Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
1. La nostra meditazione sul Salmo 48 sarà scandita in due tappe, proprio come fa la Liturgia dei Vespri, che ce lo propone in due tempi. Ne commenteremo ora in modo essenziale la prima parte, nella quale la riflessione prende lo spunto da una situazione di disagio, come nel Salmo 72. Il giusto deve affrontare «giorni tristi», perché lo «circonda la malizia dei perversi», i quali «si vantano della loro grande ricchezza» (cfr Sal 48,6-7).
La conclusione a cui il giusto arriva è formulata come una sorta di proverbio, che si ritroverà anche nella finale dell’intero Salmo. Essa sintetizza in modo limpido il messaggio dominante della composizione poetica: «L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono» (v. 13). In altri termini, la «grande ricchezza» non è un vantaggio, anzi! Meglio è essere povero e unito a Dio.
2. Nel proverbio sembra echeggiare la voce austera di un antico sapiente biblico, l’Ecclesiaste o Qoelet, quando descrive il destino apparentemente uguale di ogni creatura vivente, quello della morte, che rende del tutto vano l’aggrapparsi frenetico alle cose terrene: «Come è uscito nudo dal grembo di sua madre, così se ne andrà di nuovo come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portar con sé… Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli... Tutti sono diretti verso la medesima dimora» (Qo 5,14; 3,19.20).
3. Un’ottusità profonda s’impadronisce dell’uomo quando s’illude di evitare la morte affannandosi ad accumulare beni materiali: non per nulla il Salmista parla di un «non comprendere» di impronta quasi bestiale.
Il tema sarà, comunque, esplorato da tutte le culture e da tutte le spiritualità e sarà espresso nella sua sostanza in modo definitivo da Gesù che dichiara: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc 12,15). Egli narra poi la famosa parabola del ricco insipiente, che accumula beni a dismisura senza immaginare l’agguato che la morte gli sta tendendo (cfr Lc 12,16-21).
4. La prima parte del Salmo è tutta centrata proprio su questa illusione che conquista il cuore del ricco. Costui è convinto di riuscire a «comprarsi» anche la morte, tentando quasi di corromperla, un po’ come ha fatto per avere tutte le altre cose, ossia il successo, il trionfo sugli altri in ambito sociale e politico, la prevaricazione impunita, la sazietà, le comodità, i piaceri.
Ma il Salmista non esita a bollare come stolta questa pretesa. Egli fa ricorso a un vocabolo che ha un valore anche finanziario, «riscatto»: «Nessuno può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo. Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba» (Sal 48,8-10).
5. Il ricco, aggrappato alle sue immense fortune, è convinto di riuscire a dominare anche la morte, così come ha spadroneggiato su tutto e su tutti col denaro. Ma per quanto ingente sia la somma che è pronto ad offrire, il suo destino ultimo sarà inesorabile. Egli, infatti, come tutti gli uomini e le donne, ricchi o poveri, sapienti o stolti, dovrà avviarsi alla tomba, così come è accaduto anche ai potenti e dovrà lasciare sulla terra quell’oro tanto amato, quei beni materiali tanto idolatrati (cfr vv. 11-12).
Gesù insinuerà ai suoi ascoltatori questa domanda inquietante: «Che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?» (Mt 16,26). Nessun cambio è possibile perché la vita è dono di Dio, che «ha in mano l’anima di ogni vivente e il soffio d’ogni carne umana» (Gb 12,10).
6. Tra i Padri che hanno commentato il Salmo 48 merita un’attenzione particolare sant’Ambrogio, che ne allarga il senso secondo una visione più ampia, proprio a partire dall’invito iniziale del Salmista: «Ascoltate, popoli tutti, porgete l’orecchio, abitanti del mondo».
L’antico Vescovo di Milano commenta: «Riconosciamo qui, proprio all’inizio, la voce del Signore salvatore che chiama i popoli alla Chiesa, perché rinuncino al peccato, diventino seguaci della verità e riconoscano il vantaggio della fede». Del resto, «tutti i cuori delle varie generazioni umane erano inquinati dal veleno del serpente e la coscienza umana, schiava del peccato, non era in grado di staccarsene». Per questo il Signore «di sua iniziativa promette il perdono nella generosità della sua misericordia, perché il colpevole non abbia più paura, ma, in piena consapevolezza, si rallegri di dover offrire ora i suoi uffici di servo al Signore buono, che ha saputo perdonare i peccati, premiare le virtù» (Commento a dodici Salmi, n. 1: SAEMO, VIII, Milano-Roma 1980, p. 253).
7. In queste parole del Salmo si sente riecheggiare l’invito evangelico: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi» (Mt 11,28). Ambrogio continua: «Come uno che verrà a visitare gli ammalati, come un medico che verrà a curare le nostre piaghe dolorose, così egli ci prospetta la cura, perché gli uomini lo sentano bene e tutti corrano con fiduciosa sollecitudine a ricevere il rimedio della guarigione… Chiama tutti i popoli alla sorgente della sapienza e della conoscenza, promette a tutti la redenzione, perché nessuno viva nell’angoscia, nessuno viva nella disperazione» (n. 2: ibid., pp. 253.255).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 20 ottobre 2004]
Il Vangelo di oggi (cfr Lc 12, 13-21) si apre con la scena di un tale che si alza tra la folla e chiede a Gesù di dirimere una questione giuridica circa l’eredità di famiglia. Ma Egli nella risposta non affronta la questione, ed esorta a rimanere lontano dalla cupidigia, cioè dall’avidità di possedere. Per distogliere i suoi ascoltatori da questa ricerca affannosa della ricchezza, Gesù racconta la parabola del ricco stolto, che crede di essere felice perché ha avuto la fortuna di una annata eccezionale e si sente sicuro per i beni accumulati. Sarà bello che oggi voi la leggiate; è nel capitolo dodicesimo di San Luca, versetto 13. È una bella parabola che ci insegna tanto. Il racconto entra nel vivo quando emerge la contrapposizione tra quanto il ricco progetta per se stesso e quanto invece Dio gli prospetta.
Il ricco mette davanti alla sua anima, cioè a se stesso, tre considerazioni: i molti beni ammassati, i molti anni che questi beni sembrano assicurargli e terzo, la tranquillità e il benessere sfrenato (cfr v.19). Ma la parola che Dio gli rivolge annulla questi suoi progetti. Invece dei «molti anni», Dio indica l’immediatezza di «questa notte; stanotte morirai»; al posto del «godimento della vita» Gli presenta il «rendere la vita; renderai la vita a Dio», con il conseguente giudizio. Per quanto riguarda la realtà dei molti beni accumulati su cui il ricco doveva fondare tutto, essa viene ricoperta dal sarcasmo della domanda: «E quello che ha preparato, di chi sarà?» (v.20). Pensiamo alle lotte per le eredità; tante lotte di famiglia. E tanta gente, tutti sappiamo qualche storia, che all’ora della morte incomincia a venire: i nipoti, i nipotini vengono a vedere: “Ma cosa tocca a me?”, e portano via tutto. È in questa contrapposizione che si giustifica l’appellativo di «stolto» - perché pensa a cose che lui crede essere concrete ma sono una fantasia - con cui Dio si rivolge a quest’uomo. Egli è stolto perché nella prassi ha rinnegato Dio, non ha fatto i conti con Lui.
La conclusione della parabola, formulata dall’evangelista, è di singolare efficacia: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (v.21). È un ammonimento che rivela l’orizzonte verso cui tutti noi siamo chiamati a guardare. I beni materiali sono necessari – sono beni! -, ma sono un mezzo per vivere onestamente e nella condivisone con i più bisognosi. Gesù oggi ci invita a considerare che le ricchezze possono incatenare il cuore e distoglierlo dal vero tesoro che è nei cieli. Ce lo ricorda anche San Paolo nell’odierna seconda lettura. Dice così: «Cercate le cose di lassù. … rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2).
Questo – si capisce - non vuol dire estraniarsi dalla realtà, ma cercare le cose che hanno un vero valore: la giustizia, la solidarietà, l’accoglienza, la fraternità, la pace, tutte cose che costituiscono la vera dignità dell’uomo. Si tratta di tendere ad una vita realizzata non secondo lo stile mondano, bensì secondo lo stile evangelico: amare Dio con tutto il nostro essere, e amare il prossimo come lo ha amato Gesù, cioè nel servizio e nel dono di sé. La cupidigia dei beni, la voglia di avere beni, non sazia il cuore, anzi provoca di più fame! La cupidigia è come quelle buone caramelle: tu ne prendi una e dice: “Ah! Che buona”, e poi prendi l’altra; e una tira l’altra. Così è la cupidigia: non si sazia mai. State attenti! L’amore così inteso e vissuto è la fonte della vera felicità, mentre la ricerca smisurata dei beni materiali e delle ricchezze è spesso sorgente di inquietudine, di avversità, di prevaricazioni, di guerre. Tante guerre incominciano per la cupidigia.
La Vergine Maria ci aiuti a non lasciarci affascinare dalle sicurezze che passano, ma ad essere ogni giorno credibili testimoni dei valori eterni del Vangelo.
[Papa Francesco, Angelus 4 agosto 2019]
Scelta del Calice
(Mc 10,35-45)
Mc scrive il suo Vangelo nell’anno dei quattro Cesari (68-69). In semplicità, ne riflette le emergenze o le tensioni anche comunitarie.
Malgrado la persecuzione di Nerone sia passata da pochi anni, immediatamente i credenti tornano a sgomitare fra loro per essere “grandi” e al primo posto.
Dentro la comunità romana riparte la gara del primeggiare. Ecco lo spunto del richiamo evangelico.
Farsi venerare, fame di protagonismo, meglio contare che essere contati? Il posto d’onore è l’ultimo.
L’alternativa è: una religione che produce e ribadisce distanze, o la vita di umiltà-coesistenza segnata da simpatia verso i meno titolati.
In tal guisa, la persona di Fede si riconosce e caratterizza grazie alla compiutezza umana, che l’assomiglia a Dio.
Nei Vangeli il «Figlio dell’uomo» (vv.33.45) è icona di santità trasmissibile, Santuario vivente da cui irradia la divina Compassione.
‘Figlio dell’uomo’ è colui che avendo raggiunto il massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina e la irradia in modo diffuso - non selettivo [come ci si aspettava].
“Figlio riuscito”: la Persona dal passo definitivo, che in noi aspira alla dilatazione conviviale, a una caratura indistruttibile dentro ciascuno che accosta - e incontra contrassegni divini.
È crescita e umanizzazione del popolo: il frutto tranquillo, trasparente e completo del progetto divino sull’umanità.
Nell’icona del «Figlio dell’uomo» gli evangelisti desiderano far trapelare e innescare il trionfo dell’umano sul disumano; la progressiva scomparsa di tutto ciò che blocca la comunicazione di esistenza piena.
Ecco i due orientamenti di vita contrapposti.
Da un lato la consuetudine del prevalere-asservire, perpetuando il mondo antico; quindi pretendere, farsi strada, esigere con linguaggio duro; così via.
Diverso è sostenere le persone a dilatare vita e stimarsi, scoprendone la Chiamata, ciò che gli è conforme e bello; incoraggiando a maturare il Sogno che coltivano.
Nella proposta di Gesù, la Gloria celeste s’identifica con quant’è fonte di realizzazione per tutti, non solo per i ben introdotti [sordi d’ambizione].
Perché se i castelli di cartapesta esterni sono estasianti e ancora ci fanno rimanere a bocca aperta, nella storia i presuntuosi divengono d’improvviso pula al vento; non hanno peso, non durano.
Ma la malattia dei posti d’onore non guarisce.
La febbre del farsi riverire e sembrare primi della classe non si placa, anzi diventa una vera pazzia; e la testa ancora non cambia.
Sempre in lotta per la scalata, la fila di riguardo - e conseguire spazi. Misura di un modo di concepire.
«Figlio dell’uomo» non è dunque un titolo “religioso” o selettivo, ma una possibilità per tutti coloro che si lasciano attrarre nella umanità del Cristo.
Egli non è l’archetipo di un’autorità piramidale, attentissima a equilibri e punti strategici.
In tal guisa, i detentori di ruoli di prestigio sono solo «ritenuti» (v.42) capi.
Tali dinamiche non appartengono alla comunità dei Figli - segnata dal condividere la ‘scelta del Calice’ (v.39): l’anti-ambizione.
Insomma, Cristo ribadisce che nemico autentico di Dio non è l’imperfezione, né il limite - o addirittura l’apparente rovina del proprio prestigio - bensì un demone tutto interno.
Controparte del Signore è il desiderio di salire sul tabellone della vita e farsi servire dagli altri, per ebbrezza di potere.
Nell’icona del «Figlio dell’uomo» gli evangelisti desiderano far trapelare e innescare il trionfo dell’umano sul disumano; la progressiva scomparsa di tutto ciò che blocca la comunicazione di esistenza piena.
Appunto. Il Signore disdegna il modello dei satrapi.
[29.a Domenica T.O. B (Mc 10,35-45) 20 ottobre 2024]
Il modello dei satrapi
(Mc 10,35-45)
In via non ufficiale, Pio VII ci provò a sollevare il triregno (stile neoclassico, inusuale) regalato da Napoleone, ma i suoi paggi quasi non riuscivano a tirarlo su... per il peso.
Figuriamoci sopportare in testa 8 chili e 200 grammi! Provò tuttavia anche a infilarselo, mentre ovviamente qualcuno lo sosteneva anche di lato (immagina se fosse caduto sulle pantofole rosse).
Ma risultava pure troppo stretto: impossibile ficcarci la testa!
Per dispetto, Bonaparte novello imperatore glielo aveva fatto confezionare in modo che nessun Papa potesse mai fregiarsene; e così fu, l’ironico pezzo da museo.
La formula d’imposizione era: «Ricevi la Tiara ornata di tre corone, e sappi che Tu sei Padre dei Principi e dei Re, Reggitore del mondo, Vicario in terra del Salvatore Nostro Gesù Cristo, cui è onore e gloria nei secoli dei secoli». Amen.
Mentre tra sinfonie e cori qualcuno attendeva proprio il momento della tiara per lagrimare un poco sugli antichi fasti, alla celebrazione della riapertura del Concilio - dopo l’incoronazione - Paolo VI depose definitivamente il triregno sull’altare papale.
Se lo tolse con soddisfazione, non perché fosse poco confortevole (aveva sul capo ben 4 chili e mezzo): in seguito fece anche altri gesti d’inattesa rinuncia con pretese a farsi ossequiare.
Dopo di lui nessun Papa ebbe il coraggio di adornarsene.
Occasione ghiotta: imperdibile per chi aveva vasta esperienza degli ambienti curiali e diplomatici.
Con in pugno le chiavi del Cielo, le briglie della terra e il comando del Purgatorio (le tre corone), il pontefice decise di far salire diverse vampe da sottoterra - per surriscaldare gli strapuntini di qualche carrierista da strascico, abituato a dirigere le anime stando sopra un qualsiasi purchessia tronetto.
Mc scrive il suo Vangelo nell’anno dei quattro Cesari (68-69).
Malgrado la persecuzione di Nerone sia passata da pochi anni, immediatamente i credenti tornano a sgomitare fra loro per essere “grandi” e al primo posto.
Dentro la comunità romana riparte la gara del primeggiare. Ecco lo spunto del richiamo evangelico.
Farsi venerare, fame di protagonismo, meglio contare che essere contati?
Il posto d’onore è l’ultimo.
L’alternativa è: una religione che produce e ribadisce distanze, o la vita di umiltà-comunione segnate da simpatia verso i meno titolati.
La persona di Fede si riconosce e caratterizza grazie alla compiutezza umana, che l’assomiglia a Dio.
Nei Vangeli il «Figlio dell’uomo» (vv. 33.45) è icona di santità trasmissibile, Santuario vivente da cui irradia la divina Compassione.
Figlio dell’uomo è colui che avendo raggiunto il massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina e la irradia in modo diffuso - non selettivo come ci si aspettava.
Figlio riuscito: la Persona dal passo definitivo, che in noi aspira alla dilatazione conviviale, a una caratura indistruttibile dentro ciascuno che accosta - e incontra contrassegni divini.
È crescita e umanizzazione del popolo: lo sviluppo tranquillo, trasparente e completo del progetto divino sull’umanità.
Figlio dell’uomo non è dunque un titolo religioso, riposto, cauto, controllato e riservato, ma un’occasione per tutti coloro che danno adesione alla proposta di vita del Signore, e la reinterpretano in modo creativo personale.
Essi superano i fermi e propri confini naturali facendo spazio al Dono; accogliendo dalla Grazia pienezza di essere, nei suoi nuovi irripetibili binari.
Sentendoci totalmente e immeritatamente amati, scopriamo altre sfaccettature... cambiamo il modo di stare con noi stessi, e possiamo crescere, realizzarci, fiorire, irradiare la completezza ricevuta - senza più chiusure.
Nei Vangeli il Figlio dell’uomo - lo sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato dai frequentatori dei luoghi di malaffare, ma dagli habitué dei recinti sacri.
Appunto. Il Signore disdegna il modello dei satrapi.
Ecco allora i due orientamenti di vita contrapposti.
Da un lato la consuetudine del prevalere-asservire, perpetuando il mondo antico; quindi pretendere, farsi strada, dominare, manipolare, agire con doppiezza, esigere con linguaggio duro (ma anche mellifluo - pur di ottenere per sé)...
Diversa traccia umanizzante è invece quella di sostenere le persone a dilatare la vita e stimarsi, scoprendo i propri stati profondi, la personale Chiamata - ciò che gli è conforme e bello - incoraggiando a maturare il Sogno che coltivano.
Nella proposta di Gesù la Gloria celeste s’identifica con quant’è fonte di realizzazione per tutti, non con un archetipo piramidale di ben introdotti (sordi d’ambizione).
Perché se i castelli di cartapesta esterni sono estasianti e ancora ci fanno rimanere a bocca aperta, nel volgere della storia i presuntuosi divengono d’improvviso pula al vento; non hanno peso, non durano.
È l’archetipo di autorità e comando piramidale, attentissima a equilibri e punti strategici.
Tali dinamiche non appartengono alla comunità dei Figli - segnata dal condividere la scelta del Calice (v.39): l’anti-ambizione.
Insomma, Gesù ribadisce che nemico autentico di Dio non è l’imperfezione, né il limite - o addirittura l’apparente rovina del proprio prestigio - bensì un demone tutto interno.
Controparte del Signore è il desiderio di salire sul tabellone della vita e farsi servire dagli altri, per l’ebbrezza del potere.
Su un capitello crociato conservato al museo di Nazaret è scolpito un Apostolo dalla posa oscillante e dall’andatura incerta che viene trascinato con decisione da una figura femminile incoronata: la Fede.
È la Fede a serrare la mano sul polso (dove pulsa la vita) del personaggio - impacciato ma dotato di aureola (dai tratti sembra decisamente Pietro) insidiato dai demoni dell’avere e del potere.
La malattia dei posti d’onore non guarisce. La febbre del farsi riverire e sembrare primi della classe non si placa, anzi diventa una vera pazzia; e la testa ancora non cambia.
Sempre in lotta per la scalata, la fila di riguardo - e conseguire spazi. Misura di un modo di concepire.
Ecco allora il Vescovo di Roma ancora costretto ad ammonire i suoi prìncipi:
«Questa gente gioca a essere Dio»! «La vita riuscita non dipende dal successo o da quello che pensano gli altri». «Oggi c’è una cultura dell’asservimento dell’altro» - e così via.
In tal guisa, i detentori di titoli di prestigio sono «ritenuti» (v.42) capi.
Nel passo parallelo, Lc aggiunge che questi governanti - anche in relazione alle chiese - per giunta pretendono di essere chiamati «benefattori» (titolo dei grandi sovrani ellenisti).
E purtroppo qua e là il malcostume continua.
È il tipo della sovranità concatenata, attentissima alle posizioni; che si esercita e “funziona” alla grande, ma non va.
Scimmiottare le strutture mondane segnate da logiche di privilegio, prevaricazione, plagio e asservimento è poco nobile e più che sospetto: altro che esempio o motore civile e morale della società!
Tali dinamiche non appartengono alla comunità dei Figli; sebbene ogni tanto vengano evocate, attuate da singoli e fazioni opprimendo i senza-voce (anche sottobanco) o almeno rimpiante da malcelati nostalgici.
Gli stessi che - non avendo perso il vizio di soddisfare se stessi ammantandosi di falso prestigio - continuano a rovinare il clima e allontanano le migliori energie.
Gli Apostoli erano già sicuri di aver preso il Maestro in ostaggio (v.35).
Quindi nell’ancora vano tentativo di suscitare le coscienze e dirozzarle, il Signore continua a rivolgersi agli uomini - come nel brano di Vangelo - con cordialità e dal basso, quale uno schiavo coi suoi padroni (v.36).
È Dio il lavoratore coatto a servizio del desiderio di vita dei sottoposti; di riflesso i suoi - se Lo manifestano autenticamente, Grande sul serio.
A coloro che non vivono un rapporto vitale con il Cristo ma pretendono di sequestrarlo, papa Francesco ha ribadito i tratti della «malattia di coloro che si sentono padroni. Si credono superiori o indispensabili e non a servizio. Malattia che deriva dalla patologia del potere, dal narcisismo, dal complesso degli eletti».
I “designati” immaginano spesso di aver già ingabbiato Gesù, quindi te li ritrovi sempre sopra e davanti, mai alla pari; figurati dietro: piuttosto, imbrattati di polvere imperiale che produce lacerazioni e scismi (v.41).
Altro che donarsi e condividere - ribadiamo - la scelta del Calice (l’anti-ambizione)!
Ecco l’elemento indicativo della differenza fra religione e Fede:
Nemico di Dio non è il peccato, bensì il potere. L’ebbrezza di venire incoronati di tiara, ossia di essere destinati a lasciarsi continuamente omaggiare, farsi notare e comandare ovunque... pure sotto terra.
Gesù si presenta come servo, offrendosi quale modello da imitare e da seguire. Dallo sfondo del terzo annuncio della passione, morte e risurrezione del Figlio dell’uomo, si stacca con stridente contrasto la scena dei due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, che inseguono ancora sogni di gloria accanto a Gesù. Essi gli chiesero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37). Folgorante è la replica di Gesù e inatteso il suo interrogativo: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo?» (v. 38). L’allusione è chiarissima: il calice è quello della passione, che Gesù accetta per attuare la volontà del Padre. Il servizio a Dio e ai fratelli, il dono di sé: questa è la logica che la fede autentica imprime e sviluppa nel nostro vissuto quotidiano e che non è invece lo stile mondano del potere e della gloria.
Giacomo e Giovanni con la loro richiesta mostrano di non comprendere la logica di vita che Gesù testimonia, quella logica che - secondo il Maestro - deve caratterizzare il discepolo, nel suo spirito e nelle sue azioni. E la logica errata non abita solo nei due figli di Zebedeo perché, secondo l’evangelista, contagia anche «gli altri dieci» apostoli che «cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni» (v. 41). Si indignano, perché non è facile entrare nella logica del Vangelo e lasciare quella del potere e della gloria. San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622). E commentando i passi paralleli nel Vangelo secondo Luca, san Cirillo di Alessandria aggiunge: «I discepoli erano caduti nella debolezza umana e stavano discutendo l’un l’altro su chi fosse il capo e superiore agli altri … Questo è accaduto e ci è stato raccontato per il nostro vantaggio… Quanto è accaduto ai santi Apostoli può rivelarsi per noi un incentivo all’umiltà» (Commento a Luca, 12, 5, 24: PG 72, 912). Questo episodio dà modo a Gesù di rivolgersi a tutti i discepoli e «chiamarli a sé», quasi per stringerli a sé, a formare come un corpo unico e indivisibile con Lui e indicare qual è la strada per giungere alla vera gloria, quella di Dio: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,42-44).
Dominio e servizio, egoismo e altruismo, possesso e dono, interesse e gratuità: queste logiche profondamente contrastanti si confrontano in ogni tempo e in ogni luogo. Non c’è alcun dubbio sulla strada scelta da Gesù: Egli non si limita a indicarla con le parole ai discepoli di allora e di oggi, ma la vive nella sua stessa carne. Spiega infatti: «Anche il Figlio dell’uomo non è venuto a farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto di molti» (v. 45) […]
Secondo la tradizione biblica, il Figlio dell’uomo è colui che riceve il potere e il dominio da Dio (cfr Dn 7,13s). Gesù interpreta la sua missione sulla terra sovrapponendo alla figura del Figlio dell’uomo quella del Servo sofferente, descritto da Isaia (cfr Is 53,1-12). Egli riceve il potere e la gloria solo in quanto «servo»; ma è servo in quanto accoglie su di sé il destino di dolore e di peccato di tutta l’umanità. Il suo servizio si attua nella fedeltà totale e nella responsabilità piena verso gli uomini. Per questo la libera accettazione della sua morte violenta diventa il prezzo di liberazione per molti, diventa l’inizio e il fondamento della redenzione di ciascun uomo e dell’intero genere umano.
[Papa Benedetto, allocuzione Concistoro 18 febbraio 2012]
2. Guardando Gesù nella sua passione, noi vediamo come in uno specchio le sofferenze dell'umanità nonché le nostre personali vicende. Cristo, pur essendo senza peccato, ha preso su di sé ciò che l'uomo non poteva sopportare: l'ingiustizia, il male, il peccato, l'odio, la sofferenza e, infine, la morte. In Cristo, Figlio dell'uomo umiliato e sofferente, Dio ama tutti, perdona tutti e conferisce il significato ultimo all'umana esistenza.
Siamo qui, questa mattina, per raccogliere questo messaggio da questo Padre che ci ama. Ci possiamo chiedere: che cosa Egli vuole da noi? Vuole che, guardando Gesù, accettiamo di seguirLo nella sua passione per condividere con Lui la resurrezione. Tornano alla mente in questo momento le parole che Gesù disse ai discepoli: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete; il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete» (Mc 10, 39); «Se qualcuno vuol venire dietro a me..., prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16, 24-25).
L'«osanna» e il «crucifige» diventano così la misura di un modo di concepire la vita, la fede e la testimonianza cristiana: non ci si deve scoraggiare per le sconfitte né esaltare per le vittorie perché, come per Cristo, l'unica vittoria è la fedeltà alla missione ricevuta dal Padre. «Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2, 9).
(Papa Giovanni Paolo II, omelia 28 marzo 1999)
3. San Giacomo era fratello di Giovanni Evangelista. Essi furono i due discepoli a cui - in uno dei dialoghi più impressionanti che riporta il Vangelo - Gesù fece quella famosa domanda: “"Potete bere il calice che io sto per bere?". Ed essi risposero: «Possiamo»” (Mt 20, 23).
Era la parola della disponibilità, del coraggio; un atteggiamento tipico dei giovani, però non loro esclusivo, ma di tutti i cristiani, ed in particolare di coloro che accettano di essere apostoli del Vangelo. La generosa risposta dei due discepoli fu accettata da Gesù. Egli disse loro: “Il mio calice lo berrete” (Mt 20, 23).
Queste parole si compirono in Giacomo, figlio di Zebedeo, che col suo sangue diede testimonianza della risurrezione di Cristo a Gerusalemme. Gesù aveva fatto la domanda sul calice che avrebbero dovuto bere i due fratelli, quando la loro madre, come abbiamo letto nel Vangelo, si avvicinò al Maestro, per chiedergli un posto di speciale rilievo per entrambi nel Regno. Però Cristo dopo aver costatato la loro disponibilità a bere il calice, disse loro: “II mio calice lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio” (Mt 20, 23).
La disputa per conseguire il primo posto nel futuro Regno di Cristo, che i suoi discepoli immaginavano in modo troppo umano, suscitò l’indignazione degli altri Apostoli. Gesù approfittò allora dell’occasione per spiegare a tutti che la vocazione al suo Regno non è una vocazione al potere ma al servizio, “appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20, 28).
[Papa Giovanni Paolo II, omelia Santiago de Compostela 9 novembre 1982]
L’odierna pagina evangelica (cfr Mc 10,35-45) descrive Gesù che, ancora una volta e con grande pazienza, cerca di correggere i suoi discepoli convertendoli dalla mentalità del mondo a quella di Dio. L’occasione gli viene data dai fratelli Giacomo e Giovanni, due dei primissimi che Gesù ha incontrato e chiamato a seguirlo. Ormai hanno fatto parecchia strada con Lui e appartengono proprio al gruppo dei dodici Apostoli. Perciò, mentre sono in cammino verso Gerusalemme, dove i discepoli sperano con ansia che Gesù, in occasione della festa di Pasqua, instaurerà finalmente il Regno di Dio, i due fratelli si fanno coraggio, si avvicinano e rivolgono al Maestro la loro richiesta: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (v. 37).
Gesù sa che Giacomo e Giovanni sono animati da grande entusiasmo per Lui e per la causa del Regno, ma sa anche che le loro aspettative e il loro zelo sono inquinati, dallo spirito del mondo. Perciò risponde: «Voi non sapete quello che chiedete» (v. 38). E mentre loro parlavano di “troni di gloria” su cui sedere accanto al Cristo Re, Lui parla di un «calice» da bere, di un «battesimo» da ricevere, cioè della sua passione e morte. Giacomo e Giovanni, sempre mirando al privilegio sperato, dicono di slancio: sì, «possiamo»! Ma, anche qui, non si rendono veramente conto di quello che dicono. Gesù preannuncia che il suo calice lo berranno e il suo battesimo lo riceveranno, cioè che anch’essi, come gli altri Apostoli, parteciperanno alla sua croce, quando verrà la loro ora. Però – conclude Gesù – «sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato» (v. 40). Come dire: adesso seguitemi e imparate la via dell’amore “in perdita”, e al premio ci penserà il Padre celeste. La via dell’amore è sempre “in perdita”, perché amare significa lasciare da parte l’egoismo, l’autoreferenzialità, per servire gli altri.
Gesù poi si accorge che gli altri dieci Apostoli si arrabbiano con Giacomo e Giovanni, dimostrando così di avere la stessa mentalità mondana. E questo gli offre lo spunto per una lezione che vale per i cristiani di tutti i tempi, anche per noi. Dice così: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (v. 42-44). È la regola del cristiano. Il messaggio del Maestro è chiaro: mentre i grandi della Terra si costruiscono “troni” per il proprio potere, Dio sceglie un trono scomodo, la croce, dal quale regnare dando la vita: «Il Figlio dell’uomo – dice Gesù – non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (v. 45).
La via del servizio è l’antidoto più efficace contro il morbo della ricerca dei primi posti; è la medicina per gli arrampicatori, questa ricerca dei primi posti, che contagia tanti contesti umani e non risparmia neanche i cristiani, il popolo di Dio, neanche la gerarchia ecclesiastica. Perciò, come discepoli di Cristo, accogliamo questo Vangelo come richiamo alla conversione, per testimoniare con coraggio e generosità una Chiesa che si china ai piedi degli ultimi, per servirli con amore e semplicità. La Vergine Maria, che aderì pienamente e umilmente alla volontà di Dio, ci aiuti a seguire con gioia Gesù sulla via del servizio, la via maestra che porta al Cielo.
[Papa Francesco, Angelus 21 ottobre 2018]
«Bestemmiare contro il Santo Spirito»
(Lc 12,8-12)
Spirito Santo è un termine che traduce l’ebraico Ruah haQodesh: Vento impetuoso, non un’aria stagnante.
«Spirito»: energia che butta all’aria la vicenda personale, comunitaria ed ecclesiale... al fine di farla maturare e rinnovarla.
Non per confermare lo standard, ma per dilatare i confini.
Lo fa introducendo nella realtà una sorta di qualità sublime, (soprattutto) irrompendo con un’Azione che discerne l’evoluzione e la capovolge, ne fa un tutt’Altro.
«Santo» perché distingue la sfera della Vita - Santità - da quella paludosa dei germi mortiferi, che volgono al ripiegamento e all’autodistruzione.
Il Vangelo di oggi è nato come appello alle chiese e ai fedeli esposti alle ostilità, affinché non si lascino scoraggiare nella testimonianza reale e genuina.
I credenti non devono mollare quel sentirsi attratti dalla potenza critica della Parola.
Nel tempo essa ha la forza di spogliare gli intriganti dalle loro manie di vanitosa grandezza o perversione, e far emergere la Luce che ci accomuna, attrae spontaneamente, senz’artificio.
Insomma, i membri di chiesa che vivono di Fede-amore non possono identificarsi con stili di vita vantaggiosi, interpretazioni della realtà tipiche, non cruciali.
Altro che piccole trasgressioni! È nel momento delle minacce di fondo, che si legge la portata della nostra scelta per il Signore.
Lc allude in specie a scuse di circostanza, particolari, nella ricerca dell’appoggio: favori di paradigmi “culturali”, o di gente che conta. Ad es. agevolando le proprie vicende grazie a un servilismo ideologico e codino alle autorità, con annesse garanzie di via d’uscita.
Qui si affaccia il pericolo della bestemmia contro il Santo Spirito: allontanarsi dal Vangelo, ritenendo che Gesù indichi cammini di rovina e morte, invece che d’autentica Vita.
Oggi gli impulsi dello Spirito che rinnova la faccia della terra sconvolgono il panorama, non per abbandonare l’umanità ai puri limiti e a un inesorabile oblio.
Il percorso di colui che cammina sulla Via della Libertà dev’essere senza timori, perché l’Esodo ci rende a noi stessi; riscattati e santificati.
Restituiti al nostro Nucleo e per la potenza della Fede che intreccia la nostra vicenda al Cristo, vedremo realizzare l’impossibile Promessa; cose che non sappiamo, sovranamente efficaci.
Vogliamo esistere completamente, perché non siamo degli alterati.
Per questo ci sono le crisi, i rivolgimenti, e tagli: riconducono alla nostra fragranza, che - questa sì - potremmo smarrire.
Il pericolo e i tempi concitati vengono per ricordarci il nostro lato eterno. Esso può esprimersi solo quando la matrice del nostro stare in campo deflette, per predisporci ad accogliere la soluzione inattesa.
Ciò anche quando agli altri sembrerà che la nostra vita sia perduta.
In realtà, ce la stiamo giocando senza esteriorità di contenuto, per innescare la Beltà integrale della nuova Giovinezza che non sappiamo, ma incede.
[Sabato 28.a sett. T.O. 19 ottobre 2024]
«Bestemmiare contro il Santo Spirito»
(Lc 12,8-12)
«E chiunque dirà una parola contro il Figlio dell’uomo, gli sarà perdonato, ma a colui che avrà bestemmiato contro il Santo Spirito non sarà perdonato» (Lc 12,10).
Spirito Santo è un termine che traduce l’ebraico Ruah haQodesh: un Vento impetuoso, non un’aria stagnante.
Quest’ultima, sarebbe un’atmosfera senza onda vitale, priva d’una fucina di relazioni; che non fa crescere: rende piatta la situazione.
«Spirito»: energia che butta all’aria la vicenda personale, comunitaria ed ecclesiale... al fine di farla maturare e rinnovarla.
Non per confermare lo standard, ma per dilatare i confini.
Basta scorrere i punti trattati nella recente enciclica sull’amicizia sociale per rendersi conto: frontiere, le ombre del mondo chiuso, sogni che vanno in frantumi, fine della coscienza storica, senza un progetto per tutti, lo scarto mondiale, gli sprechi anche alimentari... etc.
Lo Spirito introduce nella realtà una sorta di qualità sublime, (soprattutto) irrompendo con un’Azione che discerne l’evoluzione e la capovolge, ne fa un tutt’Altro rispetto allo spirito stagnante - ben disposto solo a ribadire, celebrare e diffondere se stesso.
«Santo» perché distingue la sfera della Vita - Santità - da quella paludosa dei germi mortiferi, che ci volgono al ripiegamento e all’autodistruzione.
Un tempo anche la «missionarietà» cattolica [persino la preziosa attività di promozione umana, immaginata estranea alla «evangelizzazione» - ideale dal sapore “protestante”] era concepita in termini di proselitismo interno.
Fratelli Tutti invece denuncia la realtà e il richiamo dei flagelli complessivi: le carenze di un progetto comune, la persistenza di uno «scarto mondiale» e l’insufficienza universale dei diritti umani; le situazioni di conflitto e paura, un progresso «senza rotta comune»... così via.
Il Vangelo stesso di oggi è nato come appello alle chiese e ai fedeli esposti alle ostilità, affinché non deflettano né si lascino scoraggiare nella testimonianza reale e genuina del Cristo nel mondo.
Appello da non tralasciare, malgrado la profonda miseria e i confini che continuano a celarsi nei cuori.
I credenti non devono mollare quel sentirsi attratti dalla potenza critica della Parola.
Nel tempo essa ha la forza di spogliare gli intriganti dalle loro manie di vanitosa grandezza o perversione, e far emergere la Luce che ci accomuna, attrae spontaneamente, senz’artificio.
I membri di chiesa che vivono di Fede-amore non possono identificarsi con stili di vita vantaggiosi, interpretazioni della realtà ormai datate e non cruciali, sebbene siano tipiche delle “religioni dottrina-disciplina” - o delle varie denominazioni storiche.
Come tristemente sottolinea Fratelli Tutti circa l’incontro tra le diverse confessioni cristiane:
«Non possiamo dimenticare il desiderio espresso da Gesù: che tutti siano Uno (Gv 17,21). Ascoltando il suo invito, riconosciamo con dolore che al processo di globalizzazione manca ancora il contributo profetico e spirituale dell’unità tra tutti i cristiani» (n.280).
Questo sì è un «imperdonabile peccato» - in tutti i sensi - non un peccatuccio da ridere.
Come affermava Giovanni Paolo II: «La “bestemmia” [di cui si tratta] non consiste propriamente nell’offendere con le parole lo Spirito Santo; consiste, invece, nel rifiuto di accettare la salvezza che Dio offre all’uomo mediante lo Spirito Santo, e che opera in virtù del sacrificio della croce [Esso] non permette all’uomo di uscire dalla sua autoprigionia e di aprirsi alle fonti divine della purificazione» (Udienza Generale 25 luglio 1990).
Solo l’opera colma di speranze incontra gl’insegnamenti di Gesù.
È il Crocifisso che rivela l’intimità di Dio e dell’uomo, nonché le distorsioni di quell’ipocrisia devota che privilegia lo spirito d’interesse e di frontiera, il potere, l’accumulo di qualsiasi risorsa, e i disvalori.
In simbiosi col passo di Lc e il nuovo Magistero, possiamo ribadire che è appunto nel momento delle minacce in situazione - oggi purtroppo anche globali - che si legge la portata della nostra scelta per il Signore.
C’è chi si affida alla fraternità trasparente, allo spirito dei figli, all’amore che «integra e raduna» (FT 190-192)... viceversa chi cerca fiducia in sé o tenta di rifarsi ai soliti calcoli mondani (vv.11-12), badando ai risultati più che alla fecondità dell’avviare processi (cf. FT 193-197).
Altro che piccole trasgressioni!
È nel momento delle minacce di fondo, che si legge la portata della nostra scelta per il Signore.
Lc allude in specie a scuse di circostanza, particolari, nella ricerca dell’appoggio: favori di paradigmi “culturali”, o di gente che conta. Ad es. agevolando le proprie vicende grazie a un servilismo ideologico e codino alle autorità, con annesse garanzie di via d’uscita.
Tutto ciò senza mai «pensare e generare un universo aperto» (cf. FT 87-127) che sappia andare oltre il «mondo di soci» e cordate - perfino ecclesiali, come ribadito in diverse occasioni dall’attuale pontefice [alludendo appunto agli stessi prelati].
Qui si affaccia il pericolo della bestemmia contro il Santo Spirito: allontanarsi dal Vangelo ritenendo che oggi Gesù sia per l’esclusivismo, o un estraneo che indichi cammini di rovina e morte, invece che d’autentica Vita.
Beninteso, non sono pochi coloro che forse negano esternamente il Cristo, ma non rigettano il senso di Gesù: vivono del suo stesso Spirito [amore del prossimo, vittoria sul male, speranza in un regno più autentico: v.10; FT 271ss].
Il Maestro e il nuovo impegno magisteriale - che suonano all’unisono - intendono scuotere le coscienze e farci capire la gravità di scelte contrarie al disegno di Dio.
Oggi gli impulsi dello Spirito che rinnova la faccia della terra sconvolgono il panorama, ma non per abbandonare l’umanità ai puri limiti e a un inesorabile oblio.
Scrive il Tao Tê Ching (xxxiv) circa il nostro confidare nel Perfetto:
«Come è universale il gran Tao! Può stare a sinistra come a destra». E il maestro Wang Pi commenta: «Non v’è nulla che l’universalità e la sovrabbondanza del Tao non raggiunga: a sinistra e a destra, in alto e in basso. Se ovunque conferisce e s’adopra, non v’è nulla cui non giunga». Ribadisce il maestro Ho-shang Kung: «Non v’è luogo che non gli convenga».
Il percorso di colui che cammina sulla Via della Libertà dev’essere senza timori, perché l’Esodo ci rende a noi stessi; riscattati e santificati.
Con un «cuore aperto al mondo intero» (FT 128-153): stabiliti nel «sapore locale» con «orizzonte universale».
Restituiti al nostro Nucleo e per la potenza della Fede che intreccia la nostra vicenda al Cristo personale e cosmico, vedremo realizzare l’impossibile Promessa; cose che non sappiamo, sovranamente efficaci.
Solo lo Spirito non va contro la nostra natura eminente, quindi è impermeabile, definitivo - pur non essendolo. Perché ci chiama a confidare: per questo non lascia attaccati a ombre, ricordi, antiche sicurezze e commemorazioni che non guidano lo sguardo altrove.
Fomentare il museo dei dettagli vintage [o abbandonarsi all’onda delle mode, anche di pensiero] significa incagliare la mente sul passato, sui vissuti che forse neanche sono stati mai posti in essere.
Semplici ideali d’un tempo altrui, modelli; teologizzazioni arcaiche, o viceversa edoniste.
Vogliamo esistere completamente, perché non siamo degli alterati.
Per questo ci sono le crisi, i rivolgimenti, i tagli: riconducono alla nostra fragranza, che - questa sì - potremmo smarrire.
Se viceversa permanessimo ancora identificati, rischieremmo di non metterci in posizione di scatto; di non cambiare i rapporti, e far sbiadire le energie presenti ora a tutto tondo (anche dentro).
Non facciamole come scivolar via - togliendo smalto alle emergenze inedite che ci chiamano.
Abbiamo lati dell’anima che altrimenti non si esprimerebbero, se non nei pericoli che frastornano, nelle relazioni difficili e a tutto campo, o nei rifiuti più dolorosi e finalmente stravolgenti, i quali ci costringono a spostare lo sguardo.
Ma bisogna deporre la mente precipitosa e opportunista, che cerca subito di rimediare e riparare secondo stereotipi.
Il pericolo e i tempi concitati vengono per ricordarci il nostro lato eterno. Esso può esprimersi solo quando la matrice del nostro stare in campo deflette, per predisporci ad accogliere la soluzione inattesa.
L’imprevista pena o sconfitta non ci farà “piacere per forza” in società anche ecclesiale, concatenata, ma consentirà di essere ciò che siamo. E diventare noi stessi, scoprire altre visuali - secondo Firma d’Autore.
Ciò anche quando agli altri sembrerà che la nostra vita sia perduta.
In realtà, ce la stiamo giocando senza esteriorità di contenuto, per innescare la Beltà integrale della nuova Giovinezza che non sappiamo, ma incede.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come vivi la persecuzione? Maledizione ovvero Occasione?
Sotto minaccia, insulto, calunnia, processo, derisione, violenza, emergenza, hai mai pensato che Gesù ti avesse condotto in cammini di morte?
E facendo proprio il nuovo Magistero, quale taglio con le indecenze del passato, quale orizzonte giovane, quale beltà e relazioni difformi hai gustato?
Il male non è una forza anonima.
Limite delle liberazioni umane
Dobbiamo essere ben coscienti che il male non è una forza anonima che agisce nel mondo in modo impersonale o deterministico. Il male, il demonio, passa attraverso la libertà umana, attraverso l’uso della nostra libertà. Cerca un alleato, l’uomo. Il male ha bisogno di lui per diffondersi. È così che, avendo offeso il primo comandamento, l’amore di Dio, viene a pervertire il secondo, l’amore del prossimo. Con lui, l’amore del prossimo sparisce a vantaggio della menzogna e dell’invidia, dell’odio e della morte. Ma è possibile non lasciarsi vincere dal male e vincere il male con il bene (cfr Rm 12, 21). È a questa conversione del cuore che siamo chiamati. Senza di essa, le «liberazioni» umane tanto desiderate deludono, perché si muovono nello spazio ridotto concesso dalla ristrettezza di spirito dell’uomo, dalla sua durezza, dalle sue intolleranze, dai suoi favoritismi, dai suoi desideri di rivincita e dalle sue pulsioni di morte. La trasformazione in profondità dello spirito e del cuore è necessaria per ritrovare una certa chiaroveggenza e una certa imparzialità, il senso profondo della giustizia e quello del bene comune. Uno sguardo nuovo e più libero renderà capaci di analizzare e di mettere in discussione sistemi umani che conducono a vicoli ciechi, per andare avanti tenendo conto del passato, per non ripeterlo più con i suoi effetti devastanti. Questa conversione richiesta è esaltante perché apre delle possibilità facendo appello alle innumerevoli risorse che abitano il cuore di tanti uomini e donne desiderosi di vivere in pace e pronti ad impegnarsi per la pace. Ora essa è particolarmente esigente: si tratta di dire no alla vendetta, di riconoscere i propri torti, di accettare le scuse senza cercarle, e infine di perdonare. Perché solo il perdono dato e ricevuto pone le fondamenta durevoli della riconciliazione e della pace per tutti (cfr Rm 12,16b.18).
[Papa Benedetto, Discorso all’Incontro in Baabda Libano 15 settembre 2012]
Lo Spirito ci mette intimamente in rapporto con Dio, presso il quale si trova la sorgente d’ogni ricchezza umana autentica. Tutti voi cercate di amare e di essere amati! È verso Dio che voi dovete volgervi per imparare ad amare e per avere la forza di amare. Lo Spirito, che è Amore, può aprire i vostri cuori per ricevere il dono dell’amore autentico. Tutti voi cercate la verità e volete viverne! Questa verità è Cristo. Egli è la sola Via, l’unica Verità e la vera Vita. Seguire Cristo significa veramente “prendere il largo”, come dicono diverse volte i Salmi. La strada della Verità è una e nello stesso tempo molteplice, secondo i diversi carismi, come la Verità è una e nello stesso tempo di una ricchezza inesauribile. Affidatevi allo Spirito Santo per scoprire Cristo. Lo Spirito è la guida necessaria per la preghiera, l’anima della nostra speranza e la sorgente della vera gioia.
[Papa Benedetto, veglia di preghiera dei giovani Parigi 12 settembre 2008]
The "widow" represents the soul of the People from whom God, the Bridegroom, has been stolen. The "poor" is such because she is the victim of a deviant teaching: a doctrine that arouses fear, more than humility or a spirit of totality. Jesus mourns the condition of she who should have been helped by the Temple instead of impoverished
La “vedova” raffigura l’anima del Popolo cui è stato sottratto Dio, lo Sposo. La “povera” è tale perché vittima di un insegnamento deviante: dottrina che suscita timore, più che umiltà o spirito di totalità. Gesù piange la condizione di colei che dal Tempio avrebbe dovuto essere aiutata, invece che impoverita
Jesus has forever interrupted the succession of ferocious empires. He turned the values upside down. And he proposes the singular work - truly priestly - of the journey of Faith: the invitation to question oneself. At the end of his earthly life, the Lord is Silent, because he waits for everyone to pronounce, and choose
Gesù ha interrotto per sempre il susseguirsi degli imperi feroci. Ha capovolto i valori. E propone l’opera singolare - davvero sacerdotale - del cammino di Fede: l’invito a interrogarsi. Al termine della sua vicenda terrena il Signore è Silenzioso, perché attende che ciascuno si pronunci, e scelga
The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che continua a vedere malgrado tutto (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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