesù Cristo perché tutta la loro esistenza è in Cristo e sanno di essere salvati dalla croce di Cristo e non dalle pratiche rituali. Quando Paolo afferma che “il ventre è il loro dio” si riferisce proprio alla circoncisione e vuol far capire che queste persone scommettono sulle loro pratiche rituali. La scelta giusta è ricordare che siamo cittadini del cielo e attendiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, che trasformerà i nostri poveri corpi a immagine del suo corpo glorioso. Se attendiamo Cristo come salvatore vuol dire che riconosciamo che tutta la nostra fiducia è in lui e non in noi stessi e nei nostri meriti. Siamo così i circoncisi (i veri) e rendiamo culto per mezzo dello Spirito di Dio, perché la nostra gloria è posta in Gesù Cristo e non confidiamo in noi stessi. A questo punto Paolo si pone come modello dato che se c’era uno con meriti da far valere secondo la legge ebraica era proprio lui. Ponendosi come esempio c’incoraggia a fare di Cristo, e non delle pratiche rituali, il centro della nostra vita e se siamo in Cristo siamo già “cittadini dei cieli”, pur abitando ancora sulla terra. 

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (9, 28-36)

Nel capitolo nove Luca racconta che Gesù, mentre stava pregando in un luogo solitario, chiese ai discepoli: “le folle chi dicono che io sia?”, poi a loro: “Ma voi chi dite che io sia? e Pietro rispose: “Il Cristo (cioè il Messia) di Dio”. E Gesù disse: é necessario che il Figlio dell’uomo soffra molto, sia respinto, messo a morte e, il terzo giorno, risorga. L’odierno episodio sembra riprendere lo stesso discorso otto giorni dopo con Gesù che conduce Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte perché desidera nuovamente pregare con loro e in tale contesto Dio sceglie di rivelare a questi tre privilegiati il mistero del Messia. Qui non sono più gli uomini, la folla o i discepoli, a esprimere la loro opinione, ma è Dio stesso che fornisce la risposta e invita a contemplare il mistero del Cristo: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!” Il monte della Trasfigurazione fa pensare al Sinai e Luca sceglie un vocabolario che evoca il contesto della rivelazione di Dio sul Sinai: il monte, la nube, la gloria, la voce che risuona, le tende. Comprensibile la presenza di Mosè ed Elia, i due personaggi dell’Antico Testamento che ebbero il privilegio della rivelazione della gloria di Dio e ora sono testimoni della gloria di Cristo. Soltanto Luca precisa il contenuto del loro colloquio con Gesù, cioè stavano parlando del suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme. Luca usa la parola esodo perché non si può separare la gloria di Cristo dalla Croce e la usa riferendosi alla Pasqua di Cristo. Come la Pasqua di Mosè inaugurò l’Esodo d’Israele dalla schiavitù in Egitto verso la terra della libertà, la Pasqua di Cristo apre il cammino della liberazione per tutta l’umanità. Tutto s’incentra su tre parole che esprimevano al tempo di Cristo le diverse concezioni del Messia: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”. Il titolo di Figlio di Dio veniva conferito ai re il giorno della loro consacrazione; l’Eletto è uno dei nomi del servo di Dio di cui parla Isaia nei Canti del servo: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio Eletto”; Ascoltatelo sembra alludere alla promessa che Dio fece a Mosè di suscitare dopo di lui un profeta (Dt 18, 18) e alcuni ne deducevano che il Messia atteso sarebbe stato un profeta. Ascoltatelo! Non è l’ordine di un maestro esigente o dominante, ma una supplica: Ascoltatelo, cioè abbiate fiducia in lui. Pietro, meravigliato dal volto trasfigurato di Gesù, propone di stabilirsi sul monte tutti insieme, ma Luca precisa che Pietro non sapeva quello che diceva perché non è il caso di isolarsi dal mondo e dai suoi problemi dato che il tempo è breve. Pietro, Giacomo e Giovanni devono piuttosto affrettarsi a raggiungere gli altri perché il progetto di Dio non si limita a pochi eletti: nell’ultimo giorno, sarà l’intera umanità a essere trasfigurata. San Paolo nella lettera ai Filippesi diceva che “noi siamo cittadini del cielo”, perché con il battesimo siamo già nella vita eterna pur pellegrinando ancora sulla terra.

+Giovanni D’Ercole

Riflessioni sul senso religioso.

Anche questa riflessione nasce da un dialogo con un signore della mia età circa.

Questo signore conosciuto e stimato nel suo paese incontrando una sua vecchia conoscenza, viene redarguito da quest’ultima perché non frequentava le  funzioni religiose;  secondo lei avrebbe dovuto farlo per il suo bene. Il signore ha risposto che non sentiva questo bisogno e che non gli sembrava che il suo comportamento potesse offendere il senso religioso generalmente inteso. 

Discussioni del genere ce ne sono spesso fra gli esseri umani, non è una novità. La riporto perché mi ha  fatto riflettere sul senso religioso nella vita dell’uomo. L’argomento tocca diverse discipline ed è complesso.     

Studi di Fiorenzo Facchini dicono che vari comportamenti dell’uomo preistorico vengono letti in senso religioso. I nostri antenati  davano sepoltura  ai loro morti e dipingevano raffigurazioni sulle pareti.      

Queste caverne avevano qualcosa di sacro. Manifestazioni religiose dell’antichità erano i canti e le danze.

In tutte le religioni troviamo un bisogno di rassicurazione sulla nostra vita e anche il bisogno di trovare delle risposte magiche ai nostri problemi.

Bettelheim sostiene che a livello individuale e soprattutto nell’infanzia la religione  può dare quelle basi di stabilità e sicurezza con cui il bambino potrà evolversi verso l’autonomia.

La società in cui viviamo ci impone di correre, di essere al passo con i tempi; vuole darci i suoi valori.

Oggi esiste la moda dell’effimero, della competitività - e allora è psicologicamente rassicurante credere in una “madre-ambiente” che ci vuole bene, o essere dentro un disegno che dà  significato alla nostra vita.

A differenza di Freud che non aveva una  visione positiva, o del filosofo Carlo Marx il quale sosteneva che la religione è l’oppio dei popoli, Jung nell’undicesimo volume “Psicologia e religione”  dice testualmente:

“Poiché’ la religione è incontestabilmente una delle prime e universali espressioni dell’anima umana […] non è soltanto un fenomeno sociologico o storico, ma un’importante questione personale” (vol.XI, p.15).

Nella mia  lunga pratica professionale ho incontrato spesso persone che hanno dovuto fare i conti con questa tematica.

Compito del terapeuta non è condizionare  l’altro, ma chiarire le dinamiche sottostanti.

Ho incontrato persone che si definivano non credenti ma che a livello inconscio dovevano fare i conti con i loro sogni. Oppure individui che appartenevano a religioni diverse talmente rigide che inibivano il loro il senso vitale.

In tutti questi casi  cresceva la  conoscenza dell’animo umano, sia che esso si dichiarasse religioso o meno. Non stiamo discutendo della posizione filosofica di ciascuno.

Si notavano delle differenze tra la persona che si definiva religiosa da una che non lo era.

Tengo a precisare che tali differenze non costituiscono dei giudizi di valore, ma solo caratteristiche comportamentali.

lI religioso crede che esiste una realtà che è sacra e che va oltre questo mondo - e che la sua esistenza viene potenziata in base al suo credo.

Colui che si definiva non credente rifiutava la trascendenza, era uno il quale si fa da sé e crede che solamente lui si costruisce  il proprio destino.

Una preoccupazione costante è quella di negare qualsiasi riferimento o battuta di spirito venisse riferita ad argomenti religiosi.

Addirittura ho incontrato qualcuno più preoccupato  di quale fosse il mio credo più che dei suoi problemi personali. Ho sempre risposto che il mio ambito d’azione era la psiche in tutte le sue manifestazioni. Al di là di ogni manifestazione sacra o meno, il rispetto della persona è già un atteggiamento sacro.

“Desacralizzarsi“ del tutto non è neanche facile, poiché è difficile rinnegare del tutto la storia - sia per chi crede nella creazione e per chi crede nell’evoluzione.

Chissà se l’evoluzione include una creazione?

 

Dott. Francesco Giovannozzi Psicologo-psicoterapeuta                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            

Mercoledì, 05 Marzo 2025 21:02

1a Domenica di Quaresima (anno C)

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! 

Prima Domenica di Quaresima (anno C)  9 Marzo 2025 

 

*Prima Lettura dal Libro del Deuteronomio (26, 4 – 10)

Mosè ordina un gesto di offerta, come avviene in tutte le religioni, ma per Israele si tratta di una reale professione di fede: “Prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole”. Segue poi un intero discorso sull’opera di Dio a favore del suo popolo, che si potrebbe riassumere in una semplice frase: tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che siamo, è dono di Dio. Questa è la grande novità di tutta la Bibbia specialmente del libro del Deuteronomio. Se nelle religioni il rito dell’offerta è un gesto di richiesta alle divinità di benefici che loro possiedono, per Israele avviene il ribaltamento del senso del rito perché quest’offerta è un atto di gratitudine. Offrire i doni non significa concedere a Dio qualcosa che ci appartiene, ma riconoscere che tutto è suo dono e non ci presentiamo a lui con le mani piene di ricchezze nostre; anzi riconosciamo che senza di Lui le nostre mani resterebbero vuote. In questo spirito, portare le proprie offerte diventa un gesto di memoria. Il libro del Deuteronomio insiste su questa pratica forse perché il popolo sembrava aver in parte dimenticato Dio e i suoi benefici. Nel deserto Israele aveva ben compreso che la sua sopravvivenza dipendeva da Dio e solo da Lui. Giunto però nella terra promessa (la terra di Canaan, l’Israele di oggi) correva il rischio di dimenticare il vero Dio essendovi diffusi culti delle popolazioni locali adoranti Baal e il serio rischio della contaminazione da parte dell’idolatria costituiva una minaccia alla vera fede. I profeti hanno sempre cercato di mantenere la fedeltà all’Alleanza del Sinai (cf Es 20,2), ripetendo che c’è un solo Dio, il Dio di Mosè, che ha liberato il suo popolo dalla mano degli Egiziani, lo ha accompagnato lungo tutta la sua storia e, infine, gli ha donato la terra promessa. Sembra proprio che la preoccupazione del nostro testo sia quella di conservare la memoria di quanto Dio ha compiuto e, in realtà, il libro del Deuteronomio potrebbe essere definito il libro della memoria. Il rito dell’offerta delle primizie è pertanto soprattutto un gesto di memoria, accompagnato dall’enumerazione delle opere compiute da Dio a favore del suo popolo. Nella parola “primizie” è contenuta l’idea di “primo”, i primi frutti del nuovo raccolto, i primi covoni di grano, i primi grappoli d’uva, il primo nato della nuova cucciolata. Tutto questo costituisce l’inizio e la promessa: pesando il primo covone, il primo grappolo, si poteva capire se il raccolto sarebbe stato abbondante e il rito di offerta esisteva già ai tempi di Caino e Abele per ottenere le benedizioni della divinità. Mosè ne aveva trasformato il significato: da quel momento in poi, tutto veniva vissuto in funzione dell’Alleanza e per questo si capisce il discorso che accompagna l’offerta. Non si domandano a Dio benefici per il futuro, ma si riconoscono quelli avuti sin dalla chiamata di Abramo e il rito diventa una professione di fede che costituisce un riassunto della storia di Israele: «Mio padre era un Arameo errante…». Tutto iniziò con Abramo, l’Arameo scelto da Dio per diventare il padre del popolo dell’Alleanza: un nomade “errante” nel senso che, prima della sua chiamata da parte di Dio, non aveva ancora scoperto l’unico Dio, errante quindi in senso spirituale. La frase che segue «Mio padre era un Arameo errante, che scese in Egitto», non si riferisce più ad Abramo, il capostipite, ma al suo discendente Giacobbe: lui e i suoi figli si stabilirono in Egitto. Segue tutta la storia, fino all’ingresso nella terra promessa. A questo punto, il gesto dell’offerta assume il suo pieno significato: offrendo il primo covone, il primo grappolo, è come se si presentasse a Dio tutto il raccolto.  L’ offertorio nella Messa ha lo stesso significato: riconoscere che tutto è dono di Dio: «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questi doni: a ben vedere prepariamo e offriamo doni a Dio che non sono nostri ma suoi.

 

 * Salmo Responsoriale 90 (91), 1-2, 10-11, 12-13, 14-15

Il salmo si presenta come un dialogo a tre voci.  Israele dice: “Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: «Mio rifugio mia fortezza, mio Dio in cui confido”. I sacerdoti all’ingresso del Tempio proclamano: “Non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda”. Infine interviene Dio stesso: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome.”.  Nei primi versetti, se si fa attenzione, vengono dati quattro nomi diversi a Dio: l’Altissimo (Elyôn), l’Onnipotente (El Shaddai), il Signore (YHWH) e infine Dio (Elohim). Le divinità degli altri popoli utilizzano tre di questi nomi: l’Altissimo, l’Onnipotente ed Elohim. Israele riprende questi termini comuni per designare il proprio Dio, ma è l’unico popolo al mondo a poterlo chiamare con il quarto, il famoso Nome rivelato a Mosè nel roveto ardente: YHWH. Come dice Dio stesso nel libro dell’Esodo: «Mi sono rivelato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe come Dio Onnipotente (El Shaddai), ma con il mio nome, YHWH, non mi sono fatto conoscere da loro» (Es 6,3). Questi primi versetti sviluppano il tema della sicurezza del credente con l’abbraccio dell’Altissimo all’ombra dell’Onnipotente.  Nel linguaggio dei salmi, l’abbraccio dell’Altissimo richiama il Tempio di Gerusalemme e l’ombra è quella delle ali delle statue dei cherubini che sovrastano l’arca dell’Alleanza. C’è però anche un’allusione alla presenza protettrice di Dio lungo tutto l’Esodo. Come annotano gli esegeti le «ali» richiamano quelle dell’aquila che incoraggia i primi voli dei suoi piccoli (Dt 32,10-11; cf. Es 19,4). E l’angelo Gabriele dirà alla Vergine di Nazaret: “Su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo” (Lc 1,35). I termini “mio rifugio, mia fortezza, mio Dio in cui confido” esprimono una professione di fede e indicano una risoluzione contro l’idolatria che esige sempre l’impegno a non abbandonare l’abbraccio dell’Altissimo. Gesù è colui che non smette mai di rifugiarsi in Dio, come vediamo oggi nel vangelo delle tentazioni di Gesù. Insomma la lotta contro l’idolatria è un tema che attraversa tutta la Bibbia ed è un punto centrale della predicazione dei profeti. Anche in questo nostro tempo c’è da riflettere perché l’idolatria assume volti diversi e sempre nuovi. Nel salmo seguono due strofe che sono una sorta di catechesi rivolta dai sacerdoti a ogni pellegrino nel Tempio di Gerusalemme: “non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda” se tu resti sotto l’ombra dell’Altissimo perché Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie. Calpesterai leoni e vipere, schiaccerai leoncelli e draghi. Duplice è il messaggio: certa è la vittoria - calpesterai leoni e draghi - e a garantirla è Dio che non cesserà mai di proteggere il suo popolo che darà ordine agli angeli di custodire tutti i passi del pellegrino, anzi lo porteranno con le loro mani, perché il suo piede non inciampi nelle pietre. Alla fine, nell’ultima strofa parla Dio: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta” Da notare il versetto finale “nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso” che mostra come Israele abbia compreso che Dio non elimina ogni prova con un colpo magico, ma è «con» noi nella difficoltà e nella prova. Nell’angoscia” sarò con lui” è esattamente il significato del nome «Emmanuele», che vuol dire Dio-con-noi. Proposto all’inizio della Quaresima, questo salmo c’invita a trovare rifugio nell’abbraccio dell’Altissimo, frequentando la liturgia nelle nostre chiese dove non c’è più l’arca dell’Alleanza, né le due statue dei cherubini – quegli esseri alati con testa d’uomo e corpo di leone, le cui ali unite formavano un trono per Dio -, ma qualcosa di molto più grande: la Presenza della Santissima Trinità

 

*Seconda lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (10,8-13)

San Paolo afferma una cosa importante: che siate giudei o pagani non c’è alcuna differenza perché ciò che vi accomuna è l’essere cristiani e invocate tutti lo stesso Signore, generoso verso coloro che lo cercano. Il problema esisteva a Roma come altrove e ci si chiedeva se occorreva trattare allo stesso modo giudei e pagani. Anche se Paolo desiderava che tutti i giudei accogliessero Gesù come il Messia, tuttavia soltanto una minoranza del popolo ebraico aderì a Gesù Cristo, mentre furono i pagani a costituire la parte più numerosa delle comunità cristiane. Si capisce allora che la convivenza tra cristiani di origini così diverse, ebraiche o pagane, poneva non poche difficoltà e nascevano interminabili discussioni su questioni come la Legge, la circoncisione e le norme alimentari. Il problema era più profondo dato che alcuni giudei convertiti al cristianesimo accettavano a malincuore l’ingresso di quelli che chiamavano «gli incirconcisi», essendo Israele il popolo eletto da cui sarebbe nato il Messia.  La domanda era la seguente: accogliere i non giudei non è forse tradire l’Alleanza e l’elezione del popolo ebraico? Per Paolo impedire ai pagani di ricevere il battesimo, voleva dire che Gesù salva solo i giudei, mentre nell’ Antico Testamento già il profeta Gioele aveva affermato del Messia: “Effonderò il mio Spirito su ogni uomo. I vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sui servi e sulle serve, in quei giorni, effonderò il mio Spirito… Allora chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato.» (Gl 3,1-5). Inoltre i contemporanei di Paolo trovavano strano che per essere salvati bastasse invocare il nome di Gesù mentre ritenevano si doveva essere circoncisi e osservare scrupolosamente la Legge. L’Apostolo risponde che, poiché Gesù Cristo è Signore (Dio), d’ora in poi chiunque lo invoca è salvato come lo stesso Cristo disse a Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”, precisando proprio chiunque: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.» (Gv 3,16-17) e il termine «mondo» significa chiaramente «tutta l’umanità». L’Apostolo non esita a ripetere: ”se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza”.  Nell’Antico Testamento, «ottenere la giustizia» e «essere salvati» significavano la stessa cosa.  Inoltre il verbo «credere» non ha qui il senso di un’opinione personale e il parallelo tra «bocca» e «cuore» su cui insiste indica che la fede è un impegno profondo e totale della persona. Così, secondo Paolo, si compie quanto si legge nel libro del Deuteronomio: “Questa parola è molto vicina a te: è nella tua bocca e nel tuo cuore.» Mentre nel Deuteronomio si parla della Legge da osservare, ora questa parola è il messaggio della fede in Gesù Cristo e Paolo ricorda a coloro che hanno ricevuto il battesimo: la salvezza ci è donata gratuitamente da Dio senza alcun nostro merito,; dobbiamo solo accoglierla con fede e libertà: «Se con la tua bocca proclami che Gesù è Signore e se con il tuo cuore credi che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore si crede per ottenere la giustizia, con la bocca si fa professione di fede per avere la salvezza

 

* Dal Vangelo secondo san Luca (4, 1 – 13)

Se leggiamo questa pagina evangelica alla luce dell’odierno salmo responsoriale, riconosciamo l’attitudine interiore con cui Gesù inizia la sua missione pubblica: “Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido”.  Gesù si pone  all’ombra dell’Altissimo, mentre la tentazione lo spinge a lasciare questo rifugio, a dubitare della sua sicurezza e a cercare altrove ripari e sicurezze: sono proprio queste le tre tentazioni che hanno segnato sempre la storia di Israele e anche la nostra vita. Il diavolo - in greco «diabolos» cioè colui che divide – lo tenta insinuando il dubbio e la sfiducia. Se veramente tu sei il Figlio di Dio, tu puoi fare tutto quello che vuoi e sei in grado da solo di provvedere alla tua felicità. Dì a questa pietra che diventi pane e così sazi subito la tua fame dopo un così lungo digiuno (prima tentazione); adorami e sicuramente potrai realizzare tutti i tuoi disegni e progetti (seconda tentazione). Infine “se tu sei Figlio di Dio, gettati giù di qui; sta scritto infatti: "Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano"; e “ ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra (terza tentazione). Gesù però non cede alle lusinghe sataniche perché è certo che solamente Dio sazia la fame vera dell’uomo e ha scelto di fidarsi, in altri termini, di abitare al riparo dell’Altissimo, come dice il salmo. Più in dettaglio nella prima tentazione, quando il Tentatore lo provoca Gesù risponde: “Sta scritto: "Non di solo pane vivrà l’uomo”, una espressione nota a tutto il popolo ebraico perché è contenuta nel capitolo 8 del Deuteronomio, come una meditazione sull’esperienza d’Israele durante l’esodo sotto la guida di Mosè: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto…ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito con la manna che né tu né i tuoi padri conoscevate, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di tutto ciò che esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,2-3). Il popolo sa per esperienza cosa significa la beatitudine della povertà: Beati coloro che hanno fame, perché confidano solo in Dio per essere saziati e il Deuteronomio prosegue: «Riconosci dunque nel tuo cuore che il Signore tuo Dio ti educava come un uomo educa suo figlio.» (Dt 8,5). In questo modo Il Figlio di Dio, che ora comincia a guidare il suo popolo, rivive nella sua carne l’esperienza di Israele nel deserto. In altre parole, quando il Tentatore sfida Gesù dicendo: «Se sei Figlio di Dio, dimostralo!», la sua risposta è chiara: Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere le sue opere, come dirà ai discepoli nell’incontro con la Samaritana (cf Gv 4,32-34). Nella seconda tentazione, al Tentatore che gli promette tutti i regni della terra, Gesù risponde: "Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”, citando questo testo fra i più conosciuti dell’Antico Testamento, che segue lo Shema Israel, la professione di fede ebraica (Dt 6,10-13). Nella terza tentazione il diavolo provoca Gesù a gettarsi giù essendo il Figlio di Dio, poiché sta scritto che verranno gli angeli a custodirlo portandolo sulle mani, ma risponde: “È stato detto: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo (Dt 6,16). Il Cristo sa di essere sempre al riparo dell’Altissimo, qualunque cosa accada. Di fronte alle provocazioni del Tentatore Gesù trae dalla parola di Dio la forza per resistere a chi vuole separarlo dal Padre; non discute mai con lui e le tre risposte sono esclusivamente citazioni della Scrittura. In questo si mostra erede autentico del suo popolo e a lui si applica la frase del Deuteronomio, ripresa da san Paolo nella Lettera ai Romani (vedi la seconda lettura): «La Parola è vicino a te, è sulla tua bocca e nel tuo cuore.» (Dt 30,14). Le tre le risposte si richiamano al libro del Deuteronomio, scritto proprio per ricordare agli Israeliti che Dio è loro Padre. Gesù, nella sua vita, ripercorre l’esperienza del suo popolo nel deserto, dal Battesimo, in cui viene rivelato come il Figlio fino al Getsemani dove il Tentatore tornerà per l’ultimo attacco. Leggiamo alla fine del nostro testo: «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento opportuno, ma Gesù rimarrà sempre sotto l’ombra dell’Altissimo e, con questo episodio, Luca mostra che è Gesù l’unico vero modello da seguire.

+Giovanni D’Ercole

Lunedì, 03 Marzo 2025 09:36

Mercoledì delle Ceneri

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.

Ecco il commento per le letture di Mercoledì delle Ceneri

5 Marzo 2025   (anno C)

 

La liturgia del mercoledì delle Ceneri, che apre la Quaresima, era segnata un tempo dall’inizio della penitenza pubblica che si svolgeva quest’oggi e dall’avvio dell’ultimo tratto della formazione dei catecumeni, che si preparavano a ricevere il battesimo nella Veglia Pasquale. A simboleggiare l’invito alla preghiera e alla conversione del cuore, che proclamano i testi della Sacra Scrittura, c’è il rito della cenere, segno di penitenza e di conversione.  Si tratta di un “simbolo austero” con cui iniziamo il cammino spirituale della Quaresima riconoscendo che il nostro corpo, formato dalla polvere, ritornerà tale e per questo siamo invitati a rendere la nostra esistenza un sacrificio Dio in unione con la morte di Cristo Gesù. Ciò che illumina il mercoledì delle Ceneri e l’intera Quaresima è l’evento della Risurrezione di Gesù, che celebreremo con rinnovata speranza in quest’anno giubilare. il mercoledì delle ceneri è giorno di penitenza, di digiuno e di elemosina che va intesa come condivisione di ciò che siamo e di ciò che possediamo con i nostri fratellil a gloria di Dio. Questo richiede il coraggio di rinunciare a qualcosa che ci costa per vivere la Quaresima come tempo di vera purificazione interiore 

 

*Prima Lettura dal Libero del profeta Gioele (Gl 2,12-18) 

Ritornate al Signore con tutto il cuore! Ecco l’invito che oggi ci lancia il profeta Gioele. Il suo libro è molto breve (contiene in totale settantatré versetti suddivisi in quattro capitoli) ed è collocato intorno all’anno 600 a.C., cioè poco prima dell’esilio a Babilonia. Ci sono tre temi che si intrecciano costantemente: la prospettiva di terribili flagelli, appelli accorati al digiuno e alla conversione, e l’annuncio della salvezza di Dio. Oggi è il secondo tema che la liturgia ci propone all’inizio della Quaresima. Il solenne appello alla conversione spinge a prendere sul serio ciò che segue, cioè l’invito: “Ritornate a me”, e il popolo risponde e supplica: “Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti”. I profeti insegnano sempre a non accontentarsi di manifestazioni esteriori e anche Gioele non manca di sottolinearlo: “Laceratevi il cuore e non le vesti e ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso”.  Questo afferma Isaia: “Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto: le vostre mani sono piene di sangue. Lavatevi, purificatevi. Allontanate dai miei occhi le vostre azioni malvagie cessate di fare il male. Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia…” (Is 1,14-17). E il Salmo 50/51 commenta “Il sacrificio che piace a Dio è uno spirito contrito; un cuore affranto e umiliato, o Dio, tu non lo disprezzi”. Il profeta Ezechiele ci aiuta a comprendere cosa vuol dire il salmista: bisogna cioè spezzare i nostri cuori di pietra affinché possa emergere il cuore di carne e il profeta Gioele segue questa linea quando invita a lacerare i cuori e non le vesti per sfuggire a un castigo meritato. Scrive infatti: “chi sa che Dio non cambi e si ravveda e lasci dietro a sé una benedizione?” E conclude annunciando che il perdono è già stato concesso. La traduzione liturgica dice: “Il Signore si mostra geloso per la sua terra” avendo avuto pietà del suo popol, ma la misericordia di Dio è destinata a tutti gli uomini, ed è proprio questo il messaggio che troviamo nel libro di Giona molto affine a quello di Gioele. Giona infatti narra la conversione di Ninive, la città pagana che aveva percorso un giorno di cammino proclamando: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”, e  gli abitanti credettero subito in Dio. Proclamarono un digiuno e si vestirono di sacco, grandi e piccoli. Persino il re di Ninive depose il manto regale, si coprì di sacco e si sedette sulla cenere e quindi proclamò lo stato d’allerta e fece annunciare che tutti in Ninive si dovevano coprire di sacco e invocare Dio con forza. Dio vide la loro conversione e revocò il castigo che aveva minacciato di infliggere (Gn 3,4-10). Il segreto  è che Dio trabocca di zelo e di amore, come ricorda Gioele, per tutti gli uomini, e san Paolo dirà: “Dio dimostra il suo amore per noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).

 

*Salmo responsoriale (50 (51).  Perdonaci, Signore: abbiamo peccato

Uniamoci anche noi al popolo d’Israele riunito nel Tempio di Gerusalemme per una grande celebrazione penitenziale. Sa di essere pieno di peccati, ma conosce per esperienza che la misericordia di Dio è inesauribile e allora chiede perdono con la certezza di essere esaudito. Fu proprio questa la scoperta del re Davide dopo aver peccato con Betsabea, sposa di un ufficiale, Uria, che in quel momento era in guerra. Betsabea fece sapere a Davide di essere incinta di lui e Davide organizzò la morte in battaglia del marito tradito, così da poter prendere definitivamente per sé la donna e il bambino che portava in grembo. Il profeta Natan non cercò subito di far ammettere a Davide il suo peccato, ma gli ricordò anzitutto i molti doni di Dio e gli annunciò il perdono prima ancora che Davide avesse il tempo di confessare la sua colpa (cf 2 Samuele 12). Oltre tutti i doni e privilegi che Dio gli aveva concesso, aggiunse pure che il Signore era pronto ad accordargli tutto ciò che desiderava. Nel corso della storia, Israele ha avuto occasione di registrare che Dio è davvero “il Signore misericordioso e benevolo, lento all’ira, ricco di fedeltà e di lealtà”, come aveva rivelato a Mosè nel deserto (Es 34,6). Anche i profeti hanno ribadito questo messaggio, e i versetti del Salmo 50/51 ne sono pieni. Isaia, ad esempio, dice: “Io, io solo cancello le tue colpe per amore di me stesso e non ricordo più i tuoi peccati” (Is 43,25). L’annuncio del perdono gratuito di Dio ci sorprende sempre: ci sembra quasi troppo bello per essere vero. Per alcuni, addirittura, può sembrare ingiusto: se tutto è perdonabile, perché sforzarsi di vivere bene? Ma questo significa dimenticare che tutti, senza eccezione, abbiamo bisogno della misericordia di Dio e lui ci sorprende, poiché, come dice Isaia, i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri. E proprio nel perdono Dio ci sorprende di più. Pensiamo alla parabola evangelica degli operai dell’ultima ora: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? O sei invidioso perché io sono buono?» (cf Mt 20,15), a quella del figliol prodigo (Lc 15): quando il figlio ingrato ritorna dal padre, animato da motivazioni tutt’altro che nobili, Gesù mette sulle sue labbra una frase del Salmo 50: “Contro di te, contro te solo ho peccato”. E con questa sola frase, il legame spezzato viene riallacciato. Davanti all’annuncio sempre nuovo della misericordia di Dio, il popolo d’Israele, che nei Salmi parla a nome di tutti noi, si riconosce peccatore. Il suo pentimento non è dettagliato, non lo è mai nei Salmi penitenziali, ma esprime tutto in una semplice supplica: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro”. E Dio, che è tutta misericordia, attratto dalla miseria dell’uomo, non aspetta altro che questa umile confessione della nostra povertà. Ed è utile ricordare che “pietà” ha la stessa radice di “elemosina” e questo ci ricorda che siamo mendicanti di amore e di perdono davanti a Dio. Cosa fare allora: ringraziare e perdonare. Ringraziare per il perdono che Dio ci offre continuamente. In ogni celebrazione penitenziale, la preghiera più importante è il riconoscimento dei doni e del perdono di Dio. Prima di tutto, dobbiamo contemplare Dio stesso, e solo dopo possiamo riconoscerci peccatori. Il rito della Riconciliazione  afferma chiaramente che confessiamo l’amore di Dio insieme al nostro peccato e la lode scaturirà spontanea dalle nostre labbra: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclamerà la tua lode” (questa è la frase che apre la Liturgia delle Ore, ogni mattina ed è tratta proprio dal Salmo 50/51) in cui viene ricordato che  la lode e la gratitudine nascono in noi solo se Dio apre il nostro cuore e le nostre labbra. E il secondo passo che Dio si aspetta da noi e costituisce il programma ascetico di tutta la vita è l’impegno a perdonare a nostra volta, senza indugi né condizioni. 

 

*Seconda Lettura dalla Seconda Lettera di san Paolo ai Corinti (5,20-6,2) 

“Lasciatevi riconciliare con Dio”! Paolo parla di riconciliazione ben consapevole della rottura dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Nell’Antico Testamento il popolo sapeva che Dio non è in contrasto con gli uomini, come il Salmo 102/103 esprime chiaramente:”Il Signore non è sempre in lite, non conserva per sempre il suo sdegno; non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe… Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe… Egli sa di che siamo plasmati, ricorda che siamo polvere”.  Ugualmente leggiamo in Isaia: “L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore, che avrà misericordia di lui, al nostro Dio, che largamente perdona” (Is 55,7), nel Libro della Sapienza: “Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, e chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento… La tua sovranità su tutti ti rende indulgente verso tutti” (Sap 11,23; 12,16). Davide fece questa esperienza quando uccise Uria, marito di Betsabea e Dio gli inviò il profeta Natan che in sostanza questo gli comunicò: Tutto ciò che hai, te l’ho dato io; e se non fosse ancora abbastanza, sarei pronto a darti ancora tutto ciò che desideri. Dio non ignorava neppure che Salomone aveva ottenuto il trono eliminando i suoi rivali, eppure ascoltò la sua preghiera a Gabaon ed esaudì le sue richieste ben oltre ciò che il giovane re aveva osato domandare (1 Re 3). Ma c’è di più: il Nome stesso di Dio, “Misericordioso”, significa che ci ama tanto più quanto più siamo miseri. Dunque, Dio non è in lite con l’uomo. Eppure Paolo parla di riconciliazione, perché fin dall’inizio del mondo (Paolo dice «da Adamo», ma è la stessa cosa), è l’uomo che è in conflitto con Dio. Il racconto della Genesi (Gn 2-3) attribuisce al serpente l’origine di questa accusa contro Dio perché è geloso dell’uomo e non vuole il suo bene.: “Dio sa che quando ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gn 3,4) La Bibbia lascia intendere che questo sospetto non è naturale nell’uomo—è la voce del serpente, e dunque può essere curato. È proprio questo afferma san Paolo: “Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. E che cosa ha fatto Dio per rimuovere dal nostro cuore questa diffidenza? Continua l’apostolo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore” (2 Cor 5,21). Gesù non ha conosciuto il peccato anzi, come leggiamo nella  lettera ai Filippesi, Gesù si fece obbediente (Fil 2,8), e rimase sempre fiducioso, anche nella sofferenza e nella morte. Per questo insegna agli uomini questa fiducia e rivela che Di è tutto amore e perdono: è Misericordia. Per un paradosso incredibile Gesù per questa rivelazione fu considerato un bestemmiatore, trattato da peccatore e giustiziato come un maledetto (cf Dt 21,23). L’odio e la cecità degli uomini si abbatterono su di lui e il Padre lasciò fare, perché questo era l’unico modo per farci toccare con mano fin dove “il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo” come afferma il profeta Gioele. Gesù ha affrontato il peccato degli uomini, la violenza, l’odio, il rifiuto di un Dio che è Amore e sulla croce appare fin dove arriva l’orrore del peccato umano e fin dove arrivano la dolcezza e il perdono di Dio. Ed è proprio da questa contemplazione che può nascere la nostra conversione, quella che Paolo chiama “giustificazione”. “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, leggiamo nel libro del profeta Zaccaria (Zc 12,10), ripreso da Giovanni (Gv 19,37). In Gesù morente che perdona i suoi carnefici scopriamo il volto stesso di Dio («Chi ha visto me ha visto il Padre» Gv 14,9) e, grazie a lui, siamo riconciliati da Dio. Compito dei battezzati è annunciare e testimoniare quest’amore, alla scuola di Paolo che grida: “Noi siamo ambasciatori di Cristo”, missione che coinvolge ognuno di noi. Chiude questo breve testo una citazione del profeta Isaia “Al momento favorevole ti ho esaudito

e nel giorno della salvezza ti ho soccorso” che parlava agli esuli a Babilonia, annunciando loro che l’ora della salvezza era giunta. Mentre Israele doveva annunciare la liberazione, perché le false immagini di Dio imprigionano il cuore degli uomini, Gesù Cristo ha affidato alla sua Chiesa la missione di annunciare al mondo la remissione dei peccati.

 

*Dal Vangelo secondo Matteo (6, 1-6. 16-18)

Il vangelo oggi riporta due brevi tratti del Discorso della Montagna, che occupa i capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo. Tutto il discorso ruota attorno a un nucleo centrale che è  il Padre Nostro (Mt 6,9-13), la preghiera che dà senso a tutto il resto. Questo indica che le esortazioni, qui riportate, non sono semplici consigli morali, bensì conducono al cuore della fede e il messaggio è il seguente: tutte le nostre azioni devono radicarsi nella scoperta che Dio è Padre. Preghiera, elemosina e digiuno non sono quindi solo pratiche religiose, ma strade per avvicinarci al Dio-Padre: Digiunare significa imparare a spostare il centro da noi stessi e con la preghiera centriamo la nostra vita su Dio mentre l’elemosina apre il nostro cuore ai fratelli. Per tre volte Gesù usa espressioni che invitano a non essere come coloro che amano mettersi in mostra. Avevano certamente grande importanza le pratiche religiose nella società ebraica dell’epoca e il rischio era quello di dare troppo valore alle manifestazioni esteriori come taluni facevano. Matteo ricorda i rimproveri di Gesù a coloro che badavano più alla lunghezza delle loro frange che alla misericordia e alla fedeltà (Mt 23,5ss). Qui, Gesù invita i suoi discepoli a un’autentica purificazione interiore perché per essere veramente giusti bisogna evitate di agire davanti agli uomini per essere ammirati da loro. La giustizia era un tema fondamentale per i credenti e nelle Beatitudinine Gesù ne parla due volte: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati.” (Mt 5,6)  “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli.” (Mt 5,10) Ma nel linguaggio biblico, la vera giustizia non consiste nell’accumulare pratiche religiose, per quanto possano essere nobili. Vera giustizia è essere in armonia con il progetto di Dio come già leggiamo nella Genesi: “Abramo credette al Signore, e per questo il Signore lo considerò giusto.” (Gen 15,6). Non quindi una giustizia che è moralismo, bensì una sintonia e un accordo profondo con Dio.  Preghiera, digiuno, elemosina diventano tre vie per vivere la giustizia: Nella preghiera, lasciamo che Dio ci plasmi secondo il suo progetto:“Sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà.”E proprio per questo, Gesù raccomanda: “Quando pregate, non sprecate parole come fanno i pagani; il Padre vostro sa di cosa avete bisogno prima ancora che glielo chiediate.” (Mt 6,7-8) Il digiuno è sulla stessa linea: ci libera dall’illusione di ciò che crediamo essenziale per essere felici, ma che spesso finisce per imprigionarci. Gesù stesso, digiunando nel deserto, risponde a satana:“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio.” (Mt 4,4)  L’elemosina è il frutto del nostro cammino di giustizia, perché ci rende misericordiosi.Non a caso, il termine greco per elemosina deriva dalla stessa radice di eleison («abbi pietà») e fare elemosina significa aprire il cuore alla compassione. Poiché Dio ama tutti i suoi figli non ci può essere vera giustizia senza giustizia sociale. E questo lo vediamo chiaramente nel giudizio finale: “Venite, benedetti del Padre mio… Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…”E alla fine:“I giusti andranno alla vita eterna.” (Mt 25,31-46). In definitiva coloro che ostentano sono in contrasto con la vera giustizia perché mostrano una forma sottile di egoismo spirituale, un modo per rimanere centrati su sé stessi. E il vero dramma è che questo atteggiamento ci chiude il cuore all’azione santificatrice dello Spirito.

+Giovanni D’Ercole

VIII Domenica del Tempo Ordinario (anno C)  2 Marzo 2025

 Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

 

*Prima Lettura dal Libro del Siracide (27, 4-7)

 Si tratta di un libro della Bibbia che ha avuto un percorso piuttosto movimentato. Per iniziare, porta tre nomi: Ben Sira il Saggio, Siracide, l’Ecclesiastico. Siracide o Ben Sira sono due nomi simili, entrambi legati al suo nome di famiglia. “Ben” significa “figlio di”, quindi l’autore è figlio di Sira. Alla fine del libro, si firma “Gesù, figlio di Sira”, il che offre un’indicazione ulteriore, dato che Gesù è un nome tipicamente ebraico. Si tratta dunque di un ebreo di Gerusalemme che scrive in ebraico e il titolo “il Saggio” fa capire che non si tratta di un libro storico né profetico, ma di uno di quei libri chiamati “sapienziali”. Si dice Ecclesiastico perché nei primi secoli del Cristianesimo, la Chiesa faceva leggere questo libro ai nuovi battezzati per completare la loro formazione morale. Il libro fu scritto da Ben Sira a Gerusalemme in ebraico verso il 180 a.C., tradotto in greco circa cinquant’anni dopo, intorno al 130 a.C. dal suo stesso nipote ad Alessandria d’Egitto. Nella Bibbia, il Siracide occupa un posto particolare: appartiene ai libri chiamati “deuterocanonici”. Infatti, quando alla fine del primo secolo d.C. i dottori della legge fissarono in modo definitivo la lista ufficiale degli scritti considerati parte della Bibbia, non furono inclusi tutti i libri che circolavano in Israele. Alcuni testi erano riconosciuti da tutti da quasi sempre come Parola di Dio – per esempio, il Libro della Genesi o dell’Esodo. Ma per alcuni testi più recenti, la questione rimaneva aperta. Il Siracide rientrava tra questi e alla fine fu escluso perché per entrare nel canone ufficiale della Bibbia ebraica, un libro doveva essere scritto in ebraico e redatto nella terra di Israele. Ma all’epoca della fissazione del canone (fine del I secolo d.C.), l’originale ebraico del Siracide era perduto e circolava solo la traduzione greca ad Alessandria. Per questo, il libro non venne accettato dalle comunità ebraiche della terra d’Israele. Tuttavia, nelle comunità ebraiche della diaspora (soprattutto ad Alessandria), era già considerato parte della Bibbia, quindi continuò a essere riconosciuto.

La Comunità cristiana invece lo ricevette in eredità attraverso le comunità di lingua greca, e così il Siracide entrò a far parte del canone biblico cristiano.  L’autore, Ben Sira, forse aveva fondato una scuola di saggezza a Gerusalemme e lo si deduce dagli ultimi capitoli del libro, che sembrano una raccolta di insegnamenti per giovani studenti ebrei, apprendisti filosofi, a Gerusalemme intorno al 180 a.C.  

Gerusalemme in quel tempo era sotto il dominio greco, ma l’occupazione era relativamente liberale e pacifica dato che le persecuzioni ebbero inizio più tardi, sotto Antioco Epifane, verso il 165 a.C. Tuttavia, sebbene il potere greco rispettasse la religione ebraica, il contatto tra le due culture metteva in pericolo la purezza della fede.

Questa eccessiva apertura culturale poteva portare a un sincretismo pericoloso, un problema simile a quello del nostro tempo: viviamo infatti in un’epoca di tolleranza che può facilmente trasformarsi in indifferenza religiosa. Non è forse vero che oggi siamo come in un supermercato delle idee e dei valori, dove ognuno prende ciò che preferisce e questo sembra persino logico e da accettare come la migliore scelta?  Uno degli obiettivi di Ben Sira era di trasmettere la fede ebraica nella sua integrità, in particolare l’amore per la Legge di Dio (Torah). Secondo lui, la vera saggezza risiedeva nella Legge d’Israele. Israele doveva preservare la propria identità e la propria fede per mantenere vivo l’insegnamento dei Padri nella fede e la purezza dei costumi e si ritenevano questi i principi fondamentali per la sopravvivenza del popolo eletto. 

Venendo al contenuto, il libro è come una raccolta di massime e proverbi interessanti ma non sempre immediatamente comprensibili per noi, perché utilizzano immagini e modi di dire appartenenti a un’altra cultura. Nel testo di oggi Ben Sira usa tre immagini che all’epoca erano molto comuni. Se l’oro viene passato al setaccio appaiono evidenti le scorie; quando un vaso viene cotto nel forno, si vede subito se è stato ben lavorato e un albero sano produce frutti buoni. Ecco allora che come il setaccio separa l’oro dalle impurità, il fuoco del forno rivela le qualità del vaso e dai frutti si riconosce se l’albero è sano o malato, così le nostre parole rivelano la vera natura del nostro cuore perché solo un cuore buono dirà parole buone. Circa duecento anni dopo, Gesù insegna la stessa cosa come leggiamo nel vangelo di questa domenica: “L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 6,45). Le nostre parole sono lo specchio del nostro cuore.

 

*Salmo responsoriale (91 (92), 2-3. 13-14. 15-16)

Israele ha accusato Dio di inganno nel deserto del Sinai quando la disidratazione minacciava uomini e animali: è il celebre episodio di Massa e Meriba (Es 17,1-7).  Dio però si è dimostrato più grande dell’ira del suo popolo: ha fatto scaturire acqua da una roccia. Da allora, Dio è stato chiamato la nostra roccia per ricordare la sua fedeltà, più salda di tutti i sospetti del popolo. Da questa roccia Israele ha attinto l’acqua della sua sopravvivenza… ma soprattutto, nei secoli, è diventata la sorgente della sua fede e della sua fiducia. Questo concetto è espresso alla fine del salmo: “per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia”. Il riferimento alla roccia richiama l’esperienza del deserto e la fedeltà di Dio, più forte di ogni ribellione. Anche l’espressione “il tuo amore e la tua fedeltà” (v 3) richiama l’esperienza del deserto: sono le parole che Dio stesso ha usato per rivelarsi al suo popolo: “Il Signore Dio misericordioso e benevolo, lento all’ira, ricco di fedeltà e lealtà…” espressione ripresa molte volte nella Bibbia, soprattutto nei salmi, come segno dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo: “Dio d’amore e di fedeltà, lento all’ira e ricco di misericordia” (Es 34,6).  L’episodio di Massa e Meriba – la prova nel deserto, il sospetto del popolo, l’intervento di Dio – si è ripetuto così spesso che Israele ha finito per capire che si tratta di un rischio costante: l’uomo è sempre tentato di sospettare di Dio quando le cose non vanno come si desidera. Il racconto del Giardino dell’Eden aiuta a comprendere quest’importante insegnamento: l’astuto serpente riesce a convincere i progenitori che è Dio a ingannarli. Infatti travisa il pensiero di Dio affermando che vieta loro i frutti migliori con la scusa di proteggerli quando in realtà è l’opposto e Adamo ed Eva si lasciano ingannare. Purtroppo è una storia che si ripete nel corso della storia e come è possibile evitare l’inganno demoniaco? Questo salmo ci aiuta suggerendosi di avere fiducia: “é bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte”. E’ infatti un bene per noi lodare il Signore e cantare al suo nome e Israele ha compreso che lodare, cantare per Dio fa bene soprattutto all’uomo stesso. Sant’Agostino lo dirà chiaramente: “Tutto ciò che l’uomo fa per Dio, giova all’uomo e non a Dio.” Cantare per Dio, aprire gli occhi sul suo amore e sulla sua fedeltà, di giorno e di notte, ci protegge dalle astuzie del serpente. In questo salmo, l’espressione “è bello” corrisponde al termine ebraico “tôv”, lo stesso usato per dire “buono da mangiare”, però per saperlo, occorre averne fatto esperienza e per questo il salmo aggiunge nel versetto 7 (che oggi non leggiamo): “L’uomo insensato non li conosce e lo stolto non capisce”, ma il credente sa bene “quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità”.  Soltanto una fiducia incrollabile nell’amore di Dio può illuminare la vita dell’uomo in ogni circostanza mentre la diffidenza e il sospetto distorcono completamente la nostra visione della realtà. Sospettare di Dio è un tranello mortale. Chi si affida a Dio è come un albero sempre verde, che mantiene sempre la sua linfa e la sua freschezza (cf salmo1). Gesù parlerà di “acqua viva” riprendendo un’immagine familiare alla gente di allora. Non solo è un bene per noi stessi lodare e cantare l’amore di Dio, ma diventa un bene anche per gli altri ascoltarlo da noi. Per tale scopo il salmo ripete all’inizio e alla fine: “È bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, e annunciare al il tuo amore”. “Annunciare” significa proclamare agli altri, ai non credenti:  ancora una volta, Israele ricorda la sua missione di testimone dell’amore di Dio per tutti gli uomini. Per concludere annoto che questo salmo porta un’intestazione: “Salmo per il giorno di sabato”, il giorno per eccellenza in cui si canta l’amore e la fedeltà di Dio. Si potrebbe fare di questo salmo il salmo della domenica, pefrchè per noi la domenica è la celebrazione dell’amore e della fedeltà di Dio che in Gesù Cristo si sono manifestati in modo definitivo 

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo Apostolo ai Corinti (15,54-58)

 Da diverse settimane leggiamo il capitolo 15 della prima lettera di Paolo ai Corinzi, che è una lunga riflessione sulla Risurrezione. Oggi Paolo conclude la sua meditazione con un grido di trionfo: «Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (v 57). E’ la vittoria della Risurrezione perché, come egli scrive, ciò che è corruttibile in noi diventerà incorruttibile, ciò che è mortale rivestirà l’immortalità (v 53): l’immortalità, l’incorruttibilità sono prerogative di Dio. Solo così diventeremo a immagine e somiglianza di Dio, secondo il progetto originario annunciato e realizzato durante l’intero itinerario della Bibbia, con i molteplici fallimenti dell’umanità e i continui interventi di Dio per salvare il suo disegno d’amore. E’ il disegno della salvezza: Dio cioè ci salva per essere veramente felici e lo compie attraverso varie tappe che la lettera agli Efesini riassume così: “facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”. (Ef 1, 9-10). Nel creare l’umanità il Signore aveva il progetto di renderla felice, unita, colma dello Spirito di Dio, ammessa a condividere la vita della Trinità. Progetto che mai è venuto meno e sussiste per sempre poiché i disegni del cuore di Dio durano di generazione in generazione (cf sal 32/33). Lo annota il profeti Isaia: ”Il mio progetto sussisterà e tutto ciò che mi piace lo compirò “(Is 46, 1) e anche Geremia: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di prosperità e non di sventura: vi darò un futuro e una speranza» (Ger 29, 11). La storia dell’umanità ha dunque senso, significato e direzione. Sappiamo cioè dove andiamo e gli anni non si susseguono tutti uguali, perché Dio ha un progetto, un piano ben preciso. Siamo orientati verso il futuro e aspettiamo che questo disegno giunga a compimento pregando con il Padre nostro, che venga il suo regno e si compia la sua volontà come in cielo così in terra. Tuttavia la storia testimonia che l’umanità è in rovina rispetto a questo progetto e gli uomini non sembrano collaborare. Dio rispetta la nostra libertà e noi spesso sembriamo per nulla disposti ad ascoltare la voce di Dio perché è un progetto che supera le nostre prospettive razionali. Ma perché meravigliarsi? San Paolo afferma che questo progetto – lo chiama mistero della volontà di Dio - ci supera ed è impensabile per noi. L’umanità ha però due scelte: accettare il progetto e impegnarsi per farlo avanzare, oppure rifiutarlo e cercare altrove la propria felicità. Adamo è l’esempio di chi rifiuta e prende un’altra direzione, a suo danno. Dio però resta paziente e salverà il suo progetto non lasciandosi scoraggiare dalla cattiva volontà dell’uomo perché  nessuno e nulla potranno spegnere il fuoco dell’amore di Dio per noi. Leggiamo nel Cantico dei Cantici che «Le grandi acque non potrebbero spegnere l’Amore e i fiumi non lo sommergerebbero» (Ct 8, 6-7a). Sta proprio qui la nostra speranza che Paolo proclama con vigore: “Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?". Non è certamente la morte biologica a separarci da lui e dai nostri fratelli, poiché risusciteremo, ma la morte spirituale, conseguenza del peccato. Tuttavia pure il peccato è sconfitto da Gesù Cristo: d’ora in poi, innestati in Cristo risorto, possiamo vivere come lui e con lui vincere la partita dell’amore. Anzi Paolo afferma che la vittoria è già acquisita: contrariamente a quanto sembra, la morte e il peccato sono i grandi sconfitti e il progetto di Dio è salvo: Gesù con il perdono dato a tutti, ci libera dalle nostre colpe e, se vogliamo, la porta è aperta allo Spirito Santo. Possiamo allora vivere l’amore e la fraternità per cui siamo creati. Risuona in noi il grido di trionfo di san Paolo: “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” Non ci resta che proseguire nell’impegno della lotta con Cristo: “Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore”. 

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (6, 39-45)

 Troviamo qui diverse istruzioni di Gesù che sono come avvertimenti che concernono le relazioni all’interno della comunità cristiana, raccomandazioni presenti anche nei vangeli di Matteo e di Giovanni pur in ordine sparso e proclamate in contesti diversi. San Luca le ha riunite qui perché probabilmente vedeva un legame tra di esse ed è proprio tale legame che cerchiamo insieme di capire. Per meglio procedere dividiamo il testo in due parti: la prima è una riflessione sullo sguardo, mentre la seconda è la metafora dell’albero e dei frutti. Nella prima parte Gesù sviluppa il tema dello sguardo e comincia con una constatazione: un cieco non può guidare un altro cieco ed è chiaro il messaggio: occorre fare bene attenzione perché quando ci si pone come guide, non bisogna dimenticare che siamo ciechi dalla nascita. Va in tale direzione l’apologo della pagliuzza e della trave giacché con una trave nell’occhio, si è davvero ciechi e non è possibile pretendere di curare la cecità degli altri. Tra queste due osservazioni, Luca inserisce una frase che a prima vista sembra enigmatica: “Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro”. La preparazione di cui parla Gesù è, in un certo senso, la guarigione di noi che siamo ciechi. È sempre lo stesso Luca a notare che i discepoli di Emmaus hanno iniziato a vedere chiaramente solo quando «Gesù aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45). Poiché Gesù è venuto nel mondo per aprire gli occhi ai ciechi, anche i suoi discepoli, guariti da lui dalla loro cecità, hanno la missione di portare al mondo la luce della rivelazione. Ciò che il profeta Isaia diceva del servo di Dio, nei cosiddetti canti del servo, è vero per Gesù Cristo, ma anche per i suoi discepoli: «Io ti ho destinato a essere luce delle nazioni, per aprire gli occhi ai ciechi, per liberare dal carcere il prigioniero e dalla prigione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,6-7). Una missione quanto mai interessante, alla quale possiamo far fronte solo restando sempre sotto la luce del Maestro e lasciando che sia lui a guarire la nostra cecità. L’evangelista passa poi senza transizione alla metafora dell’albero e dei frutti, il che suggerisce che il tema sia ancora lo stesso: il vero discepolo, che si lascia illuminare da Gesù Cristo, porta buoni frutti, ma chi al contrario non lascia che sia Gesù Cristo ad illuminarlo, rimane nella sua cecità e produce frutti cattivi. Occorre adesso capire di quali frutti si tratta. Tenendo conto che il testo è dopo un intero discorso di Gesù sull’amore reciproco, possiamo capire che i frutti sono legati al nostro comportamento. La norma guida è “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (lc 6,36).  Per i contemporanei di Gesù non era difficile capire questo linguaggio: sapevano infatti che il Padre aspetta da noi frutti di giustizia e di misericordia, che possono essere sia azioni che parole perché “la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Lc 6,45). Nella prima lettura abbiamo letto che il frutto manifesta la qualità dell’albero; allo stesso modo la parola rivela i sentimenti e non bisogna lodare nessuno prima che abbia parlato, perché è proprio la sua parola che permette di giudicarlo. E’ davvero straordinario come in poche parole Luca abbia sviluppato l’intero mistero cristiano: quando ci lasciamo formare da Cristo veniamo trasformati in tutto il nostro essere: nello sguardo, nel comportamento e nel linguaggio. Insegnamento che torna spesso nel Nuovo Testamento come, ad esempio, nella Lettera ai Filippesi: «Voi risplendete come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita» (Fil 2,15-16), oppure nella Lettera agli Efesini: “Un tempo eravate tenebre, ora siete luce nel Signore. Vivete come figli della luce. Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef 5,8). Il primo passo consiste nell’imparare a guardare gli altri come Dio li guarda: con uno sguardo che non giudica, non condanna, che non si compiace nel rimarcare una pagliuzza nell’occhio dell’altro, cioè nel notare qualcosa di veramente minuscolo. Come la paglia è spazzata via dal vento e quindi senza spessore e  importanza, allo stesso modo vanno calcolati i difetti degli altri. Se Gesù non da ad essi importanza, Il discepolo ben formato alla sua scuola sarà come il suo maestro. A questa frase segue tutto il discorso sulla misericordia di Dio e sulla nostra vocazione a somigliargli, un programma di vita molto ambizioso: amate i vostri nemici, siate misericordiosi, non giudicate, non condannate perché il Padre vostro è misericordioso e noi siamo chiamati a essere la sua immagine nel mondo. Gesù conclude così: la bocca del discepolo esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. Per diventare immagine di Dio il segreto è immergerci nella sua Parola.

+Giovanni D’Ercole

 

 

Commento Breve:

*Prima Lettura dal Libro del Siracide (27, 4-7)

 Si tratta di un libro della Bibbia che ha avuto un percorso piuttosto movimentato. Per iniziare, porta tre nomi: Ben Sira il Saggio, Siracide, l’Ecclesiastico. Siracide o Ben Sira sono due nomi simili, entrambi legati al suo nome di famiglia. “Ben” significa “figlio di”, quindi l’autore è figlio di Sira. Alla fine del libro, si firma “Gesù, figlio di Sira”, il che offre un’indicazione ulteriore, dato che Gesù è un nome tipicamente ebraico. Si tratta dunque di un ebreo di Gerusalemme che scrive in ebraico e il titolo “il Saggio” fa capire che non si tratta di un libro storico né profetico, ma di uno di quei libri chiamati “sapienziali”. Si dice Ecclesiastico perché nei primi secoli del Cristianesimo, la Chiesa faceva leggere questo libro ai nuovi battezzati per completare la loro formazione morale. Il libro fu scritto da Ben Sira a Gerusalemme in ebraico verso il 180 a.C., tradotto in greco circa cinquant’anni dopo, intorno al 130 a.C. dal suo stesso nipote ad Alessandria d’Egitto. Nella Bibbia, il Siracide occupa un posto particolare: appartiene ai libri chiamati “deuterocanonici”. Infatti, quando alla fine del primo secolo d.C. i dottori della legge fissarono in modo definitivo la lista ufficiale degli scritti considerati parte della Bibbia, non furono inclusi tutti i libri che circolavano in Israele. Alcuni testi erano riconosciuti da tutti da quasi sempre come Parola di Dio – per esempio, il Libro della Genesi o dell’Esodo. Ma per alcuni testi più recenti, la questione rimaneva aperta. Il Siracide rientrava tra questi e alla fine fu escluso perché per entrare nel canone ufficiale della Bibbia ebraica, un libro doveva essere scritto in ebraico e redatto nella terra di Israele. Ma all’epoca della fissazione del canone (fine del I secolo d.C.), l’originale ebraico del Siracide era perduto e circolava solo la traduzione greca ad Alessandria. Per questo, il libro non venne accettato dalle comunità ebraiche della terra d’Israele. Tuttavia, nelle comunità ebraiche della diaspora (soprattutto ad Alessandria), era già considerato parte della Bibbia, quindi continuò a essere riconosciuto. La Comunità cristiana invece lo ricevette in eredità attraverso le comunità di lingua greca, e così il Siracide entrò a far parte del canone biblico cristiano. 

Venendo al contenuto, il libro è come una raccolta di massime e proverbi utilizzando immagini e modi di dire appartenenti a un’altra cultura. Nel testo di oggi Ben Sira usa tre immagini che all’epoca erano molto comuni. Se l’oro viene passato al setaccio appaiono evidenti le scorie; quando un vaso viene cotto nel forno, si vede subito se è stato ben lavorato e un albero sano produce frutti buoni. Ecco allora che come il setaccio separa l’oro dalle impurità, il fuoco del forno rivela le qualità del vaso e dai frutti si riconosce se l’albero è sano o malato, così le nostre parole rivelano la vera natura del nostro cuore perché solo un cuore buono dirà parole buone. Gesù insegna la stessa cosa come leggiamo nel vangelo di questa domenica: “L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 6,45). Le nostre parole sono lo specchio del nostro cuore.

 

*Salmo responsoriale (91 (92), 2-3. 13-14. 15-16)

Israele ha accusato Dio di inganno nel deserto del Sinai quando la disidratazione minacciava uomini e animali: è il celebre episodio di Massa e Meriba (Es 17,1-7).  Dio però si è dimostrato più grande dell’ira del suo popolo: ha fatto scaturire acqua da una roccia. Da allora, Dio è stato chiamato la nostra roccia per ricordare la sua fedeltà, più salda di tutti i sospetti del popolo. Da questa roccia Israele ha attinto l’acqua della sua sopravvivenza… ma soprattutto, nei secoli, è diventata la sorgente della sua fede e della sua fiducia. Questo concetto è espresso alla fine del salmo: “per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia”. Il racconto del Giardino dell’Eden l’astuto serpente riesce a convincere i progenitori che è Dio a ingannarli. Infatti travisa il pensiero di Dio affermando che vieta loro i frutti migliori con la scusa di proteggerli quando in realtà è l’opposto e Adamo ed Eva si lasciano ingannare. Purtroppo è una storia che si ripete nel corso della storia e come è possibile evitare l’inganno demoniaco? Questo salmo ci aiuta suggerendosi di avere fiducia: “é bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte”. Cantare per Dio fa bene soprattutto all’uomo e  sant’Agostino lo dirà chiaramente: “Tutto ciò che l’uomo fa per Dio, giova all’uomo e non a Dio.” Cantare per Dio, aprire gli occhi sul suo amore e sulla sua fedeltà, di giorno e di notte, ci protegge dalle astuzie del serpente. Soltanto una fiducia incrollabile nell’amore di Dio può illuminare la vita dell’uomo in ogni circostanza mentre la diffidenza e il sospetto distorcono completamente la nostra visione della realtà. Sospettare di Dio è un tranello mortale. Chi si affida a Dio è come un albero sempre verde, che mantiene sempre la sua linfa e la sua freschezza (cf salmo1). Per concludere annoto che questo salmo porta un’intestazione: “Salmo per il giorno di sabato”, il giorno per eccellenza in cui si canta l’amore e la fedeltà di Dio. Si potrebbe fare di questo salmo il salmo della domenica, perché per noi la domenica è la celebrazione dell’amore e della fedeltà di Dio che in Gesù Cristo si sono manifestati in modo definitivo  

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo Apostolo ai Corinti (15,54-58)

 Da diverse settimane leggiamo il capitolo 15 della prima lettera di Paolo ai Corinzi, che è una lunga riflessione sulla Risurrezione. Oggi Paolo conclude la sua meditazione con un grido di trionfo: «Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (v 57). E’ la vittoria della Risurrezione perché, come egli scrive, ciò che è corruttibile in noi diventerà incorruttibile, ciò che è mortale rivestirà l’immortalità (v 53): l’immortalità, l’incorruttibilità sono prerogative di Dio. Solo così diventeremo a immagine e somiglianza di Dio, secondo il progetto originario annunciato e realizzato durante l’intero itinerario della Bibbia, con i molteplici fallimenti dell’umanità e i continui interventi di Dio per salvare il suo disegno d’amore. Nel creare l’umanità il Signore aveva il progetto di renderla felice, unita, colma dello Spirito di Dio, ammessa a condividere la vita della Trinità. Progetto che mai è venuto meno e sussiste per sempre poiché i disegni del cuore di Dio durano di generazione in generazione (cf sal 32/33). La storia dell’umanità ha dunque senso, significato e direzione. Sappiamo cioè dove andiamo e gli anni non si susseguono tutti uguali, perché Dio ha un progetto, un piano ben preciso. Siamo orientati verso il futuro e aspettiamo che questo disegno giunga a compimento pregando con il Padre nostro, che venga il suo regno e si compia la sua volontà come in cielo così in terra. Tuttavia la storia testimonia che l’umanità è in rovina rispetto a questo progetto e gli uomini non sembrano collaborare. Dio rispetta la nostra libertà e noi spesso sembriamo per nulla disposti ad ascoltare la voce di Dio perché è un progetto che supera le nostre prospettive razionali. Ma perché meravigliarsi? San Paolo afferma che questo progetto – lo chiama mistero della volontà di Dio - ci supera ed è impensabile per noi. L’umanità ha però due scelte: accettare il progetto e impegnarsi per farlo avanzare, oppure rifiutarlo e cercare altrove la propria felicità. Adamo è l’esempio di chi rifiuta e prende un’altra direzione, a suo danno. Dio però resta paziente e salverà il suo progetto non lasciandosi scoraggiare dalla cattiva volontà dell’uomo perché nessuno e nulla potranno spegnere il fuoco dell’amore di Dio per noi. Non è certamente la morte biologica a separarci da lui e dai nostri fratelli, poiché risusciteremo, ma la morte spirituale, conseguenza del peccato. Tuttavia pure il peccato è sconfitto da Gesù Cristo: d’ora in poi, innestati in Cristo risorto, possiamo vivere come lui e con lui vincere la partita dell’amore. Anzi Paolo afferma che la vittoria è già acquisita: contrariamente a quanto sembra, la morte e il peccato sono i grandi sconfitti e il progetto di Dio è salvo: Gesù con il perdono dato a tutti, ci libera dalle nostre colpe e, se vogliamo, la porta è aperta allo Spirito Santo. Possiamo allora vivere l’amore e la fraternità per cui siamo creati.

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (6, 39-45)

 Troviamo qui diverse istruzioni di Gesù che sono come avvertimenti che concernono le relazioni all’interno della comunità cristiana, raccomandazioni presenti anche nei vangeli di Matteo e di Giovanni pur in ordine sparso e proclamate in contesti diversi. San Luca le ha riunite qui perché probabilmente vedeva un legame tra di esse ed è proprio tale legame che cerchiamo insieme di capire. Per meglio procedere dividiamo il testo in due parti: la prima è una riflessione sullo sguardo, mentre la seconda è la metafora dell’albero e dei frutti. Nella prima parte Gesù sviluppa il tema dello sguardo e comincia con una constatazione: un cieco non può guidare un altro cieco ed è chiaro il messaggio: occorre fare bene attenzione perché quando ci si pone come guide, non bisogna dimenticare che siamo ciechi dalla nascita. Va in tale direzione l’apologo della pagliuzza e della trave giacché con una trave nell’occhio, si è davvero ciechi e non è possibile pretendere di curare la cecità degli altri. Tra queste due osservazioni, Luca inserisce una frase che a prima vista sembra enigmatica: “Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro”. La preparazione di cui parla Gesù è, in un certo senso, la guarigione di noi che siamo ciechi. È sempre lo stesso Luca a notare che i discepoli di Emmaus hanno iniziato a vedere chiaramente solo quando «Gesù aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45). Poiché Gesù è venuto nel mondo per aprire gli occhi ai ciechi, anche i suoi discepoli, guariti da lui dalla loro cecità, hanno la missione di portare al mondo la luce della rivelazione. Una missione quanto mai interessante, alla quale possiamo far fronte solo restando sempre sotto la luce del Maestro e lasciando che sia lui a guarire la nostra cecità. L’evangelista passa poi senza transizione alla metafora dell’albero e dei frutti, il che suggerisce che il tema sia ancora lo stesso: il vero discepolo, che si lascia illuminare da Gesù Cristo, porta buoni frutti, ma chi al contrario non lascia che sia Gesù Cristo ad illuminarlo, rimane nella sua cecità e produce frutti cattivi. Occorre adesso capire di quali frutti si tratta. Tenendo conto che il testo è dopo un intero discorso di Gesù sull’amore reciproco, possiamo capire che i frutti sono legati al nostro comportamento. La norma guida è “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (lc 6,36).  Nella prima lettura abbiamo letto che il frutto manifesta la qualità dell’albero; allo stesso modo la parola rivela i sentimenti e non bisogna lodare nessuno prima che abbia parlato, perché è proprio la sua parola che permette di giudicarlo. E’ davvero straordinario come in poche parole Luca abbia sviluppato l’intero mistero cristiano: quando ci lasciamo formare da Cristo veniamo trasformati in tutto il nostro essere: nello sguardo, nel comportamento e nel linguaggio. Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef 5,8). Il primo passo consiste nell’imparare a guardare gli altri come Dio li guarda: con uno sguardo che non giudica, non condanna, che non si compiace nel rimarcare una pagliuzza nell’occhio dell’altro, cioè nel notare qualcosa di veramente minuscolo. Come la paglia è spazzata via dal vento e quindi senza spessore e importanza, allo stesso modo vanno calcolati i difetti degli altri. Se Gesù non da ad essi importanza, Il discepolo ben formato alla sua scuola sarà come il suo maestro. Gesù conclude così: la bocca del discepolo esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. Per diventare immagine di Dio il segreto è immergerci nella sua Parola.

+Giovanni D’Ercole

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While he is about to entrust to the Apostles — which in fact means “envoys” — the mission of taking the Gospel to all the world, Jesus promises that they will not be alone. The Holy Spirit, the Counselor, will be with them, and will be beside them, moreover, will be within them, to protect and support them. Jesus returns to the Father but continues to accompany and teach his disciples through the gift of the Holy Spirit (Pope Francis)
Mentre sta per affidare agli Apostoli – che vuol dire appunto “inviati” – la missione di portare l’annuncio del Vangelo in tutto il mondo, Gesù promette che non rimarranno soli: sarà con loro lo Spirito Santo, il Paraclito, che si porrà accanto ad essi, anzi, sarà in essi, per difenderli e sostenerli. Gesù ritorna al Padre ma continua ad accompagnare e ammaestrare i suoi discepoli mediante il dono dello Spirito Santo (Papa Francesco)
Jesus who is the teacher of love, who liked to talk about love so much, in this Gospel speaks of hate. Exactly of hate. But he liked to call things by the proper name they have (Pope Francis)
Gesù che è maestro dell’amore, al quale piaceva tanto parlare di amore, in questo Vangelo parla di odio. Proprio di odio. Ma a lui piaceva chiamare le cose con il nome proprio che hanno (Papa Francesco)
St Thomas Aquinas says this very succinctly when he writes: "The New Law is the grace of the Holy Spirit" (Summa Theologiae, I-IIae, q.106 a. 1). The New Law is not another commandment more difficult than the others: the New Law is a gift, the New Law is the presence of the Holy Spirit [Pope Benedict]
San Tommaso d’Aquino lo dice in modo molto preciso quando scrive: “La nuova legge è la grazia dello Spirito Santo” (Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 1). La nuova legge non è un altro comando più difficile degli altri: la nuova legge è un dono, la nuova legge è la presenza dello Spirito Santo [Papa Benedetto]
Even after seeing his people's repeated unfaithfulness to the covenant, this God is still willing to offer his love, creating in man a new heart (John Paul II)
Anche dopo aver registrato nel suo popolo una ripetuta infedeltà all’alleanza, questo Dio è disposto ancora ad offrire il proprio amore, creando nell’uomo un cuore nuovo (Giovanni Paolo II)
«Abide in me, and I in you» (v. 4). This abiding is not a question of abiding passively, of “slumbering” in the Lord, letting oneself be lulled by life [Pope Francis]
«Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Questo rimanere non è un rimanere passivo, un “addormentarsi” nel Signore, lasciandosi cullare dalla vita [Papa Francesco]
سَلامي أُعطيكُم – My peace I give to you! (Jn 14:27). This is the true revolution brought by Christ: that of love […] You will come to know inconceivable joy and fulfilment! To answer Christ’s call to each of us: that is the secret of true peace (Pope Benedict)
سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!]. Qui è la vera rivoluzione portata da Cristo, quella dell'amore [...] Conoscerete una gioia ed una pienezza insospettate! Rispondere alla vocazione di Cristo su di sé: qui sta il segreto della vera pace (Papa Benedetto)
Spirit, defined as "another Paraclete" (Jn 14: 16), a Greek word that is equivalent to the Latin "ad-vocatus", an advocate-defender. The first Paraclete is in fact the Incarnate Son who came to defend man (Pope Benedict)
Spirito, definito "un altro Paraclito" (Gv 14,16), termine greco che equivale al latino "ad-vocatus", avvocato difensore. Il primo Paraclito infatti è il Figlio incarnato, venuto per difendere l’uomo (Papa Benedetto)

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