don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 16 Giugno 2025 06:23

Stupore, o niente si muove dentro?

Oggi la liturgia ci invita a celebrare la festa della Natività di San Giovanni Battista. La sua nascita è l’evento che illumina la vita dei suoi genitori Elisabetta e Zaccaria, e coinvolge nella gioia e nello stupore i parenti e i vicini. Questi anziani genitori avevano sognato e anche preparato quel giorno, ma ormai non l’aspettavano più: si sentivano esclusi, umiliati, delusi: non avevano figli. Di fronte all’annuncio della nascita di un figlio (cfr Lc 1,13), Zaccaria era rimasto incredulo, perché le leggi naturali non lo consentivano: erano vecchi, erano anziani; di conseguenza il Signore lo rese muto per tutto il tempo della gestazione (cfr. v. 20). E’ un segnale. Ma Dio non dipende dalle nostre logiche e dalle nostre limitate capacità umane. Bisogna imparare a fidarsi e a tacere di fronte al mistero di Dio e a contemplare in umiltà e silenzio la sua opera, che si rivela nella storia e che tante volte supera la nostra immaginazione.

E ora che l’evento si compie, ora che Elisabetta e Zaccaria sperimentano che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37), grande è la loro gioia. L’odierna pagina evangelica (Lc 1,57-66.80) annuncia la nascita e poi si sofferma sul momento dell’imposizione del nome al bambino. Elisabetta sceglie un nome estraneo alla tradizione di famiglia e dice: «Si chiamerà Giovanni» (v. 60), dono gratuito e ormai inatteso, perché Giovanni significa “Dio ha fatto grazia”. E questo bambino sarà araldo, testimone della grazia di Dio per i poveri che aspettano con umile fede la sua salvezza. Zaccaria conferma inaspettatamente la scelta di quel nome, scrivendolo su una tavoletta – perché era muto –, e «all’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava normalmente, benedicendo Dio» (v. 64).

Tutto l’avvenimento della nascita di Giovanni Battista è circondato da un gioioso senso di stupore, di sorpresa e di gratitudine. Stupore, sorpresa, gratitudine. La gente è presa da un santo timore di Dio «e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose» (v. 65). Fratelli e sorelle, il popolo fedele intuisce che è accaduto qualcosa di grande, anche se umile e nascosto, e si domanda: «Che sarà mai questo bambino?» (v. 66). Il popolo fedele di Dio è capace di vivere la fede con gioia, con senso di stupore, di sorpresa e di gratitudine. Guardiamo quella gente che chiacchierava bene su questa cosa meravigliosa, su questo miracolo della nascita di Giovanni, e lo faceva con gioia, era contenta, con senso di stupore, di sorpresa e gratitudine. E guardando questo domandiamoci: come è la mia fede? E’ una fede gioiosa, o è una fede sempre uguale, una fede “piatta”? Ho senso dello stupore, quando vedo le opere del Signore, quando sento parlare dell’evangelizzazione o della vita di un santo, o quanto vedo tanta gente buona: sento la grazia, dentro, o niente si muove nel mio cuore? So sentire le consolazioni dello Spirito o sono chiuso? Domandiamoci, ognuno di noi, in un esame di coscienza: Come è la mia fede? E’ gioiosa? E’ aperta alle sorprese di Dio? Perché Dio è il Dio delle sorprese. Ho “assaggiato” nell’anima quel senso dello stupore che dà la presenza di Dio, quel senso di gratitudine? Pensiamo a queste parole, che sono stati d’animo della fede: gioia, senso di stupore, senso di sorpresa e gratitudine.

La Vergine Santa ci aiuti a comprendere che in ogni persona umana c’è l’impronta di Dio, sorgente della vita. Lei, Madre di Dio e Madre nostra, ci renda sempre più consapevoli che nella generazione di un figlio i genitori agiscono come collaboratori di Dio. Una missione veramente sublime che fa di ogni famiglia un santuario della vita e risveglia – ogni nascita di un figlio – la gioia, lo stupore, la gratitudine.

[Papa Francesco, Angelus 24 giugno 2018]

Domenica, 15 Giugno 2025 23:50

Corpus Domini

Domenica, 15 Giugno 2025 04:11

Travi e pagliuzze: eliminare preconcetti

Per una convivenza trasparente

(Mt 7,1-5)

 

Il Discorso della Montagna (Mt 5-7) elenca catechesi su questioni salienti del vissuto nelle comunità di Galilea e Siria - composte di giudei convertiti a Cristo.

Da parte dei veterani non mancavano episodi di disprezzo nei confronti dei nuovi che si presentavano alla soglia delle chiese - per il loro modello di vita lontano dalla norma riconosciuta, o anche per inezie.

«Teatrante» (v.5) è chi pensa in grande di sé e ha sempre la manìa di guardarsi attorno per convincersi di poter primeggiare - senza porsi in atteggiamento di riguardo nei confronti dell’enigma della vita, dove invece i fardelli possono tramutarsi in progresso.

Lo sguardo obbiettivo su noi stessi e la nostra crescita personale - spesso scaturita proprio da deviazioni a stereotipi o nomenclature - può renderci benevolenti. Può convincere di rispetto e perfino di ossequio dovuto, nei confronti del ‘di più’ che ci circonda e chiama.

Il legalismo dei dettagli ingessati porta infatti la trascuratezza dell’essenziale, nell’amore vicendevole (cf. vv.3-5).

Negli anni 70 del primo secolo la consapevolezza della diversa relazione famigliare e serena con Dio - e il modo nuovo di vivere la sua Legge - stava interrogando i credenti e coinvolgeva i rapporti con i fratelli e sorelle di comunità.

Dopo aver introdotto sia gl’inediti criteri di ‘Giustizia maggiore’ che il recupero dei princìpi della Creazione, l’evangelista suggerisce alcuni  spunti essenziali per la qualità di vita interna delle fraternità.

 

L’estrazione culturale dei membri di chiesa anziani era di stampo accanitamente legalista. Tale bagaglio non favoriva la libertà delle valutazioni reciproche: la convivenza doveva essere più trasparente.

Per incoraggiare la comunione, Mt vuole presentare un Gesù libero e tranquillo - non superuomo, né idolo o modello: viceversa, Persona genuina; Maestro non unilaterale.

Egli infatti sapeva recuperare e desiderava valorizzare tutte le singole sensibilità, per consentire l’espressione dell’amicizia e dell’arricchimento in ogni realtà umana.

Solo la sua forte ‘radice’ nella relazione col Padre doveva essere di esempio sacro per ciascuno, e paragone inviolabile per tutti, sempre.

In Palestina il Signore non si era mostrato fondamentalista. 

La «Fiducia» nel Padre e nella sua «vita che viene» donava al Figlio stesso la certezza di potersi totalmente aprire alle situazioni e a ciascuno - in qualsivoglia realtà si trovasse a districarsi.

Un’apertura conviviale alle differenze, per non bloccare i varchi e l’esito della Novità, nello Spirito delle Beatitudini.

Questo perché siamo stati chiamati a rendere esponenziale l’esistenza nostra e di tutti, non a smorzarla di preconcetti e convincimenti relativi.

 

Accettiamo la Provvidenza, noi stessi e l’altro così com’è: consapevoli che c’è un segreto prezioso, un destino inedito, un Mistero che ci supera… dietro ogni evento, in ognuno dei nostri stessi ‘volti intimi’ [sostenuti dal Padre], o nel fratello pur eccentrico.

I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.

Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.

Solo qui… Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.

 

 

[Lunedì 12.a sett. T.O.  23 giugno 2025]

Domenica, 15 Giugno 2025 04:07

Travi e pagliuzze: eliminare preconcetti

Per una convivenza trasparente

(Mt 7,1-5)

 

Il Discorso della Montagna (Mt 5-7) elenca catechesi su questioni salienti del vissuto nelle comunità di Galilea e Siria - composte di giudei convertiti a Cristo.

Non mancavano episodi di disprezzo anche reciproco, acceso in specie da veterani abituati a mettere sotto inchiesta i nuovi che si presentavano alla soglia delle chiese - per il loro modello di vita lontano dalla norma riconosciuta, o anche per inezie.

Ma non siamo giudici, bensì famigliari. E certo, in ultima analisi è proprio la malizia che aguzza l’occhio sui minimi difetti altrui: in genere, pagliuzze e mancanze esterne.

Ciò mentre la medesima scaltrezza sorvola enormità proprie - pesantissima trave che ci separa non solo da Dio e da tutti, ma perfino da noi stessi, accostandoci all’io egoista e arrogante.

«Teatrante» (v.5) è chi pensa in grande di sé e ha sempre la manìa di guardarsi attorno per convincersi di poter primeggiare - senza porsi in atteggiamento di riguardo nei confronti dell’enigma della vita, dove invece i fardelli possono tramutarsi in progresso.

Lo sguardo obbiettivo su noi stessi e la nostra crescita personale - spesso scaturita proprio da deviazioni a stereotipi o nomenclature - può renderci benevolenti. Può convincere di rispetto e perfino di ossequio dovuto, nei confronti del di più che ci circonda e chiama.

Il legalismo dei dettagli ingessati porta infatti la trascuratezza dell’essenziale, nell’amore vicendevole (cf. vv.3-5).

Ben sappiamo quant’è dura metterci in discussione, o educare proprio i religiosi perfezionisti a successivi distacchi da loro convincimenti accidentali [o mode], diventati per abitudine sclerotici come totem.

Insomma, negli anni 70 del primo secolo la consapevolezza della diversa relazione famigliare e serena con Dio - e il modo nuovo di vivere la sua Legge - stava interrogando i credenti e coinvolgeva i rapporti con i fratelli e sorelle di comunità.

 

Dopo aver introdotto sia gl’inediti criteri di ‘Giustizia maggiore’ che il recupero dei princìpi della Creazione, l’evangelista suggerisce alcuni  spunti essenziali per la qualità di vita interna delle fraternità.

L’estrazione culturale dei membri di chiesa anziani era di stampo accanitamente legalista. 

Tale bagaglio non favoriva la libertà delle valutazioni reciproche: la convivenza doveva essere più trasparente.

I preconcetti devoti parevano un macigno insuperabile per la vita personalizzante e di condivisione reciproca secondo la nuova logica delle Beatitudini [Mt 5,1-12: Autoritratto di Cristo come ‘libro aperto’ (a colpi di lancia)].

Il bagaglio culturale legato agli adempimenti, al senso di dovere e gerarchia, allo stile di vita assuefatto, e alle credenze che facevano fatica a essere deposte, moltiplicava giudizi severi reciproci fra generazioni e tra variegate impostazioni culturali.

 

Per incoraggiare la comunione, Mt vuole presentare un Gesù libero e tranquillo - non superuomo, né idolo o modello: viceversa, Persona genuina; Maestro non unilaterale.

Egli infatti sapeva recuperare; desiderava valorizzare tutte le poliedriche, singole sensibilità, per consentire l’espressione dell’amicizia e dell’arricchimento in ogni realtà umana.

Solo la sua forte ‘radice’ nella relazione col Padre doveva essere di esempio sacro per ciascuno, e paragone inviolabile per tutti, sempre.

Ciò per una trasparenza ricca e globale, da proporre anche ai discepoli.

In tal guisa, non si configurava l’adesione a credenze particolari, né la ripetizione delle solite discipline di perfezione.

Neppure dovevano prediligersi le pie osservanze di massa, talora primo impedimento al dialogo e all’Esodo - nelle sue differenti opulenze.

Poi la vita stessa avrebbe guidato ciascuno in modo provvidente, verso una specifica testimonianza, che potesse essa stessa creare un’altra apertura - attinente il proprio carattere e vocazione d’anima.

 

In Palestina il Signore non si era mostrato ossessivo e unilaterale, né ridotto a schemi normali e verosimili - sulla base di codici culturali, prudenze valutative, o paradigmi morali e religiosi.

La fiducia nel Padre e nella vita che viene donava al Maestro Gesù la certezza di potersi totalmente aprire alle situazioni e a ciascuno - in qualsivoglia realtà si trovasse a districarsi.

Un’apertura conviviale alle differenze più eccezionali, per non bloccare i varchi e l’esito della Novità, nello Spirito delle Beatitudini.

 

Il senza-condizioni dell’Amore vale sempre in primis per il discepolo, i membri della medesima comunità, e il prossimo.

Questo perché siamo stati chiamati a rendere esponenziale l’esistenza nostra e di tutti, non a smorzarla con versioni glamour, o di preconcetti-a-monte, e convincimenti relativi.

Creati per amare la verità eccezionale della donna e dell’uomo, non per spegnere le unicità - sentenziando sui nonnulla.

Accettiamo la Provvidenza, noi stessi e l’altro così com’è: consapevoli che c’è un segreto prezioso, un destino di novità, un Mistero che ci supera… dietro ogni evento, in ognuno dei nostri stessi volti intimi [sostenuti dal Padre], o nel fratello pur eccentrico.

 

I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.

Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.

Solo qui… Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.

 

«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita» [Tradizione orale africana Peul].

«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare Individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima, appunto perché non è universale» [Tagore].

«Dobbiamo imparare ad abbandonare le nostre difese e il nostro bisogno di controllare, e fidarci totalmente della guida dello spirito» [Sobonfu Somé].

«La vera moralità non consiste nel seguire la via battuta, ma nel trovare il sentiero vero per noi e nel seguirlo senza paura» [Gandhi].

 

 

Travi e pagliuzze: situazione paradossale, dove talora c’è un eccesso di “credo” - eppure manca la Fede.

Domenica, 15 Giugno 2025 03:58

Prestare attenzione

“Prestiamo attenzione”: la responsabilità verso il fratello.

Il primo elemento è l'invito a «fare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein,che significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfr Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell'occhio del fratello (cfr Lc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a «prestare attenzione a Gesù» (3,1), l'apostolo e sommo sacerdote della nostra fede. Quindi, il verbo che apre la nostra esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata». Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell'altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell'altro e a tutto il suo bene. Il grande comandamento dell'amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], n. 66).

[Papa  Benedetto, Messaggio per la Quaresima 2012]

Domenica, 15 Giugno 2025 03:49

Cecità, travi, pagliuzze

Nella liturgia della parola il Vangelo di Luca ci ha riproposto l’interrogativo di Gesù: “Può forse un cieco guidare un altro cieco?” (Lc 6, 39). Il Signore intende dire che una guida non può essere cieca, deve vedere bene, se non vuol rischiare di arrecare danno alle persone che le sono state affidate. Gesù richiama così l’attenzione di tutti coloro che hanno compiti educativi o di comando: i pastori d’anime, i reggitori dei popoli, i legislatori, i maestri, i genitori, esortandoli ad avere coscienza, a sentire la responsabilità, a interrogarsi sulla strada giusta e a percorrerla essi stessi per primi.

3. E il percorso giusto è quello tracciato dal divin Maestro. Lo ha detto Lui stesso con un’espressione semitica, che suona così: “Il discepolo non è da più del maestro, ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro” (Lc 6, 40). Con essa Gesù si presenta come Modello e ci invita a seguire la sua condotta e i suoi insegnamenti. Solo così si è guide sicure e sagge. Gli insegnamenti del Signore, per quanto attiene alla vita morale, sono contenuti principalmente nel discorso della montagna, che da tre domeniche leggiamo nella celebrazione della Santa Messa. Nel brano d’oggi troviamo un’altra frase molto significativa, quella che esorta a non essere presuntuosi e ipocriti. “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non t’accorgi della trave che è nel tuo?” (Lc 6, 41). Com’è facile scorgere i difetti e i peccati altrui e non vedere i propri! E come possiamo accorgerci se il nostro occhio è libero o se è impedito da una trave? La verifica ci viene dalle nostre azioni. È ancora Gesù che ce lo dice: “Ogni albero si riconosce dal suo frutto” (Lc 6, 44). Il frutto sono le azioni, ma anche le parole. Anche da queste si conosce la qualità dell’albero. Infatti, chi è buono trae fuori dal suo cuore e dalla sua bocca il bene e chi è cattivo trae fuori il male. Questo insegnamento di Gesù fa eco agli antichi detti sapienziali del Siracide, che abbiamo ascoltato nella prima lettura: “Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela il sentimento dell’uomo” (Sir 27, 6).

[Papa Giovanni Paolo II, omelia a Corviale 1 marzo 1992]

Domenica, 15 Giugno 2025 03:17

Davanti allo specchio

Ci sono regole chiare suggerite da Gesù per non cadere nell’ipocrisia: non giudicare gli altri per non essere a nostra volta giudicati con la stessa misura; e quando ci viene la tentazione di farlo, è meglio guardarsi prima allo specchio, non per nasconderci con il trucco ma per vedere bene come siamo realmente. Ricordando che l’unico vero giudizio è quello di Dio con la sua misericordia, Papa Francesco — nella messa celebrata lunedì mattina 20 giugno nella cappella della Casa Santa Marta — ha raccomandato di non cedere alla tentazione di mettersi al posto del Signore, dubitando della sua parola.

«Gesù parla alla gente e insegna tante cose sulla preghiera, sulle ricchezze, sulle preoccupazioni vane, tante, su come deve comportarsi un suo discepolo» ha affermato Francesco. E così «arriva a questo passo del Vangelo sul giudizio», proposto dalla liturgia (Matteo, 7, 1-5). È un brano in cui «il Signore è molto concreto». Se infatti «alcune volte il Signore per farci capire ci racconta una parabola, qui è: “ta, ta, ta”: diretto, perché il giudizio è una cosa che può fare solo lui».

«Il fatto incomincia» con una parola chiara di Gesù: «Non giudicate, per non essere giudicati». Dunque, «se tu non vuoi essere giudicato non giudicare gli altri: “tac, tac”, chiaro». E il Signore «va un passo avanti», indicando appunto il criterio della misura: «Perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi».

«Tutti noi vogliamo, il giorno del giudizio, che il Signore ci guardi con benevolenza, che il Signore si dimentichi di tante cose brutte che abbiamo fatto nella vita» ha detto Francesco. E «questo è giusto, perché siamo figli, e un figlio dal padre si aspetta questo, sempre». Ma «se tu giudichi continuamente gli altri, con la stessa misura tu sarai giudicato: questo è chiaro».

«Primo, il comandamento, il fatto: “Non giudicate per non essere giudicati”» ha ribadito il Papa, aggiungendo: «Secondo, la misura sarà la stessa che voi usate per i fratelli». E poi «il terzo passo: guardati allo specchio ma non per truccarti perché non si vedano le rughe; no, no, no, quello non è il consiglio!». Piuttosto, ha suggerito Francesco, «guardati allo specchio per guardare te, come tu sei». Le parole di Gesù sono chiare: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai a tuo fratello: “lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio” mentre nel tuo occhio c’è la trave?”».

«Come ci qualifica il Signore — si è chiesto il Pontefice — quando facciamo questo? Una sola parola: “Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”». In realtà, non dovrebbe sorprendere la reazione del Signore che «si arrabbia; è molto forte, e sembra anche che ci insulti: dice “ipocrita” a chi giudica gli altri».

La ragione è che «chi giudica — ha spiegato il Papa — si mette al posto di Dio, si fa Dio e dubita della parola di Dio». È proprio «quello che il serpente ha convinto a fare ai nostri padri: “No, no, Dio è un bugiardo, se voi mangiate di questo, sarete come lui”. E loro volevano mettersi al posto di Dio».

Per questo, ha insistito il Pontefice, «è tanto brutto giudicare: il giudizio solo a Dio, solo a lui!». A noi compete piuttosto «l’amore, la comprensione, il pregare per gli altri quando vediamo cose che non sono buone», se serve «anche parlare loro» per metterli in guardia se qualcosa non sembra andare per il verso giusto. In ogni caso «mai giudicare, mai», perché «se noi giudichiamo è ipocrisia».

Del resto, ha affermato Francesco, «quando giudichiamo ci mettiamo al posto di Dio, questo è vero, ma il nostro giudizio è un povero giudizio: mai, mai può essere un vero giudizio». Perché, appunto, «il vero giudizio è quello che dà Dio». E «perché il nostro non può essere come quello di Dio? Perché Dio è onnipotente e noi no? No, perché al nostro giudizio manca la misericordia». E «quando Dio giudica, giudica con misericordia».

In conclusione il Papa ha suggerito di pensare «oggi a questo che il Signore ci dice: non giudicare, per non essere giudicato; la misura con la quale giudichiamo sarà la stessa che useranno con noi; e, terzo, guardiamoci allo specchio prima di giudicare». E così quando ci viene da dire: «questa fa quello, questo fa quello», è meglio guardarsi allo specchio prima di parlare. Altrimenti «sarò un ipocrita — ha ripetuto Francesco — perché mi metto al posto di Dio». E comunque «il mio giudizio è un povero giudizio: manca qualcosa di tanto importante che ha il giudizio di Dio, manca la misericordia». Il Signore, ha auspicato il Papa, «ci faccia capire bene queste cose».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 20/06/2016]

Corpus Domini

(Lc 9,11b-17)

 

Il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.

Per farci comprendere appieno la Persona del Cristo, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia.

Ha preferito esprimersi in un gesto, che ci interpella.

Nel mondo ebraico, di sera ogni famiglia si ritrovava attorno alla mensa, e quello dello spezzare il pane era il momento più significativo della loro esperienza di convivialità (e di memoria della consegna di sé agli altri).

L’unico pane veniva frazionato e condiviso fra tutti i famigliari - ma anche un povero affamato poteva affacciarsi all’uscio, che non doveva venire serrato.

Pane e vino, prodotti che avevano assimilato le energie del cielo e della terra, erano percepiti con sensibilità spirituale - doni del Creatore per la vita e la gioia dell’umanità.

In quella cultura, il pane è cibo base. Ma la nostra vita è completa solo se c’è anche l’elemento della festa: ecco il vino.

Il pane ancora oggi non viene tagliato con un coltello, per rispettarne la sacralità: solo spezzato. Esso contiene l’esistere concreto.

Per questo Gesù sceglie il Banchetto come segno della sua Persona, vita, parola, vicenda rischiosa, donate in alimento.

Durante la cena in famiglia, pane e vino non venivano percepiti al pari della manna, ossia come prodotti naturali e grezzi. Neppure era un nutrirsi per ricuperare le forze, e basta.

Nel frumento e nell’uva si erano dati appuntamento anche tutti i variegati contributi del focolare domestico.

Attorno alla mensa, ciascun uomo vedeva nel pane e nel vino il frutto del suo lavoro: pulitura del terreno, aratura, seminagione, mietitura, potature, vendemmia e opera di torchio.

La donna coglieva nel pane il suo lavoro di macinatura, impastatura, cottura. Anche i minori potevano ricordare qualcosa di proprio, perché i ragazzetti si prestavano ad attingere acqua.

La cena era una celebrazione dell’armonia. La mensa era appunto un luogo in cui i giovani venivano educati alla percezione dell’esistere nell’unità, invece che nel disinteresse.

Gratitudine verso i doni di Dio e percezione del proprio apporto, che giunge (realmente) all’obiettivo nello spirito di sinergia e comunione.

Contributi, risorse e capacità convenivano a porgersi in servizio, per la vita di tutti.

Nel gesto eucaristico Gesù dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.

Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli concordi, nessuno padrone o dominatore - destinato a stare davanti o sopra (anche se più svelto degli altri) persino in Cielo.

Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù con sé ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui (cf. Lc 9,10.12) - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che lo devono porgere a tutti (vv.13.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.

 

Nel brano di Lc Gesù suscita sconcerto. Non è d’accordo con l’idea che ciascuno s’arrangi; neppure gli va a genio l’elemosina (vv.12-13).

Impone ai suoi che la folla si sdrai (v.14 testo greco) come facevano i signori e le persone libere nei momenti solenni.

Vuole e insiste che siano anzitutto gli apostoli a servire (vv.13.16), non altri schiavi.

E forse la cosa più sbalorditiva è che a nessuno dei presenti impone gesti preventivi di purificazione, com’era abitudine nella religiosità tradizionale.

Prima del pasto essa postulava l’abluzione: una sorta di cerimonia che sottolineasse un distacco sacrale fra puro e impuro.

Unico compito degli apostoli è quello di distribuire l’Alimento - poi da sminuzzare, vagliare e assimilare, per edificare un nuovo Regno - non fare radiografie preventive; tantomeno interessate.

In religione abbiamo una lunga trafila di adempimenti da osservare per presentarci a cospetto di Dio.

Nel cammino di Fede è l’incontro gratuito col Signore che fa crescere, rendendoci puri senza condizioni.

Appello alla Convivialità reale, e Richiamo sempreverde a non accontentarsi.

Sabato, 14 Giugno 2025 04:26

L’Eucaristia in Raffaello e Arcabas

(Lc 9,11b-17)

 

Alimento moltiplicato perché distribuito: Richiamo a non accontentarsi

 

Il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.

Per farci comprendere appieno la Persona del Cristo, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia. Ha preferito esprimersi in un gesto, che ci interpella.

Nel mondo ebraico, di sera ogni famiglia si ritrovava attorno alla mensa, e quello dello spezzare il pane era il momento più significativo della loro esperienza di convivialità (e di memoria della consegna di sé agli altri).

L’unico pane veniva frazionato e condiviso fra tutti i famigliari - ma anche un povero affamato poteva affacciarsi all’uscio, che non doveva venire serrato.

Pane e vino, prodotti che avevano assimilato le energie del cielo e della terra, erano percepiti con sensibilità spirituale - doni del Creatore per la vita e la gioia dell’umanità.

In quella cultura, il pane è cibo base. Ma la nostra vita è completa solo se c’è anche l’elemento della festa: ecco il vino.

Il pane ancora oggi non viene tagliato con un coltello, per rispettarne la sacralità: solo spezzato. Esso contiene l’esistere concreto.

Per questo Gesù sceglie il Banchetto come segno della sua Persona, vita, parola, vicenda rischiosa, donate in alimento.

 

Durante la cena in famiglia, pane e vino non venivano percepiti al pari della manna, ossia come prodotti naturali e grezzi. Neppure era un nutrirsi per ricuperare le forze, e basta.

Nel frumento e nell’uva si erano dati appuntamento anche tutti i variegati contributi del focolare domestico.

Attorno alla mensa, ciascun uomo vedeva nel pane e nel vino il frutto del suo lavoro: pulitura del terreno, aratura, seminagione, mietitura, potature, vendemmia e opera di torchio.

La donna coglieva nel pane il suo lavoro di macinatura, impastatura, cottura. Anche i minori potevano ricordare qualcosa di proprio, perché i ragazzetti si prestavano ad attingere acqua (se non ai pozzi, a una sorgente).

La cena era una celebrazione dell’armonia. La mensa era appunto un luogo in cui i giovani venivano educati alla percezione dell’esistere nell’unità, invece che nel disinteresse.

Gratitudine verso i doni di Dio e percezione del proprio contributo, ch’era giunto (realmente) all’obiettivo nello spirito di sinergia e comunione.

Contributi, risorse e capacità convenivano a porgersi in servizio, per la vita di tutti.

 

Nel gesto eucaristico Gesù dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.

Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli concordi, nessuno padrone o dominatore - destinato a stare davanti o sopra (anche se più svelto degli altri) persino in Cielo.

Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù con sé ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui (cf. Lc 9,10.12) - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che lo devono porgere a tutti (vv.13.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.

 

 

Per animare gli incontri sul tema dell’Eucaristia e interiorizzare come nella stessa Chiesa Cattolica ci sia stata un’evoluzione nella comprensione dell’efficacia del Segno, uso comparare due grandi opere d’arte.

Raffaello nella cosiddetta Disputa del Sacramento raffigura un mondo sacrale e statico. Oggi diremmo (a colpo d’occhio) quasi plastificato.

Ambiente che sembra tutto prevedibile e comunque caratterizzato da un modello sociale, culturale e spirituale situato; dove ciascuno è collocato in base a origini, posizione, status, rango spirituale.

Arcabas - artista francese recentemente scomparso - dipinge un quadro che sembra privo di Protagonista: come tagliato, o (meglio) focalizzato sul semplice gesto. A dire: il contorno di addobbi non riguarda questa proposta di vita.

Nell’opera del pittore contemporaneo cogliamo la sobrietà di una Persona e d’una missionarietà ben centrata (che graffia, ma ci fa perdere la testa assai più delle belle sceneggiature); perché nel mondo dell’Amore il meglio deve ancora Venire.

Siamo interrogati.

Arcabas illustra una tavola semplicemente imbandita: un piatto non certo della migliore collezione, un bicchiere di vino senza fronzoli, una tovaglia semplicemente appoggiata alla mensa e connotata dalle sue piegature (neanche stirate) che ricordano il quotidiano reale.

E soprattutto il gesto normale dello spezzare il pane, quello del passo dopo passo, con le sue briciole non vaporose né candide. Il Banchetto eucaristico non è per l’aldilà - chissà quando.

(Per quasi mille anni la Chiesa cattolica ha celebrato con il pane quotidiano come ancora fa ad es. la Chiesa ortodossa. A testimonianza, ci sono rimasti vassoi-patena molto ampi, oggi ridotti a un piattello).

 

 

Nel brano di Lc Gesù suscita sconcerto. Non è d’accordo con l’idea che ciascuno s’arrangi; neppure gli va a genio l’elemosina (vv.12-13).

Impone ai suoi che la folla si sdrai (v.14 testo greco) come facevano i signori e le persone libere nei momenti solenni.

Vuole e insiste che siano anzitutto gli apostoli a servire (vv.13.16), non altri schiavi.

E forse la cosa più sbalorditiva è che a nessuno dei presenti impone gesti preventivi di purificazione, com’era abitudine nella religiosità tradizionale.

Prima del pasto essa postulava l’abluzione: una sorta di cerimonia che sottolineasse un distacco sacrale fra puro e impuro.

(Il Cristo neppure gradisce che i percorsi di ciascuno siano assoggettati a osservatori esterni, esperti che impongano astratti princìpi e un ritmo disumanizzante, non commisurato alla persona).

Unico compito degli apostoli è quello di distribuire l’Alimento - poi da sminuzzare, vagliare e assimilare, per edificare un nuovo Regno - non fare radiografie preventive; tantomeno interessate.

Criterio assoluto e non negoziabile è la pienezza di vita dell’ultimo arrivato; il viceversa sarebbe (davvero) una valle di lacrime, venata d’insoddisfazione e scontento.

 

In religione abbiamo una lunga trafila di adempimenti da osservare per presentarci a cospetto di Dio.

Nel cammino di Fede è l’incontro gratuito col Signore che fa crescere, rendendoci puri senza condizioni.

Anche nella Disputa del Sacramento il più prossimo all’Altare (quasi a identificarsi) è s. Francesco, accovacciato al di sotto del piano della Mensa. Anche lui un reduce.

Lo sguardo verso l’esterno dell’alter-Christus incrocia e richiama l’attenzione di due giovani collocati sulla nostra sinistra a metà prospettiva, altrettanto accovacciati - e soverchiati da personaggi di alto rango spirituale.

Morale: l’Eucaristia non è un premio per i giusti, bensì (lì dove e come siamo) un Appello alla Convivialità reale. Richiamo sempreverde a non accontentarsi.

Sabato, 14 Giugno 2025 04:21

Corpus in Coena Domini

(Gv 13,1-15)

 

Fiducia integrale: l’Azione emblematica, che genera incontaminati

 

Introduciamo il senso della Lavanda dei piedi da parte del Signore, gesto emblematico che i Sinottici evocano nella Frazione del Pane.

Anticamente in Israele la famiglia patriarcale, il clan e la comunità erano la base della convivenza sociale.

Garantivano la trasmissione dell’identità di popolo e assicuravano protezione agli afflitti.

Difendere il clan era anche un modo concreto di confermare la Prima Alleanza.

Ma al tempo di Gesù la Galilea soffriva sia la segregazione dettata dalla politica di Erode Antipas che l'oppressione della religiosità ufficiale.

Il collaborazionismo smidollato del sovrano aveva accentuato il numero dei senza tetto e privi d’impiego.

La congiuntura politica ed economica obbligava le persone a ripiegarsi sui problemi materiali e individuali o di famiglia ristretta.

Un tempo, il collante identitario del clan e della comunità garantivano un carattere (interno) di nazione solidale, espresso nella difesa e soccorso prestati ai meno abbienti del popolo.

Ora tale legame fraterno risultava indebolito, ingessato, quasi contraddetto - anche a motivo dell’atteggiamento severo delle autorità religiose, fondamentaliste e amanti d’un purismo saccente, contrario al mischiarsi coi ceti meno abbienti.

La Legge (scritta e orale) finiva per essere usata non per favorire l’accoglienza degli emarginati e bisognosi, ma per accentuare i distacchi e la ghettizzazione.

Situazione che stava portando al collasso delle fasce di popolazione meno tutelate.

Insomma la devozione tradizionale - amante dell’alleanza fra trono e altare - invece di rafforzare il senso comunitario veniva usata per accentuare le gerarchie; come arma che legittimasse tutta una mentalità di esclusioni (e confermasse la logica imperiale del dividi et impera).

Gesù vuole invece tornare al Sogno del Padre: quello ineliminabile della fraternità, unico suggello alla storia della salvezza.

 

Secondo una felice espressione di Origene, l’Eucaristia è la ferita del costato di Cristo sempre aperta; ma il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.

Per farci comprendere appieno la sua Persona, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia. Ha preferito esprimersi in un gesto, che ci interpella.

Nel mondo ebraico, di sera ogni famiglia si ritrovava attorno alla mensa, e spezzare il pane era il momento più significativo della loro esperienza di convivialità (e memoria della consegna di sé agli altri).

L’unico pane veniva frazionato e condiviso fra tutti i famigliari - ma anche un povero affamato poteva affacciarsi all’uscio, che non doveva venire serrato.

Pane e vino, prodotti che avevano assimilato le energie del cielo e della terra, erano riconosciuti con sensibilità spirituale - doni del Creatore per la vita e la gioia dell’umanità.

In quella cultura, il pane è cibo base. Ma la nostra vita è completa solo se c’è anche l’elemento della festa: ecco il vino.

Il pane ancora oggi non viene tagliato con un coltello, per rispettarne la sacralità: solo frazionato. Esso contiene l’esistere concreto.

Per questo Gesù sceglie il Banchetto come segno della sua Persona, vita, parola, vicenda rischiosa e nuova felicità, donate in alimento.

Durante la cena in famiglia, pane e vino non venivano percepiti al pari della manna, ossia come prodotti naturali e grezzi. Neppure era un nutrirsi per ricuperare le forze, e basta.

Nel frumento e nell’uva si erano dati appuntamento anche tutti i variegati contributi del focolare domestico.

Attorno alla mensa, ciascun uomo vedeva nel pane e nel vino il frutto del suo lavoro: pulitura del terreno, aratura, seminagione, mietitura, potature, vendemmia e opera di torchio.

La donna coglieva nel pane la sua fatica: macinatura, impastatura, cottura. Anche i minori potevano ricordare qualcosa di proprio, perché i ragazzetti si prestavano (ad es. attingere acqua).

La cena era una celebrazione dell’armonia. La mensa era appunto un luogo in cui i giovani venivano educati alla percezione dell’esistere nell’unità, invece che nel disinteresse.

Ciò con gratitudine verso i doni di Dio e percezione del proprio apporto, che era giunto (realmente) all’obiettivo, nello spirito di sinergia e comunione.

Contributi, risorse e capacità convenivano a porgersi in servizio, per la vita di tutti.

Nel gesto eucaristico Gesù dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.

Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli concordi, nessuno padrone o dominatore - destinato a stare davanti o sopra (sebbene più svelto degli altri) persino in Cielo.

Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù con sé ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui (cf. es. Lc 9,10.12) - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che lo devono porgere a tutti (vv.13.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.

 

Per animare gli incontri sul tema dell’Eucaristia e interiorizzare come nella stessa Chiesa Cattolica ci sia stata un’evoluzione decisiva per la comprensione dell’efficacia del Segno, uso comparare due grandi opere d’arte.

Raffaello nella cosiddetta Disputa del Sacramento raffigura un mondo sacrale e statico. Oggi diremmo (a colpo d’occhio) quasi plastificato.

Ambiente che sembra tutto prevedibile e comunque caratterizzato da un modello sociale, culturale e spirituale situato; dove ciascuno è collocato in base a origini, posizione, status e rango.

 

Arcabas - artista francese recentemente scomparso - dipinge un quadro che sembra privo di esclusivi, distinti e titolati protagonisti: come tagliato sopra, o (meglio) focalizzato sul semplice gesto.

A dire in modo eloquente: il contorno di addobbi sfarzosi o ruoli di rilievo non riguarda questa proposta di vita!

Nell’opera del pittore contemporaneo cogliamo la sobrietà di una Persona e d’una missionarietà ben centrata (che graffia, ma ci fa perdere la testa assai più delle belle sceneggiature); perché nel mondo dell’Amore il meglio deve ancora arrivare.

Siamo interrogati senza posa...

Arcabas illustra una tavola semplicemente imbandita: un piatto non certo della migliore collezione, un bicchiere di vino senza fronzoli, una tovaglia semplicemente appoggiata alla mensa e connotata dalle sue piegature (neanche stirate) che ricordano il quotidiano reale.

E soprattutto il gesto normale dello spezzare il pane, quello del passo dopo passo, con le sue briciole non vaporose né candide. A dire: il Banchetto eucaristico che non è per l’aldilà - chissà quando.

(Per quasi mille anni la Chiesa cattolica ha celebrato con il pane quotidiano come ancora fa ad es. la Chiesa ortodossa. A testimonianza, ci sono rimasti vassoi-patena molto ampi, oggi ridotti a un piattello).

 

Giunge l’«Ora»... Azione emblematica, in Gv - che non racconta formalmente l’istituzione dell’Eucaristia.

Ecco il senso dello spezzare il pane: cosa comporta entrare in comunione, per l’apostolo che rovescia le gerarchie e sovverte i criteri di purità, uniformità, compattezza e gloria.

 

Nel quarto Vangelo vengono proclamate solo due Beatitudini:

«In verità, in verità vi dico, non c’è servo più grande del suo signore, né inviato più grande di chi lo ha mandato. Se sapete queste cose, siete beati se le fate» (Gv 13,16-17).

E a Tommaso: «Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29b) - non perché lo sforzo sia un mezzo per accumulare dolori e meriti, e così piacere a Dio.

Le due Beatitudini di Gv garantiscono i binari sui quali il credente trova la sua realizzazione piena e lo stupore della felicità: la pratica della carità che recupera tutto l’essere disperso (anche altrui), nell’avventura della Fede.

Prima e durante i pasti rituali, i pii d’Israele compivano abluzioni con acqua, per celebrare il distacco fra sacro e profano, puro e impuro.

Al capotavola le mani venivano lavate da un servo o dal più giovane dei convitati.

Con Gesù la tradizione viene scardinata dall’interno - da lasciare attoniti. 

Per un giudeo il lavaggio altrui era un gesto che si doveva rifiutare di eseguire, anche se ridotto in schiavitù, per non disonorare il popolo. Invece il Messia si prostra e ha la libertà di prestarsi a lavare (neppure le mani, ma) i piedi.

Rivelazione assurda del Volto di Dio, che sgretola innumerevoli manierismi, speranze di prestigio artefatto, atti di sottomissione, grotteschi riconoscimenti - avanzati da prìncipi della chiesa.

Non solo un invito a servire il prossimo... gesto da imitare che proclama il carattere di umile servizio del ministero: è anche segno di purificazione dei suoi - come un nuovo Battesimo, che fa immediatamente partecipi del mondo di Dio.

Questo «lavare» è figura della Persona e della Missione del Figlio in favore degli uomini - tutti ora abilitati a passare (e far passare il prossimo) da questo assetto al Regno del Padre.

Il Maestro unisce a sé un gruppo di discepoli - anche poco convinti, ma resi puri - non perché mira a formare una scuola, distinta da altre o persino unilaterale, ma per introdurli nell’Amore, nel passaggio dalla schiavitù alla libertà del Gratis (che scende).

Dio non identifica le persone, né sovrappone un suo pensiero alla storia e sensibilità della gente. Chinandosi valica i ruoli, lo spirito di club, le stesse idee, e i certificati. Iniziativa - questa sì - esemplare.

Egli infatti nel suo Esodo traccia il nuovo cammino del popolo, anche di quello che si schiera contro - e ciò sconcerta, sembra inaccettabile. Pietro smania per comandare: non ci sta a introdursi in una logica che manifesti (nei dirigenti di comunità!) un Dio servitore degli uomini, indipendente dai loro trascorsi.

Abbassandosi al livello dello schiavo che depone le vesti, il Signore vuole umanizzarci recuperando invece gli opposti, radicati in ciascuno...

Egli ammette persino la contestazione - evidenziandola e sanandola (a meno che non si resti come Giuda pervicacemente legati a seduzioni esterne e false guide spirituali - ai cliché dell’appartenenza-tornaconto).

 

Infine Gesù non si toglie il grembiule, prima di rimettersi le vesti: è l’unica divisa che gli appartiene. Quel genere di vestiario gli rimane addosso: lo porta anche in Paradiso.

Non ha messo in scena la parte dell’inserviente, per tornare in cielo a spadroneggiare. Non condiziona nessuno.

La Vita del Padre c’insegue su ogni percorso, per farci sentire adeguati: Un-Corpo-Solo col Figlio, cui ha consegnato tutto nelle mani (v.3).

Fioritura totale anche per noi; indistruttibile, eminente, in se stessa priva di germi mortiferi occulti.

La sua Fiducia si trasmette nella storia della salvezza e si dispiega agli indecisi e imperfetti, ma suoi consanguinei nel Figlio. Pronto a innalzarci verso un’esistenza che non spegne più l’essere - e noi desiderosi di farlo fiorire, invece di boicottarlo o prenderlo in prestito.

Figli adottivi: non è una diminuzione, ma il riconoscimento insigne di una uguaglianza che non stride.

Anticamente, quando un sovrano designava il successore al trono, non di rado nominava dignitario un valoroso più affidabile del congiunto in linea naturale (spesso intrigante, viziato, stufo di esistere, parassita e stanco della sua stessa prosperità).

 

Dio non ci fa coincidere a forza. Piegandosi scavalca lo spirito di club, le parti, i personaggi e tutti i salvacondotti.

Questo il “servizio” dei discepoli, da espletare con la vita e l’annuncio della lieta notizia: far conoscere che il Padre non è il Dio selettivo della religione, bensì amante incondizionato dell’uomo.

L’amore si comunica da pari a pari ed ha il medesimo passo della vita: essa non può essere imbrigliata da opinioni ereditate o convenzioni fisse, né assoggettata a narrazioni casistiche.

Solo la consapevolezza di una libertà che permane ci porterà a gesti di completezza nitida, non per un vantaggio opportunista e individuale, bensì a favore della Gioia (pienezza di essere e intensità di relazione).

Solo la stima che il Padre riconosce a ciascuno conduce i figli e le loro storie verso atti di convivialità e recuperi inspiegabili.

 

Gesù che lava i piedi raffigura il segreto della vita beata ch’espande la via dell’io in quella del Tu: essere genuini e liberi fino a chinarsi per servire, approvando ogni cammino particolare (i piedi di ciascuno).

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come vivi in Cristo la tua responsabilità e la tua personalità secondo i vv.3-4? Dopo l’Eucaristia fai come Gesù o deponi subito il grembiule?

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The disciples, already know how to pray by reciting the formulas of the Jewish tradition, but they too wish to experience the same “quality” of Jesus’ prayer (Pope Francis)
I discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù (Papa Francesco)
Saint John Chrysostom affirms that all of the apostles were imperfect, whether it was the two who wished to lift themselves above the other ten, or whether it was the ten who were jealous of them (“Commentary on Matthew”, 65, 4: PG 58, 619-622) [Pope Benedict]
San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622) [Papa Benedetto]
St John Chrysostom explained: “And this he [Jesus] says to draw them unto him, and to provoke them and to signify that if they would covert he would heal them” (cf. Homily on the Gospel of Matthew, 45, 1-2). Basically, God's true “Parable” is Jesus himself, his Person who, in the sign of humanity, hides and at the same time reveals his divinity. In this manner God does not force us to believe in him but attracts us to him with the truth and goodness of his incarnate Son [Pope Benedict]
Spiega San Giovanni Crisostomo: “Gesù ha pronunciato queste parole con l’intento di attirare a sé i suoi ascoltatori e di sollecitarli assicurando che, se si rivolgeranno a Lui, Egli li guarirà” (Comm. al Vang. di Matt., 45,1-2). In fondo, la vera “Parabola” di Dio è Gesù stesso, la sua Persona che, nel segno dell’umanità, nasconde e al tempo stesso rivela la divinità. In questo modo Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira a Sé con la verità e la bontà del suo Figlio incarnato [Papa Benedetto]
This belonging to each other and to him is not some ideal, imaginary, symbolic relationship, but – I would almost want to say – a biological, life-transmitting state of belonging to Jesus Christ (Pope Benedict)
Questo appartenere l’uno all’altro e a Lui non è una qualsiasi relazione ideale, immaginaria, simbolica, ma – vorrei quasi dire – un appartenere a Gesù Cristo in senso biologico, pienamente vitale (Papa Benedetto)
She is finally called by her name: “Mary!” (v. 16). How nice it is to think that the first apparition of the Risen One — according to the Gospels — took place in such a personal way! [Pope Francis]
Viene chiamata per nome: «Maria!» (v. 16). Com’è bello pensare che la prima apparizione del Risorto – secondo i Vangeli – sia avvenuta in un modo così personale! [Papa Francesco]
Jesus invites us to discern the words and deeds which bear witness to the imminent coming of the Father’s kingdom. Indeed, he indicates and concentrates all the signs in the enigmatic “sign of Jonah”. By doing so, he overturns the worldly logic aimed at seeking signs that would confirm the human desire for self-affirmation and power (Pope John Paul II)
Gesù invita al discernimento in rapporto alle parole ed opere, che testimoniano l'imminente avvento del Regno del Padre. Anzi, Egli indirizza e concentra tutti i segni nell'enigmatico "segno di Giona". E con ciò rovescia la logica mondana tesa a cercare segni che confermino il desiderio di autoaffermazione e di potenza dell'uomo (Papa Giovanni Paolo II)
Without love, even the most important activities lose their value and give no joy. Without a profound meaning, all our activities are reduced to sterile and unorganised activism (Pope Benedict)

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