(Mt 25,31-46)
Il celebre brano del Giudizio presenta il Risorto veniente (v.31) come «Figlio dell’uomo» ossia sviluppo autentico e completo del progetto divino sull’umanità: il suo genere di “verdetto” ne consegue.
Dio abbraccia la condizione di limite delle sue creature, quindi il comportamento che realizza la nostra vita non riguarda l’atteggiamento religioso in sé, ma quello che abbiamo avuto verso i nostri simili.
È il richiamo evangelico della recente enciclica [ottobre 2020] sulla fraternità e l’amicizia sociale.
Consapevole della situazione, il Magistero si fa oggi pungolo d’ogni spiritualità di cerchia, ovvia e qualunquista; di qualsivoglia mistica da folklore, strapaesana... vuota, intimista, ancora seduta dentro armature da comodino.
In tutte le credenze antiche l’anima del defunto veniva soppesata su base notarile e giudicata secondo il saldo positivo o negativo.
Secondo i rabbini, la misericordia divina interveniva a favore, solo nel momento in cui le opere buone e cattive si bilanciavano.
Gesù non parla d’un tribunale che proclama sentenze negative immutabili sull’intera persona, ma dei tratti di esistenza completa che - essendo in sé indistruttibili perché umanizzanti - vengono salvati e assunti, introdotti nella esistenza definitiva.
«Vita dell’Eterno» (v.46 testo greco) allude a un genere di vita non biologico ma relazionale e di completezza di essere, che possiamo già sperimentare.
Si tratta di episodi in cui è affiorato il nostro DNA divino, l’Oro che ci abita: quando abbiamo saputo corrispondere ai bisogni non di Dio, ma della vita stessa e dei nostri fratelli.
Sono i momenti in cui siamo stati ascoltatori profondi della natura, della speranza e vocazione di tutti - sensibili alle necessità altrui.
Opportunità che ci hanno consentito di avvicinare la condizione umana a quella celeste.
Comparando le “opere” dichiarate “paradigma” con quelle degli elenchi del giudaismo classico (Is 58,6-7) e di altre religioni - persino dell’antico Egitto [Libro dei morti, c.125] - notiamo la differenza del v.36: «ero in prigione e siete venuti da me» (cf. vv.39.43).
La differenza è notevole proprio sotto il criterio della Giustizia divina: essa sorvola le considerazioni forensi, perché crea giustizia dove non c’è.
Il Padre pone vita in ogni caso, perché non è buono come si crede in tutte le persuasioni devote, bensì esclusivamente buono.
I “giusti” - poi - neppure si sono accorti di aver fatto chissà cosa: hanno corrisposto spontaneamente alla loro natura innata e trasparente di figli (v.39).
Hanno avuto simpatia per la “carne” nella realtà in cui si trova - e dove si trova - valutandola famigliare. Hanno amato con e come Gesù, in Lui.
Non hanno amato per Gesù - come se la condizione dell’altro potesse essere collocata fra parentesi, e sotto sotto considerata una seccatura sulla quale costruire una fiction, pur solidale.
Gli altri osservanti invece, tutti presi da formalismi di rito, dottrina e disciplina che a Dio non interessano, risultano sorpresi del fatto che il Padre non sia tutto lì dove lo avevano immaginato.
Ossia perbene ma vuoto e stagnante come loro, stretto nelle sentenze della giustizia ordinaria: «Quando ti abbiamo visto [...] in prigione e non ti abbiamo servito?» (v.44).
La vocazione a venire incontro ci porta spontaneamente a trasgredire le divisioni: legaliste, di retribuzione, o pregiudizi e genere di culto.
Questa la Salvezza eminente, di peso - che si annida nell’aspetto diretto e genuino. Non tanto nei propositi organizzati; né ha consistenza alcuna su base di opinioni.
Ci realizziamo nel corrispondere alla chiamata istintiva che sorge dalla nostra stessa impronta essenziale altruista: anche minima, malconsiderata, o eccentrica, malferma e poco adempiente - non straordinaria.
Senza condizioni troppo esteriori, essa si riconosce disseminata nell’anima e nella pienezza benefica, divinizzante, del «Figlio dell’uomo».
Insegnamento ultimo di Gesù: Giudizio insigne, globale e tutto umano.
Non responso qualunquista o di contrabbando, a concetto e rendiconto.
Resta singolare l’identificazione di Gesù coi piccoli: «quanto avete fatto anche a uno solo di questi miei fratelli, quelli ultimi, avete fatto a me» (v.40).
Diversamente: «neppure a me avete fatto» (v.45).
La sua Persona ha un senso centrale, senza distinzione tra amici e controlegge, fra pii adempienti e non.
L’adesione a Cristo non si valuta sulla base di opere distanti dal Nucleo umanizzante.
Belle cose che possono essere compiute anche senza spirito di benevolenza [per dovere e cultura, o anche lustro e calcolo] - bensì sull’amore.
Dio non resta obbligato a premiare i meriti.
Le opere buone possono essere messe in mostra o adempiute anche contro il Padre: come per legargli le mani.
Un travisamento tipico delle religioni, che prevedono il premio ai devoti.
Fraintendimento estraneo all’esperienza di Fede, la cui unica sicurezza è nel rischio dell’esplorazione, nella crescita, nella qualità di relazioni - appunto, umanizzanti.
Vita e morte sono ben distinte [«destra e sinistra»: proverbialmente, fortuna e disgrazia] secondo le caratteristiche dell’autentica pietà verso Dio stesso... perché il suo onore si riflette nella promozione della donna e dell’uomo, colti nella loro situazione concreta.
Unico principio non negoziabile è il servizio al bene di ciascuna persona.
Le opere d’amore sono espressione di Comunione vera col Cristo - in tal guisa liberate da tare cerebrali e di maniera: da ogni genere di limiti o giudizio che condizioni il loro valore.
Insomma, non c’è da fare cose mirate e straordinarie, o meccaniche, ma lasciar agire Dio - rispettando e valorizzando il fratello per quello che è.
Anche fuori dell’ambito visibile del regno degli apostoli (o di una dottrina-disciplina) v’è un autentico “cristianesimo”: civiltà dei figli.
Insomma, nessuna predestinazione alla condanna dei lontani o erranti e imperfetti, salvo per mancanza di fraternità che recupera l’impossibile - persino “controlegge”.
Autentica Regalità del Cristo e dei suoi.
In Palestina, di sera i pastori erano soliti separare le pecore dai capri che avevano bisogno di essere riparati dal freddo.
Allo scopo di sottolinearne l’importanza, la questione sollevata dall’evangelista fa propri i coloriti moduli di predicazione rabbinica.
Il problema non è quello di chi si salva e chi no.
La domanda è semmai: in quali occasioni siamo volentieri all’aperto anche di “notte”, e umanizziamo - e in quali ci comportiamo in modo più belluino, chiuso, però senza diventare... agnelli?
In Cristo la vittoria sull’egoismo perde il suo significato di annientamento delle possibilità di crescita individuale - che non si ottiene ostinandosi.
Il suo potere è tutt’altro che stagnante e divisivo. Non nasconde le capacità che non vediamo, o ciò che non sappiamo.
Le situazioni opposte sono i momenti gloriosi di una medesima vittoria. Lo si nota nel prosieguo del brano, che proclama l’altro estremo dell’amore: «il Figlio dell’uomo è consegnato per essere crocifisso» (Mt 26,2).
Quindi lo scopo di Mt non è quello di descrivere la fine del mondo, ma fornire indicazioni su come vivere saggiamente [oggi] per formare Famiglia e non rimanere affascinati dall’immediato luccichio di falsi monili - anche ben allestiti.
Il Richiamo dei Vangeli insiste sulla contrapposizione con una spiritualità frivola: unico distinguo opportuno.
L’uomo di Dio non soddisfa le brame di carriera neppure ecclesiastica, e ogni capriccio.
Suggerisce il Tao Tê Ching (iii) rivolgendosi persino al sapiente sovrano: «Non esaltare i più capaci, fa’ sì che il popolo non contenda; non pregiare i beni che con difficoltà s’ottengono, fa’ sì che il popolo non diventi ladro; non ottenere ciò che può bramarsi, fa’ sì che il cuore del popolo non si turbi».
Commenta il maestro Wang Pi: «Quando si esaltano i più capaci, si dà lustro al loro nome; la gloria va oltre il loro ufficio, ed essi stanno sempre ad abbaruffarsi, paragonando le loro capacità. Quando si fa pregio dei beni oltre la loro utilità, gli avidi vi si precipitano sopra, accapigliandosi; forano mura, scassinano forzieri, si fanno ladri a rischio della vita».
E il maestro Ho-shang Kung aggiunge, circa «coloro che il mondo giudica eccellenti»: «Con il loro eloquio specioso si adattano alle circostanze allontanandosi dal Tao, si attengono alla forma respingendo la sostanza».
L’Appello del Signore ribadisce gli aspetti qualitativi, di Persona in relazione: Egli illustra come vale la pena scommettere la vita.
Ciò affinché tutti possano sperimentare pienezza di essere - che non è il risultato dell’opportunismo.
E neppure dell’appartenenza: ogni discriminazione fra “chiamati” nella Chiesa visibile e lontani da essa viene sospesa.
Le immagini forti del brano di Vangelo servono a farci riflettere, aprire gli occhi, spostare l’orizzonte, imprimere nella nostra coscienza quanto vale la pena mettere in campo: tutto, circa le scelte da fare.
L’amore autentico che muove il cielo e la terra è quello che riesce a fare giusto il malvagio - nel Dono gratuito, privo di condizioni e forme di amor proprio. Persino esente da valutazioni sacrali.
Intuisce il Tao (xxxiii): «Chi opera queste cose? Il Cielo e la Terra [...] Chi si dà al Tao s’immedesima col Tao».
Il genuino sorge e fiorisce dal modo disinteressato e spontaneo, senza sforzo alcuno, né fine artificioso.
Qui l’uomo è un Soggetto diverso, ben più ricco - saldo in se stesso, ma che si dilata nel Tu divino e umano, anche indigente.
«Nella pagina evangelica di oggi, Gesù si identifica non solo col re-pastore, ma anche con le pecore perdute. Potremmo parlare come di una “doppia identità”: il re-pastore, Gesù, si identifica anche con le pecore, cioè con i fratelli più piccoli e bisognosi. E indica così il criterio del giudizio: esso sarà preso in base all’amore concreto dato o negato a queste persone […] Dunque, il Signore, alla fine del mondo, passerà in rassegna il suo gregge, e lo farà non solo dalla parte del pastore, ma anche dalla parte delle pecore, con le quali Lui si è identificato. E ci chiederà: “Sei stato un po’ pastore come me?” […] E torniamo a casa soltanto con questa frase: “Io ero presente lì. Grazie!” oppure: “Ti sei scordato di me”».
(Papa Francesco)