Ereditare la Vita dell’Eterno
(Mc 10,17-27)
Cosa ci sfugge, malgrado la convinzione e il coinvolgimento? Per quale alto motivo abbiamo fatto alcune scelte comportamentali?
Anche se dedicassimo anni d’impegno al cammino spirituale in religione, ci accorgeremmo che infine non manca solo la ciliegina sulla torta, ma l’Uno globale.
Non è sufficiente accentuare o perfezionare le cose buone, bisogna fare un Balzo; non basta un passetto (anche alternativo) in più.
Paradossalmente si parte dalla percezione d’una ferita interiore che smuove (v.17) alla ricerca di quel Bene che unifica e dà senso alla vita.
Gesù fa riflettere su ciò che è da considerare «Insigne» (così il testo greco: vv.17-18).
Non è un magistero per i lontani, bensì per noi: «Uno ti manca!» - come se volesse sottolineare: «Ti manca il Tutto, non hai quasi niente!».
La vita normale procede, ma il cammino di fiducia difetta. Non c’è stupore.
Il nostro andare non si consolida né qualifica adeguandosi all’ambiente circostante, aggiungendo patrimonio a patrimonio e scansando peccatucci, o - soprattutto - le incognite.
Mancano troppe cose: la sfida del di più personale, la cura altrui, il confronto con la drammaticità del reale: non c’è unità, scarseggia la Presenza autentica che lancia l’amore nello spirito di avventura.
Non si tratta di avere uno spunto in aggiunta a quanto già possediamo, continuando a esserne schiavi (i titoli, il capitale o il soldo che ci danno ordini come padroni; promettono, garantiscono, lusingano).
Non basta migliorare situazioni di relazione che conosciamo a memoria, facendosi approvare fin dal primo passo - né limitarsi ad approfondire pie curiosità saziando la gola spirituale.
Il passaggio dalla religiosità alla Fede che porta il nostro destino vocazionale e piena realizzazione si gioca su una penuria di appoggi - in sistemi caotici di correlazione.
Per essere felici non vale “normalizzarsi” né rimanere persone perbene, devote, perché l’anima esige la sfida di cieli inesplorati; acque che non abbiamo sondato: lati di noi stessi, degli altri e della realtà che non abbiamo fatto emergere, e ancora forse non stiamo nemmeno scrutando.
Bisogna avventurarsi nei tratti basali e straordinari che oggi chiamano anche nel giorno dopo giorno; non attendere assicurazioni.
E il punto di partenza può anche essere l’accento del dubbio, una sana inquietudine dell’anima - il pericolo stesso... tipico dei testimoni critici.
Non tacitiamo il nostro essere malsicuro, né il senso d’insoddisfazione per una esistenza comune, senza scossoni: sono feconde sospensioni, che (quando pronti) ci attiveranno.
Sentirsi completo, realizzato, felice? Bisogna che sguardo e cuore cedano, non siano già occupati.
È assolutamente necessario lasciar andare le certezze dalla mente e dalla propria mano.
L’azzardo non è macerazione di sé o delle linee portanti della propria personalità - ma il temerario investire tutto per un altro regno, dove affiorano energie, si esplorano differenti rapporti, e si tenta di sublimare i beni in matrice di vita (anche altrui: v.21).
Dopo che un senso d’incompletezza o persino l’infermità spirituale ci hanno spinti a una ricca sintonia con i codici dell’anima e condotti a tu per tu con Gesù (v.17) da Lui comprendiamo il segreto della Gioia.
Il nostro Nucleo rimane inquieto se non infonde corrispondenze che sorvolino - appunto - l’antico dominatore: i possedimenti, che fanno ristagnare.
Malgrado le garanzie promesse, essi rimangono stitici, privi di senso. Anzi, bloccandoci nella dipendenza fanno regredire quasi nel pre-umano - scippando la delizia delle relazioni aperte, nel rispetto di sé.
Le Radici profonde vogliono modificare il vettore dell’io paludoso e situato - “come si deve”, ben inserito o autoreferenziale - affinché dilati comprendendo il Tu e il tutto reale (vv.28-30).
È la Nascita della donna e dell’uomo nuovi, padri e madri dell’umanizzazione (in una comunità viva, che accetta la convivialità delle differenze). Ciò che sfiora la condizione divina.
In grado persino di rovesciare le posizioni (v.31). Segno escatologico e della Chiesa genuina, Nido e Focolare vero.
È la Genesi nell’autenticità delle energie cosmiche e delle potenze interiori, che stanno preparando tappe di crescita - altrove.
Via via si crea il calore e la reciprocità d’un rapporto comprensivo, lo scopo d’Amore in ciò che intraprendiamo o rifacciamo; come il tepore amico d’una Presenza non frigida.
Viviamo un discrimine colmo d’ebbrezza da cui non si torna indietro, perché ci colloca nella Vita stessa dell’Eterno (v.17). L’Uno che manca (v.21).
Mentre mi adopero per rimettermi in discussione o in favore degli altri, affiorano le risorse prima celate e che neppure sapevo.
Con stupore faccio esperienza d’una realtà che passo passo si dischiude... nonché di un Padre che provvede a me (v.27).
In tale estensione, impariamo a riconoscere il (nuovo decisivo) Soggetto del cammino spirituale: il Disegno di Dio nell’essere stesso.
Sogno che conduce… e malgrado le traversie, le tempeste emotive, i nostri contorcimenti, si rivela via via somigliante, come innato: schietto, genuino, limpido; inconfutabile, smagliante, scorrevole.
Inseriti nella Comunità che ode l’appello a “uscire”, ci smuoviamo dalle tortuosità dei ripiegamenti; ed ecco il Centuplo del Padre in tutto (vv.28-30).
Eccetto una cosa: siamo chiamati a essere Fratelli, sullo stesso piano. Non ci sarà nessun cento per uno di “padri” (nel senso antico), ossia di controllori condizionanti (vv. 29-30) che dettino il loro binario e ritmo, come a dei sottoposti.
Allora saremo nel nostro Centro, non perché identificati nel ruolo, bensì cesellati in modo stupefacente da sfaccettature d’Ignoto.
Una vita di attaccamenti blocca la creatività. Appiccicarsi un idolo, lasciarsi plagiare o intimidire, ancorarsi alla paura di problemi o pre-occupazioni è come creare una camera buia.
Sentirsi programmabili, già progettati senza un di più... subire i pareri ordinari o conformisti... esclude il vettore della Novità personale.
Chi si lascia inibire edifica una dimora artificiale, che non è casa sua, né la tenda del mondo.
Congetturando di riuscire a prevedere le avventure globali ci rattrappiamo, spaventiamo; non si coglie ciò ch’è davvero nostro e altrui: è quanto si palesa durante un processo - che diviene santo nell’esodo da se stessi e nella qualità di rapporti creativi.
Come ha detto il pontefice Francesco a Dublino: «Docili allo Spirito e non basati su piani tattici».
Sono le nuove genesi (sotto uno stimolo d’inedito e sconosciuto) a permettere di spostare l’attenzione dal calcolo alla luminosità dell’anima, dal cervello all’occhio, dal ragionamento alla percezione.
Cosa devo «fare» (v.17)? Accogliere il Dono del diverso e delle differenze - persino nei miei stessi volti interiori, anche opposti; che completano.
Trasaliremo dell’Uno che manca, ma che ci raggiunge. Non si fabbrica, ma si riceve, si «eredita» (v.17) gratuitamente dal reale che preme.
«Dov’è l’Insigne per me?». Per diventare ciò che autenticamente siamo nell’elezione della nostra sacra Sorgente bisogna abbandonarsi alle cose, alle situazioni, persino agli ospiti emotivi inusitati - trattandoli con dignità, così come sono.
Dentro questo nuova terra c’è il segreto di quell’elevatezza che si staglia sui dilemmi, per ciascuno.
Con tutto il suo carico di stimolanti sorprese e appelli a rifiorire in pienezza umanizzante, il Buono sta nell’accogliere qualcosa che non so già cos’è o sarà, ma Viene.
«L’Unico ti manca!» - e il modo migliore per stimarne il contatto è una scommessa, matrice di vita: trasformare i beni (di ogni genere) in vita e relazione.
Lasciare tutto e sperimentare il rovesciamento
(Mc 10,28-31)
Secondo mentalità corretta - tipica dell’ebraismo - per ricevere l’eredità divina bastava osservare i comandamenti (vv.17-20).
La proposta di Gesù non punta sullo scambio dei favori (automatismo farisaico): ha respiro, e poggia sul gratis; aiuta la libertà - è più ampia, senza zavorre.
Per questo... inclina verso la povertà ecclesiale. Sia il benestante che il convincimento degli apostoli vanno liberati dall’idolo dell’opulenza (forza paludosa).
Segno che la mentalità “interna” alle comunità andava raddrizzata, già d’allora: non è con la sicurezza a monte che si può fare esodo per incontrare l’Unico (v.21) nel cuore; né la Chiesa può starsene al sicuro col contributo materiale dei ricchi (v.26).
Il cammino dell’amore e il rischio educativo suppongono la via della sobrietà avventurosa, senza la quale non è possibile incidere sui compartimenti stagni del pensiero e della società.
Al contrario delle devozioni, la vita di Fede non richiede l’offerta a Dio di un sacrificio modesto o rassegnato, ma l’abbandono al futuro che viene.
Anche per una questione di sostanza, esso ci costringerà a spostare lo sguardo e riattiverà incessantemente.
Così facendo permanere i discepoli nell’energia d’intrapresa, finalmente non lascerà più nessuno a capo chino. Perché qui si scambiano le carte (v.31).
Egli non vuole scipparci di nulla: la sua Presenza amica è un fermento consistente, che vuole realizzare l’assoluto in ciascuno di noi.
Il distacco dalle cose per espandere e rallegrare la qualità del percorso è germe d’un nuovo sacro, d’un altro volto dell’umanità e del mondo.
L’esistenza concreta che scaturisce dalla proposta di Fede supera ogni modello religioso, ed estende perfino la comunità, creando una famiglia senza confini - tutti fratelli e sorelle, senza dirigenti a vita.
Non siamo più minorenni: abbiamo una Speranza piena - non moderata.
Solo la condivisione dei beni si ergerà: frutto di provvidenza e dono sistematico - e non vi saranno bisognosi, anzi avanzerà per altri ancora (ideale già di Dt 15 - senza più steccati culturali).
E nessun calcolo di contraccambio: perché non si parte dall’egoismo o dal tornaconto di club dalle belle maniere (e dall’avido possesso).
Ovvio, Cristo sarà la scelta dei poveri, che da sempre sognano un rovesciamento della piramide (v.31).
Al tempo di Gesù la vita della gente era infatti marcata - tratto a tratto - da una duplice sottomissione: la politica di Erode e la schiavitù religiosa.
Il sistema di sfruttamento e repressione era capillare e ben organizzato, e anche le autorità religiose avevano astutamente trovato un modus vivendi remunerativo ben introdotto nei gangli dell’impero.
Tutto ciò a prezzo della disgregazione della vita comunitaria e famigliare (sfaccettature dell’antica comunione di clan, ora vessata da problemi di sopravvivenza materiale e maggiore individualismo).
In un contesto di collasso sociale, moltissimi erano costretti a tirare avanti in una condizione di emarginati ed esclusi.
Ma nelle assemblee di Gesù l’atteggiamento d’inclusione verso gli emarginati, deboli e malfermi, le caratterizzava e faceva spiccare (via via preferire) nei confronti di tutti gli altri gruppi.
A quel tempo non mancavano diverse sette - anche ben motivate - che desideravano mostrare un modello di vita alternativo alla spietatezza della realtà corrente.
Però ad es. gli Esseni erano legalisti e puristi, e vivevano separati; così anche i Farisei, tradizionalisti che avevano abominio della gente “contaminata”.
Persino gli Zeloti mal sopportavano la folla debole e indecisa.
I considerati ignoranti, maledetti (per essere non in grado di adempiere le prescrizioni di legge) e in peccato, erano viceversa benvenuti nelle comunità cristiane.
Proprio i senza peso forzosamente esclusi perfino dal clan a motivo delle necessità economiche, trovavano lì finalmente rifugio, tepore, ascolto, comprensione, aiuto.
Il Maestro stesso aveva esplicitamente ordinato di scegliere l’anti-ambizione e l’esproprio personale in favore dei malati e deboli; di tutti coloro che erano rimasti indietro.
La semplicità di vita faceva il paio con la sobrietà nella missione.
Il Signore consigliava infatti agl’inviati di testimoniare fiducia radicale nell’ospitalità (offerta da tanti nuovi “famigliari”).
Senso di adattamento e misura nell’essenziale erano il carattere irrinunciabile dell’evangelizzazione.
I veri testimoni di Cristo, anche oggi e col passare del tempo, s’accontentano del provvisorio - tipico dei pellegrini - e non bramano migliori sistemazioni future, passando di casa in casa (Mc 6,10).
In tutto ciò i credenti dimostrano la Presenza del Regno fraterno e concreto, in mezzo - che rovescia i ruoli e le ottiche, come le posizioni abitudinarie fra donne e uomini, giovani e vecchi, o nuovi e veterani (v.31).
Inseriti nella Fraternità che ode l’appello a “uscire”, smuoviamo dalle tortuosità dei ripiegamenti; ed ecco il Centuplo del Padre in tutto (vv.28-30).
Eccetto una cosa: siamo chiamati a essere sullo stesso piano. Non ci sarà nessun cento per uno di «padri» (nel senso antico), ossia di controllori condizionanti (vv. 29-30) che dettino il loro binario e ritmo, come a dei sottoposti.
Allora saremo nel nostro Centro, non perché identificati nel ruolo, bensì cesellati in modo stupefacente dalle sfaccettature del Mistero che tocca, a partire da dentro.
Una vita di attaccamenti blocca la creatività. Appiccicarsi un idolo, lasciarsi plagiare o intimidire, ancorarsi alla paura di problemi o preoccupazioni è come creare una camera buia.
Sentirsi programmabili, già progettati senza un di più... subire i pareri ordinari o conformisti... esclude il vettore della Novità sconosciuta e tutta personale.
Chi si lascia inibire dall’etica esclusiva edifica una dimora artificiale, che non è casa sua, né la tenda del mondo.
Congetturando di riuscire a prevedere le eccentricità feconde o addirittura le avventure globali, ci rattrappiamo, spaventiamo.
Nel timore non si coglie ciò ch’è davvero nostro e altrui: quanto si palesa solo durante un processo, che diviene santo nell’esodo da se stessi e nella qualità di rapporti creativi.
Come ha detto il pontefice Francesco a Dublino: «Docili allo Spirito e non basati su piani tattici» che bloccano la vita.
Sono le nuove genesi sotto uno stimolo d’inedito e sconosciuto a permettere di spostare l’attenzione dal calcolo alla luminosità dell’anima, dal cervello all’occhio, dal ragionamento alla percezione.
Spiritualità vuota, o dei beni-Relazione
Dalle usanze coi limiti alla Spiritualità dei beni-Relazione
(Mt 19,16-22)
Al tempo di Gesù si viveva un momento di collasso sociale e disgregazione della dimensione comunitaria della vita - nel passato più legata alla famiglia, al clan e alla comunità.
La politica di Erode garantiva all’Impero il controllo della situazione: una realtà di massimo sfruttamento e grave repressione economica e civile.
Le imposizioni religiose assicuravano persino l’asservimento delle coscienze - e le autorità spirituali si facevano volentieri garanti di questa più occulta forma di schiavitù.
La condizione di sottomissione totale (civile e religiosa) del popolo tendeva ovunque a sminuire il senso della fraternità interpersonale e di gruppo.
Non mancavano severe condizioni di esclusione sociale e cultuale, che accentuavano lo smarrimento della gente, emarginata, priva di dimora e di riferimenti - persino religiosi.
Alcuni movimenti tentavano di ritessere le lacerazioni e proporre forme di vita condivisa, certo - ma accomunate da un’idea di decontaminazione tormentosa [Esseni, Farisei, Zeloti].
Gesù sceglie la strada d’un riscatto vitale decisivo, rispetto alle ideologie della riscoperta del purismo ascetico e di costume, tradizionalista nazionalista fondamentalista.
Per un radicale compimento dello spirito della Legge bisognava andare oltre le dottrine. Esse eccitano alcuni, eppure non cancellano il nostro senso intimo di vuoto.
La comunità dei figli non si tiene nei ‘limiti’, e non vive separata; così non accentua i tormenti d’imperfezione, o la percezione d’incompiutezza, né le emarginazioni - bensì le accoglie.
Non si sente messa in pericolo dal contatto con le realtà che il legalismo esterno della devozione antica considerava pericolose e maledette o in peccato. Trepida per esse.
La Chiesa riconosce il valore delle povertà esistenziali: non gli basta cercare “cose buone” senza ‘fuoco’ dentro.
Confessa la ricchezza non di tutto ciò che risulta già riconoscibile e statico, bensì delle nuove posizioni e dei rapporti difformi, che aprono il presente e spalancano visioni creative di futuro.
La Fede insomma non è un credere popolaresco identificato e in grado di accreditare ruoli, mansioni e personaggi - e i loro vantaggi, da cui tutti dovrebbero dipendere [!].
Né la dimensione-ricchezza può fare ancora rima con differenziazione-sicurezza.
Ai vv.18-19 Gesù non enumera comandamenti che farebbero vivere l’interlocutore [come si diceva un tempo] ‘più da presso’ a ‘Dio solo’, ma i criteri che ci portano vicino e accanto a sorelle e fratelli.
L’onore riservato al Padre non è una delle tante forme di amore competitivo: la soglia è il prossimo.
Il Dio delle religioni è un ragazzino capriccioso che pretende il pezzo grande della torta, a merenda: ma il Figlio non c’inganna con le idee più infantili delle credenze diffuse.
Neppure cita i primi comandamenti, identificativi del Signore eccelso del suo popolo.
Le nostre mani abbracciano il senza-tempo nell’amore concreto.
Esse innescano i dinamismi che annientano i tormenti dei minimi, e così in modo impensabile aiutano a farci riscoprire il senso e la gioia di vivere - lasciando rinascere il mondo, assai più che con le solite forme assicurative (sacralizzanti titoli e livelli economici acquisiti).
La vita consapevole non ha a che fare con usanze e cliché [che producono alibi] ma con un’altra serenità e gioia: lo stupore dell’inconsueto e di nuovi gradi, posti, stati, relazioni, situazioni.
Non esiste altra ricchezza che possa riempire le nostre giornate, mentre non c’è che tristezza (v.22) nei vecchi legami senza umanità. Essi calano tutti noi in una realtà mentale ed emotiva artificiosa.
Distaccarsi dal calcolo immediato sembra una scelta assurda, campata per aria e destinata male, ma è viceversa la mossa vincente che apre le porte alla Vita nuova del Regno e alla Felicità, cui si accede appunto quando i beni materiali vengono trasformati in Relazione.
Non conosciamo disciplina religiosa che tenga [e che riesca a sfidare il tempo, le nostre emozioni].
Solo il rischio per la Vita completa - nostra, di tutti - fa da molla alla volontà e spinge a piena dedizione.
Dice il Tao (xiii): «A chi di sé fa pregio a pro del mondo, si può affidare il mondo; a chi di sé ha cura a pro del mondo, si può confidare il mondo».
E il maestro Ho-shang Kung commenta: «Se facessi sì da non tenere alla mia persona, avrei in me la spontaneità del Tao: mi solleverei con leggerezza innalzandomi fino alle nubi, entrerei e uscirei là dove non sono interstizi, porrei lo spirito in comunicazione col Tao. Allora quale sventura avrei?».
Liberiamoci dalla pletora di obbiettivi sbagliati, che schiacciano i nostri percorsi, rendendoli paludosi. Riflettiamo bene anche noi, dunque, su «ciò ch’è insigne» (v.17).
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Grazie alle guide spirituali hai imparato a cogliere la tua vita a partire dalla Bontà di Dio, o a cullarti e accontentarti di quanto c’è?
Nella Chiesa hai trovato realizzato il criterio di Gesù, il forte desiderio di Bene anche altrui, in grado d’indicare un percorso? O più attenzione alle cose della terra?