Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
“E voi chi dite che io sia?” (Mt 16, 15).
1. Nell’iniziare il ciclo di catechesi su Gesù Cristo, di fondamentale importanza per la fede e la vita cristiana, ci sentiamo interpellati dalla stessa domanda che quasi duemila anni fa il Maestro rivolse a Pietro e ai discepoli che erano con lui. In quel momento decisivo della sua vita, come nel suo Vangelo narra Matteo, che ne fu testimone, “essendo Gesù giunto nella regione di Cesarea di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”” (Mt 16, 13-15).
Conosciamo la risposta schietta e impetuosa di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Per poterla anche noi formulare, non tanto in termini astratti, ma come espressione di una esperienza vitale, frutto del dono del Padre (cf. Mt 16, 17), ciascuno di noi deve lasciarsi toccare personalmente dalla domanda: “E tu, che dici: chi sono io? Tu che senti parlare di me, rispondi: cosa sono io veramente per te?”. A Pietro l’illuminazione divina e la risposta della fede vennero dopo un lungo periodo di vicinanza a Gesù, di ascolto della sua parola e di osservazione della sua vita e del suo ministero (cf. Mt 16, 21-24).
Anche noi per giungere a una più consapevole confessione di Gesù Cristo dobbiamo percorrere, come Pietro, un cammino fatto di ascolto attento, premuroso. Dobbiamo metterci alla scuola dei primi discepoli, diventati suoi testimoni e nostri maestri, e insieme recepire l’esperienza e la testimonianza di ben venti secoli di storia solcati dalla domanda del Maestro e impreziositi dall’immenso coro delle risposte dei fedeli di tutti i tempi e luoghi. Oggi, mentre lo Spirito “Signore e Vivificante” ci spinge verso la soglia del terzo millennio cristiano, siamo chiamati a dare con gioia rinnovata la risposta che Dio ci ispira e attende da noi, quasi come per un nuovo natale di Gesù Cristo nella nostra storia.
2. La domanda di Gesù circa la sua identità mostra la finezza pedagogica di chi non si fida di frettolose risposte, ma vuole una risposta maturata attraverso un tempo, a volte lungo, di riflessione e di preghiera, nell’ascolto attento e intenso della verità della fede cristiana professata e predicata dalla Chiesa.
Riconosciamo infatti che di fronte a Gesù non ci si può accontentare di una simpatia semplicemente umana per quanto legittima e preziosa, né è sufficiente considerarlo solo come un personaggio degno di interesse storico, teologico, spirituale, sociale o come fonte di ispirazione artistica. Intorno a Cristo vediamo spesso ondeggiare, anche tra i cristiani, le ombre dell’ignoranza, o quelle ancora più penose del fraintendimento quando non addirittura della infedeltà. È sempre presente il rischio di appellarsi al “Vangelo di Gesù”, senza veramente conoscerne la grandezza e la radicalità e senza vivere ciò che a parole si afferma. Quanti sono coloro che riducono il Vangelo a loro misura e si fanno un Gesù più comodo, negandone la trascendente divinità, o vanificandone la reale, storica umanità, oppure manipolando l’integrità del suo messaggio, in particolare non tenendo conto del sacrificio della croce che domina la sua vita e la sua dottrina, né della Chiesa che egli ha istituito come suo “sacramento” nella storia.
Anche queste ombre ci stimolano alla ricerca della verità piena su Gesù, traendo vantaggio dalle molte luci che, come una volta con Pietro, il Padre ha acceso lungo i secoli intorno a Gesù nel cuore di tanti uomini con la potenza dello Spirito Santo: le luci dei testimoni fedeli fino al martirio; le luci di tanti studiosi appassionati, impegnati a scandagliare il mistero di Gesù con lo strumento dell’intelligenza sostenuta dalla fede; le luci che soprattutto il magistero della Chiesa, guidato dal carisma dello Spirito Santo, ha acceso nelle definizioni dogmatiche su Gesù Cristo.
Riconosciamo che uno stimolo a scoprire chi è veramente Gesù è presente nella ricerca incerta e trepidante di molti nostri contemporanei così somiglianti a Nicodemo che andò “di notte a trovare Gesù” (Gv 3, 2) o a Zaccheo che si arrampicò su un albero per “vedere Gesù” (Lc 19, 4). Il desiderio di aiutare ogni uomo a scoprire Gesù, che è venuto come medico per i malati e come salvatore per i peccatori (cf. Mc 2, 17), mi spinge ad assolvere il compito impegnativo e appassionante di presentare la figura di Gesù ai figli della Chiesa e a ogni uomo di buona volontà.
Forse ricorderete che, all’inizio del mio pontificato, rivolsi agli uomini di oggi l’invito a “spalancare le porte a Cristo” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, I [1978] 38). In seguito, nell’esortazione Catechesi Tradendae (Ioannis Pauli PP. II, Catechesi Tradendae, 5), dedicata alla catechesi, facendomi portavoce del pensiero dei vescovi riuniti nel IV Sinodo, ho affermato che “l’oggetto essenziale e primordiale della catechesi è . . . il “mistero di Cristo”. Catechizzare è in un certo modo condurre qualcuno a scrutare questo mistero in tutte le sue dimensioni . . .; svelare nella persona di Cristo l’intero disegno eterno di Dio, che in essa si compie . . . Egli solo può condurre all’amore del Padre nello Spirito Santo e può farci partecipare alla vita della Santa Trinità” (Eiusdem, Catechesi Tradendae, 5).
Percorreremo insieme questo itinerario catechistico ordinando le nostre considerazioni intorno a quattro centri focali: 1) Gesù nella sua realtà storica e nella sua qualità messianica trascendente, figlio di Abramo, figlio dell’uomo e figlio di Dio; 2) Gesù nella sua identità di vero Dio e vero uomo, in profonda comunione con il Padre e animato dalla potenza della Spirito Santo, come ci viene presentato nel Vangelo; 3) Gesù agli occhi della Chiesa che con l’assistenza dello Spirito Santo ha chiarito e approfondito i dati rivelati dandoci, specialmente con i Concili ecumenici, precise formulazioni della fede cristologica; 4) infine, Gesù nella sua vita e nelle sue opere, Gesù nella sua passione redentrice e nella sua glorificazione, Gesù in mezzo a noi e in noi, nella storia e nella sua Chiesa fino alla fine del mondo (cf. Mt 28, 20).
3. È ben vero che nella Chiesa vi sono molti modi di catechizzare il popolo di Dio su Gesù. Ciascuno di essi, tuttavia, per essere autentico deve attingere il suo contenuto alla fonte perenne della santa Tradizione e della sacra Scrittura, interpretata alla luce degli insegnamenti dei Padri e Dottori della Chiesa, della liturgia, della fede e pietà popolare, in una parola, della Tradizione vivente e operante nella Chiesa sotto l’azione dello Spirito Santo, che - secondo la promessa del Maestro - “vi condurrà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (Gv 16, 13). Tale Tradizione la riconosciamo espressa e sintetizzata particolarmente nella dottrina dei sacrosanti Concili, raccolta nei simboli della fede e approfondita dalla riflessione teologica fedele alla Rivelazione e al magistero della Chiesa.
Che cosa varrebbe una catechesi su Gesù se non avesse la genuinità e la completezza dello sguardo con cui la Chiesa contempla, prega e annuncia il suo mistero? D’altra parte si richiede una saggezza pedagogica che, nel rivolgersi ai destinatari della catechesi, sappia tener conto delle loro condizioni e dei loro bisogni. Come scrivevo nell’esortazione ora citata, Catechesi Tradendae: “La costante preoccupazione di ogni catechista - quale che sia il livello delle sue responsabilità nella Chiesa - deve essere quella di far passare attraverso il proprio insegnamento e il proprio comportamento, la dottrina e la vita di Gesù” (Giovanni Paolo II, Catechesi Tradendae, 6).
4. Concludiamo questa catechesi introduttiva, ricordando che Gesù in un momento particolarmente difficile della vita dei primi discepoli, quando cioè la croce si profilava vicina e molti lo abbandonavano, rivolse a coloro che erano rimasti con lui un’altra di quelle sue domande così forti, così penetranti e ineludibili: “Forse volete andarvene anche voi?”. Fu ancora Pietro che come interprete dei suoi fratelli rispose: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna. Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 66-69). Possano questi nostri appuntamenti catechistici renderci sempre più disponibili a lasciarci interrogare da Gesù, capaci ad avere la giusta risposta alle sue domande, pronti a condividere fino in fondo la sua vita.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 7 gennaio 1987]
Il brano evangelico di questa domenica (Lc 9,18-24) ci chiama ancora una volta a confrontarci, per così dire, “faccia a faccia” con Gesù. In uno dei rari momenti tranquilli in cui si trova da solo con i suoi discepoli, Egli chiede loro: «Le folle, chi dicono che io sia?» (v. 18). Ed essi rispondono: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia; altri uno degli antichi profeti che è risorto» (v. 19). Dunque la gente aveva stima di Gesù e lo considerava un grande profeta, ma non era ancora consapevole della sua vera identità, cioè che Egli fosse il Messia, il Figlio di Dio inviato dal Padre per la salvezza di tutti.
Gesù, allora, si rivolge direttamente agli Apostoli – perché è questo che gli interessa di più – e domanda: «Ma voi, chi dite che io sia?». Subito, a nome di tutti, Pietro risponde: «Il Cristo di Dio» (v. 20), vale a dire: Tu sei il Messia, il Consacrato di Dio, mandato da Lui a salvare il suo popolo secondo l’Alleanza e la promessa. Così Gesù si rende conto che i Dodici, e in particolare Pietro, hanno ricevuto dal Padre il dono della fede; e per questo incomincia a parlare loro apertamente - così dice il Vangelo: “apertamente” - di quello che lo attende a Gerusalemme: «Il Figlio dell’uomo – dice – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (v. 22).
Quelle stesse domande vengono oggi riproposte a ciascuno di noi: “Chi è Gesù per la gente del nostro tempo?”. Ma l’altra è più importante: “Chi è Gesù per ciascuno di noi?”. Per me, per te, per te, per te, per te…? Chi è Gesù per ciascuno di noi? Siamo chiamati a fare della risposta di Pietro la nostra risposta, professando con gioia che Gesù è il Figlio di Dio, la Parola eterna del Padre che si è fatta uomo per redimere l’umanità, riversando su di essa l’abbondanza della misericordia divina. Il mondo ha più che mai bisogno di Cristo, della sua salvezza, del suo amore misericordioso. Molte persone avvertono un vuoto attorno a sé e dentro di sé – forse, alcune volte, anche noi –; altre vivono nell’inquietudine e nell’insicurezza a causa della precarietà e dei conflitti. Tutti abbiamo bisogno di risposte adeguate ai nostri interrogativi, ai nostri interrogativi concreti. In Cristo, solo in Lui, è possibile trovare la pace vera e il compimento di ogni umana aspirazione. Gesù conosce il cuore dell’uomo come nessun’altro. Per questo lo può sanare, donandogli vita e consolazione.
Dopo aver concluso il dialogo con gli Apostoli, Gesù si rivolge a tutti dicendo: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (v. 23). Non si tratta di una croce ornamentale, o di una croce ideologica, ma è la croce della vita, è la croce del proprio dovere, la croce del sacrificarsi per gli altri con amore – per i genitori, per i figli, per la famiglia, per gli amici, anche per i nemici -, la croce della disponibilità ad essere solidali con i poveri, a impegnarsi per la giustizia e la pace. Nell’assumere questo atteggiamento, queste croci, sempre si perde qualcosa. Non dobbiamo mai dimenticare che «chi perderà la propria vita [per Cristo], la salverà» (v. 24). E’ un perdere per guadagnare. E ricordiamo tutti i nostri fratelli che ancora oggi mettono in pratica queste parole di Gesù, offrendo il loro tempo, il loro lavoro, la loro fatica e perfino la loro vita per non rinnegare la loro fede in Cristo. Gesù, mediante il suo Santo Spirito, ci dà la forza di andare avanti nel cammino della fede e della testimonianza: fare quello in cui crediamo; non dire una cosa e farne un’altra. E in questo cammino sempre ci è vicina e ci precede la Madonna: lasciamoci prendere per mano da lei, quando attraversiamo i momenti più bui e difficili.
[Papa Francesco, Angelus 19 giugno 2016]
XXIII Domenica Tempo Ordinario Anno B (8 settembre 2024)
1. Nella prima lettura dell’odierna liturgia il profeta Isaia si rivolge agli ebrei deportati in Babilonia che tornano verso Gerusalemme: “Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”. C’è una parola che potrebbe sorprendere: “la vendetta divina”. E’ meglio subito precisare che non ha lo stesso significato rispetto al nostro modo di sentire. Contestualizzandola nel momento storico, si capisce che quando il profeta parla della vendetta di Dio si riferisce alla salvezza e lo comprendiamo meglio se si formula il testo così: “Ecco la vendetta di Dio: Egli viene e vi salverà”, e poi: “Ecco la ricompensa di Dio: Egli stesso viene per salvarvi”. Ancor più aiutano a percepire questo messaggio di speranza le promesse che seguono: i malati guariranno, i ciechi riacquisteranno la vista, i sordi l’udito, gli storpi salteranno come cervi e griderà di gioia la lingua del muto. Queste promesse hanno il sapore d’un balsamo lenitivo e incoraggiante alle orecchie di un popolo deportato in Babilonia e segnato dalle atroci ferite inferte dall’assedio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor. E’ a loro che Dio assicura futuri giorni di benessere e di gioia ritrovata. Ma c’è di più: alla luce del quadro storico e religioso di quel tempo la “vendetta” veniva percepita in maniera favorevole dagli ebrei perché sapevano che il Signore mai avrebbe abbandonato il suo popolo e anzi lottava contro il male che l’opprimeva. “Vendetta divina” significava quindi ridare dignità a coloro che formano questo popolo che il Signore si è scelto e che pone in lui ogni attesa. E proprio in questo brilla la gloria di Dio. A meglio comprendere giova aggiungere che all’inizio della sua storia, il popolo della Bibbia immaginava un Dio vendicativo come sono gli uomini e, solo attraverso un percorso di purificazione della fede durato lunghi secoli grazie alla predicazione dei profeti, ha cominciato a scoprire il vero volto del Signore. E allora, pur restando la parola “vendetta” il contenuto è del tutto mutato, come si è verificato per altre parole, ad esempio “sacrificio” e “il timore di Dio”. Ci sono voluti secoli per arrivare a riconoscere il vero volto di Dio, un Dio diverso da come si poteva immaginare, un Dio che è amore e spende il suo amore per tutti gli uomini. Con la frase: “Ecco la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”, il profeta vuol far intendere che Dio ama più di ogni altro al mondo e in qualsiasi prova, dolore e umiliazione fisica o morale, non tarda a intervenire manifestando la sua misericordia. Quanto è necessario riscoprire nella nostra vita la misericordia divina! Dio viene a salvarci, viene a rialzarci. Un aspetto fondamentale della fede è proprio la certezza che Egli ha già vinto la prepotenza del male con l’onnipotenza del suo amore misericordioso e anche se le forze sataniche operanti a vari livelli apparentemente dominano nel mondo, il cristiano non cede alla tentazione del pessimismo perché sa di essere amato da Colui che in tanti modi vuole manifestarci la sua tenerezza di Padre e mai ci abbandona.
2. Oggi è per noi l’invito che Isaia rivolge agli esuli in Babilonia che fanno ritorno a Gerusalemme. La fede ci assicura che l’umanità è in sicura attesa della definitiva liberazione da ogni forma di schiavitù e di offesa alla dignità dell’uomo, da ogni rischio di accecamento fisico e morale che perturba la pace. Il Messia è il salvatore promesso: i contemporanei di Gesù dovevano averlo compreso perché, presentando sé stesso come Messia nella sinagoga di Nazaret (Cf Lc 4) Gesù cita proprio il profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore, di DIO, è su di me, perché il SIGNORE mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l'apertura del carcere ai prigionieri, per proclamare l'anno di grazia del SIGNORE, il giorno di vendetta del nostro Dio” (61,1-2). Da notare però che della profezia omette di proposito le ultime parole: “il giorno di vendetta del nostro Dio”, per chiarire che egli viene per dare speranza e salvezza ai poveri, ai prigionieri, agli oppressi, che con fatica avrebbero compreso la parola “vendetta”. Ormai ogni sua azione avrà il volto della misericordia. Misericordia, di cui sono segni tangibili i ciechi che riacquistano la vista, gli storpi che riprendono a camminare, i lebbrosi purificati, i sordi capaci di sentire nuovamente, i morti che risuscitano e soprattutto il vangelo annunciato ai poveri, come il Cristo afferma rispondendo ai discepoli di Giovanni Battista venuti per domandargli se è il Messia atteso (Lc 7,22). Questo è il vangelo: Dio ci rialza dalla nostra miseria e ci salva, e questo appare chiaramente nell’odierna pagina del vangelo di Marco (cap.7). Gesù è in terra pagana - il territorio della Decapoli - dove guarisce un uomo che soffre di doppia infermità: è sordo e muto. L’evangelista utilizza il termine greco “magilalos”(che significa colui che parla con difficoltà perché è non udente), raramente usato nel Nuovo Testamento e una sola volta presente nell’Antico Testamento proprio nel testo d’Isaia che abbiamo ascoltato nella prima lettura: ”griderà di gioia la lingua del muto”. L’evangelista assicura che questa profezia si è compiuta in Gesù e ne è prova la guarigione del sordo muto, simbolo dell’umanità incapace di sentire e quindi con serie difficoltà nel comunicare (balbetta soltanto). Si chiede a Gesù “di imporgli la mano” e lui compie qualcosa che mai aveva fatto prima. Lo allontana dalla folla e ripete gesti rituali dei guaritori: mette le dita negli orecchi e con la saliva tocca la lingua. Gesù non cambia questi gesti ma li riveste di un nuovo significato. A differenza dei guaritori, egli guarda verso il cielo, emette un sospiro e gli dice: “Effata, cioè apriti”. Alzando gli occhi verso l’Alto manifesta che guarisce grazie al potere conferitogli dal Padre. Quanto al sospiro si tratta piuttosto di un gemito: viene usata la stessa parola che san Paolo, nella lettera ai Romani, utilizza per descrivere sia l’impazienza della creazione che attende la liberazione, sia la maniera con cui lo Spirito Santo prega nel cuore dei credenti “con gemiti inesprimibili” (Rm 8, 26). Nel gemito di Gesù possiamo avvertire da una parte l’umanità che aspetta e invoca la liberazione e dall’altra lo Spirito che intercede per noi perché nessuna umana sofferenza ci lasci indifferenti. Il vangelo si chiude con la gente che piena di stupore proclama: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”. Percepiamo qui un’anticipazione della professione di fede della comunità cristiana che sarà totale e perfetta sulle labbra del centurione sotto la croce di Cristo verso la fine del vangelo di Marco: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15, 39).
3. Effatà, cioè “Apriti” è una delle poche parole aramaiche citate direttamente nel vangelo e rimaste immutate in ogni lingua. Si trova nel rito del battesimo, quando il celebrante tocca le orecchie e le labbra del battezzato aggiungendo: “Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede a lode e gloria di Dio Padre. Ogni giorno ascoltiamo nella liturgia il salmista che canta: “Signore apri le mie labbra e la mia bocca annuncerà la tua lode (Sal 50/51,17), e torna frequente nella predicazione l’affermazione dell’apostolo Paolo: “Nessuno può dire "Gesù è Signore" se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Co 12,3). Solo Dio può aprire il cuore dell’uomo e rendere le sue labbra degne di onorarlo. Solo Dio ci salva: tocca però alla nostra libertà decidere di scegliere di amarlo e proclamare la sua lode non semplicemente a parole, bensì con tutta la vita diventata vangelo vivente.
Buona domenica + Giovanni D’Ercole
XXII Domenica del Tempo Ordinario B (1 settembre 2024)
1. “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. L’affermazione si trova nella prima lettura tratta dal libro del Deuteronomio e si riferisce a ciò che tutti potrebbero dire di Israele, quando resta fedele all’Alleanza. Il progetto del Creatore è che, attratti dall’esempio di questo piccolo popolo che si è scelto come nucleo trascinante dell’umanità, venga il giorno in cui da ogni continente la gente chieda di far parte del popolo della nuova alleanza e possa gridare con gioia di aver trovato finalmente la gioia di vivere e di viver insieme con l’unico Dio, Dio di tutti i popoli. I testi biblici di questa XXII Domenica del tempo ordinario ci aiutano a scoprire qual è l’inghippo, meglio l’ostacolo alla realizzazione di tale sogno divino. La prima lettura tratta dal Deuteronomio (redatto tra l’VIII e VI secolo A.C.) attribuisce il discorso a Mosè, anche se in verità risale a molti anni dopo la sua morte, ma è come se si volesse ripetere quanto egli avrebbe detto in quel momento se fosse vivo. Qui si insiste che nulla si aggiunga e nulla si tolga alla Legge da Dio donata a Mosè sul Sinai perché purtroppo il popolo con il tempo si era allontanato ed urgeva ribadire l’essenziale della fede ebraica, l’osservanza cioè della Torah che tiene viva nei secoli l’Alleanza. L’Alleanza tra Yahweh e il suo popolo reca in sé due aspetti inscindibili. Da una parte Dio ha compiuto fedelmente quanto aveva promesso (una terra al suo popolo), mentre non si può dire altrettanto della risposta di Israele. Da quando infatti è entrato nella terra promessa, la terra di Canaan, non ha resistito alla tentazione di abbandonare l’unico Dio e i suoi precetti (mitzvot) per rivolgersi agli idoli di quelle popolazioni. Il Signore gli aveva donato la terra perché vi vivesse in modo santo e il termine “santo” (Kadosh) indica qualcuno o qualcosa che è distinto dal resto, nel bene o nel male, e potrebbe tradursi con “separato”. Parliamo di Terra santa, ma meglio sarebbe dire “Terra separata”, territorio donato a Israele perché vi viva in maniera diversa e questo significa almeno tre cose. In primo luogo, è una terra destinata ad essere la patria d’un popolo felice perché fedele al proprio Dio; in secondo luogo è una terra chiamata a diventare terra di giustizia e di pace perché il popolo ha appreso dalla bocca del suo Dio che non è il solo popolo al mondo e che quindi deve imparare a coabitare con altri. Da questo punto di vista la lunga storia biblica d’Israele può leggersi come un cammino di difficile conversione dalla violenza alla fraterna apertura agli altri. In terzo luogo, la Terra santa costituisce nel progetto divino lo spazio per imparare a vivere interamente secondo la Torah. Comprendiamo allora il comando del Signore: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi”. Se questo testo risale all’epoca dell’esilio a Babilonia, si potrebbe interpretare così: Israele non avrebbe mai perso questa Terra se avesse seguito la Torah e i comandi del suo Dio, ma ora che sta per rientrarvi, cerchi almeno questa volta di essere fedele a quanto garantisce la sua felicità. Essere fedele per Israele però non appariva facile ed è per questo che l’autore sacro, per incoraggiarlo, inventa un nuovo argomento: “udendo parlare di tutte queste leggi”, cioè vedendo la vita e lo stile che lo anima, le altre popolazioni diranno : “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Qui si avverte l’eco del libro dei Proverbi che considera l’accoglienza della Sapienza (Pr 9, 1-6 che abbiamo ascoltato nella scorsa XX domenica del tempo ordinario) il modo migliore di imparare a vivere. Infine, un ultimo argomento: la dolcezza della vita secondo l’Alleanza è l’esperienza spirituale unica al mondo di cui Israele ha avuto il privilegio: .“Quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?”.
2. A nostra volta, noi popolo di battezzati possiamo parafrasare e ripetere: “Quale grande nazione ha gli dei tanto vicino come il Signore lo è verso di noi ogni volta che lo invochiamo?”. Questa domanda ci provoca e per tentare una risposta occorre partire da un’altra parola di Gesù che troviamo oggi nel vangelo: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Siamo nel cuore di una controversia con i farisei che rimproverano i suoi discepoli di non osservare la Torah. Si fa cenno qui alla “tradizione degli antichi”: la parola tradizione ripetuta nel versetto 3 e 5 non va intesa in senso dispregiativo. Essa anzi costituisce la ricchezza di quanto gli antenati hanno cercato di insegnare circa la Legge divina e hanno codificato, sotto forma di precetti, i comportamenti graditi a Dio, che concernono ogni più piccolo dettaglio della vita quotidiana. Per tale motivo i farisei ritenevano l’osservanza di tale disciplina indispensabile per preservare l’identità del popolo ebreo. Israele si sentiva una nazione “separata” per appartenere a Dio e quindi ogni contatto con i pagani costitutiva un impedimento alla propria fedeltà all’Alleanza. Ecco perché i farisei s’indignano contro i discepoli di Cristo per il fatto che vanno contro la Legge mangiando senza essersi lavate le mani. Citando il profeta Isaia Gesù li definisce “ipocriti” e questa sua severità sottintende un problema di fondo, che interpella la nostra vita. In verità anche Gesù cita le Scritture che sono per tutti il riferimento supremo d’ogni scelta e dice: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” . Qui sta il problema: l’osservanza fedele d’ogni norma della Legge diventa un culto inutile se le dottrine che s’insegnano si riducono a precetti umani, come già i profeti avevano più volte dichiarato (Cf Is 29,13). Gesù afferma: Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Quale sia il comandamento di Dio a cui faccia riferimento, che farisei e scribi calpestano, Gesù non lo dice, ma rimprovera loro di “avere il cuore lontano da Dio”. Torna spesso nel Vangelo questo rimprovero del Signore - lottando contro ogni esclusione compiuta in nome di Dio e questa è la tela di fondo delle sue controversie con le autorità religiose. Si comprende in modo errato la legge divina se si crede che per avvicinarsi a Dio bisogna separarsi dagli altri uomini. Al contrario i profeti hanno dispiegato ogni energia per far scoprire che il vero culto gradito al Cielo comincia con il rispetto di ogni persona umana. Se nel Levitico leggiamo: “Siate santi, perché io, il SIGNORE vostro Dio, sono santo” (19,2), non dimentichiamo che lo stesso Dio è annunciato da Isaia come il Dio del perdono (Is 43) che non può mai condurre al disprezzo degli altri. E Gesù spiega poi in cosa consiste la vera “purità”, cioè il culto autentico reso a Dio. Se in senso biblico “purità” indica la maniera di avvicinarsi a Dio, la vera purità del cuore, come molti profeti hanno ripetuto, è l’amore e il perdono, la tenerezza e l’accoglienza: in una parola la misericordia, mentre l’impurità che condanna nei suoi avversari è l’indurimento del cuore perché è ciò che fuoriesce dal cuore umano a renderci impuri.
3. Gesù infatti si rivolge poi ai discepoli e completa così il suo insegnamento: Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo. Bisogna riconoscere che si tratta di un insegnamento difficile da comprendere non solo per i farisei, ma anche per noi. E’ però una lezione di vita che riusciamo a comprendere ed accettare appieno solamente grazie al fatto che Dio è venuto ad abitare fra noi mostrando con il suo esempio di non aver paura del contatto con gli esseri impuri che noi siamo. E per incoraggiare i discepoli subito dopo Gesù se ne va in una regione abitata da pagani. Come ai tempi di Cristo, esiste il rischio dei farisei che era il movimento religioso nato verso il 135 a.C. dal desiderio di sincera conversione. Il termine fariseo significa “separato” e si traduce nel rifiuto di ogni compromesso politico e di ogni lassismo nella pratica religiosa. Si tratta di due problemi molto sentiti e Gesù non attacca mai i farisei e non rifiuta di parlare con loro, come fa con Nicodemo (Gv 3) e con Simone ( Lc 7). Ma la pretesa di ogni più alto ideale spirituale e religioso può avere la sua trappola: il rigore dell’osservanza può generare una coscienza talmente centrata sulla ricerca dell’ottimo, da disprezzare chi non arriva a farlo. Più in profondità, quando si concepisce la perfezione nel vivere in maniera esclusiva e “separati” si dimentica che il progetto di Dio è di vedere tutti gli uomini riuniti nell’amore. Se Gesù usa talora parole dure non è contro la pratica dei farisei, ma condanna quelle deviazioni che riguardano ciò che si definisce “fariseismo” e di questo rischio non è esente nessun movimento religioso, compreso il cristianesimo.
Buona domenica e buon mese di settembre
+Giovanni D’Ercole
XX Domenica del tempo ordinario B (18 agosto 2024)
1. Come domenica scorsa, anche quest’oggi san Paolo, nella seconda lettura, rivolge agli Efesini alcune raccomandazioni, che possiamo riassumere in quattro punti: “non vivete come dei pazzi, ma siate saggi”; “fate buon uso del tempo perché i giorni nostri sono cattivi”; “non ubriacatevi di vino che fa perdere il controllo di sé, ma siate ricolmi dello Spirito”; “rendete continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre nel nome di nostro Signore Gesù Cristo”. Vivere come pazzi o come saggi è la sfida per ogni essere umano. Lo sforzo di chi vuole seguire Gesù è nutrirsi della sua sapienza che si presenta come un cammino, un modo di concepire la vita e di comportarsi non alla maniera di questo mondo bensì secondo la vocazione dei figli della luce, immersi nell’amore divino. Stiamo attraversando, osserva san Paolo, tempi non facili fra gente che facilmente diventa egoista, nemica del bene e amante dei piaceri piuttosto che dedicarsi alla ricerca della gioia di Dio (Cf. 2 Tm 3, 1-7). La vera sapienza consiste nell’accogliere ogni giorno la volontà di Dio, riempirsi non di vino che ubriaca, cioè di ciò che stordisce la coscienza e indebolisce la volontà, ma di Spirito Santo che rende capaci di vivere nella lode, nell’adorazione e nel ringraziamento. Grazie all’azione dello Spirito Santo tutta l’umana esistenza si converte in una vera liturgia perché è lui a introdurci nella sapienza di Cristo, Colui che dona la vita perché il mondo abbia la vita.
2. Il riferimento di san Paolo alla sapienza divina, e di questa sapienza parla anche la prima lettura tratta dal libro dei Proverbi, ci prepara alla meditazione dell’odierna pagina del vangelo di Giovanni che prosegue il racconto della catechesi sull’Eucarestia che Gesù tiene nella sinagoga di Cafarnao. Quest’oggi riprende con quest’affermazione: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (v.51). Gesù non sta parlando di un cannibale, di antropofagia; e non si meravigliano i suoi ascoltatori perché minimamente sospettano che si tratti di un linguaggio assurdo. Nel mondo ebraico si era abituati ad utilizzare la metafora del mangiare e del bere e si sapeva che esistono fame e sete più urgenti ed esigenti di quelle dello stomaco. Ci sono uomini che possono riempirsi lo stomaco a volontà, ma soffrono di mancanza di amore, allo stesso modo il cuore umano lontano da Dio finisce per morire di inedia spirituale. La sapienza per il popolo d’Israele è sempre una scelta: tra la vita o la morte, tra il bene o il male, tra la gioia o la tristezza mortale, tra Dio o l’uomo. Dio solo però, conoscendola può donare all’uomo la vera sapienza che non delude. Nel libro della Genesi il racconto dell’albero della conoscenza del bene e del male e del peccato di Adamo ed Eva costituisce una metafora per dire che la conoscenza di ciò che rende l’uomo veramente libero e felice o schiavo e infelice è accessibile solo a Dio e l’uomo con la sola sua intelligenza/volontà non può mai costruirsela (Gn 2, 8 - 3, 24). All’uomo allora non resta che mettersi in ascolto obbediente di Dio, il quale ha voluto dare in dono la sapienza al suo popolo e Israele è fiero di essere il depositario della sapienza divina dinanzi al mondo intero. Sempre nella prima lettura dal libro dei Proverbi, si dice che la divina sapienza ha posto la sua tenda sulla montagna santa a Gerusalemme e “si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne”. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola e ha mandato le sue ancelle a proclamare a chi è inesperto e a chi è privo di senno: “venite a mangiare pane e bere vino che vi ho preparato”. Non si fa fatica a capire il nesso tra il dono della Sapienza e il dono dell’Eucarestia, tutto e sempre nella logica del dono.
3. Gli ascoltatori a Cafarnao conoscevano questi testi dell’Antico Testamento e per questo rimangono basiti quando Gesù parla di sé come del pane della vita e si chiedono: ma per chi si prende quest’uomo che conosciamo bene? Capivano che Gesù si stava presentando come il Messia che loro aspettavano e questo era per loro inaccettabile. Nel suo discorso Gesù più volte ha insistito sul fatto di essere l’Inviato di Dio per dare la vita al mondo affrontando l’incomprensione, il mormorio critico e spesso il deciso rifiuto degli ascoltatori. Rifiuto della sua identità che san Giovanni afferma già nel prologo del suo vangelo, quando scrive che il Verbo “venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1, 11). In effetti pochi riescono a entrare gradualmente nel mistero di Dio e sono coloro che umilmente ascoltano Gesù fino in fondo invece di cominciare subito a discutere. Questo vale anche per noi: solo avvolti dalla sapienza divina che è follia per gli uomini possiamo accostarci al mistero. Gesù di Nazaret, ebreo tra gli ebrei, parlava con il linguaggio del tempo, utilizzava le stesse immagini e i medesimi simboli. Chi lo ascoltava poteva capirlo almeno per il fatto che stava usando lo stesso vocabolario e condivideva la stessa maniera di ragionare. Invece la maggioranza decide di non seguirlo e questo avviene in tanti momenti della sua vita. Non essendoci nel quarto vangelo, come invece nei sinottici, il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia il Giovedì Santo dopo l’ultima cena, questo discorso costituisce una prima grande catechesi sul mistero eucaristico. Quando Giovanni scrive il vangelo, le prime comunità cristiane erano già abituate da diversi anni a nutrirsi del corpo e del sangue di Cristo ogni domenica e cercavano di capire questo mistero. Ma più che cercare di capire – dice Gesù - occorre con umiltà lasciarsi contagiare dal mistero. Nel cuore della preghiera eucaristica anche il celebrante lo proclama: questo è “Mistero della fede”. Entrare nel mistero dell’Eucarestia va oltre la nostra capacità ed allora è necessario lasciarsi illuminare e condurre da Dio. E Gesù spiega ancora: “Come il Padre che la vita ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”. Vivere la stessa sua vita: è questo il dono di Dio agli uomini nell’Eucaristia. Gesù aveva proclamato che la sua parola è nutrimento per il mondo, ma qui va ben oltre, parla di carne da mangiare che diventa cibo da assimilare non solo per noi stessi ma per il bene dell’umanità: ”Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo”. Si riferisce alla sua passione e alla sua morte e risurrezione dato che tutto il Nuovo Testamento ci fa comprendere che il mondo ha ritrovato la vita grazie proprio al dono della croce gloriosa di Cristo, cioè vittoriosa della morte. Non meravigliamoci se facciamo fatica a capire con la nostra intelligenza perché l’unica strada percorribile non è cercare di capire, ma lasciarci attrarre da Dio. A coloro che mormoravano tra loro quando Gesù aveva detto di essere il pane disceso dal cielo, Gesù aveva replicato: “Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio”. Dunque per l’uomo tutto è difficile se Dio stesso non viene ad istruirci. Quando ascoltiamo gli insegnamenti del Padre incontriamo Gesù perché “nessuno viene a me – insiste - se il Padre mio non l’attira”. Nell’Eucarestia siamo attratti: è la Trinità Santissima che ci attrae divinamente a sé. Sì, nella celebrazione eucaristica, entriamo nel mistero della Santissima Trinità. Prima, durante e dopo restiamo in adorazione lasciandoci istruire e trasformare da Dio Trinità Santissima e Misericordia infinita. Questo è l’esempio dei santi, che traggono dall’immersione nel mistero della Santissima Trinità la forza per amare tutti nella verità. E questo è un dono offerto a tutti. Durante la sua breve vita, Carlo Acutis, un adolescente già beato e presto proclamato santo viveva dell’Eucarestia. Diceva: "L'Eucaristia è la mia autostrada per il Paradiso", e "se stiamo davanti al sole, diventiamo marroni, ma quando stiamo davanti a Gesù nell'Eucaristia, diventiamo santi".
+Giovanni D'Ercole
Solennità dell’Assunzione di Maria (15 agosto 2024)
1. Nel cuore dell’estate la liturgia c’invita a celebrare la Vergine Maria assunta in cielo, segno di consolazione e di sicura speranza per tutti. Fu papa Pio XII, il 1° novembre dell’Anno Santo del 1950, a dichiarare come dogma (cioè verità di fede) l’Assunzione di Maria alla gloria celeste in anima e corpo. L’odierno Vangelo di Luca presenta Maria come colei che è beata perché ha creduto. Al saluto di Elisabetta: “A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?”, lei risponde con il suo silenzio che si espande alla fine nel canto del Magnificat. Al suo posto parla in maniera misteriosa Gesù in gestazione dentro di lei facendo sussultare di gioia Giovanni Battista nel ventre dell’anziana Elisabetta. Eccola Maria, Arca della nuova alleanza, primo itinerante tabernacolo dell’Eucarestia nella storia dell’umanità, modello di evangelizzazione: annunciare il vangelo senza bisogno di parole, recando Cristo nel cuore. Fra i mussulmani san Charles de Foucauld scelse l’icona della Visitazione come riferimento per la sua missione di piccolo fratello di tutti. Volle essere come Maria in adorazione costante dell’Eucarestia e in ascolto dei bisogni della gente dapprima a Beni-Abbès, al confine tra Algeria e Marocco e poi a Tamanrasset fra i tuareg del deserto del Sahara. Arca della nuova alleanza, Maria continua a camminare anche oggi ed entra nelle nostre case come fece nell’Antico Testamento l’Arca dell’alleanza che da Gerusalemme fu portata sulle colline della Giudea ed entrò per restarvi tre mesi nella casa di Obed Edom recandovi gioia (2 S 6,11-12). La preghiera, il cantico del Magnificat con cui risponde ad Elisabetta, è una silloge di tanti piccoli frammenti di testi biblici e salmi. Non ha voluto inventare la sua preghiera, ma ha ripreso diverse espressioni degli antenati nella fede incarnando così la sua preghiera nella vita dell’umanità. Maria, donna umile e credente, ci offre un prezioso insegnamento: in questo tempo tanto difficile per l’umanità dove si sta provocando Dio con ogni offesa e si rischia una guerra che potrebbe creare l’autodistruzione dell’umanità dobbiamo tornare al silenziare tante polemiche e tanti dibattiti e scontri. Dobbiamo avvertire la responsabilità di ciò che diciamo e facciamo sapendo che siamo parte di una stessa umanità e nel bene come nel male tocchiamo la vita di tutti. Il credente non può dimenticare che ogni vocazione, pur nella pluralità delle differenze, ci rende servitori dell’unico popolo chiamato ad affrontare in ogni epoca una dura lotta contro le potenze del male.
2. A questa guerra senza fronti fa riferimento la prima lettura, tratta dal libro dell’Apocalisse, che vede vincitrice la “Donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle”, accompagnata da altre simboliche immagini: l’Arca dell’alleanza, il dragone e il bambino appena nato. L’Arca dell’alleanza, come già detto, è il richiamo all’Arca di legno dorato che accompagnava il popolo di Dio durante l’esodo verso il Sinai. Quando Giovanni scrive l’Apocalisse, l’Arca dell’alleanza si era persa già da molti anni durante l’esilio babilonese e tutti pensavano che il profeta Geremia l’avesse nascosta in un posto segreto del monte Nebo (2 M 2,8) e sarebbe riapparsa all’arrivo del Messia. Se Giovanni la descrive ritrovata, vuol dire che ormai si è compiuta la promessa, si è definitivamente attuata l’alleanza di Dio con l’umanità grazie alla nascita del Messia (Ap 11,19). La “Donna vestita di sole” è incinta e “grida per le doglie del parto”. La Donna è immagine del popolo eletto all’interno del quale nasce il Messia, un parto doloroso perché è un popolo segnato da sofferenze, divisioni e persecuzioni. Con l’avvento di Gesù non fu difficile ai primi cristiani associare nella Donna dell’Apocalisse il richiamo alla Chiesa, nuovo Israele e a Maria, la Madre del Salvatore. Davanti alla Donna si apposta “un dragone rosso con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi” per divorare il figlio appena nato, simbolo impressionante delle forze del male scatenate contro il piano di Dio. La sua testa e le corna indicano l’intelligenza e la violenza del potere di satana che vuole distruggere l’umanità. Il drago sembra prevalere perché abbatte un terzo delle stelle de cielo per precipitarle a terra, eloquente parabola del travaglio di un universo mai in pace. Nonostante però la sua potenza, riesce ad abbattere soltanto un terzo delle stelle. Si tratta quindi di una vittoria illusoria e il messaggio è chiaro: il potere del male è provvisorio e ad abbatterlo definitivamente sarà il bambino appena nato destinato a governare tutte le nazioni. Tutti riconoscono in questo neonato, trionfatore delle potenze sataniche, il Messia essendoci nell’Apocalisse chiari riferimenti ai salmi che ne prevedevano la venuta: ”Il Signore mi ha detto : Tu sei mio figlio , io oggi ti ho generato . Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre lontane. Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai.” (Sal 2,7-9). Inoltre, nel rapimento del neonato è simboleggiata la risurrezione di Cristo risorto, vincitore della morte e assiso alla destra del Padre. Al Messia si unisce il richiamo a Maria, la vergine Madre Immacolata, rappresentata sempre nell’atto di schiacciare la testa del serpente- dragone, il quale avendo fallito in cielo non riuscirà nemmeno sulla terra. Come allora non amare Maria entrando nel suo Cuore Immacolato, “sicuro rifugio delle anime”?
3. Maria è sostegno della nostra speranza perché è Donna della fede che ha accettato il progetto di Dio senza tutto comprendere, anzi una spada le ha trafitto l’animo come aveva predetto il vecchio Simeone (Lc 2,35). La tradizione della Chiesa fin dall’inizio l’ha associata inscindibilmente a Gesù, il modello insuperabile della totale adesione alla volontà di Dio. Anzi lui stesso c’insegna con l’orazione del “Padre nostro” ad abbandonarci senza paura tra le braccia del Padre celeste dicendogli con la vita: “si compia la tua volontà”. Maria ha conosciuto come tutti noi la fatica, il dolore e la morte; per uno speciale privilegio però la morte è stata per lei un addormentarsi entrando così nella gloria in Dio. Contemplandola possiamo capire ciò che attendeva l’uomo se i nostri progenitori non avessero compiuto il primo peccato che ci ha resi condannati ai patimenti della morte. Alla luce di Maria possiamo dunque affermare due verità: Il nostro corpo, a causa del peccato originale, è soggetto alle fatiche, alla sofferenza e alla morte che decompone il nostro essere mortale. Maria assunta in cielo ci assicura però che, se a causa del peccato è entrata la morte, Dio può trasformarla e ridarci in dono la vita immortale. Questo è il messaggio dell’odierna festa dell’Assunzione, un’occasione per riflettere, pregare e confidare nella misericordia di Dio che in Maria ci mostra la vittoria dell’amore sull’odio e della vita sulla morte. Fermiamoci a contemplare Maria con questa preghiera di san Bernardo: “Chiunque tu sia, tu che avverti che nel flusso di questo mondo stai ondeggiando tra burrasche e tempeste invece di camminare sicuro sulla terra, non distogliere gli occhi dallo splendore di questa stella, se non vuoi essere sopraffatto dalle tempeste! Se si alzano i venti della tentazione, se t’imbatti negli scogli delle tribolazioni, guarda la stella, invoca Maria. Se sei sbattuto dalle onde della superbia, dell’ambizione, della calunnia, della gelosia, guarda la stella, invoca Maria. Se l’ira o l’avarizia o le lusinghe della carne hanno scosso la navicella del tuo animo, guarda Maria. Se turbato dalla enormità dei peccati, confuso dalla indegnità della coscienza, impaurito dall’orrore del giudizio, tu cominci ad essere inghiottito nel baratro della tristezza, nell’abisso della disperazione, pensa a Maria. Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Non s’allontani dalla tua bocca, non s’allontani dal tuo cuore. E per ottenere il suffragio della sua preghiera, non abbandonare l’esempio della sua vita raccolta in Dio. Seguendo Lei non ti smarrisci, pregando Lei non ti disperi, pensando a Lei non sbagli. Se Lei ti tiene, non cadi; se Lei ti protegge, non temi; se Lei ti guida, non ti stanchi; se Lei ti dà il suo favore, tu arrivi al tuo fine, e così sperimenti in te stesso quanto giustamente sia stato detto: «E il nome della Vergine era Maria” (In laudibus Virginis Matris II,17).
+ Giovanni D’Ercole
The evangelization of the world involves the profound transformation of the human person (Pope John Paul II)
L'opera evangelizzatrice del mondo comporta la profonda trasformazione delle persone (Papa Giovanni Paolo II)
The "widow" represents the soul of the People from whom God, the Bridegroom, has been stolen. The "poor" is such because she is the victim of a deviant teaching: a doctrine that arouses fear, more than humility or a spirit of totality. Jesus mourns the condition of she who should have been helped by the Temple instead of impoverished
La “vedova” raffigura l’anima del Popolo cui è stato sottratto Dio, lo Sposo. La “povera” è tale perché vittima di un insegnamento deviante: dottrina che suscita timore, più che umiltà o spirito di totalità. Gesù piange la condizione di colei che dal Tempio avrebbe dovuto essere aiutata, invece che impoverita
Jesus has forever interrupted the succession of ferocious empires. He turned the values upside down. And he proposes the singular work - truly priestly - of the journey of Faith: the invitation to question oneself. At the end of his earthly life, the Lord is Silent, because he waits for everyone to pronounce, and choose
Gesù ha interrotto per sempre il susseguirsi degli imperi feroci. Ha capovolto i valori. E propone l’opera singolare - davvero sacerdotale - del cammino di Fede: l’invito a interrogarsi. Al termine della sua vicenda terrena il Signore è Silenzioso, perché attende che ciascuno si pronunci, e scelga
The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
don Giuseppe Nespeca
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