Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Io Sono, e la nostra dignità
(Gv 8,51-59)
Il passo di Vangelo si rivolge ai discepoli delle comunità giovannee che ancora esitavano a dichiararsi pienamente di Cristo.
Braccati e ingiuriati dai veterani del sapere giudaico, essi facevano difficoltà a identificare l’immanenza dell’Eterno con un semplice falegname.
La dignità di Cristo non può essere stabilita mediante un paragone con le figure più celebri della storia della salvezza: il suo è un essere eterno, sebbene appaia [in noi] di figura insufficiente.
Ma quanto efficacemente comunica, non esiste solo in un luogo o in un momento determinato del tempo. Quindi non poteva essere strumento per rivendicazioni culturali.
Il suo Mistero sembra difficile da sondare e descrivere.
Per esprimerlo in breve possiamo riferirlo al paradossale ribaltamento delle categorie «di lassù» e «di quaggiù» (cf. vv.21-30).
La sua è una spiritualità fondata sulla Fede personale che supera il senso religioso comune.
In chi è a Lui unito, il Mistero implicito diventa creativo di luce, eppure senza pretese.
Come qualcuno che sottilmente non ha principio né fine, ovunque; anche nel sommario e modesto, ma continuo e presente.
Sebbene privi di fama conclamata, se ‘intimi’ al Signore anche noi possiamo diventare ‘ponte’ fra due mondi - senza troppe appariscenze.
Il che insegna a riconoscere «il suo giorno» (v.56).
Qui Gesù rivendica la condizione divina, ridicolizzando il sapere degli esperti, solo difensori di posizione.
I leaders antichi o nuovi si sentono sempre sminuiti dalla spada della Parola in atto.
Seme che in chi la riceve, fa propria e coltiva, trasmette una potenza di rigenerazione indistruttibile.
Verbo che emana una prospettiva, un rallegramento dell’essere; nuovi albori, senza la cappa delle discendenze o delle idee à la page.
Chi vuole svincolarsi dalla terra di schiavitù custodisce tale Proposta. Essa ci emancipa dal senso di appartenenza a tutti i costi, e non muore.
Né capitola di fronte alle insidie del potere antico o glamour.
Sistema che malgrado le grandi promesse, non dona la qualità di vita dell’Eterno; non ci fa Alleati.
Il Nome di Dio che Gesù attribuisce a se stesso indica che Lui è sacramento d’illuminazione.
«Io Sono» non è l’attributo d’un personaggio da annoverare nella galleria di coloro che pur hanno combattuto e pagato le proprie idee - padri nella fede e profeti.
Il Signore è nostro Liberatore. In Lui possiamo dire: «io» con dignità.
Ora non siamo più a guinzaglio della terra di schiavitù.
Riusciamo a esprimere noi stessi. Non restiamo pedine di crepuscoli e contrade anguste.
Tale Amico interiore ‘non muore’: ci consente anche di vagare, ma ‘sa’ dove.
Egli ‘guida’ infallibilmente a destinazione; alla luminosità di orizzonti aperti, vitali perché ancora grezzi, non sofisticati.
Veniamo introdotti così nella conoscenza di Colui che ormai «esce» dal Tempio (v.59).
Con l’ampiezza smisurata che non pesa sul cuore.
[Giovedì 5.a sett. Quaresima, 10 aprile 2025]
Controversia sulla discendenza (e sul mondo astratto)
(Gv 8,51-59)
Il passo di Vangelo si rivolge ai discepoli delle comunità giovannee che ancora esitavano a dichiararsi pienamente di Cristo.
Braccati e ingiuriati dai veterani del sapere giudaico, essi facevano difficoltà a identificare l’immanenza dell’Eterno con un semplice falegname.
La dignità di Cristo non può essere stabilita mediante un paragone con le figure più celebri della storia della salvezza: il suo è un essere eterno, sebbene appaia [in noi] di figura insufficiente.
Ma quanto efficacemente comunica, non esiste solo in un luogo o in un momento determinato del tempo.
Quindi non poteva essere strumento per rivendicazioni culturali artificiose, né mezzo per accentuare tare nazionalistiche elettive.
Il suo Mistero sembra difficile da sondare e descrivere.
Per esprimerlo in breve possiamo riferirlo all’Appello di vita preziosa ma non sofisticata, nel paradossale ribaltamento delle categorie «di lassù» e «di quaggiù» (cf. vv.21-30).
La sua è una spiritualità terrestre, non vuota - fondata sull’Amore creativo della Fede personale che supera il senso religioso comune.
E nel credente diventa fucina vitale, che si fa realtà anche sommaria; però continua, presente.
In chi è a Lui unito, il Mistero implicito diventa Persona nuova, zampillante, maestosa nella sua modestia; creativa di luce, eppure senza pretese.
Come qualcuno che sottilmente non ha principio né fine, ovunque.
Sebbene privi di fama conclamata, intimi al Signore anche noi possiamo diventare ponte fra due mondi - senza troppe appariscenze.
Il che insegna a riconoscere «il suo giorno» (v.56).
Qui Gesù rivendica la condizione divina, ridicolizzando il sapere degli esperti antichi, solo difensori di posizione.
E ignoranti del loro specifico - ossia della vita nello Spirito - a parte qualche vago pensiero concordista; parziale, apodittico ma inadeguato, o stravagante.
I leaders antichi o nuovi si sentono sempre sminuiti dalla spada della Parola in atto.
Seme che in chi la riceve, fa propria e coltiva, trasmette una potenza di rigenerazione indistruttibile.
Verbo che emana una prospettiva, un rallegramento dell’essere; nuovi albori, senza la cappa delle discendenze o delle idee à la page.
Chi vuole svincolarsi dalla terra di schiavitù, custodisce tale Proposta. Essa ci emancipa dal senso di appartenenza a tutti i costi, e non muore.
Né capitola di fronte alle insidie del potere antico o glamour.
Sistema che malgrado le grandi promesse non dona la qualità di vita dell’Eterno; non ci fa Alleati.
Al massimo rinchiude nello smarrimento delle devozioni, delle facciate, degli opportunismi, delle fantasie.
Il Nome di Dio che Gesù attribuisce a se stesso indica che Lui è sacramento d’illuminazione.
Non un’immaginetta da tenere sul comodino, cui mandare bacini [per strappare rassicurazioni o posizioni].
Non è questo il Sigillo che effonde.
«Io Sono» non è neppure l’attributo d’un personaggio da annoverare nella galleria di coloro che pur hanno combattuto e pagato le proprie idee - padri nella fede e profeti.
Il Signore è nostro Liberatore. In Lui possiamo dire: «io» con dignità.
Ciò - sebbene come nel brano di Vangelo gli snob o i vecchi (e logici) furbetti del quartierino mondano considerino i veri fedeli degli squilibrati e demenziali.
Chi li segue, purtroppo rimane a guinzaglio della terra di schiavitù e non riesce a esprimere se stesso; resta una pedina di crepuscoli, di contrade anguste.
Tale seguace non sbaglierà “binario” né “maniere”... solo per opinione fissa e allineata.
Invece l’Amico interiore non muore: ci consente anche di vagare, ma sa dove.
Egli guida infallibilmente a destinazione.
Conduce dall’esperienza di stilemi e cappe dottrinali, tutte nobili e sfasate, alla luminosità di orizzonti aperti, vitali perché ancora grezzi, non sofisticati.
Dice il Tao Tê Ching (xix): «Tralascia la santità e ripudia la sapienza, e il popolo s’avvantaggerà di cento doppie».
Commenta il maestro Ho-shang Kung: «Tralascia il regolare e il creare dei santi [...] torna al non agire [secondo propositi o dirigismi] [...] Le attività dell’agricoltura sviluppano il senso comunitario senza egoismi».
Il Signore benedice e approva. Presenza sempre inedita, dispiegata in ogni scintilla e distratta dalle manipolazioni.
Così spinge a valicare cricche condizionanti, e ogni soglia - per accedere a ulteriori esperienze di sé, di gruppo, di Dio, e del prossimo fuori, che diventa intimo.
Proiettati oltre il recinto sacro ridotto a palude, sull’onda della sua Parola correlata agli accadimenti veniamo introdotti nella conoscenza di Colui che ormai esce dal Tempio (v.59).
Dalla religiosità tradizionale o chic, alla Fede personale.
Con l’ampiezza smisurata di concreta e sovreminente Dimora, sempre successiva, che non pesa sul cuore.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come vivi il «Se uno osserva la mia Parola, non vedrà mai la morte»?
E il tuo rapporto con coloro che si sentono dottori specializzati?
Gioia e Speranza, o mondo astratto
«Nelle due letture» proposte oggi dalla liturgia, ha fatto subito notare il Pontefice all’omelia, «si parla di tempo, di eternità, di anni, di futuro, di passato» (Genesi 17, 3-9 e Giovanni 8, 51-59). Tanto che proprio «il tempo sembra essere la realtà più importante nel messaggio liturgico di questo giovedì». Ma Francesco ha preferito «prendere un’altra parola» che, ha suggerito, «credo sia proprio il messaggio nella Chiesa oggi». E sono le parole di Gesù riportate dall’evangelista Giovanni: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia».
Dunque, il messaggio centrale di oggi è «la gioia della speranza, la gioia della fiducia nella promessa di Dio, la gioia della fecondità». Proprio «Abramo, nel tempo del quale parla la prima lettura, aveva novantanove anni e il Signore apparve a lui e assicurò l’alleanza» con queste parole: «Quanto a me, ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre».
Abramo, ha ricordato Francesco, «aveva un figlio di dodici, tredici anni: Ismaele». Ma Dio gli assicura che diventerà «padre di una moltitudine di nazioni». E «gli cambia il nome». Poi «continua e gli chiede di essere fedele all’alleanza» dicendo: «Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza e dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne». In pratica, Dio dice ad Abramo «ti do tutto, ti do il tempo: ti do tutto, tu sarai padre».
Sicuramente Abramo, ha detto il Papa, «era felice di questo, era pieno di consolazione» ascoltando la promessa del Signore: «Entro un anno avrai un altro figlio». Certo, a quelle parole «Abramo rise, dice la Bibbia in seguito: ma come, a cento anni un figlio?». Sì, «aveva generato Ismaele a ottantasette anni, ma a cento anni un figlio è troppo, non si può capire!». E così «rise». Ma proprio «quel sorriso, quel riso è stato l’inizio della gioia di Abramo». Ecco, dunque, il senso delle parole di Gesù riproposte oggi dal Papa come messaggio centrale: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza». Difatti, «non osava credere e disse al Signore: “Ma se almeno Ismaele vivesse nella tua presenza?”». Ricevendo questa risposta: «No, non sarà Ismaele. Sarà un altro».
Per Abramo, dunque, «la gioia era piena» ha affermato il Papa. Ma «anche la moglie Sara, un po’ dopo, rise: era un po’ nascosta, dietro le tende dell’entrata, ascoltando quello che dicevano gli uomini». E «quando questi inviati di Dio dissero ad Abramo della notizia sul figlio, anche lei rise». È proprio questo, ha ribadito Francesco, «l’inizio della grande gioia di Abramo». Sì, «la grande gioia: esultò nella speranza di vedere questo giorno; lo vide e fu pieno di gioia». E il Papa ha invitato a guardare «questa bella icona: Abramo che era davanti a Dio, che si prostrò con il viso a terra: sentì questa promessa e aprì il cuore alla speranza e fu pieno di gioia».
E proprio «questo è quello che non capivano questi dottori della legge» ha rimarcato Francesco. «Non capivano la gioia della promessa; non capivano la gioia della speranza; non capivano la gioia dell’alleanza. Non capivano». E «non sapevano gioire, perché avevano perso il senso della gioia che, soltanto, viene dalla fede». Invece, ha spiegato il Papa, «il nostro padre Abramo è stato capace di gioire perché aveva fede: è stato fatto giusto nella fede». Da parte loro quei dottori della legge «avevano perso la fede: erano dottori della legge, ma senza fede!». Ma «di più: avevano perso la legge! Perché il centro della legge è l’amore, l’amore per Dio e per il prossimo». Essi, però, «avevano solo un sistema di dottrine precise e che precisavano ogni giorno in più che nessuno le toccasse».
Erano «uomini senza fede, senza legge, attaccati a dottrine che anche diventano un atteggiamento casistico». E Francesco ha proposto anche esempi concreti: «Si può pagare la tassa a Cesare, non si può? Questa donna, che è stata sposata sette volte, quando andrà in cielo sarà sposa di quei sette?». E «questa casistica era il loro mondo: un mondo astratto, un mondo senza amore, un mondo senza fede, un mondo senza speranza, un mondo senza fiducia, un mondo senza Dio». Proprio «per questo non potevano gioire».
E non gioivano neppure se facevano qualche festa per divertirsi: tanto che, ha affermato il Papa, di sicuro avranno «stappato alcune bottiglie quando Gesù è stato condannato». Ma sempre «senza gioia», anzi «con paura perché uno di loro, forse mentre bevevano», avrà ricordato la promessa «che sarebbe risorto». E così «subito, con paura, sono andati dal procuratore a dire “per favore, prendetevi cura di questo, che non ci sia un trucco”». Tutto questo perché «avevano paura».
Ma «questa è la vita senza fede in Dio, senza fiducia in Dio, senza speranza in Dio» ha affermato ancora il Papa. «La vita di questi — ha aggiunto — che soltanto quando hanno capito che non avevano ragione» hanno pensato che rimaneva solo la strada di prendere le pietre per lapidare Gesù. «Il loro cuore era pietrificato». Infatti «è triste essere credente senza gioia — ha spiegato Francesco — e la gioia non c’è quando non c’è la fede, quando non c’è la speranza, quando non c’è la legge, ma soltanto le prescrizioni, la dottrina fredda. Questo è quello che vale». In contrapposizione, il Papa ha riproposto di nuovo «la gioia di Abramo, quel bel gesto del sorriso di Abramo» quando ascolta la promessa di avere «un figlio a cento anni». E «anche il sorriso di Sara, un sorriso di speranza». Perché «la gioia della fede, la gioia del Vangelo è la pietra di paragone della fede di una persona: senza gioia quella persona non è un vero credente».
In conclusione, Francesco ha invitato a far proprie le parole di Gesù: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». E ha chiesto «al Signore la grazia di essere esultanti nella speranza, la grazia di poter vedere il giorno di Gesù quando ci troveremo con Lui e la grazia della gioia».
[Papa Francesco, s Marta, in L’Osservatore Romano 27/03/2015]
La speranza è attesa di qualcosa di positivo per il futuro, ma che al tempo stesso deve sostenere il nostro presente, segnato non di rado da insoddisfazioni e insuccessi. Dove si fonda la nostra speranza? Guardando alla storia del popolo di Israele narrata nell’Antico Testamento, vediamo emergere, anche nei momenti di maggiore difficoltà come quelli dell’esilio, un elemento costante, richiamato in particolare dai profeti: la memoria delle promesse fatte da Dio ai Patriarchi; memoria che chiede di imitare l’atteggiamento esemplare di Abramo, il quale, ricorda l’Apostolo Paolo, «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: così sarà la tua discendenza» (Rm 4,18). Una verità consolante e illuminante che emerge da tutta la storia della salvezza è allora la fedeltà di Dio all’alleanza, alla quale si è impegnato e che ha rinnovato ogniqualvolta l’uomo l’ha infranta con l’infedeltà, con il peccato, dal tempo del diluvio (cfr Gen 8,21-22), a quello dell’esodo e del cammino nel deserto (cfr Dt 9,7); fedeltà di Dio che è giunta a sigillare la nuova ed eterna alleanza con l’uomo, attraverso il sangue del suo Figlio, morto e risorto per la nostra salvezza.
In ogni momento, soprattutto in quelli più difficili, è sempre la fedeltà del Signore, autentica forza motrice della storia della salvezza, a far vibrare i cuori degli uomini e delle donne e a confermarli nella speranza di giungere un giorno alla «Terra promessa». Qui sta il fondamento sicuro di ogni speranza: Dio non ci lascia mai soli ed è fedele alla parola data. Per questo motivo, in ogni situazione felice o sfavorevole, possiamo nutrire una solida speranza e pregare con il salmista: «Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia speranza» (Sal 62,6). Avere speranza equivale, dunque, a confidare nel Dio fedele, che mantiene le promesse dell’alleanza. Fede e speranza sono pertanto strettamente unite. « “Speranza”, di fatto, è una parola centrale della fede biblica, al punto che in diversi passi le parole “fede” e “speranza” sembrano interscambiabili. Così la Lettera agli Ebrei lega strettamente alla “pienezza della fede” (10,22) la “immutabile professione della speranza” (10,23). Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos - il senso e la ragione - della loro speranza (cfr 3,15), “speranza” è l'equivalente di “fede”» (Enc. Spe salvi, 2).
Cari fratelli e sorelle, in che cosa consiste la fedeltà di Dio alla quale affidarci con ferma speranza? Nel suo amore. Egli, che è Padre, riversa nel nostro io più profondo, mediante lo Spirito Santo, il suo amore (cfr Rm 5,5). E proprio questo amore, manifestatosi pienamente in Gesù Cristo, interpella la nostra esistenza, chiede una risposta su ciò che ciascuno vuole fare della propria vita, su quanto è disposto a mettere in gioco per realizzarla pienamente. L’amore di Dio segue a volte percorsi impensabili, ma raggiunge sempre coloro che si lasciano trovare. La speranza si nutre, dunque, di questa certezza: « Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16). E questo amore esigente, profondo, che va oltre la superficialità, ci dà coraggio, ci fa sperare nel cammino della vita e nel futuro, ci fa avere fiducia in noi stessi, nella storia e negli altri. Vorrei rivolgermi in modo particolare a voi giovani e ripetervi: «Che cosa sarebbe la vostra vita senza questo amore? Dio si prende cura dell’uomo dalla creazione fino alla fine dei tempi, quando porterà a compimento il suo progetto di salvezza. Nel Signore Risorto abbiamo la certezza della nostra speranza» (Discorso ai giovani della diocesi di San Marino-Montefeltro, 19 giugno 2011).
Come avvenne nel corso della sua esistenza terrena, anche oggi Gesù, il Risorto, passa lungo le strade della nostra vita, e ci vede immersi nelle nostre attività, con i nostri desideri e i nostri bisogni. Proprio nel quotidiano continua a rivolgerci la sua parola; ci chiama a realizzare la nostra vita con Lui, il solo capace di appagare la nostra sete di speranza. Egli, Vivente nella comunità di discepoli che è la Chiesa, anche oggi chiama a seguirlo. E questo appello può giungere in qualsiasi momento. Anche oggi Gesù ripete: «Vieni! Seguimi!» (Mc 10,21). Per accogliere questo invito, occorre non scegliere più da sé il proprio cammino. Seguirlo significa immergere la propria volontà nella volontà di Gesù, dargli davvero la precedenza, metterlo al primo posto rispetto a tutto ciò che fa parte della nostra vita: alla famiglia, al lavoro, agli interessi personali, a se stessi. Significa consegnare la propria vita a Lui, vivere con Lui in profonda intimità, entrare attraverso di Lui in comunione col Padre nello Spirito Santo e, di conseguenza, con i fratelli e le sorelle. E questa comunione di vita con Gesù il «luogo» privilegiato dove sperimentare la speranza e dove la vita sarà libera e piena!
[Papa Benedetto, Messaggio per la L Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, 21 aprile 2013]
Cristo afferma; “Prima che Abramo fosse, Io sono” (Gv 8, 58). Non dice: “Io ero”, ma “Io sono” cioè da sempre, in un eterno presente. L’apostolo Giovanni nel prologo del suo Vangelo scrive: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1, 1-3). Dunque quel “prima di Abramo”, nel contesto della polemica di Gesù con gli eredi della tradizione di Israele, che si appellavano ad Abramo, significa: “ben prima di Abramo” e s’illumina alle parole del prologo del quarto Vangelo: “in principio era presso Dio”, cioè nell’eternità propria solo a Dio: nell’eternità comune con il Padre e con lo Spirito Santo. Annuncia infatti il Simbolo Quicumque: “E in questa Trinità nulla è prima o dopo, nulla maggiore o minore, ma tutte e tre le persone sono fra loro coeterne e coeguali”.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 6 novembre 1985]
1. “Credo . . . in Gesù Cristo, suo (di Dio Padre) unico Figlio, nostro Signore; il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine”. Il ciclo di catechesi su Gesù Cristo, che qui sviluppiamo, fa costante riferimento alla verità espressa dalle parole del Simbolo apostolico, ora citate. Esse ci presentano Cristo quale vero Dio - Figlio del Padre - e, nello stesso tempo, quale vero Uomo, Figlio di Maria Vergine. Le catechesi precedenti ci hanno già consentito di avvicinare questa fondamentale verità della fede. Ora, però, dobbiamo cercare di approfondirne il contenuto essenziale: dobbiamo chiederci che cosa significa vero Dio e vero Uomo. È una realtà, questa, che si svela davanti agli occhi della nostra fede mediante l’autorivelazione di Dio in Gesù Cristo. E dato che essa - come ogni altra verità rivelata - può essere rettamente accolta soltanto mediante la fede, è qui in questione il “rationabile obsequium fidei”, l’ossequio ragionevole della fede. A favorire una simile fede vogliono servire le prossime catechesi, incentrate sul mistero del Dio Uomo.
2. Già in precedenza abbiamo rilevato che Gesù Cristo parlava spesso di sé, utilizzando l’appellativo di “figlio dell’uomo” (cf. Mt 16, 28; Mc 2, 28). Tale titolo si collegava con la tradizione messianica dell’Antico Testamento, e nello stesso tempo rispondeva a quella “pedagogia della fede”, a cui Gesù volutamente ricorreva. Egli infatti desiderava che i suoi discepoli e i suoi ascoltatori arrivassero da soli alla scoperta che il “figlio dell’uomo” era insieme il vero Figlio di Dio. Di ciò abbiamo una dimostrazione particolarmente significativa nella professione di Simon Pietro, avvenuta nei dintorni di Cesarea di Filippo, a cui abbiamo già fatto riferimento nelle catechesi precedenti. Gesù provoca con domande gli apostoli e quando Pietro giunge al riconoscimento esplicito della sua identità divina, ne conferma la testimonianza chiamandolo “beato perché né la carne né il sangue gliel’hanno rivelato, ma il Padre” (cf. Mt 16, 17). È il Padre, che rende testimonianza al Figlio, perché soltanto lui conosce il Figlio (cf. Mt 11, 27).
3. Tuttavia nonostante la discrezione a cui Gesù s’atteneva in applicazione di quel principio pedagogico di cui s’è parlato, la verità della sua filiazione divina diventava via via più palese, in base a ciò che egli diceva, e particolarmente a ciò che faceva. Ma, mentre per gli uni essa costituiva oggetto di fede, per gli altri era causa di contraddizione e di accusa. Questo si manifestò in forma definitiva durante il processo davanti al Sinedrio. Racconta il Vangelo di Marco (Mc 14, 61-62): “Il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: “Sei tu il Cristo, figlio di Dio benedetto?”. Gesù rispose: “Io lo sono! E vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo””. Nel Vangelo di Luca (Lc 22, 70) la domanda è così formulata: “”Tu dunque sei il figlio di Dio?”. Rispose loro: “Lo dite voi stessi: io lo sono””.
4. La reazione dei presenti è concorde: “Ha bestemmiato! . . . avete udito la bestemmia . . . È reo di morte!” (Mt 26, 65-66). Questa accusa è, per così dire, frutto di un’interpretazione materiale della legge antica.
Leggiamo infatti nel Libro del Levitico: “Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare” (Lv 24, 16). Gesù di Nazaret, che davanti ai rappresentanti ufficiali dell’Antico Testamento dichiara di essere il vero Figlio di Dio, pronuncia - secondo la loro convinzione - una bestemmia. Perciò “è reo di morte” e la condanna viene eseguita, anche se non con la lapidazione secondo la disciplina vetero-testamentaria, ma con la crocifissione, secondo la legislazione romana. Chiamare se stesso “Figlio di Dio” voleva dire “farsi Dio” (cf. Gv 10, 33), il che suscitava una protesta radicale da parte dei custodi del monoteismo dell’Antico Testamento.
5. Ciò che alla fine si compì nel processo intentato contro Gesù, in realtà era stato minacciato già prima, come riferiscono i Vangeli, particolarmente quello di Giovanni. Vi leggiamo più di una volta che gli ascoltatori volevano lapidare Gesù, quando ciò che avevano udito dalla sua bocca sembrava loro una bestemmia. Riscontrarono una tale bestemmia, per esempio, nelle sue parole sul tema del Buon Pastore (cf. Gv 10, 27.29), e nella conclusione a cui egli giunse in tale circostanza: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10, 30). Il racconto evangelico prosegue così: “I Giudei portarono di nuovo delle pietre per lapidarlo. Gesù rispose loro: “Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio; per quale di esse mi volete lapidare?”. Gli risposero i Giudei: “Non ti lapidiamo per un’opera buona ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio”” (Gv 10, 31-33).
6. Analoga fu la reazione a queste altre parole di Gesù: “Prima che Abramo fosse, Io Sono” (Gv 8, 58). Anche qui Gesù si trovò davanti a una domanda e a un’accusa identica: “Chi pretendi di essere?” (Gv 8, 53), e la risposta a tale domanda ebbe come conseguenza la minaccia della lapidazione (Gv 8, 59).
È dunque chiaro che, benché Gesù parlasse di se stesso soprattutto come del “figlio dell’uomo”, tuttavia tutto l’insieme di ciò che faceva e insegnava rendeva testimonianza che egli era il Figlio di Dio nel senso letterale della parola: che cioè era con il Padre una cosa sola, e quindi: come il Padre, così anche lui era Dio. Del contenuto univoco di tale testimonianza è prova sia il fatto che egli fu riconosciuto e accolto da alcuni: “molti credettero in lui”: (cf. per esempio Gv 8, 30); sia, ancor più, il fatto che trovò in altri un’opposizione radicale, anzi l’accusa di bestemmia con la disposizione a infliggergli la pena, prevista per i bestemmiatori dalla Legge dell’Antico Testamento.
7. Tra le affermazioni di Cristo relative a questo argomento, particolarmente significativa appare l’espressione: “Io Sono”. Il contesto in cui essa viene pronunciata indica che Gesù richiama qui la risposta data a Mosè da Dio stesso, quando gli viene rivolta la domanda circa il suo nome: “Io sono colui che sono . . . Dirai agli Israeliti: Io Sono mi ha mandato a voi” (Es 3, 14). Ora, Cristo si serve della stessa espressione “Io Sono” in contesti molto significativi. Quello di cui s’è parlato, concernente Abramo; “Prima che Abramo fosse, “Io Sono”: ma non solo quello. Così, per esempio: “Se . . . non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati” (Gv 8, 24). E ancora: “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono” (Gv 8, 28), e inoltre: “Ve lo dico fin d’ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che “Io Sono” (Gv 13, 19).
Questo “Io Sono” si trova pure in altri luoghi, presenti nei Vangeli sinottici (per esempio Mt 28,20; Lc 24, 39); ma nelle affermazioni citate sopra l’uso del nome di Dio, proprio del Libro dell’Esodo, appare particolarmente limpido e fermo. Cristo parla della sua “elevazione” pasquale mediante la croce e la successiva risurrezione: “Allora saprete che Io Sono”. Il che vuol dire: allora risulterà pienamente che io sono colui al quale compete il nome di Dio. Con tale espressione perciò Gesù indica di essere il vero Dio. E ancora prima della passione egli prega il Padre così: “Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie” (Gv 17, 10) che è un altro modo per affermare: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10, 30).
Davanti a Cristo, Verbo di Dio incarnato, uniamoci anche noi a Pietro e ripetiamo con lo stesso trasporto di fede: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16)
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 26 agosto 1987]
1. Nella catechesi precedente abbiamo rivolto particolare attenzione a quelle affermazioni, in cui Cristo parla di sé adoperando l’espressione “Io Sono”. Il contesto in cui tali affermazioni compaiono, soprattutto nel Vangelo di Giovanni, ci permette di pensare che, nel ricorrere a detta espressione, Gesù fa riferimento al Nome con cui il Dio dell’antica alleanza qualifica se stesso dinanzi a Mosè, al momento di affidargli la missione a cui è chiamato: “Io sono colui che sono . . . Dirai agli Israeliti: Io Sono mi ha mandato a voi” (Es 3, 14).
Gesù parla di sé in questo modo, per esempio nell’ambito della discussione su Abramo: “Prima che Abramo fosse, Io Sono” (Gv 8, 58). Già quest’espressione ci permette di comprendere che “il Figlio dell’uomo” rende testimonianza alla sua divina preesistenza. E una tale affermazione non è isolata.
2. Più di una volta Cristo parla del mistero della sua Persona, e l’espressione più sintetica sembra essere questa: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre” (Gv 16, 28). Gesù rivolge queste parole agli apostoli nel discorso d’addio alla vigilia degli avvenimenti pasquali. Esse indicano chiaramente che prima di “venire” nel mondo, Cristo “era” presso il Padre come Figlio. Indicano quindi la sua preesistenza in Dio. Gesù fa capire chiaramente che la sua esistenza terrena non può essere separata da tale preesistenza in Dio. Senza di essa la sua realtà personale non può essere correttamente intesa.
3. Espressioni simili sono numerose. Quando Gesù accenna alla sua venuta dal Padre nel mondo, le sue parole fanno di solito riferimento alla sua preesistenza divina. Questo è particolarmente chiaro nel Vangelo di Giovanni. Gesù dice davanti a Pilato: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18, 37); e forse non è senza importanza il fatto che Pilato Gli chieda più tardi: “Di dove sei?” (Gv 19, 9). E prima ancora leggiamo: “La mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado” (Gv 8, 14). A proposito di quel “di dove sei?” nel colloquio notturno con Nicodemo possiamo udire una significativa dichiarazione: “Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo” (Gv 3, 13). Questa “venuta” dal cielo, dal Padre, indica la “preesistenza” divina di Cristo anche in relazione alla sua “dipartita”: “E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?” - domanda Gesù nel contesto del “discorso eucaristico” nei pressi di Cafarnao (cf. Gv 6, 62).
4. L’intera esistenza terrena di Gesù come Messia risulta da quel “prima” e ad esso si riconnette come a una “dimensione” fondamentale secondo la quale il Figlio è “una cosa sola” con il Padre. Quanto eloquenti sono da questo punto di vista le parole della “preghiera sacerdotale” nel cenacolo: “Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Gv 17, 4-5).
Anche nei Vangeli sinottici si parla in molti luoghi della “venuta” del Figlio dell’uomo per la salvezza del mondo (cf. ad esempio Lc 19, 10; Mc 10, 45; Mt 20, 28); tuttavia i testi di Giovanni contengono un riferimento particolarmente chiaro alla preesistenza di Cristo.
5. La sintesi più piena di questa verità è contenuta nel Prologo del quarto Vangelo. Si può dire che in tale testo la verità sulla preesistenza divina del Figlio dell’uomo acquista un’ulteriore esplicitazione, quella in certo senso definitiva: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui . . . In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1, 1-5).
In queste frasi l’evangelista conferma ciò che Gesù diceva di se stesso, quando dichiarava: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo” (Gv 16, 28), oppure quando pregava perché il Padre lo glorificasse con quella gloria che egli aveva preso di lui prima che il mondo fosse (cf. Gv 17, 5). Nello stesso tempo la preesistenza del Figlio nel Padre si collega strettamente con la rivelazione del mistero trinitario di Dio: il Figlio è l’eterno Verbo, è “Dio da Dio”, della stessa sostanza del Padre (come si esprimerà il Concilio di Nicea nel Simbolo della fede). La formula conciliare riflette precisamente il Prologo di Giovanni: “Il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Affermare la preesistenza di Cristo nel Padre equivale a riconoscerne la Divinità. Alla sua sostanza, così come alla sostanza del Padre, appartiene l’eternità. È ciò che viene indicato col riferimento alla preesistenza eterna nel Padre.
6. Il Prologo di Giovanni, mediante la rivelazione della verità sul Verbo, ivi contenuta, costituisce come il definitivo completamento di ciò che già l’Antico Testamento aveva detto della Sapienza. Si vedano, ad esempio, le seguenti affermazioni: “Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi creò; per tutta l’eternità non verrò meno” (Sir 24, 9), “Il mio creatore mi fece piantare la tenda e mi disse: fissa la tenda in Giacobbe” (Sir 24, 8). La Sapienza, di cui parla l’Antico Testamento, è una creatura e nello stesso tempo ha attributi che la mettono al di sopra dell’intero creato: “Sebbene unica, essa può tutto; pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova” (Sap 7, 27).
La verità sul Verbo, contenuta nel Prologo di Giovanni, riconferma in un certo senso la rivelazione circa la sapienza presente nell’Antico Testamento, e in pari tempo la trascende in modo definitivo. Il Verbo non soltanto “è presso Dio”, ma “è Dio”. Venendo in questo mondo nella persona di Gesù Cristo, il Verbo “venne fra la sua gente”, poiché “il mondo fu fatto per mezzo di lui” (cf. Gv 1, 10-11). Venne tra “i suoi” perché è “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (cf. Gv 1, 9). L’autorivelazione di Dio in Gesù Cristo consiste in questa “venuta” nel mondo del Verbo, che è l’eterno Figlio.
7. “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1, 14). Diciamolo ancora una volta: il Prologo di Giovanni è l’eco eterna delle parole con cui Gesù dice: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo” (Gv 16, 28), e di quelle con cui prega che il Padre lo glorifichi con quella gloria che Egli aveva presso di lui prima che il mondo fosse (cf. Gv 17, 5). L’Evangelista ha davanti agli occhi la rivelazione veterotestamentaria circa la Sapienza, e nello stesso tempo l’intero avvenimento pasquale: la dipartita mediante la croce e la risurrezione, in cui la verità su Cristo, Figlio dell’uomo e vero Dio, si è resa completamente chiara a quanti sono stati i suoi testimoni oculari.
8. In stretto rapporto con la rivelazione del Verbo, cioè con la divina preesistenza di Cristo, trova pure conferma la verità sull’Emmanuele. Questa parola - che nella traduzione letterale significa “Dio con noi” - esprime una presenza particolare e personale di Dio nel mondo. Quell’“Io sono” di Cristo manifesta proprio questa presenza già preannunziata da Isaia (cf. Is 7, 14), proclamata sulla scia del profeta nel Vangelo di Matteo (cf. Mt 1, 23), e confermata nel Prologo di Giovanni: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14). Il linguaggio degli evangelisti è multiforme, ma la verità che essi esprimono è la stessa. Nei sinottici Gesù pronuncia il suo “io sono con voi” particolarmente nei momenti difficili (come per esempio: Mt 14, 27; Mc 6, 50; Gv 6, 20), in occasione della tempesta sedata, come pure nella prospettiva della missione apostolica della Chiesa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).
9. L’espressione di Cristo: “Sono uscito dal Padre e sono nel mondo” (Gv 16, 28) contiene un significato salvifico, soteriologico. Tutti gli evangelisti lo manifestano. Il Prologo di Giovanni lo esprime nelle parole: “A quanti . . . l’hanno accolto (il Verbo), ha dato potere di diventare figli di Dio”, la possibilità cioè di essere generati da Dio (cf. Gv 1, 12-13).
Questa è la verità centrale di tutta la soteriologia cristiana, organicamente connessa con la realtà rivelata del Dio-Uomo. Dio si fece uomo, affinché l’uomo potesse partecipare realmente della vita di Dio, potesse anzi diventare, in un certo senso, Dio egli stesso. Già gli antichi Padri della Chiesa hanno avuto di ciò chiara coscienza. Basti ricordare sant’Ireneo, il quale, esortando a seguire Cristo, unico maestro vero e sicuro, affermava. “Per l’immenso suo amore egli s’è fatto ciò che noi siamo, per dare a noi la possibilità di essere ciò che è lui” (cf. S. Irenaei, Adversus haereses, V, Praef.: PG 7, 1120).
Questa verità ci apre orizzonti sconfinati, nei quali situare l’espressione concreta della nostra vita cristiana, alla luce della fede in Cristo, Figlio di Dio, Verbo del Padre.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 2 settembre 1987]
«Nelle due letture» proposte oggi dalla liturgia, ha fatto subito notare il Pontefice all’omelia, «si parla di tempo, di eternità, di anni, di futuro, di passato» (Genesi 17, 3-9 e Giovanni 8, 51-59). Tanto che proprio «il tempo sembra essere la realtà più importante nel messaggio liturgico di questo giovedì». Ma Francesco ha preferito «prendere un’altra parola» che, ha suggerito, «credo sia proprio il messaggio nella Chiesa oggi». E sono le parole di Gesù riportate dall’evangelista Giovanni: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia».
Dunque, il messaggio centrale di oggi è «la gioia della speranza, la gioia della fiducia nella promessa di Dio, la gioia della fecondità». Proprio «Abramo, nel tempo del quale parla la prima lettura, aveva novantanove anni e il Signore apparve a lui e assicurò l’alleanza» con queste parole: «Quanto a me, ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre».
Abramo, ha ricordato Francesco, «aveva un figlio di dodici, tredici anni: Ismaele». Ma Dio gli assicura che diventerà «padre di una moltitudine di nazioni». E «gli cambia il nome». Poi «continua e gli chiede di essere fedele all’alleanza» dicendo: «Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza e dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne». In pratica, Dio dice ad Abramo «ti do tutto, ti do il tempo: ti do tutto, tu sarai padre».
Sicuramente Abramo, ha detto il Papa, «era felice di questo, era pieno di consolazione» ascoltando la promessa del Signore: «Entro un anno avrai un altro figlio». Certo, a quelle parole «Abramo rise, dice la Bibbia in seguito: ma come, a cento anni un figlio?». Sì, «aveva generato Ismaele a ottantasette anni, ma a cento anni un figlio è troppo, non si può capire!». E così «rise». Ma proprio «quel sorriso, quel riso è stato l’inizio della gioia di Abramo». Ecco, dunque, il senso delle parole di Gesù riproposte oggi dal Papa come messaggio centrale: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza». Difatti, «non osava credere e disse al Signore: “Ma se almeno Ismaele vivesse nella tua presenza?”». Ricevendo questa risposta: «No, non sarà Ismaele. Sarà un altro».
Per Abramo, dunque, «la gioia era piena» ha affermato il Papa. Ma «anche la moglie Sara, un po’ dopo, rise: era un po’ nascosta, dietro le tende dell’entrata, ascoltando quello che dicevano gli uomini». E «quando questi inviati di Dio dissero ad Abramo della notizia sul figlio, anche lei rise». È proprio questo, ha ribadito Francesco, «l’inizio della grande gioia di Abramo». Sì, «la grande gioia: esultò nella speranza di vedere questo giorno; lo vide e fu pieno di gioia». E il Papa ha invitato a guardare «questa bella icona: Abramo che era davanti a Dio, che si prostrò con il viso a terra: sentì questa promessa e aprì il cuore alla speranza e fu pieno di gioia».
E proprio «questo è quello che non capivano questi dottori della legge» ha rimarcato Francesco. «Non capivano la gioia della promessa; non capivano la gioia della speranza; non capivano la gioia dell’alleanza. Non capivano». E «non sapevano gioire, perché avevano perso il senso della gioia che, soltanto, viene dalla fede». Invece, ha spiegato il Papa, «il nostro padre Abramo è stato capace di gioire perché aveva fede: è stato fatto giusto nella fede». Da parte loro quei dottori della legge «avevano perso la fede: erano dottori della legge, ma senza fede!». Ma «di più: avevano perso la legge! Perché il centro della legge è l’amore, l’amore per Dio e per il prossimo». Essi, però, «avevano solo un sistema di dottrine precise e che precisavano ogni giorno in più che nessuno le toccasse».
Erano «uomini senza fede, senza legge, attaccati a dottrine che anche diventano un atteggiamento casistico». E Francesco ha proposto anche esempi concreti: «Si può pagare la tassa a Cesare, non si può? Questa donna, che è stata sposata sette volte, quando andrà in cielo sarà sposa di quei sette?». E «questa casistica era il loro mondo: un mondo astratto, un mondo senza amore, un mondo senza fede, un mondo senza speranza, un mondo senza fiducia, un mondo senza Dio». Proprio «per questo non potevano gioire».
E non gioivano neppure se facevano qualche festa per divertirsi: tanto che, ha affermato il Papa, di sicuro avranno «stappato alcune bottiglie quando Gesù è stato condannato». Ma sempre «senza gioia», anzi «con paura perché uno di loro, forse mentre bevevano», avrà ricordato la promessa «che sarebbe risorto». E così «subito, con paura, sono andati dal procuratore a dire “per favore, prendetevi cura di questo, che non ci sia un trucco”». Tutto questo perché «avevano paura».
Ma «questa è la vita senza fede in Dio, senza fiducia in Dio, senza speranza in Dio» ha affermato ancora il Papa. «La vita di questi — ha aggiunto — che soltanto quando hanno capito che non avevano ragione» hanno pensato che rimaneva solo la strada di prendere le pietre per lapidare Gesù. «Il loro cuore era pietrificato». Infatti «è triste essere credente senza gioia — ha spiegato Francesco — e la gioia non c’è quando non c’è la fede, quando non c’è la speranza, quando non c’è la legge, ma soltanto le prescrizioni, la dottrina fredda. Questo è quello che vale». In contrapposizione, il Papa ha riproposto di nuovo «la gioia di Abramo, quel bel gesto del sorriso di Abramo» quando ascolta la promessa di avere «un figlio a cento anni». E «anche il sorriso di Sara, un sorriso di speranza». Perché «la gioia della fede, la gioia del Vangelo è la pietra di paragone della fede di una persona: senza gioia quella persona non è un vero credente».
In conclusione, Francesco ha invitato a far proprie le parole di Gesù: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». E ha chiesto «al Signore la grazia di essere esultanti nella speranza, la grazia di poter vedere il giorno di Gesù quando ci troveremo con Lui e la grazia della gioia».
[Papa Francesco, s Marta, in L’Osservatore Romano 27/03/2015]
5a Domenica di Quaresima (anno C) [6 aprile 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Domani, mercoledì 2 aprile sarà il XX anniversario della morte di san Giovanni Paolo II. Lo ricordiamo nella preghiera invocando la sua protezione e intercessione.
*Prima Lettura Dal libro del profeta Isaia (43,16-21)
A prima vista, questo testo consta di due parti tra loro contraddittorie: la prima è un richiamo al passato, all’uscita dall’Egitto, mentre nella seconda il profeta esorta a lasciarsi alle spalle il passato. Ma di quale passato si tratta? Proviamo a meglio capire esaminando una dopo l’altra queste due parti. L’incipit è come sempre solenne: “Così dice il Signore” per introdurre parole di grande importanza cui immediatamente segue il riferimento al celebre passaggio nel mare, il miracolo del mare dei Giunchi durante la fuga degli Ebrei dall’Egitto: “Il Signore aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti”. Torna sempre il richiamo alla notte memorabile della liberazione dall’Egitto narrata nel capitolo 14 del libro dell’Esodo. Nella prima lettura Isaia offre ulteriori dettagli: “il Signore fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo e tutti giacciono morti e mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo”. Dio salvò il suo popolo distruggendo gli egiziani ed è interessante notare che Isaia utilizza il nome “Signore” (il Tetragramma YHVH), nome che qualifica il Dio del Sinai come il liberatore del suo popolo. Ecco l’opera di Dio nel passato che costituisce la fonte della speranza per il futuro di Israele e Isaia precisa:”Ecco, io faccio una cosa nuova”. Per capire di che si tratta e a chi il profeta preannuncia un mondo nuovo, occorre rifarsi al contesto storico. Il deuteroIsaia, che qui stiamo leggendo, visse nel VI secolo a.C., durante l’esilio a Babilonia (dal 587 al 538 a.C.), periodo segnato da una prova terribile: deportanti a Babilonia da Nabucodonosor, re di Babilonia, che aveva sconfitto il piccolo regno di Giuda di cui Gerusalemme era la capitale, gli ebrei speravano un giorno di fuggire dalla Babilonia, ma esistevano serie difficoltà perché bisognava attraversare il deserto della Siria, lungo centinaia di chilometri e in condizioni terribili per dei fuggiaschi. Il profeta ha quindi il compito difficile di ridare coraggio ai suoi contemporanei: lo fa in questo libro chiamato il libro della Consolazione di Israele, perché il capitolo 40 inizia così: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio”. E quando dice: “il vostro Dio” richiama l’Alleanza mai spezzata perché Dio non li ha abbandonati. In effetti, una delle formule dell’Alleanza era: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” e ogni volta che echeggia l’espressione mio Dio o vostro Dio, il possessivo è un incoraggiante richiamo all’Alleanza e, al tempo stesso, una professione di fede. Isaia intende mantenere accesa la speranza degli esiliati ricordando che Dio non solo non li ha abbandonati, anzi al contrario prepara già il loro ritorno in patria. Non si vede ancora nulla, ma avverrà e perché si è certi? Perché Dio è fedele alla sua Alleanza e da quando ha scelto questo popolo non ha mai smesso di liberarlo e di mantenerlo in vita, attraverso tutte le vicissitudini della sua storia. L’ha liberato dal faraone; l’ha protetto lungo tutto il cammino, lo ha fatto passare attraverso il mare all’asciutto al momento dell’uscita dall’Egitto.La speranza di Israele poggia dunque sul suo passato: questo è il significato della parola “Memoriale”, costante memoria dell’opera di Dio che continua ancora oggi e da questo si trae la certezza che continuerà anche nel futuro. Passato, presente, futuro: Dio è sempre presente accanto al suo popolo. Questo è uno dei significati del nome di Dio: “Io sono”, cioè sono con voi in ogni circostanza. E proprio durante il difficile periodo dell’esilio, quando c’era il rischio di cedere alla disperazione, Isaia sviluppa una nuova metafora, quella del germoglio: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” Partendo dall’esperienza straordinaria di un minuscolo seme capace di diventare un grande albero, è facile capire come la parola “germoglio” sia diventata in Israele e oggi per noi simbolo di speranza ed è importante imparare a riconoscere i germogli del mondo nuovo, il Regno che Dio sta costruendo.
*Salmo responsoriale [125 (126)]
Questo salmo fa eco alla prima lettura, dove il profeta Isaia annuncia il ritorno del popolo esiliato a Babilonia e canta questo miracolo così come gli ebrei avevano cantato il prodigio dell’uscita dall’Egitto. Questi gli eventi: nel 587 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva conquistato Gerusalemme e deportato la popolazione, ma, a sua volta, fu sconfitto da Ciro, re di Persia ben noto per i suoi successi. Le truppe di Nabucodonosor saccheggiavano, depredavano, stupravano, massacravano e devastavano deportando sistematicamente le popolazioni. Ciro, invece, adottò una politica completamente diversa: preferì governare su popoli prosperi e permise a tutte le popolazioni deportate di tornare nelle loro terre d’origine fornendo pure i mezzi per farlo. E così, conquistata Babilonia nel 539 a.C., già nel 538 permise agli ebrei di rientrare a Gerusalemme, concedendo loro anche aiuti economici e restituendo persino gli oggetti saccheggiati dal Tempio dai soldati di Nabucodonosor.
Nel salmo non si dice “Quando il re di Persia Ciro ristabilì la sorte di Sion” ma “quando il Signore ristabilì la sorte di Sion”, un modo per affermare che Dio rimane il Signore della storia che ne muove tutti i fili e pertanto non c’è nessun altro dio – ancora un cenno alla lotta contro l’idolatria. Questo salmo, scritto probabilmente molto tempo dopo il ritorno dall’esilio, evoca la gioia e l’emozione della liberazione e del ritorno. Quante volte durante l’esilio, si sognava questo momento! Quando si è realizzato, quasi non si osava crederci: “Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion ci sembrava di sognare…la bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia”. Ci si immagina persino che anche gli altri popoli siano stupiti da questo miracolo: “Allora si diceva tra le genti: “Il Signore ha fatto grandi cose per loro”. In questa frase emergono due elementi: un’infinita gratitudine per la gratuità della scelta di Dio e la consapevolezza del popolo eletto di essere stato scelto per il mondo: la sua vocazione è essere testimone dell’opera di Dio, consapevolezza maturata proprio durante l’esilio. Nel salmo, lo stupore per la scelta di Dio è espresso con i termini: “grandi cose” cioè l’opera di liberazione di Dio, in particolare la liberazione dall’Egitto. Parole come impresa, opera, grandi cose, meraviglie, che si trovano spesso nei salmi, sono sempre un richiamo all’Esodo. Qui, si aggiunge una nuova opera di liberazione di Dio: la fine dell’esilio vissuta dal popolo come una vera e propria risurrezione. Per esprimerlo, il salmista usa due immagini: I torrenti nel deserto: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti nel Negheb”, deserto a sud di Gerusalemme, dove in primavera fioriscono miriadi di fiori. L’altra immagine è il seme: “chi semina nelle lacrime, mieterà nella gioia”. il grano seminato sembra marcire e morire… ma quando spuntano le spighe, è come una rinascita, immagine eloquente perché il ritorno degli esiliati significava una vera rinascita anche per la terra. Un’ultima osservazione: quando in questo salmo si canta il ritorno dall’esilio babilonese, esso era già avvenuto da molto tempo, ma Israele non parla del passato solo per raccontarlo, bensì per comunicare un messaggio e un insegnamento per il futuro: questo ritorno alla vita, collocato storicamente, diventa ragione per sperare in altre future risurrezioni e liberazioni. Ogni anno, durante la festa delle Capanne, in autunno, questo canto veniva intonato durante il pellegrinaggio a Gerusalemme. Mentre i pellegrini salgono, cantano la liberazione già avvenuta e pregano Dio di affrettare il giorno della liberazione definitiva, quando apparirà il Messia promesso. Esistono anche oggi molti luoghi di schiavitù, molti «Egitto» e «Babilonia». È a questo che si pensa quando si canta: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte come i torrenti nel Negheb” chiedendo la grazia di collaborare con tutte le nostre forze all’opera di liberazione inaugurata dal Messia per affrettare il giorno in cui l’intera umanità possa cantare: “Grandi cose ha fatto il Signore per noi”
*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (3,8-14)
San Paolo usa l’immagine della corsa e sappiamo quanto sia importante per ogni persona il traguardo e la voglia di raggiungerlo. Qui l’apostolo parla di sé stesso: “So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù”. Per correre verso questa stessa meta e ottenere il premio promesso, occorre voltare le spalle a molte cose, come ha fatto san Paolo da quando si è sentito conquistato da Cristo. Il verbo greco che utilizza (katalambano) significa afferrare, catturare, prendere con forza ed esprime il modo con cui è stato trasformato completamente da persecutore dei cristiani in apostolo del vangelo (At.9) quando Cristo si è letteralmente impossessato di lui sulla via di Damasco. San Paolo presenta la sua fede cristiana come naturale continuazione della sua fede ebraica perché Cristo realizza pienamente le attese dell’Antico Testamento assicurandone la continuità con il Nuovo Testamento. Qui però insiste sulla novità che Gesù Cristo apporta: “Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore”. La conoscenza di Cristo reca una novità radicale perché si diventa realmente una “nuova creatura”, come scrive nella seconda lettera ai Corinzi, che abbiamo letto domenica scorsa (2 Cor 5,17-21). Ora lo dice in un altro modo: “Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui”. In altre parole: quel che prima ai mei occhi appariva importante, cioè un vantaggio e un privilegio , adesso li rifiuto del tutto. I vantaggi di cui parla erano l’orgoglio di appartenere al popolo d’Israele, la fede e l’incrollabile speranza di quel popolo, la pratica assidua e scrupolosa di tutti i comandamenti che egli chiama l’obbedienza alla legge di Mosè. Ma ormai Gesù Cristo ha preso tutto lo spazio nella sua vita ed egli possiede il bene più grande, l’unica vera ricchezza al mondo, il vero tesoro dell’umana esistenza: conoscere Cristo. Conoscere nel linguaggio biblico non significa conoscenza intellettuale ma vivere nell’ intimità con qualcuno, amarlo e condividerne la vita. Paolo insiste su questo legame con Cristo perché nella comunità di Filippi alcuni cristiani di origine ebraica volevano imporre la circoncisione a tutti i cristiani prima del battesimo e questo creava grande divisione come abbiamo letto nella seconda lettura della seconda domenica di Quaresima. Tale questione fu risolta dagli Apostoli durante il primo Concilio a Gerusalemme affermando che nella Nuova Alleanza, la Legge di Mosè è stata superata e il battesimo nel nome di Gesù ci rende figli di Dio per cui la circoncisione non è più indispensabile per far parte del popolo della Nuova Alleanza. Paolo inoltre parla qui di “comunione” alle sofferenze di Cristo, di conformazione alla sua morte nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti, innestati in lui per seguire il suo stesso cammino: “comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte”.
Nota: San Paolo c’invita a vivere come Cristo e ad accettare tutti i rischi dell’annuncio del Vangelo, ma riusciamo a dire, come lui, che l’unico bene per noi è la conoscenza di Cristo e tutto il resto non è che spazzatura? La parola spazzatura che qui è usata traduce il termine greco skubala che ha un significato molto forte traducibile in più modi: come rifiuto, scarto, escrementi secchi e sporcizia, residuo di cibo marcio e avariato. Insomma un rifiuto totale di tutto, quando si conosce Cristo e da lui si è posseduti.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (8, 1-11)
Siamo già nel contesto della Passione e la prima riga menziona il Monte degli Ulivi. Dato che gli evangelisti ne parlano solo negli ultimi giorni della vita pubblica di Gesù e i farisei vogliono qui tendergli un tranello, questo fa capire che ormai si è deciso di processarlo e condannarlo. Per questo ogni dettaglio di questo testo va esaminato attentamente perché non si tratta di un semplice episodio della vita di Gesù, ma del cuore stesso della sua missione. All’inizio Gesù è seduto come un maestro: “tutto il popolo andava da lui ed egli sedette e si mise a insegnare loro”. Tuttavia la domanda degli scribi e dei farisei lo mette subito nella posizione di giudice e Gesù è l’unico personaggio seduto. Questo dettaglio ci aiuta a capire che il tema del giudizio, in san Giovanni, è centrale: l’episodio della donna adultera attua ciò che scrive all’inizio del suo vangelo: “Dio ha mandato il Figlio nel mondo, non per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17). Siamo davanti a un finto processo perché la questione è chiara: la donna adultera è stata colta in flagrante e ci sono testimoni; la Legge di Mosè condanna l’adulterio, come uno dei comandamenti dati da Dio sul Sinai (Non commetterai adulterio, Es 20,14; Dt 5,18); il Levitico prescrive la pena di morte: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte” (Lv 20,10). Gli scribi e i farisei, che interrogano Gesù, sono come sempre molto attaccati alla Legge di Mosè, ma dimenticano di aggiungere che la Legge prevede la condanna per entrambi i colpevoli, l’uomo e la donna adultera. Il fatto che pur sapendolo nessuno lo ricorda, ciò dimostra che la vera questione non è l’osservanza della Legge, ma ben altro, e il testo lo dice chiaramente: “Dicevano questo per metterlo alla prova e per aver motivo di accusarlo”. E’ dunque una domanda-trappola e di che cosa vogliono accusare Gesù? Gesù non può approvare la lapidazione perché smentirebbe tutta la predicazione sulla misericordia; se però pubblicamente difende la donna, potrà essere accusato di incitare il popolo a disobbedire alla Legge. Nel Vangelo di Giovanni (capitolo 5), lo abbiamo già visto dire al paralitico guarito di prendere il suo lettuccio, un atto proibito di sabato. Quel giorno non riuscirono a condannarlo, ma questa volta la disobbedienza sarebbe stata pubblica. In fondo, nonostante l’apparente rispetto con cui lo chiamano “Maestro”, Gesù è in pericolo tanto quanto la donna adultera: entrambi rischiano la morte. Gesù non risponde subito: “Si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”. Con il suo silenzio, silenzio costruttivo, invita ciascuno a riflettere senza umiliare nessuno e lui, incarnazione della misericordia, non mette in difficoltà né gli scribi e i farisei, né la donna adultera: Desidera che ciascuno faccia un passo avanti cercando di rivelare ai farisei e agli scribi il vero volto del Dio della misericordia. Quando risponde lo fa quasi ponendo una domanda: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. A questo punto tutti se ne vanno, “uno per uno, cominciando dai più anziani». Niente di sorprendente: i più anziani appaiono quelli più pronti ad ascoltare l’appello alla misericordia. Chi sa quante volte hanno sperimentato su di loro la misericordia di Dio… Quante volte hanno letto, cantato, meditato il versetto: «Dio di tenerezza e di pietà, lento all’ira e ricco di amore» (Es 34,6. Quante volte hanno recitato il Salmo 50(51): «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia, nella tua grande bontà cancella il mio peccato”. Ora possono capire che la loro mancanza di misericordia è una colpa, una mancanza di fedeltà al Dio dell’Alleanza. La frase di Gesù potrebbe averli portati a questa riflessione: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra”. Essere il primo a scagliare la pietra era un’espressione nota a tutti nel contesto della lotta contro l’idolatria. La Legge non diceva che doveva essere il testimone dell’adulterio a lanciare la prima pietra; ma lo diceva espressamente per il caso dell’idolatria (Dt 13,9-10; Dt 17,7). Così la risposta di Gesù può essere interpretata come: «Questa donna è colpevole di adulterio, nel senso letterale del termine, è vero; ma voi non state forse commettendo un adulterio ancora più grave, un’infedeltà al Dio dell’Alleanza? I profeti spesso parlano dell’idolatria in termini di adulterio. Alla fine, restano solo Gesù e la donna: è il faccia a faccia, come dice sant’Agostino, tra la miseria e la misericordia. Per lei, il Verbo compie ancora una volta la sua missione, dicendo la parola di riconciliazione. Isaia, parlando del servo di Dio, l’aveva annunciato: «Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino fumigante…» (Is 42,3). Ma questo non è buonismo perché Gesù dice chiaramente alla donna di non peccare più, il peccato rimane condannato, ma solamente il perdono può permettere al peccatore di rinascere alla speranza.
Nota: Cosa scrive Gesù per terra? L’evangelista non lo specifica, e questo ha dato origine a diverse interpretazioni: Alcuni Padri della Chiesa, come Sant’Agostino, ipotizzano che Gesù stesse scrivendo i peccati nascosti di coloro che accusavano la donna. Per questo, uno dopo l’altro, essi se ne vanno via; Rimanda alla Legge mosaica: secondo un’interpretazione rabbinica, potrebbe riferirsi a Geremia 17,13: “Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, sorgente di acqua viva.” Se fosse così, Gesù starebbe indicando che gli accusatori stessi sono colpevoli di infedeltà a Dio. Potrebbe essere un atto simbolico di distacco; scrivere nella polvere potrebbe simboleggiare che le accuse contro la donna sono effimere, destinate a svanire; potrebbe indicare un richiamo alla pazienza e alla riflessione; infine potrebbe essere un modo per non rispondere subito, spingendo gli accusatori a riflettere sulla loro ipocrisia.
Il gesto di Gesù invita a spostare l’attenzione non sulla colpa degli altri, ma sulla propria coscienza. Nessuno può condannare un altro senza prima esaminare se stesso. Questo episodio ci insegna che la misericordia di Dio supera la condanna umana, e che il perdono è sempre possibile quando c’è un cuore disposto a cambiare.
La prima lettura e il Vangelo di questa domenica hanno lo stesso messaggio: dimentica il passato, non rimanere attaccato a esso… nulla, nemmeno i ricordi, deve impedirti di andare avanti. Nella prima lettura, Isaia parla al popolo in esilio… nel Vangelo, Gesù parla a una donna colta in flagrante adulterio: apparentemente, due casi molto diversi, ma il messaggio è lo stesso: volgi lo sguardo con decisione verso il futuro, non pensare più al passato.
+Giovanni D’Ercole
(Gv 8,31-42)
Secondo l’opinione di molti giudei, l'Eredità ricevuta era assai più preziosa e rassicurante di qualsiasi altro insegnamento pur dignitoso, che chiunque potesse impartire.
Ma i fedeli in Cristo si rendono conto che nell’orizzonte di una vita da salvati la discendenza non è premessa di superiorità, né garantisce posti di rilievo nell’ordine delle cose di Dio.
Qual è dunque la relazione fra Gesù e Abramo, padre della fede? In che rapporto sta il discepolo con la storia del popolo eletto, quindi con la religione dei patriarchi?
I primi cristiani sperimentavano che dalla fedeltà alla Parola del Signore nasceva una Libertà insolita e preziosa; un aprirsi a Dio che nessun credo conosceva.
La relazione di Fede introduce in un ‘di più’ qualificato e reale della vita - conforme anche a inesperti e principianti - estraneo a qualsiasi cerchia di scelti e provetti.
Allora, cosa significa essere figli di Abramo? C’è chi immagina di avere il “documento” a posto, ma non capisce che una identità fissa è trappola della vitalità.
Gli intimi di Cristo introducono nella storia della salvezza un criterio di prostituzione teologica capovolto [cf. v.41: «fornicazione»], fondato sulla ricchezza divina. Un altro genere di Alleanza.
Il seguace di Gesù comprende che la realtà ha molti volti, ed egli stesso ne ha: è chiamato a integrarli, per una completezza sciolta.
Pur stando entrambi ‘in casa’, il «figlio» è un consanguineo - non rimane servo al pari dello schiavo (della discendenza).
Il Dio del popolo eletto dice ad Abramo: «Va’!». È un ordine.
Il Figlio ci propone: «Vieni!». È una virtù di Famiglia che garantisce il superamento delle difficoltà e la crescita armoniosa.
Non basta essere ferrati nei modi di fare. Bisogna aprirsi a una nuova esperienza.
È l’adesione di vita che convince a permanere nella dimora del Padre - non l’infiammarsi in circostanze particolari.
Tale consuetudine attenua gli spaventi e ci fa divenire Uno con la Verità-Fedeltà di Dio: partiamo da tale Nucleo fondante.
Essere nel Figlio scioglie dalle opinioni esterne, da una coltre di maniere (vv.33.37ss) non rielaborate, né assimilate e fatte proprie; tipiche di sottoposti, cui manca un’esperienza profonda.
Lo schiavo del cliché vive sotto condanna, perché troppo chiuso nei perimetri - accasato, ma fuori Casa: quindi in una realtà che ristagna, o avanza accentuando e sottolineando limiti.
Il figlio invece conquista spazi d’inedito, si emancipa dall’egoismo che annienta la comunione, dall’amor proprio che rifiuta l’ascolto, dall’omologazione che cancella l’unicità, dal conformismo che fa impallidire l’eccezionalità, dall’invidia che separa e blocca lo scambio dei doni, dalla competizione anche spirituale che ci droga, dall’accidia che sconforta e paralizza.
Il Dio delle religioni antiche è un mandante, figura cardine di sottomissione e domesticazione che snerva.
Il Padre è principio della Libertà che procede controcorrente, senza timore di mescolanze ed eterogeneità (vv.41.43).
Egli consente ai figli - persino ibridi - di riscoprire le radici della linfa sacra che li animano, e incontrare i caratteri irripetibili che si celano nel loro grande Desiderio.
[Mercoledì 5.a sett. Quaresima, 9 aprile 2025]
(Gv 8,31-42)
Secondo l’opinione di molti giudei, l'eredità ricevuta era assai più preziosa e rassicurante di qualsiasi altro insegnamento pur dignitoso, che chiunque potesse impartire.
Ma i fedeli in Cristo si rendono conto che nell’orizzonte di una vita da salvati la discendenza non è premessa di superiorità, né garantisce posti di rilievo nell’ordine delle cose di Dio.
La religione antica non solo non dona accessi automatici privilegiati, ma è incompleta e carente. Essa toglie la libertà che pur promette di elargire ai credenti in modo sovrabbondante.
[La relazione armonica col Cielo, con se stessi e le vicende, non avviene per lealtà a princìpi culturali o di autodominio - che possano farsi garanti di una verità totale].
Qual è dunque la relazione fra Gesù e Abramo, padre della fede? In che rapporto sta il discepolo con la storia del popolo eletto, quindi con la religione dei patriarchi?
I primi cristiani sperimentavano che dalla fedeltà alla Parola del Signore nasceva un’autonomia insolita e preziosa; un aprirsi a Dio che nessun credo che pretendesse di ritagliarsi l’indipendenza, già conosceva.
La relazione di Fede introduce in un di più qualificato, personalmente carico e reale - in sé conforme anche a inesperti e principianti: ancora estraneo a qualsiasi cerchia di scelti e provetti.
Allora, cosa significa essere figli di Abramo? C’è chi immagina di avere il ‘documento’ a posto, ma non capisce che un’identità fissa è trappola della vitalità. Essa rigetta il disegno del Padre.
Gli intimi di Cristo introducono nella storia della salvezza un criterio di “prostituzione teologica” capovolto [cf. v.41: «fornicazione»] fondato sulla ricchezza divina. Un altro genere di Alleanza.
Il seguace di Gesù comprende che la realtà ha molti volti, ed egli stesso ne ha: è chiamato a integrarli, per una completezza sciolta da vincoli che fanno ristagnare nell’unilateralità.
Pur stando entrambi in casa, il «figlio» è un consanguineo - non rimane servo al pari dello schiavo (della discendenza).
Il Dio del popolo eletto dice ad Abramo: «Va’!». È un ordine.
Il Figlio ci propone: «Vieni!». È un palpito di comunione, che varca lo steccato e dispiega l’io, rigenerandolo nel Noi incessante.
È una virtù di Famiglia che garantisce il superamento delle difficoltà, la crescita armoniosa, e l’amicizia feconda coi problemi - nonché le aggressioni - che sembrano disperderci.
Anche sotto l’azione degli sconvolgimenti epocali di culture e credenze consolidate, il famigliare di Dio può lasciarsi andare, evitando di fare il fenomeno che irrigidisce.
Per una crescita armoniosa, mai basta essere ferrati nelle tradizioni e nei modi di fare - anche ‘contemporanei’ e approvati.
Bisogna aprirsi a una nuova esperienza, uscire dall’eccesso di controlli, di moda e di cerchia. Chi si coglie liberato gratuitamente, poggia su un’altra piattaforma dell’essere.
È l’adesione di vita che convince a permanere nella dimora del Padre, e lì depositare tutto - non l’infiammarsi adultoide in circostanze particolari, o addirittura di contrapposizione.
Pur esponendosi (da testimoni e profeti), tale consuetudine attenua gli spaventi. Ci fa divenire Uno con la Verità-Fedeltà di Dio.
E partiamo da tale nucleo fondante - nel quale ritroviamo la nostra presenza, le capacità, gli autentici primordi. Che non sono quelli artificiosi dei “padri”, o glamour, ma nostri autenticamente, e del Padre.
Tale lato di focolare davvero antico dove impariamo il silenzio, il motivo, nonché l’abbraccio della vita completa - aiuta a rompere gli schemi dell’esistenza in tutto controllata dalla cappa dei luoghi comuni attorno.
Essere nel Figlio scioglie dalle opinioni esterne, da una coltre di maniere ‘opportune’, e dal fagotto delle “discendenze” (vv.33.37ss).
Tara non rielaborata, né assimilata e fatta propria; tipica di sottoposti, cui manca un’esperienza profonda.
I discepoli non sono dei plagiati né degli indistinti.
Anche coloro che si colgono caratterizzati da un bagaglio promiscuo sono in realtà ispirati. In tal guisa diventano limpidi, poco inclini alle seduzioni e al compromesso.
Emancipati da costrizioni martellanti, essi colgono le differenze ed escono dai confini.
Lo schiavo della devozione usuale e dei cliché vive sotto condanna, perché troppo chiuso nei perimetri.
Sembra accasato, ma così fuori Casa: quindi in una realtà che ristagna, o avanza in modo epidermico, moralistico, (di fatto) confusionario. Accentuando e sottolineando limiti.
Il figlio invece conquista spazi d’inedito; si emancipa dall’egoismo che annienta la comunione, dall’amor proprio che rifiuta l’ascolto, dall’omologazione che cancella l’unicità, dal conformismo che fa impallidire l’eccezionalità, dall’invidia che separa e blocca lo scambio dei doni, dalla competizione anche spirituale che ci droga, dall’accidia che sconforta e paralizza.
Il Dio delle religioni antiche è un mandante, figura cardine di sottomissione e domesticazione che snerva.
Il Padre è principio della Libertà che procede controcorrente, senza timore di mescolanze ed eterogeneità (vv.41.43).
Egli consente ai figli - persino ibridi - di riscoprire le radici della linfa sacra che li animano, e incontrare i caratteri irripetibili che si celano nel loro grande Desiderio.
«Se voi rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli e conoscerete la verità e la verità vi libererà» (Gv 8,31).
Approfondimento: Spirito della Verità
Soluzioni soddisfacenti o Spirito della Verità
(Gv 15,26-16,4a)
La Fede nel Maestro è già vita eterna, o meglio Vita dell’Eterno (in atto qui e ora).
Egli stesso è Pane dell’esistere autentico e indistruttibile, sebbene ancora terreno.
Insomma, la vita intima di Dio ci raggiunge nel nostro tempo.
Il primo passo è una Fede che dona una Visione; irruzione dello Spirito che fa rinascere dall’alto, così anima un’esistenza differente - non vuota.
Il segno di tale adesione è credere Gesù come Figlio: uomo che manifesta la condizione divina.
Cristo è Pane della vita anche perché la sua Parola è creatrice, e il cammino di sequela in Lui ci trasmette le qualità della Vita indistruttibile.
L’effusione dello Spirito suscita in noi il medesimo Cuore pulsante dell’Eterno, che sperimentiamo nelle morti e risurrezioni del quotidiano e nella lunga trafila della Vocazione (ribadita di sentiero in sentiero).
Persino nella persecuzione, chi vede il Figlio ha in sé la Vita dell’Eterno - che rigenera e dispone sempre nuove nascite, altre premesse e interrogativi, differenti percorsi, in forma ininterrotta e crescente.
La passione per l’Amico ci unisce a Lui, Pane: ossia Rivelatore della Verità che sazia gli uomini in viaggio verso se stessi e il mondo, che talora cambiano pelle, opinioni, stili di vita.
Nella Visione, siamo abilitati ad appropriarci direttamente, così attirando e realizzando la Novità di Dio - anche in anticipo, sapientemente.
Per mezzo di Lui abbiamo parte… nell’amore del Padre verso il Figlio che si manifesta Signore personale, e nella vita dilatata in uscita della Chiesa autentica.
Il Dio “nascosto” del Primo Testamento, ostacolo che sembrava insormontabile, si porge ora nello specifico della Fede, senza bisogno di fuochi fatui a sostegno.
Perché il mondo di Dio (nell’anima) è diverso.
Non si entra nel Mistero coi propositi normali e le aspettative perfette, tantomeno di successo e riconoscimenti.
In questo caso (nel passo di Vangelo) entra in scena l'incomprensione degli apostoli.
In effetti, persino a noi spesso non sembra decifrabile il modo di manifestarsi di Gesù.
Anche i giudei [in realtà: i giudaizzanti di ritorno nelle comunità di fine I secolo] attendevano di coglierlo in modo palese, magari in un’occasione di vita pubblica.
Invece, perfino in periodo di “glorificazione” il Maestro sembra voler ricalcare l’inapparenza esteriore (umile) del suo ministero terreno.
Molti si attendevano fuochi d’artificio sensazionali in quel periodo che consideravano “finale”. Invece, nessun cedimento all’ideologia di potere o alla religione-spettacolo.
Dunque le cose non andavano secondo le attese: i dubbi non venivano dissipati, le ambiguità neppure; i titoli dell’antica gloria nazionalista e imperiale d’Israele non ricomparivano affatto, al contrario!
Ancora oggi, la scelta di Fede non è data in pasto agli apparati che ne garantirebbero visibilità: nessun paracadute, nessuno sconto.
Tutto allora sembra proceda come prima, nel sommario: faticare per vivere e comprare, viaggiare e non, ridere e piangere, ammalarsi e guarire, lavorare e fare festa… così via, spesso nel dolore (apparentemente insensato); forse senza svolte decisive.
Ma nelle medesime cose di sempre c’è una Luce differente, piantata su una nuova, immediata, relazione dell’umanità bisognosa con il Padre che ci rigenera.
Egli stimola nuove Nascite, per riconnettere desideri, bisogni profondi, percorsi esterni, e incrementare l’intensità di vita.
Ed è nella mutua conoscenza delle radici e dei solchi della realtà che sussiste in primis questo circolo d’amore tra Dio e i suoi figli.
Tutto ciò che ancora non è stato inteso verrà richiamato dall’azione dello Spirito. Unico impeto affidabile, che non punta su cose vane.
Una relazione tra uomo e Cielo in noi, non in alto.
Amicizia che non contempla anzitutto la rassegnazione, gli sforzi, le umiliazioni… bensì rielaborata nell’approfondimento.
Qui entra in gioco la vera portata dei nostri cuori - tanto limitati, eppure dotati di una misteriosa impronta - per la vita completa, ma personale, di carattere.
Onde evitare intimidazioni, emarginazioni e seccature, alcuni membri di Chiesa propugnavano una sorta di alleanza fra Gesù e Impero, annunciando un Cristo talmente vago e svincolato da non graffiare nessuno.
Alcuni ambiziosi, facinorosi della “vita nello spirito”, ritenevano che era ormai giunta l’ora di scrollarsi di dosso la vicenda terrena del figlio del falegname - considerata debole in sé, a breve termine, fuori luogo e tempo; già spenta.
Gv intende riequilibrare il tentativo d’Annuncio, diluito nei compromessi.
L’evangelista sottolinea che il Risorto è Cifra e Motore che porta l’anima e ci genera nell’oggi.
È il medesimo Figlio di Dio che ha sostenuto una dura attività di denuncia e diverse battaglie con le autorità.
Agli opportunisti del suo tempo, il Maestro aveva osato toccare posizioni, vanità e il sacchetto del commercio.
Perciò perseguitato, processato, vilipeso, condannato come sovversivo, e maledetto da Dio.
Insomma, lo Spirito Santo non va dietro le farfalle.
Azione dello Spirito (che interiorizza e attualizza) e memoria storica di Gesù devono essere sempre coniugate.
Solo in tale prospettiva franca è possibile cogliere in ogni tempo e circostanza la Verità dell’Eterno e la Verità dell’uomo.
In aggiunta: il Padre è Creatore di ciascuna delle nostre inclinazioni profonde, cui appone una firma indelebile.
Essa si manifesta in un istinto innato, che vuole germinare, trovare spazio, esprimersi.
Abbiamo radicata nell’intimo una Vocazione e volti (plurali) unici, invincibili, ciascuno.
Non possiamo rinnegare noi stessi, le nostre Radici - anche laddove una testimonianza a viso aperto fosse poco appetibile.
La Verità su ciascuno di noi è conseguente.
Per Grazia, siamo depositari d’una dignità sbalorditiva, che anche nell’errore (o ciò che si considera tale) impartisce desideri eccezionali.
Verità che ripristina ancora sogni: una speranza inedita, la quale attiva passioni coinvolgenti.
Invano avremmo quiete e felicità cercando il concordismo culturale e sociale, o recitando ruoli, personaggi, mansioni che non ci appartengono - sebbene acquietanti.
Diventeremmo esterni.
Verità: Fedeltà di Dio in Cristo. E franchezza in ogni scelta, col nostro carattere in relazione e situazione.
Il resto è calcolo e disturbo profondo, che ci lascerà dissociati e farà ammalare dentro.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Prendi posizione e affronti le conseguenze? Quando è in gioco la tua caratura vocazionale, fronteggi e ci metti la faccia o ti mimetizzi?
Fai il vago, valuti il contraccambio e cerchi tributi o protezione di ammanicati e sinagoghe soddisfacenti? Oppure desideri unire la tua vita a Cristo?
Libertà Responsabilità
«Abbà, Padre!»" (Rm 8,15). Che cosa significa ciò? San Paolo vi presuppone il sistema sociale del mondo antico, nel quale esistevano gli schiavi, ai quali non apparteneva nulla e che perciò non potevano essere interessati ad un retto svolgimento delle cose. Corrispettivamente c'erano i figli i quali erano anche gli eredi e che per questo si preoccupavano della conservazione e della buona amministrazione della loro proprietà o della conservazione dello Stato. Poiché erano liberi, avevano anche una responsabilità. Prescindendo dal sottofondo sociologico di quel tempo, vale sempre il principio: libertà e responsabilità vanno insieme. La vera libertà si dimostra nella responsabilità, in un modo di agire che assume su di sé la corresponsabilità per il mondo, per se stessi e per gli altri. Libero è il figlio, cui appartiene la cosa e che perciò non permette che sia distrutta. Tutte le responsabilità mondane, delle quali abbiamo parlato, sono però responsabilità parziali, per un ambito determinato, uno Stato determinato, ecc. Lo Spirito Santo invece ci rende figli e figlie di Dio. Egli ci coinvolge nella stessa responsabilità di Dio per il suo mondo, per l'umanità intera. Ci insegna a guardare il mondo, l'altro e noi stessi con gli occhi di Dio. Noi facciamo il bene non come schiavi che non sono liberi di fare diversamente, ma lo facciamo perché portiamo personalmente la responsabilità per il mondo; perché amiamo la verità e il bene, perché amiamo Dio stesso e quindi anche le sue creature. È questa la libertà vera, alla quale lo Spirito Santo vuole condurci. I Movimenti ecclesiali vogliono e devono essere scuole di libertà, di questa libertà vera. Lì vogliamo imparare questa vera libertà, non quella da schiavi che mira a tagliare per se stessa una fetta della torta di tutti, anche se poi questa manca all'altro. Noi desideriamo la libertà vera e grande, quella degli eredi, la libertà dei figli di Dio. In questo mondo, così pieno di libertà fittizie che distruggono l'ambiente e l'uomo, vogliamo, con la forza dello Spirito Santo, imparare insieme la libertà vera; costruire scuole di libertà; dimostrare agli altri con la vita che siamo liberi e quanto è bello essere veramente liberi nella vera libertà dei figli di Dio.
[Papa Benedetto, Veglia 3 giugno 2006]
«La verità vi farà liberi» (Gv 8,32)
3. La continua contaminazione con un linguaggio ingannevole finisce infatti per offuscare l’interiorità della persona. Dostoevskij scrisse qualcosa di notevole in tal senso: «Chi mente a sé stesso e ascolta le proprie menzogne arriva al punto di non poter più distinguere la verità, né dentro di sé, né intorno a sé, e così comincia a non avere più stima né di sé stesso, né degli altri. Poi, siccome non ha più stima di nessuno, cessa anche di amare, e allora, in mancanza di amore, per sentirsi occupato e per distrarsi si abbandona alle passioni e ai piaceri volgari, e per colpa dei suoi vizi diventa come una bestia; e tutto questo deriva dal continuo mentire, agli altri e a sé stesso» (I fratelli Karamazov, II, 2).
Come dunque difenderci? Il più radicale antidoto al virus della falsità è lasciarsi purificare dalla verità. Nella visione cristiana la verità non è solo una realtà concettuale, che riguarda il giudizio sulle cose, definendole vere o false. La verità non è soltanto il portare alla luce cose oscure, “svelare la realtà”, come l’antico termine greco che la designa, aletheia (da a-lethès, “non nascosto”), porta a pensare. La verità ha a che fare con la vita intera. Nella Bibbia, porta con sé i significati di sostegno, solidità, fiducia, come dà a intendere la radice ‘aman, dalla quale proviene anche l’Amen liturgico. La verità è ciò su cui ci si può appoggiare per non cadere. In questo senso relazionale, l’unico veramente affidabile e degno di fiducia, sul quale si può contare, ossia “vero”, è il Dio vivente. Ecco l’affermazione di Gesù: «Io sono la verità» (Gv 14,6). L’uomo, allora, scopre e riscopre la verità quando la sperimenta in sé stesso come fedeltà e affidabilità di chi lo ama. Solo questo libera l’uomo: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32).
Liberazione dalla falsità e ricerca della relazione: ecco i due ingredienti che non possono mancare perché le nostre parole e i nostri gesti siano veri, autentici, affidabili. Per discernere la verità occorre vagliare ciò che asseconda la comunione e promuove il bene e ciò che, al contrario, tende a isolare, dividere e contrapporre. La verità, dunque, non si guadagna veramente quando è imposta come qualcosa di estrinseco e impersonale; sgorga invece da relazioni libere tra le persone, nell’ascolto reciproco. Inoltre, non si smette mai di ricercare la verità, perché qualcosa di falso può sempre insinuarsi, anche nel dire cose vere. Un’argomentazione impeccabile può infatti poggiare su fatti innegabili, ma se è utilizzata per ferire l’altro e per screditarlo agli occhi degli altri, per quanto giusta appaia, non è abitata dalla verità. Dai frutti possiamo distinguere la verità degli enunciati: se suscitano polemica, fomentano divisioni, infondono rassegnazione o se, invece, conducono ad una riflessione consapevole e matura, al dialogo costruttivo, a un’operosità proficua.
[Papa Francesco, Messaggio 52a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali]
«Abbà, Padre!»" (Rm 8,15). Che cosa significa ciò? San Paolo vi presuppone il sistema sociale del mondo antico, nel quale esistevano gli schiavi, ai quali non apparteneva nulla e che perciò non potevano essere interessati ad un retto svolgimento delle cose. Corrispettivamente c'erano i figli i quali erano anche gli eredi e che per questo si preoccupavano della conservazione e della buona amministrazione della loro proprietà o della conservazione dello Stato. Poiché erano liberi, avevano anche una responsabilità. Prescindendo dal sottofondo sociologico di quel tempo, vale sempre il principio: libertà e responsabilità vanno insieme. La vera libertà si dimostra nella responsabilità, in un modo di agire che assume su di sé la corresponsabilità per il mondo, per se stessi e per gli altri. Libero è il figlio, cui appartiene la cosa e che perciò non permette che sia distrutta. Tutte le responsabilità mondane, delle quali abbiamo parlato, sono però responsabilità parziali, per un ambito determinato, uno Stato determinato, ecc. Lo Spirito Santo invece ci rende figli e figlie di Dio. Egli ci coinvolge nella stessa responsabilità di Dio per il suo mondo, per l'umanità intera. Ci insegna a guardare il mondo, l'altro e noi stessi con gli occhi di Dio. Noi facciamo il bene non come schiavi che non sono liberi di fare diversamente, ma lo facciamo perché portiamo personalmente la responsabilità per il mondo; perché amiamo la verità e il bene, perché amiamo Dio stesso e quindi anche le sue creature. È questa la libertà vera, alla quale lo Spirito Santo vuole condurci. I Movimenti ecclesiali vogliono e devono essere scuole di libertà, di questa libertà vera. Lì vogliamo imparare questa vera libertà, non quella da schiavi che mira a tagliare per se stessa una fetta della torta di tutti, anche se poi questa manca all'altro. Noi desideriamo la libertà vera e grande, quella degli eredi, la libertà dei figli di Dio. In questo mondo, così pieno di libertà fittizie che distruggono l'ambiente e l'uomo, vogliamo, con la forza dello Spirito Santo, imparare insieme la libertà vera; costruire scuole di libertà; dimostrare agli altri con la vita che siamo liberi e quanto è bello essere veramente liberi nella vera libertà dei figli di Dio.
[Papa Benedetto, Veglia 3 giugno 2006]
Just as he did during his earthly existence, so today the risen Jesus walks along the streets of our life and sees us immersed in our activities, with all our desires and our needs. In the midst of our everyday circumstances he continues to speak to us; he calls us to live our life with him, for only he is capable of satisfying our thirst for hope (Pope Benedict)
Come avvenne nel corso della sua esistenza terrena, anche oggi Gesù, il Risorto, passa lungo le strade della nostra vita, e ci vede immersi nelle nostre attività, con i nostri desideri e i nostri bisogni. Proprio nel quotidiano continua a rivolgerci la sua parola; ci chiama a realizzare la nostra vita con Lui, il solo capace di appagare la nostra sete di speranza (Papa Benedetto)
Truth involves our whole life. In the Bible, it carries with it the sense of support, solidity, and trust, as implied by the root 'aman, the source of our liturgical expression Amen. Truth is something you can lean on, so as not to fall. In this relational sense, the only truly reliable and trustworthy One – the One on whom we can count – is the living God. Hence, Jesus can say: "I am the truth" (Jn 14:6). We discover and rediscover the truth when we experience it within ourselves in the loyalty and trustworthiness of the One who loves us. This alone can liberate us: "The truth will set you free" (Jn 8:32) [Pope Francis]
La verità ha a che fare con la vita intera. Nella Bibbia, porta con sé i significati di sostegno, solidità, fiducia, come dà a intendere la radice ‘aman, dalla quale proviene anche l’Amen liturgico. La verità è ciò su cui ci si può appoggiare per non cadere. In questo senso relazionale, l’unico veramente affidabile e degno di fiducia, sul quale si può contare, ossia “vero”, è il Dio vivente. Ecco l’affermazione di Gesù: «Io sono la verità» (Gv 14,6). L’uomo, allora, scopre e riscopre la verità quando la sperimenta in sé stesso come fedeltà e affidabilità di chi lo ama. Solo questo libera l’uomo: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32) [Papa Francesco]
God approached man in love, even to the total gift, crossing the threshold of our ultimate solitude, throwing himself into the abyss of our extreme abandonment, going beyond the door of death (Pope Benedict)
Dio si è avvicinato all’uomo nell’amore, fino al dono totale, a varcare la soglia della nostra ultima solitudine, calandosi nell’abisso del nostro estremo abbandono, oltrepassando la porta della morte (Papa Benedetto)
And our passage too, which we received sacramentally in Baptism: for this reason Baptism was called, in the first centuries, the Illumination (cf. Saint Justin, Apology I, 61, 12), because it gave you the light, it “let it enter” you. For this reason, in the ceremony of Baptism we give a lit blessed candle, a lit candle to the mother and father, because the little boy or the little girl is enlightened (Pope Francis)
È anche il nostro passaggio, che sacramentalmente abbiamo ricevuto nel Battesimo: per questo il Battesimo si chiamava, nei primi secoli, la Illuminazione (cfr San Giustino, Apologia I, 61, 12), perché ti dava la luce, ti “faceva entrare”. Per questo nella cerimonia del Battesimo diamo un cero acceso, una candela accesa al papà e alla mamma, perché il bambino, la bambina è illuminato, è illuminata (Papa Francesco)
Jesus seems to say to the accusers: Is not this woman, for all her sin, above all a confirmation of your own transgressions, of your "male" injustice, your misdeeds? (John Paul II, Mulieris Dignitatem n.14)
Gesù sembra dire agli accusatori: questa donna con tutto il suo peccato non è forse anche, e prima di tutto, una conferma delle vostre trasgressioni, della vostra ingiustizia «maschile», dei vostri abusi?
don Giuseppe Nespeca
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