Perché non sentirsi falliti?
(Sof 3,14-18; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18)
I rabbini ritenevano che nel Giudizio si dovesse rendere conto di ogni occasione di felicità che Dio ha pur concesso e l'uomo trascurato. Ci chiediamo come entrare in questa esperienza.
Il tono del libro di Sofonia è minaccioso fino alla visione riportata nella prima Lettura. La sua attività di denuncia della corruzione anche di sacerdoti e profeti cambia nota d’improvviso.
La trasformazione di vita ha una Soglia di pura Fede, che distingue nettamente la cappa del timore dalla libertà del cammino.
Tale segreto si rivela quando ci rendiamo conto che Dio ha revocato la condanna - e nessuna sventura punitiva dall’alto.
Finito il tarlo della religione che cerca sudditi, i nostri miglioramenti saranno frutto del paziente risultato che il Padre ottiene, rinnovando il suo Amore (Sof 3,17).
Nelle espressioni chiave, il senso della profezia sarà ripreso da Lc nell’Annunciazione a Maria.
In quest’ultimo passo l’intento dell’evangelista è quello di svelare il Dono di Grazia incarnato.
Esso non giunge come un fulmine, ma attraversa la nostra condizione d’insignificanza e persino di apprensione.
Il Signore si fa Presenza «in mezzo» (vv. 15.17). L’espressione ebraica palesa un Dio «nelle tue viscere», «nel tuo grembo»; ma la sua pregnanza non è antitetica alla versione Cei.
L’Eterno non si mostra in alto per sovrastare; neppure chi lo porge (sul serio) lo fa: lui sopra, tu sempre sotto.
Egli non si mette davanti, ma dentro - e in mezzo: anche chi dice di rappresentarlo autenticamente... non lui davanti e tu sempre dietro.
L’Emmanuele si pone a fianco, non capeggia un gruppo dove qualcuno gli è più affine e vicino, altri destinati alle retrovie.
Chi ci porge il Padre non è un capo, bensì nostro amico. E non si bea della sua cerchia concorde, perché equidistante da tutti.
Allo stesso modo, i suoi apostoli.
La persona inserita in un ambiente così vitale evolve senza sforzo; anzi, la Gioia lo attraversa e inebria. La piramide invece ci spegne.
Quando Paolo scrive ai Filippesi è in carcere a Efeso. Anziché imprecare contro la sventura compone una lettera punteggiata d’inviti alla gioia.
Perché non si sente un fallito?
(Qual è il motivo della nostra felicità? Conto corrente con uno zero in più? Mancanza di affanni?).
Paolo ha certezza che il Signore è la Fonte della sua essenza. Medesima Unicità innata da cui sprizza la realtà del mondo e le vicende.
Il nostro Nucleo tocca Dio; Egli è nel «seno» di ciascuno.
Sappiamo dunque che da tutto possiamo trarre beneficio per una crescita - anche esponenziale, indipendente dalla fortuna.
E nella Chiamata per Nome c’è come un’Immagine intima che dirige l’anima, e cerca di più, e vuole il suo posto.
Sogno che cambia la vita.
Così la stessa Vocazione c’introduce man mano nell’esperienza di recupero del carattere profondo, unico, dove possiamo sperimentare pienezza di essere.
Ma noi «Cosa dobbiamo fare?» (Lc 3, 10.12.14).
Giovanni presenta situazioni esemplari, attualissime. Nessuna riguarda il cambio di attività e mestiere, o il rabberciamento della pratica devota e la purificazione del culto!
La guarigione del mondo è frutto del semplice venirsi incontro.
Il primo contesto di questioni poste al Battezzatore riassume gli altri frangenti.
Chi ha il coraggio della gratuità porge e fa superare tutto.
Crea benessere, entusiasmo e saggezza anche in coloro che soffrono penuria - o (in religione) paure di scrupolo, e per alcuni tornaconto.
Ricordo che dopo un breve colloquio, amici di fede evangelicale appena conosciuti (Assemblea dei Fratelli) mi donarono le chiavi di una loro casa al mare. Per realizzare quel sogno che avevo coltivato sin da ragazzino, avrei dovuto buttare la vita in una cosa che c’era già; bastava condividerla.
Gli stessi fratelli di fede provvidero un’auto al parroco della loro nota cittadina costiera, in un momento di difficoltà.
Nella reciprocità, insieme, si sorvola l’alibi dell’amico-nostro e merito-mio, e dell’immaginare una vita anche radunata e colorata ma comparabile e non incisiva.
La Letizia emerge nel Dono che si fa presente.
Aiutiamoci a sperimentarlo e conoscerlo, senza distinguere o discutere, parcellizzando il bene - come nello stile severo dell’intimismo a vanvera, privo di spina dorsale.
In questa Domenica Gaudete in Domino semper non vogliamo consegnarci a una devozione solo fiabesca o à la page, che perde terreno perché vuota - e sarà bruciata come «paglia» (v.17).
Se Dio viene… chiediamoci quale alimento e tunica seconda (v.10) siamo in grado di condividere.
Non chiede gesti eccezionali
Il Vangelo di questa Domenica di Avvento presenta nuovamente la figura di Giovanni Battista, e lo ritrae mentre parla alla gente che si reca da lui al fiume Giordano per farsi battezzare. Poiché Giovanni, con parole sferzanti, esorta tutti a prepararsi alla venuta del Messia, alcuni gli domandano: «Che cosa dobbiamo fare?» (Lc 3,10.12.14). Questi dialoghi sono molto interessanti e si rivelano di grande attualità.
La prima risposta è rivolta alla folla in generale. Il Battista dice: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto» (v. 11). Qui possiamo vedere un criterio di giustizia, animato dalla carità. La giustizia chiede di superare lo squilibrio tra chi ha il superfluo e chi manca del necessario; la carità spinge ad essere attento all’altro e ad andare incontro al suo bisogno, invece di trovare giustificazioni per difendere i propri interessi. Giustizia e carità non si oppongono, ma sono entrambe necessarie e si completano a vicenda. «L’amore sarà sempre necessario, anche nella società più giusta», perché «sempre ci saranno situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo« (Enc. Deus caritas est, 28).
E poi vediamo la seconda risposta, che è diretta ad alcuni «pubblicani», cioè esattori delle tasse per conto dei Romani. Già per questo i pubblicani erano disprezzati, e anche perché spesso approfittavano della loro posizione per rubare. Ad essi il Battista non dice di cambiare mestiere, ma di non esigere nulla di più di quanto è stato fissato (cfr v. 13). Il profeta, a nome di Dio, non chiede gesti eccezionali, ma anzitutto il compimento onesto del proprio dovere. Il primo passo verso la vita eterna è sempre l’osservanza dei comandamenti; in questo caso il settimo: «Non rubare» (cfr Es 20,15).
La terza risposta riguarda i soldati, un’altra categoria dotata di un certo potere, e quindi tentata di abusarne. Ai soldati Giovanni dice: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe» (v. 14). Anche qui, la conversione comincia dall’onestà e dal rispetto degli altri: un’indicazione che vale per tutti, specialmente per chi ha maggiori responsabilità.
Considerando nell’insieme questi dialoghi, colpisce la grande concretezza delle parole di Giovanni: dal momento che Dio ci giudicherà secondo le nostre opere, è lì, nei comportamenti, che bisogna dimostrare di seguire la sua volontà. E proprio per questo le indicazioni del Battista sono sempre attuali: anche nel nostro mondo così complesso, le cose andrebbero molto meglio se ciascuno osservasse queste regole di condotta. Preghiamo allora il Signore, per intercessione di Maria Santissima, affinché ci aiuti a prepararci al Natale portando buoni frutti di conversione (cfr Lc 3,8).
(Papa Benedetto, Angelus 16 dicembre 2012)
Coscienza, Regola d’oro
Non è qui il luogo di citare le conferme che percorrono l’intera storia dell’umanità. Certo è che fin dai tempi più antichi il dettame della coscienza indirizza ogni soggetto umano verso una norma morale oggettiva, che trova espressione concreta nel rispetto della persona dell’altro e nel principio di non fare a lui quello che non si vuole sia fatto a sé [41].
[41] «La legge morale – ha lasciato detto Confucio – non è lontana da noi... L’uomo saggio non sbaglia molto in quanto riguarda la legge morale. Egli ha per principio: non fate agli altri quello che non vorreste che gli altri facessero a voi» (Tchung-Yung – Il giusto Mezzo, 13). Un antico maestro giapponese (Dengyo Daishi, detto anche Saicho, vissuto tra il 767-822 d.C.) esorta a essere «dimentichi di se stessi, benefici verso gli altri, perché qui sta il vertice dell’amicizia e della compassione» (cfr. W. Th. De Bary, Sources of Japanese Tradition, New York 1958, vol. I, 127). E come non ricordare il Mahatma Gandhi, il quale ha inculcato la «forza della verità» (satyagraha) che vince senza violenza, col dinamismo proprio che è intrinseco all’azione giusta?
(Papa Giovanni Paolo II, Dilecti Amici n.7; nota 41)