Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Il Vangelo di questa domenica (cfr Mc 10,2-16) ci offre la parola di Gesù sul matrimonio. Il racconto si apre con la provocazione dei farisei che chiedono a Gesù se sia lecito a un marito ripudiare la propria moglie, così come prevedeva la legge di Mosè (cfr vv. 2-4). Gesù anzitutto, con la sapienza e l’autorità che gli vengono dal Padre, ridimensiona la prescrizione mosaica dicendo: «Per la durezza del vostro cuore egli – cioè l’antico legislatore – scrisse per voi questa norma» (v. 5). Si tratta cioè di una concessione che serve a tamponare le falle prodotte dal nostro egoismo, ma non corrisponde all’intenzione originaria del Creatore.
E qui Gesù riprende il Libro della Genesi: «Dall’inizio della creazione (Dio) li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola» (vv. 6-7). E conclude: «Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (v. 9). Nel progetto originario del Creatore, non c’è l’uomo che sposa una donna e, se le cose non vanno, la ripudia. No. Ci sono invece l’uomo e la donna chiamati a riconoscersi, a completarsi, ad aiutarsi a vicenda nel matrimonio.
Questo insegnamento di Gesù è molto chiaro e difende la dignità del matrimonio, come unione di amore che implica la fedeltà. Ciò che consente agli sposi di rimanere uniti nel matrimonio è un amore di donazione reciproca sostenuto dalla grazia di Cristo. Se invece prevale nei coniugi l’interesse individuale, la propria soddisfazione, allora la loro unione non potrà resistere.
Ed è la stessa pagina evangelica a ricordarci, con grande realismo, che l’uomo e la donna, chiamati a vivere l’esperienza della relazione e dell’amore, possono dolorosamente porre gesti che la mettono in crisi. Gesù non ammette tutto ciò che può portare al naufragio della relazione. Lo fa per confermare il disegno di Dio, in cui spiccano la forza e la bellezza della relazione umana. La Chiesa, da una parte non si stanca di confermare la bellezza della famiglia come ci è stata consegnata dalla Scrittura e dalla Tradizione; nello stesso tempo, si sforza di far sentire concretamente la sua vicinanza materna a quanti vivono l’esperienza di relazioni infrante o portate avanti in maniera sofferta e faticosa.
Il modo di agire di Dio stesso con il suo popolo infedele – cioè con noi – ci insegna che l’amore ferito può essere sanato da Dio attraverso la misericordia e il perdono. Perciò alla Chiesa, in queste situazioni, non è chiesta subito e solo la condanna. Al contrario, di fronte a tanti dolorosi fallimenti coniugali, essa si sente chiamata a vivere la sua presenza di amore, di carità e di misericordia, per ricondurre a Dio i cuori feriti e smarriti.
Invochiamo la Vergine Maria, perché aiuti i coniugi a vivere e rinnovare sempre la loro unione a partire dal dono originario di Dio.
[Papa Francesco, Angelus 7 ottobre 2018]
(Mc 9,41-50)
Con linguaggio tipico della vivacità orientale, le esortazioni di Gesù alla convivenza rovesciano la gerarchia tra potenti e deboli.
Nelle religioni troviamo frotte di emarginati che non possono accedere agli allestimenti della devozione piramidale.
Al contrario, chi come Gesù è in grado di donare tutto, non deve dimenticare i piccoli gesti, che parlano d’un ‘gratis non esemplare’ quindi autentico [limitato nel giorno dopo giorno].
È questo venire incontro nel sommario - poco encomiato - che valorizza il clima e non spinge i deboli al risentimento, e al male.
La nuova ‘dottrina’ di Gesù è sapiente e finalizzata alla decisione. E non smarrisce l’entusiasmo; anzi, ci fa già sperimentare la stessa qualità di Vita come dell’Eterno, allontanando da ciò che corrompe.
Chi è tutto preso dal “grande” e non s’accorge del dettaglio, mai ha il senso del valore delle cose, e presto o tardi finirà per disprezzare tutto.
Gesù s’identifica con noi (v.41) perché ci abita: siamo la sua Vittoria reale, incarnata.
Una pietra d’inciampo o anche solo nella scarpa (v.42) allontana i «mikròi» dal cammino di Fede.
Gli «incipienti» - appunto, i dotati di poca energia e relazioni - iniziano a fare i primi passi… sono ancora fuori dalle cordate.
Coloro che pretendono e si mettono di traverso, o danno scialba e pessima testimonianza, hanno però in serbo altro che una pietruzza: una mola al collo e una fine indegna [esistenza mortifera: v.42].
Non perché Dio la fa pagare, ma perché buttano la vita e rovinano gli altri, che infine si allontanano ripugnati - mentre l’avventura di condivisione potrebbe essere meravigliosa per ciascuno.
La scelta - se c’è - è radicale, o non convince più. E l’odore che si sprigiona è peggio che maleodorante (v.43).
Invece, la comunità in cui si sperimenta gioia è come quel pizzico di sapidità e sapienza che rende piena - bella - l’onda vitale spontanea della gente.
Ciò nelle religioni dell’impero era abituale pensarlo, anche in nome della legge... dunque, qual è la differenza?
«Avere sale in noi stessi» (v.50) significa che in Cristo siamo resi capaci di dare alle cose minime e consuete quella tonalità e ‘gusto’ in grado di trasmettere anche al prossimo il sapore di una vita da salvati - a partire ‘da dentro’.
Nella cultura del medio oriente antico, il «sale» era messo in relazione con Dio e aveva dunque un’importanza anche religiosa: simbolo di durata [per conservare i cibi] e di coraggio [sapidità, condimento, purificazione].
Il sale aveva potere di scacciare i demoni, che corrompevano la vita e suscitavano fetore. Per tale motivo era largamente usato nei sacrifici cultuali e nel sancire Alleanze.
Insomma, il sale era garanzia di durata genuina.
Ma il sale dei ‘figli’ è solo… completezza umanizzante, Amore semplice al prossimo, e capacità di corrispondere alla propria Vocazione.
Se non vi fosse, scomparirebbe il carattere stesso della vita in Cristo.
Quindi il «patto del sale» è essenziale per la credibilità, per l’Annuncio, per il tenore della vita; per la sopravvivenza stessa delle comunità, e il loro tocco inconfondibile.
Nessun’altra opera di difesa dall’esterno - inquisizione, prevenzione o repressione - può garantire la sopravvivenza della Chiesa.
Per il nostro progresso umano, spirituale e della vita intera, Gesù parteggia forse non come ci si attenderebbe - perché a nessuno è data l’esclusiva.
[Giovedì 7.a sett. T.O. 27 febbraio 2025]
(Mc 9,38-43.45.47-48)
La concezione di chiusura e inquisizione
(Mc 9,38-40)
Non è strano che la santa Inquisizione sia nata nel tempo di una ecclesiologia assente.
La malattia della casta - sempre incline al sequestro di Gesù - e il senso dell’assoluto monopolio... erano già tentazioni delle prime comunità, segnatamente degli Apostoli di spicco.
I superApostoli pretendevano fissare la tipologia dei membri di Chiesa, comprese autorizzazioni, deferenze, caratteristiche.
Invece - sebbene in semplicità - non c’è nessun criterio banale che porga l’imprimatur di poter discriminare “fedeli” e “non”.
Vale: quanto conta la Persona del Figlio dell’uomo, per la nostra vita e nelle scelte quotidiane?
Sentire - o meno - amico chiunque s’impegni ad annientare il male (ricorrendo magari al suo modo libero di recepire Dio) fa riflettere anche oggi.
Siamo solo alle soglie d’un cammino nello Spirito? Il segno di una separazione di fatto dal disegno di Dio sulla donna e l’uomo viene forse celato da espressioni epidermiche.
Probabilmente non abbiamo ben capito che ogni passo di liberazione - ovunque provenga - avvicina al Padre e ci umanizza anche la testa.
Il lievito dei farisei e di Erode (Mc 8,14) porta anche i discepoli diretti di Cristo a una mentalità sigillata - secondo la quale se qualcuno “non è dei nostri” («non ci seguiva» v.38) dev’essere emarginato.
La differenza tra religiosità e Fede: non c’è più bisogno di aderire a un modo di pensare riconosciuto, né essere membro d’un club ufficiale.
Saggezza spirituale e Apertura sono la stessa cosa. Ogni gesto vitale spalanca possibilità felici: l’essere «attirati da Dio» è tutto questo.
Per fare il bene (scacciare i demoni, v.38) non conta il distintivo (ad es il nome sul registro dei Battesimi) o essere confermato in circoli esclusivi.
Nell’avventura personale della Fede genuina, non c’è monopolio - neppure per l’apostolo Giovanni. Nessuno è abilitato a sentenziare in nome dell’assemblea!
La santità come separazione attiene i criteri, la mentalità, la concatenazione dei princìpi (o il loro rovesciamento): non l’elezione-predestinazione di un “popolo di puri”.
Per Cristo ciò che conta non è l’appartenenza formale - che tende a omologare - ma cosa fare nel concreto (ovviamente su base vocazionale e d’inclinazione irripetibile).
Non ha peso alcuno il sentirsi discepolo, bensì l’esserlo di fatto. L’amore per la “verità” non esclude, bensì include tutti coloro che hanno alti valori (anche sovrannaturali, e che non capiamo).
L’adesione autentica è sul bene - unica Vittoria del popolo dei rinati nel Risorto. Opera di vita che anche la Chiesa ufficiale è chiamata a edificare, senza atteggiamenti schizzinosi.
Anzi, vediamo che proprio le situazioni fuori le righe diventano pungolo: sollecitano i “cristiani” scialbi e opachi a farsi seme.
La “comunità” non è importante perché si ritiene tale.
La chiamata universale alla promozione dell’umanità è divina: ricchezza che sorvola gli ostacoli, patrimonio di gioia da qualsiasi parte provenga.
Se relegata e stretta negli schedari, la storia della Salvezza non si fa vita da salvati.
Il Corpo mistico del Signore rifugge l’ideologia di potere e lo stile supponente dei manipolatori (arraffoni spirituali) che immaginano di essere chissà cosa.
«Ma Gesù disse: Non glielo impedite. Infatti non c’è nessuno che faccia una meraviglia potente nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me» (v.39).
Per formare i discepoli, Cristo non solletica l'amor proprio allestendo un festival o promuovendo fictions.
Con i suoi intimi, il Maestro non usa un linguaggio diplomatico (espressioni attente a non offendere la loro suscettibilità di esperti).
La formazione dei discepoli è essenziale alla costruzione del Regno dai larghi confini, anzitutto mentali.
Nelle religioni esoteriche esistono modelli. Qui no, solo carismi, anche personalissimi - condizione dell’amore vero.
Siamo governati da Dio solo - unico a sapere quel che suscita in ciascuno, e dove andare.
Gesù è rivelatore e cardine di questa Notizia lieta, impensabile: ma nel senso di Motivo e Motore intimo, del tutto non esteriore.
Il Signore chiama la persona nel modo che agli altri pare incomprensibile.
Cristo marca la sua Amicizia nella vita dei credenti, quale centro e asse. Eppure sono moltissimi i gesti e le sensibilità che il mondo nuovo suscita, e parimenti segnano la sua Presenza.
L’educazione interiore e la scommessa della Fede riflessa nelle attività ci prepara alla vita quotidiana, nonché alla grande missione.
Formandoci alla Parola-evento schietta, il Messia dimesso trasmette la sua stessa esperienza del Padre.
Egli ci coinvolge con incredibile e immeritata fiducia nell’opera di evangelizzazione.
Né si stanca di ripetere ciò che non desideriamo capire.
Il Figlio dell’uomo ordina solo di percepire bene la realtà (Mc 8,27-29) dove si annida il segreto di Dio (che il pensiero conformista non riesce neanche lontanamente a immaginare: Mc 8,30-35).
La Regola vale solo per la devozione normalizzata, la quale pone sempre più risposte (già antiche) che domande.
Lo standard non ha peso specifico per l’eccedenza dell'avventura di Fede.
Lo squilibrio dell’amore è personale: serenamente ammette la diversità e l’incremento eccentrico di vita che ne sussegue.
È tale la nuova coscienza della Missione fatta nell’ascolto, e nel rispetto non solo nei confronti dell’intelligenza e cultura altrui, ma anche di se stessi.
Tuttora in mille guise e finalmente con l’aiuto di un Magistero ecclesiale più saggio, la Provvidenza incoraggia a collocarci meglio - in appoggio proprio agli esclusi dal “giro”.
L’opera della “conversione evangelica” giunge chiara e forte sino a noi, sorvolando qualsiasi considerazione fatta dal punto di vista di Chiesa trionfante o di antico diritto.
Nessuno ha il monopolio della Grazia: motivo per non rattrappire il cuore sui canoni o sulle mode.
Nella verità del Bene, il senso di proprietà è fuori luogo.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Che peso hanno su di te gli interessi materiali, le vuote rigidezze, o le fantasie senza nerbo, di chi (senza neppure aver titolo) scimmiotta piccole gerarchie e fulmina i diversi con mediocri sentenze impersonali?
Come vivi la Parola: «Chi non è contro, è per»?
Il rapporto con gli esclusi e le loro esigenze (modeste)
(Mc 9,41-50)
Con linguaggio tipico della vivacità orientale, le esortazioni di Gesù alla convivenza rovesciano la gerarchia tra forti e deboli.
Nelle religioni troviamo frotte di emarginati che non possono accedere né partecipare agli allestimenti di coloro che ingannano le folle (anche se stessi) usando la religione piramidale.
La vigliaccheria delle classi abbienti produce l’esitazione dei senza voce, indefinitamente.
Nella Chiesa di Dio - segno di società alternativa - non ci dev’essere dubbio, a partire dalle piccole privazioni.
Men che mai in ambito ben strutturato nei ruoli, i miseri attenderebbero di vedere (non dico realizzate le speranze di riscatto, ma semplicemente) esaudite le esigenze modeste che si trascinano dietro, per motivi di giustizia.
Purtroppo, ancora oggi risultano piuttosto beffeggiati e castigati - da coloro che temono di perdere visibilità, privilegi e ruoli.
Al contrario, chi come Gesù è in grado di donare tutto, non deve dimenticare i piccoli gesti, che parlano d’un gratis non “esemplare” quindi autentico (limitato nel giorno dopo giorno).
È questo venire incontro nel sommario - poco encomiato - che valorizza il clima e non spinge i deboli al risentimento, e al male.
La nuova “dottrina” di Gesù è sapiente e finalizzata alla decisione, perché non smarrisce l’entusiasmo. Anzi ci fa già sperimentare la stessa qualità di vita dell’Eterno, allontanando da ciò che corrompe.
Chi è tutto preso dal grande e non s’accorge del dettaglio, mai ha il senso del valore delle cose, e presto o tardi finirà per disprezzare tutto.
Gesù s’identifica con noi (v.41) perché ci abita: siamo la sua Vittoria reale, incarnata.
Una pietra d’inciampo o anche solo nella scarpa (v.42) allontana i «mikròi» dal cammino di Fede.
Gli «incipienti» - appunto, i dotati di poca energia e relazioni - iniziano a fare i primi passi… sono ancora fuori dalle cricche e dalle cordate (perfino interne).
Coloro che pretendono e si mettono di traverso, o danno scialba e pessima testimonianza, hanno però in serbo altro che una pietruzza: una mola al collo e una fine indegna (esistenza mortifera: v.42).
“Meglio” quella dei finti devoti che la mortificazione ulteriore di tutti, dai primi della classe costretti a vivere male.
Non perché Dio la fa pagare, ma perché buttano la vita e rovinano gli altri, che infine si allontanano, giustamente ripugnati - mentre l’avventura di condivisione potrebbe essere meravigliosa per ciascuno.
È questo del non senso (per usare un eufemismo) il tratto che spinge le folle a cercare un cristianesimo più autentico di quello vissuto solo nei segni, nelle passerelle e nelle formule, o nelle strutture preposte.
La scelta - se c’è - è radicale, o non convince più. E l’odore che si sprigiona è peggio che maleodorante (v.43).
A forza di professare, molti restano senza Dio e senza umanità; neanche si accorgono che esistono gli altri - differenti e legittime aspirazioni di vita (verso di sé ben riconosciute e trattenute).
Invece, la comunità in cui si sperimenta gioia è come quel pizzico di sapidità e sapienza che rende piena - bella - l’onda vitale spontanea della gente.
Il fermento che non fa lievitare non serve più a nulla.
A maggior ragione è vacuo anzitutto ai piccoli e malfermi che si accostano alla Chiesa per sentirsi bene, o finalmente non più esposti al ludibrio della società tutta esterna delle competizioni.
Atmosfera artificiosa, buona solo a ridurre al silenzio gl’indifesi, disprezzati e ridotti all’obbedienza - e che si fa burle dell’accoglienza.
Ciò nelle religioni dell’impero era abituale pensarlo, anche in nome della legge “divina”... dunque, qual è la differenza?
«Avere sale in noi stessi» (v.50) significa che in Cristo siamo resi capaci di dare alle cose minime e consuete quella tonalità e gusto in grado di trasmettere anche al prossimo il sapore di una vita da salvati - a partire da “dentro”.
Nella cultura del medio oriente antico, il sale era messo in relazione con Dio e aveva dunque un’importanza anche religiosa: simbolo di durata (per conservare i cibi) e di coraggio (sapidità, condimento, purificazione).
Il sale aveva potere di scacciare i demoni, che corrompevano la vita e suscitavano fetore. Per tale motivo era largamente usato nei sacrifici cultuali e nel sancire “alleanze”.
Insomma, il sale era garanzia di durata genuina.
Ma il sale cristiano è solo… Amore al prossimo e capacità di corrispondere alla propria Vocazione.
Se non vi fosse, scomparirebbe il carattere stesso della vita in Cristo.
Quindi il «patto del sale» è essenziale per la credibilità, per l’Annuncio, per il tenore della vita; per la sopravvivenza stessa delle comunità, e il loro tocco inconfondibile.
L’Ascolto dello Spirito e reciproco permane così ingrediente irrinunciabile dello «Shalôm».
Nessun’altra opera di difesa dall’esterno - inquisizione, prevenzione o repressione - può garantire la sopravvivenza della Chiesa.
Differenza tra religione e Fede? La norma, usata per promuovere o legittimare situazioni (di emarginazione e dominio).
Per il nostro progresso umano, spirituale e della vita intera, Gesù parteggia (forse non come ci si attenderebbe) - perché a nessuno è data l’esclusiva.
Per interiorizzare il messaggio:
Nella tua comunità sono i piccoli che devono adeguarsi ai grandi e ai loro circoli... o viceversa, c’è serio ascolto dei nuovi dalle scarse energie e relazioni, malfermi e disadattati?
Ancora una volta, dunque, guardiamo a Cristo come modello di umiltà e di gratuità: da Lui apprendiamo la pazienza nelle tentazioni, la mitezza nelle offese, l’obbedienza a Dio nel dolore, in attesa che Colui che ci ha invitato ci dica: "Amico, vieni più avanti!" (cfr Lc 14,10); il vero bene, infatti, è stare vicino a Lui. San Luigi IX, re di Francia […] ha messo in pratica ciò che è scritto nel Libro del Siracide: "Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore" (3,18). Così egli scriveva nel suo "Testamento spirituale al figlio": "Se il Signore ti darà qualche prosperità, non solo lo dovrai umilmente ringraziare, ma bada bene a non diventare peggiore per vanagloria o in qualunque altro modo, bada cioè a non entrare in contrasto con Dio o offenderlo con i suoi doni stessi" (Acta Sanctorum Augusti 5 [1868], 546).
[Papa Benedetto, Angelus 29 agosto 2010]
La Chiesa chiede perdono per le colpe dei suoi figli
1. “Benedetto sei tu, Signore Dio dei nostri padri […] noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te, abbiamo mancato in ogni modo. Non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti . . . ” (Dn 3, 26.29). Così pregavano gli Ebrei dopo l’esilio (cfr anche Bar 2, 11-13), facendosi carico delle colpe commesse dai loro padri. La Chiesa imita il loro esempio e chiede perdono per le colpe anche storiche dei suoi figli.
Nel nostro secolo, infatti, l’evento del Concilio Vaticano II ha suscitato un impulso significativo di rinnovamento della Chiesa, perché come comunità dei salvati diventi sempre più trasparenza viva del messaggio di Gesù in mezzo al mondo. Fedele all’insegnamento dell’ultimo Concilio, la Chiesa è sempre più consapevole che solo in una continua purificazione dei suoi membri e delle sue istituzioni, può offrire al mondo una coerente testimonianza del Signore. Per questo, “santa e insieme bisognosa di purificazione, mai tralascia la penitenza e il rinnovamento” (Lumen gentium, 8).
2. Il riconoscimento delle implicanze comunitarie del peccato spinge la Chiesa a chiedere perdono per le colpe “storiche” dei suoi figli. A ciò induce la preziosa occasione del grande Giubileo del 2000 il quale, sulla scia degli insegnamenti del Vaticano II, intende iniziare una nuova pagina di storia, nel superamento degli ostacoli che ancora dividono tra loro gli esseri umani e i cristiani in particolare.
Perciò nella Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente ho chiesto che, alla fine di questo secondo Millennio, “la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell’arco della storia, essi si sono allontanati dallo Spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano forme di antitestimonianza e di scandalo” (TMA, 33).
3. Il riconoscimento dei peccati storici suppone una presa di posizione nei confronti degli eventi, così come sono realmente accaduti e che solo ricostruzioni storiche serene e complete possono far emergere. D’altra parte il giudizio su eventi storici non può prescindere da una considerazione realistica dei condizionamenti costituiti dai singoli contesti culturali, prima di attribuire ai singoli specifiche responsabilità morali.
La Chiesa certo non teme la verità che emerge dalla storia ed è pronta a riconoscere gli sbagli, là dove sono accertati, soprattutto quando si tratta del rispetto dovuto alle persone e alle comunità. Essa è propensa a diffidare delle sentenze generalizzate di assoluzione o di condanna rispetto alle varie epoche storiche. Affida l’indagine sul passato alla paziente e onesta ricostruzione scientifica, libera da pregiudizi di tipo confessionale o ideologico, sia per quanto riguarda gli addebiti che le vengono fatti, sia per i torti da essa subiti.
Quando sono accertate da una seria indagine storica, la Chiesa sente il dovere di riconoscere le colpe dei propri membri e di chiederne perdono a Dio e ai fratelli. Questa domanda di perdono non deve essere intesa come ostentazione di finta umiltà, né come rinnegamento della sua storia bimillenaria certamente ricca di meriti nei campi della carità, della cultura e della santità. Essa risponde invece a un’irrinunciabile esigenza di verità, che accanto agli aspetti positivi, riconosce i limiti e le debolezze umane delle varie generazioni dei discepoli di Cristo.
4. L’avvicinarsi del Giubileo attira l’attenzione su alcuni tipi di peccati presenti e passati sui quali in modo particolare occorre invocare la misericordia del Padre.
Penso anzitutto alla dolorosa realtà della divisione tra i cristiani. Le lacerazioni del passato, certamente non senza colpe da ambo le parti, restano uno scandalo di fronte al mondo. Un secondo atto di pentimento riguarda l’acquiescenza a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio della verità (cfr TMA, 35). Anche se molti lo fecero in buona fede, non fu certo evangelico pensare che la verità dovesse essere imposta con la forza. Vi è poi il mancato discernimento di non pochi cristiani rispetto a situazioni di violazione dei diritti umani fondamentali. La richiesta di perdono vale per quanto è stato omesso o taciuto per debolezza o errata valutazione, per ciò che è stato fatto o detto in modo indeciso o poco idoneo.
Su questi ed altri punti, “la considerazione delle circostanze attenuanti non esonera la Chiesa dal dovere di rammaricarsi profondamente per le debolezze di tanti suoi figli, che ne hanno deturpato il volto, impedendole di riflettere pienamente l'immagine del suo Signore crocifisso, testimone insuperabile di amore paziente e di umile mitezza” (Ibidem).
L’atteggiamento penitenziale della Chiesa del nostro tempo, alle soglie del terzo Millennio, non vuole dunque essere un revisionismo storiografico di comodo, che sarebbe del resto sospetto quanto inutile. Esso piuttosto porta lo sguardo sul passato e nel riconoscimento delle colpe, perché ciò sia di lezione per un futuro di più pura testimonianza.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 1 settembre 1999]
E poi nel Vangelo c’è l’esortazione di Gesù: invece di giudicare tutto e tutti, stiamo attenti a noi stessi! Infatti, il rischio è quello di essere inflessibili verso gli altri e indulgenti verso di noi. E Gesù ci esorta a non scendere a patti col male, con immagini che colpiscono: “Se qualcosa in te è motivo di scandalo, taglialo!” (cfr vv. 43-48). Se qualcosa ti fa male, taglialo! Non dice: “Se qualcosa è motivo di scandalo, fermati, pensaci su, migliora un po’…”. No: “Taglialo! Subito!”. Gesù è radicale in questo, esigente, ma per il nostro bene, come un bravo medico. Ogni taglio, ogni potatura, è per crescere meglio e portare frutto nell’amore. Chiediamoci allora: cosa c’è in me che contrasta col Vangelo? Che cosa, concretamente, Gesù vuole che io tagli nella mia vita?
Preghiamo la Vergine Immacolata, perché ci aiuti a essere accoglienti verso gli altri e vigilanti su noi stessi.
[Papa Francesco, Angelus 26 settembre 2021]
Il Signore ci benedica e la Vergine ci protegga!
VII Domenica del tempo Ordinario anno C (23 febbraio 2025)
Lettura dal Primo Libro di Samuele (26,2.7-9.12-13.22-23)
Saul fu il primo re del popolo d’Israele, intorno al 1040 a.C. I testi dicono che «nessun figlio d’Israele era più bello di lui, e superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo» (1 Sam 9,2). Era un contadino, originario di una famiglia semplice della tribù di Beniamino, scelto da Dio e consacrato re dal profeta Samuele che inizialmente esitò perché diffidava della monarchia in generale, ma dovette obbedire a Dio. Saul fu consacrato con l’unzione dell’olio e portava il titolo di “messia”. Dopo un buon inizio, Saul purtroppo diede ragione ai peggiori timori di Samuele: il suo piacere personale, l’amore per il potere e per la guerra prevalsero sulla fedeltà all’Alleanza. Fu così grave che, senza attendere la fine del suo regno, Samuele, su ordine di Dio, si mise a cercare il suo successore e scelse Davide, il piccolo pastore di Betlemme, l’ottavo figlio di Iesse. Davide fu accolto alla corte di Saul e divenne pian piano un abile capo di guerra, i cui successi erano sulla bocca di tutti. Un giorno, Saul udì il canto popolare che circolava ovunque: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18,7) e fu preso dalla gelosia che divenne così feroce nei confronti di Davide da farlo impazzire. Davide dovette fuggire più volte per salvarsi, ma contrariamente ai sospetti di Saul, Davide non venne mai meno alla sua lealtà verso il re. Nell’episodio che ci viene qui narrato è Saul a prendere l’iniziativa: i tremila uomini di cui si parla furono radunati da lui con il solo scopo di soddisfare il suo odio per Davide. “Saul scese nel deserto di Zif con tremila uomini scelti d’Israele per cercare Davide” (v 2) e chiara era la sua intenzione: eliminarlo appena possibile. Ma la situazione si ribalta a favore di Davide: durante la notte Davide entra nel campo di Saul e trova tutti addormentati e quindi l’occasione favorevole per ucciderlo. Abisai, la guardia del corpo di Davide, non ha dubbi e si offre di ucciderlo: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” (v 8). Davide sorprende tutti, incluso Saul, che stenterà a credere ai suoi occhi quando vedrà la prova che Davide lo ha risparmiato. Si pongono due domande: perché Davide ha risparmiato colui che voleva la sua morte? L’unica ragione è il rispetto per la scelta di Dio: “Non ho voluto stendere la mano contro il messia del Signore” (v.11). Perché la Bibbia racconta questo episodio? Ci sono certamente diversi motivi. Anzitutto, l’autore sacro vuole delineare il ritratto di Davide: rispettoso della volontà di Dio e magnanimo, che rifiuta la vendetta e comprende che la Provvidenza non si manifesta mai attraverso la semplice consegna del nemico nelle proprie mani. In secondo luogo, perché il re regnante è intoccabile e non va dimenticato che questo racconto fu scritto alla corte di Salomone, il quale aveva tutto l’interesse a far passare questo insegnamento. Infine, questo testo rappresenta una tappa nella storia biblica, un momento nella pedagogia di Dio: prima di imparare ad amare tutti gli uomini, bisogna iniziare a trovare qualche buona ragione per amarne alcuni. Davide risparmia un nemico pericoloso perché questi è stato, a suo tempo, l’eletto di Dio. L’ultima tappa sarà comprendere che ogni uomo va rispettato ovunque perché in lui è segnata l’immagine di Dio. Siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio.
*Salmo 102 (103), 1-2, 3-4, 8. 10. 12-13
Questo salmo s’incontra più volte nei tre anni liturgici e possiamo ammirare il parallelismo dei versetti, una sorta di alternanza dei versi che si rispondono l’un l’altro. Sarebbe bene recitarlo o cantarlo a due voci, riga per riga o a due cori alternati. Primo coro: “Benedici il Signore, anima mia”… Secondo coro: “quanto è in me benedica il suo santo nome santo”… Primo coro: “Egli perdona tutte le tue colpe … Secondo coro: “Non ci tratta secondo i nostri peccati”. E così via. Un’altra caratteristica è la tonalità gioiosa del rendimento di grazie. L’espressione “Benedici il Signore, anima mia” si ripete come inclusione nel primo e nell’ultimo versetto del salmo. Tra tutti i benefici, i versetti scelti per questa domenica insistono sul perdono di Dio: “Egli perdona tutte le tue colpe… Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore; non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe.” Più volte lo abbiamo notato: una delle grandi scoperte della Bibbia è che Dio è solo amore e perdono. Ed è proprio per questo che è così diverso da noi e costantemente ci sorprende. Quando il profeta Isaia afferma: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, dice Dio; le vostre vie non sono le mie vie” (55,6-8), invita a cercare il Signore mentre si fa trovare, a invocarlo mentre è vicino. Invita l’empio ad abbandonare la sua via e l’uomo perverso i suoi pensieri, e aggiunge: “Ritorni al Signore che avrà misericordia di lui, al nostro Dio che largamente perdona” - e aggiunge - ”perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Proprio la congiunzione “perché” dà il senso a tutta la frase: è proprio la sua misericordia inesauribile a fare la differenza tra Dio e noi. Circa cinquecento anni prima di Cristo, si era già compreso che il perdono di Dio è incondizionato e che precede tutte le nostre preghiere o pentimenti. Il perdono di Dio non è un atto puntuale, un evento, ma è la sua essenza stessa. Tuttavia, siamo solo noi a poter compiere liberamente il gesto di andare a ricevere questo perdono di Dio e rinnovare l’Alleanza; Egli non ci forzerà mai e allora andiamo da lui con fiducia, compiamo il passo indispensabile per entrare nel perdono di Dio che è già acquisito. A ben vedere si tratta di una scoperta che risale a tempi molto antichi. Quando Natan annunciò al re Davide, che si era appena sbarazzato del marito della sua amante, Betsabea, il perdono di Dio, Davide in verità non aveva ancora avuto il tempo di esprimere il minimo pentimento. Dopo avergli ricordato tutti i benefici con cui Dio lo aveva colmato, il profeta aggiunse: “E se questo fosse poco, aggiungerei ancora di più” (2 Sam 12,8). Ecco il significato della parola perdono, formata da due sillabe che è bene separare “per – dono” a indicare il dono perfetto, dono al di là dell’offesa e al di là dell’ingratitudine; è l’alleanza sempre offerta nonostante l’infedeltà. Perdonare chi ci ha fatto del male significa continuare, nonostante tutto, a offrirgli un’alleanza, una relazione di amore o di amicizia; significa accettare di rivedere quella persona, tendergli la mano, accoglierla comunque alla nostra tavola o nella nostra casa; significa rischiare un sorriso; significa rifiutare di odiare e di vendicarsi. Tuttavia, questo non significa dimenticare. Spesso si sente dire: posso perdonare ma non dimenticherò mai. In realtà, si tratta di due cose completamente diverse. Il perdono non è un colpo di spugna, non è né dimenticanza né cancellazione di quanto è successo perché nulla lo cancellerà, sia che si tratti di un bene o di un male. Ci sono offese che non si potranno mai dimenticare, perché è successo l’irreparabile. È proprio questo che conferisce grandezza e gravità alle nostre vite umane: se un colpo di spugna potesse cancellare tutto, che senso avrebbe agire bene? Potremmo fare qualsiasi cosa. Il perdono quindi non cancella il passato, ma apre al futuro. Spezza le catene della colpa, porta la liberazione interiore e ci permette di ripartire. Quando Davide fece uccidere il marito di Betsabea, nulla poté riparare il male commesso. Ma Davide, perdonato, poté rialzare la testa e cercare di non fare più il male. Quando i genitori perdonano l’assassino di un loro figlio non significa che dimenticano il crimine commesso ma proprio nel loro dolore trovano la forza necessaria per perdonare e il perdono diventa un atto profondamente liberatore per loro stessi. Chi viene perdonato non sarà mai più un innocente, ma può rialzare la testa. Senza arrivare a crimini così gravi, la vita di ogni giorno è segnata da gesti più o meno gravi che seminano ingiustizia o dolore. Perdonando e ricevendo il perdono si smette di guardare al passato e si volge lo sguardo verso il futuro. Avviene così nel nostro rapporto con Dio dato che nessuno può dirsi innocente, ma tutti siamo peccatori perdonati.
*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,45-49)
Continua la meditazione di san Paolo sulla resurrezione di Cristo e sulla nostra e si rivolge a cristiani di origine greca che vorrebbero avere una risposta chiara e precisa sulla resurrezione della carne, sul quando e sul come avverrà. Paolo ha già spiegato domenica scorsa che la resurrezione è un articolo di fede per cui non credere nella resurrezione dei morti, significa non credere nemmeno nella resurrezione di Cristo. Adesso affronta la domanda: Come risorgono i morti e con quale corpo ritornano? In verità riconosce di non sapere come saranno i risorti, ma ciò che può affermare con certezza è che il nostro corpo risorto sarà completamente diverso da quello terreno. Se pensiamo che Gesù apparso dopo la risurrezione non veniva subito riconosciuto dai suoi discepoli e Maria Maddalena lo ha scambiato per il giardiniere, ciò dimostra che era lo stesso e, allo stesso tempo, completamente diverso. Paolo distingue un corpo animale da un corpo spirituale e l’espressione corpo spirituale ha sorpreso i suoi ascoltatori che conoscevano la distinzione greca tra corpo e anima. Egli però, essendo ebreo, sa che il pensiero ebraico non contrappone mai il corpo e l’anima e la sua formazione giudaica lo ha condotto invece a contrapporre due tipi di comportamento: quello dell’uomo terreno e quello dell’uomo spirituale, inaugurato dal Messia. In ogni uomo, Dio ha insufflato un soffio di vita che lo rende capace di vita spirituale, ma rimane ancora un uomo terreno. Solo nel Messia abita pienamente lo Spirito stesso di Dio, che guida ogni sua azione. Paolo per argomentare fa riferimento alla Genesi, nella quale legge la vocazione dell’umanità, ma non la interpreta in modo storico. Per lui Adamo è un tipo di uomo o, meglio, un tipo di comportamento. Questa lettura può sembrarci insolita, ma dobbiamo abituarci a leggere i testi della creazione nella Genesi non come un resoconto degli eventi, bensì come racconti di vocazione. Creando l’umanità (Adamo è un nome collettivo), Dio la chiama a un destino straordinario. Adamo, l’essere terrestre, è chiamato a diventare il tempio dello Spirito di Dio. E va ricordato che nella Bibbia la Creazione non è considerata un evento del passato perché la Bibbia parla molto di più di Dio Creatore che della Creazione; parla del nostro rapporto con Dio: siamo stati creati da Lui, dipendiamo da Lui, siamo sospesi al suo soffio e non si tratta del passato, bensì del futuro. L’atto creativo ci viene presentato come un progetto ancora in corso: nei due racconti della creazione, l’uomo ha un ruolo da svolgere. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” nel primo racconto (Gn 1,28). “Il SIGNORE Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” nel secondo racconto (Gn 2,15). E questo compito riguarda tutti noi, poiché Adamo è un nome collettivo che rappresenta tutta l’umanità. La nostra vocazione, dice ancora la Genesi, è essere l’immagine di Dio, cioè abitati dallo Spirito stesso di Dio. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.” (Gn 1,26-27). Adamo è anche il tipo di uomo che non risponde alla sua vocazione; si è lasciato influenzare dal serpente, che gli ha instillato, come un veleno, la sfiducia verso Dio. Questo è ciò che Paolo chiama un comportamento terreno, come il serpente che striscia rasoterra. Gesù Cristo, il nuovo Adamo, invece, si lascia guidare solo dallo Spirito di Dio. In questo modo, egli realizza la vocazione di ogni uomo, cioè di Adamo; è questo il senso della frase di Paolo: “Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo ( cioè il Cristo) divenne spirito datore di vita.”
Chiaro il messaggio: il comportamento di Adamo conduce alla morte, quello di Cristo conduce alla vita. Noi però siamo costantemente combattuti tra questi due comportamenti, tra cielo e terra e possiamo fare nostra l’espressione di Paolo quando grida: “Infelice uomo che sono! Non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7,24.19). In altri termini la storia individuale e quella collettiva di tutta l’umanità è un lungo cammino per lasciarci abitare sempre di più dallo Spirito di Dio. Scrive Paolo: “Il primo uomo tratto dalla terra è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli della terra e come è l’uomo celeste, così anche i celesti”. E san Giovanni osserva: “Carissimi, fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.» (1 Gv 3,2). L’immagine perfetta di Dio in Gesù Cristo, gli apostoli l’hanno vista sul volto di Cristo durante la Trasfigurazione.
Nota: il serpente strisciante per terra tenta l’umanità (Adamo – adam uomo collegato a adamah terra, non è il nome di una persona ma indica l’umanità intera fatta di terra Gn1,26-27) e il nome del serpente è nahash parola che può significare sia serpente che il dragone dell’Apocalisse: Gn3,15; Ap 12)
*Dal Vangelo secondo Luca (6, 27-38)
“Siate misericordiosi come il vostro Padre è misericordioso” e sarete allora figli dell’Altissimo, perché lui è buono con gli ingrati e i cattivi. Questo è il programma di ogni cristiano, è la nostra vocazione. L’intera Bibbia appare come il racconto della conversione dell’uomo, che impara gradualmente a dominare la propria violenza. Non è certo un processo facile, ma Dio è paziente, perché, come dice san Pietro , un giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno (cf 2 Pt 3,8) ed educa il suo popolo con tanta pazienza, come leggiamo nel Deuteronomio: “Come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te” (Dt 8,5). Questa lenta estirpazione della violenza dal cuore dell’uomo è espressa in modo figurato fin dal libro della Genesi: la violenza viene presentata come una forma di animalità. Riprendiamo il racconto del giardino dell’Eden: Dio aveva invitato Adamo a dare un nome agli animali, a simboleggiare la sua superiorità su tutte le creature. Dio aveva infatti concepito Adamo come il re della creazione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza. Domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Gn 1,26). E lo stesso Adamo si era riconosciuto diverso, superiore: «L’uomo diede un nome a tutti gli animali, agli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche; ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse» (Gn 2,20). L’uomo non trovò il suo pari. Ma due capitoli dopo, troviamo la storia di Caino e Abele. Nel momento in cui Caino è preso da una folle voglia di uccidere, Dio gli dice: «Il peccato è accovacciato (come una bestia) alla tua porta. È in agguato, ma tu devi dominarlo» (Gn 4,7). E a partire da questo primo omicidio, il testo biblico mostra la proliferazione della vendetta (Gn 4,1-26). Fin dai primi capitoli della Bibbia, la violenza è dunque riconosciuta: esiste, ma viene smascherata e paragonata a un animale. L’uomo non merita più di essere chiamato uomo quando è violento. I testi biblici intraprendono quindi l’arduo cammino della conversione del cuore dell’uomo. In questo percorso possiamo distinguere delle tappe. Fermiamoci sulla prima: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24). In risposta al terribile vanto di Lamech (Gn 4,23), pronipote di Caino, che si glorificava di uccidere uomini e bambini per vendicare semplici graffi, la Legge introduce un primo limite: un solo dente per un dente, e non tutta la mascella; una sola vita per una vita, e non un intero villaggio in rappresaglia. La legge del taglione rappresentava dunque già un progresso significativo, anche se oggi ci appare ancora insufficiente. La pedagogia dei profeti affronta costantemente il problema della violenza, ma si scontra con una grande difficoltà psicologica: l’uomo che accetta di non vendicarsi teme di perdere il proprio onore. I testi biblici allora mostrano all’uomo che il suo vero onore è altrove: consiste proprio nell’assomigliare a Dio, che è «buono con gli ingrati e i malvagi». Il discorso di Gesù, che leggiamo questa domenica, rappresenta l’ultima tappa di questa educazione: dalla legge del taglione siamo passati all’invito alla dolcezza, al disinteresse, alla gratuità perfetta. Egli insiste: per due volte, all’inizio e alla fine, dice «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano»… «Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare nulla in cambio». E così il finale ci sorprende un po’: fino a questo punto, sebbene non fosse facile, almeno era logico. Dio è misericordioso e ci invita a imitarlo. Ma ecco che le ultime righe sembrano cambiare tono: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,37-38). Siamo forse tornati a una logica del “do ut des”? Ovviamente no! Gesù qui ci sta semplicemente indicando un cammino molto rassicurante: per non temere di essere giudicati, basta non giudicare né condannare gli altri. Giudicate le azioni, ma mai le persone. Instaurate un clima di benevolenza. In questo modo, le relazioni fraterne non verranno mai spezzate. Quanto alla frase: «La vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo», essa esprime la meraviglia che sperimentano coloro che si conformano all’ideale cristiano della mitezza e del perdono. È la profonda trasformazione che avviene in loro: perché hanno aperto la porta allo Spirito di Dio, e lui abita in loro e li ispira sempre di più. A poco a poco vedono compiersi in loro la promessa formulata dal profeta Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.» (Ez 36,26).
+Giovanni D’Ercole
Sintesi su richiesta: Commento breve.
Lettura dal Primo Libro di Samuele (26,2.7-9.12-13.22-23)
Saul fu il primo re del popolo d’Israele, intorno al 1040 a.C. Era un contadino, originario di una famiglia semplice della tribù di Beniamino, scelto da Dio e consacrato re dal profeta Samuele che inizialmente esitò perché diffidava della monarchia in generale, ma dovette obbedire a Dio. Dopo un buon inizio, Saul purtroppo diede ragione ai peggiori timori di Samuele: il suo piacere personale, l’amore per il potere e per la guerra prevalsero sulla fedeltà all’Alleanza. Fu così grave che, senza attendere la fine del suo regno, Samuele, su ordine di Dio, si mise a cercare il suo successore e scelse Davide, il piccolo pastore di Betlemme, l’ottavo figlio di Iesse. Davide fu accolto alla corte di Saul e divenne pian piano un abile capo di guerra, i cui successi erano sulla bocca di tutti. Un giorno, Saul udì il canto popolare che circolava ovunque: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18,7) e fu preso dalla gelosia che divenne così feroce nei confronti di Davide da farlo impazzire. Davide dovette fuggire più volte per salvarsi, ma contrariamente ai sospetti di Saul, Davide non venne mai meno alla sua lealtà verso il re. Nell’episodio che ci viene qui narrato è Saul a prendere l’iniziativa: i tremila uomini di cui si parla furono radunati da lui con il solo scopo di soddisfare il suo odio per Davide. “Saul scese nel deserto di Zif con tremila uomini scelti d’Israele per cercare Davide” (v 2) e chiara era la sua intenzione: eliminarlo appena possibile. Ma la situazione si ribalta a favore di Davide: durante la notte Davide entra nel campo di Saul e trova tutti addormentati e quindi l’occasione favorevole per ucciderlo. Abisai, la guardia del corpo di Davide, non ha dubbi e si offre di ucciderlo: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” (v 8). Davide sorprende tutti, incluso Saul, che stenterà a credere ai suoi occhi quando vedrà la prova che Davide lo ha risparmiato. Si pongono due domande: perché Davide ha risparmiato colui che voleva la sua morte? L’unica ragione è il rispetto per la scelta di Dio: “Non ho voluto stendere la mano contro il messia del Signore” (v.11). L’autore sacro vuole delineare il ritratto di Davide: rispettoso della volontà di Dio e magnanimo, che rifiuta la vendetta e comprende che la Provvidenza non si manifesta mai attraverso la semplice consegna del nemico nelle proprie mani. In secondo luogo, perché il re regnante è intoccabile e non va dimenticato che questo racconto fu scritto alla corte di Salomone, il quale aveva tutto l’interesse a far passare questo insegnamento. Infine, questo testo rappresenta una tappa nella storia biblica, un momento nella pedagogia di Dio: prima di imparare ad amare tutti gli uomini, bisogna iniziare a trovare qualche buona ragione per amarne alcuni e Davide risparmia un nemico pericoloso perché come re è l’eletto di Dio. L’ultima tappa sarà comprendere che ogni uomo va rispettato perché siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio.
*Salmo 102 (103), 1-2, 3-4, 8. 10. 12-13
Questo salmo sarebbe bene recitarlo o cantarlo a due voci, a due cori alternati. Primo coro: “Benedici il Signore, anima mia”… Secondo coro: “quanto è in me benedica il suo santo nome santo”… Primo coro: “Egli perdona tutte le tue colpe … Secondo coro: “Non ci tratta secondo i nostri peccati”. E così via. Un’altra caratteristica è la tonalità gioiosa del rendimento di grazie. L’espressione “Benedici il Signore, anima mia” si ripete come inclusione nel primo e nell’ultimo versetto del salmo. Tra tutti i benefici, i versetti scelti per questa domenica insistono sul perdono di Dio: “Perché Egli perdona tutte le tue colpe… Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore; non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe …”perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Proprio la congiunzione “perché” dà il senso a tutta la frase: è proprio la sua misericordia inesauribile a fare la differenza tra Dio e noi. Circa cinquecento anni prima di Cristo, si era già compreso che il perdono di Dio è incondizionato e che precede tutte le nostre preghiere o pentimenti. Il perdono di Dio non è un atto puntuale, un evento, ma è la sua essenza stessa. Tuttavia, siamo solo noi a poter compiere liberamente il gesto di andare a ricevere questo perdono di Dio e rinnovare l’Alleanza; Egli non ci forzerà mai e allora andiamo da lui con fiducia, compiamo il passo indispensabile per entrare nel perdono di Dio che è già acquisito. A ben vedere si tratta di una scoperta che risale a tempi molto antichi. Quando Natan annunciò al re Davide, che si era appena sbarazzato del marito della sua amante, Betsabea, il perdono di Dio, Davide in verità non aveva ancora avuto il tempo di esprimere il minimo pentimento. Dopo avergli ricordato tutti i benefici con cui Dio lo aveva colmato, il profeta aggiunse: “E se questo fosse poco, aggiungerei ancora di più” (2 Sam 12,8). Ecco il significato della parola perdono, formata da due sillabe che è bene separare “per – dono” a indicare il dono perfetto, dono al di là dell’offesa e al di là dell’ingratitudine; è l’alleanza sempre offerta nonostante l’infedeltà. Perdonare chi ci ha fatto del male significa continuare, nonostante tutto, a offrirgli un’alleanza, una relazione di amore o di amicizia; significa rifiutare di odiare e di vendicarsi. Tuttavia, questo non significa dimenticare. Spesso si sente dire: posso perdonare ma non dimenticherò mai. In realtà, si tratta di due cose completamente diverse. Il perdono non è un colpo di spugna. Ci sono offese che non si potranno mai dimenticare, perché è successo l’irreparabile. È proprio questo che conferisce grandezza e gravità alle nostre vite umane: se un colpo di spugna potesse cancellare tutto, che senso avrebbe agire bene? Potremmo fare qualsiasi cosa. Il perdono quindi non cancella il passato, ma apre al futuro. Spezza le catene della colpa, porta la liberazione interiore e ci permette di ripartire. Quando Davide fece uccidere il marito di Betsabea, nulla poté riparare il male commesso. Ma Davide, perdonato, poté rialzare la testa e cercare di non fare più il male. Quando i genitori perdonano l’assassino di un loro figlio non significa che dimenticano il crimine commesso ma proprio nel loro dolore trovano la forza necessaria per perdonare e il perdono diventa un atto profondamente liberatore per loro stessi. Chi viene perdonato non sarà mai più un innocente, ma può rialzare la testa. Senza arrivare a crimini così gravi, la vita di ogni giorno è segnata da gesti più o meno gravi che seminano ingiustizia o dolore. Perdonando e ricevendo il perdono si smette di guardare al passato e si volge lo sguardo verso il futuro. Avviene così nel nostro rapporto con Dio dato che nessuno può dirsi innocente, ma tutti siamo peccatori perdonati.
*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,45-49)
Continua la meditazione di san Paolo sulla resurrezione di Cristo e sulla nostra e si rivolge a cristiani di origine greca che vorrebbero avere una risposta chiara e precisa sulla resurrezione della carne, sul quando e sul come avverrà. Paolo ha già spiegato domenica scorsa che la resurrezione è un articolo di fede per cui non credere nella resurrezione dei morti, significa non credere nemmeno nella resurrezione di Cristo. Adesso affronta la domanda: Come risorgono i morti e con quale corpo ritornano? In verità riconosce di non sapere come saranno i risorti, ma ciò che può affermare con certezza è che il nostro corpo risorto sarà completamente diverso da quello terreno. Se pensiamo che Gesù apparso dopo la risurrezione non veniva subito riconosciuto dai suoi discepoli e Maria Maddalena lo ha scambiato per il giardiniere, ciò dimostra che era lo stesso e, allo stesso tempo, completamente diverso. Paolo distingue un corpo animale da un corpo spirituale e l’espressione corpo spirituale ha sorpreso i suoi ascoltatori che conoscevano la distinzione greca tra corpo e anima. Egli però, essendo ebreo, sa che il pensiero ebraico non contrappone mai il corpo e l’anima e la sua formazione giudaica lo ha condotto invece a contrapporre due tipi di comportamento: quello dell’uomo terreno e quello dell’uomo spirituale, inaugurato dal Messia. In ogni uomo, Dio ha insufflato un soffio di vita che lo rende capace di vita spirituale, ma rimane ancora un uomo terreno. Paolo per argomentare fa riferimento alla Genesi e vede Adamo come un tipo di comportamento perché il racconto della creazione nella Genesi non è il resoconto degli eventi, bensì il racconto di una vocazione. Creando l’umanità (Adamo è un nome collettivo), Dio la chiama a un destino straordinario. Adamo, l’essere terrestre, è chiamato a diventare il tempio dello Spirito di Dio. E va ricordato che nella Bibbia la Creazione non è considerata un evento del passato ma parla del nostro rapporto con Dio: siamo stati creati da Lui, dipendiamo da Lui, siamo sospesi al suo soffio e non si tratta del passato, bensì del futuro. L’atto creativo ci viene presentato come un progetto ancora in corso: nei due racconti della creazione, l’uomo ha un ruolo da svolgere. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Gn 1,28). “Il SIGNORE Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). E questo compito riguarda tutti noi, poiché Adamo è un nome collettivo che rappresenta tutta l’umanità. La nostra vocazione, dice ancora la Genesi, è essere l’immagine di Dio, cioè abitati dallo Spirito stesso di Dio. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.” (Gn 1,26-27). Adamo è anche il tipo di uomo che non risponde alla sua vocazione; si è lasciato influenzare dal serpente, che gli ha instillato, come un veleno, la sfiducia verso Dio. Questo è ciò che Paolo chiama un comportamento terreno, come il serpente che striscia rasoterra. Gesù Cristo, il nuovo Adamo, invece, si lascia guidare solo dallo Spirito di Dio. In questo modo, egli realizza la vocazione di ogni uomo, cioè di Adamo; è questo il senso della frase di Paolo: “Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo ( cioè il Cristo) divenne spirito datore di vita.”
Chiaro il messaggio: il comportamento di Adamo conduce alla morte, quello di Cristo conduce alla vita. Noi però siamo costantemente combattuti tra questi due comportamenti, tra cielo e terra e possiamo fare nostra l’espressione di Paolo quando grida: “Infelice uomo che sono! Non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7,24.19). In altri termini la storia individuale e quella collettiva di tutta l’umanità è un lungo cammino per lasciarci abitare sempre di più dallo Spirito di Dio. Scrive Paolo: “Il primo uomo tratto dalla terra è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli della terra e come è l’uomo celeste, così anche i celesti.
*Dal Vangelo secondo Luca (6, 27-38)
“Siate misericordiosi come il vostro Padre è misericordioso” e sarete allora figli dell’Altissimo, perché lui è buono con gli ingrati e i cattivi. Questo è il programma di ogni cristiano, è la nostra vocazione. L’intera Bibbia appare come il racconto della conversione dell’uomo, che impara gradualmente a dominare la propria violenza. Non è certo un processo facile, ma Dio è paziente ed educa il suo popolo con tanta pazienza. Questa lenta estirpazione della violenza dal cuore dell’uomo è espressa in modo figurato fin dal libro della Genesi: la violenza viene presentata come una forma di animalità. Dio aveva invitato Adamo a dare un nome agli animali, a simboleggiare la sua superiorità su tutte le creature. E lo stesso Adamo si era riconosciuto diverso, superiore e non trovò il suo pari. Ma dopo troviamo la storia di Caino e Abele. Nel momento in cui Caino è preso da una folle voglia di uccidere, Dio gli dice: «Il peccato è accovacciato (come una bestia) alla tua porta. È in agguato, ma tu devi dominarlo» (Gn 4,7). E a partire da questo primo omicidio, il testo biblico mostra la proliferazione della vendetta (Gn 4,1-26). Fin dai primi capitoli della Bibbia, la violenza è dunque riconosciuta: esiste, ma viene smascherata e paragonata a un animale. L’uomo non merita più di essere chiamato uomo quando è violento. I testi biblici intraprendono quindi l’arduo cammino della conversione del cuore dell’uomo. In questo percorso possiamo distinguere delle tappe. Fermiamoci sulla prima: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24). In risposta al terribile vanto di Lamech (Gn 4,23), pronipote di Caino, che si glorificava di uccidere uomini e bambini per vendicare semplici graffi, la Legge introduce un primo limite: un solo dente per un dente, e non tutta la mascella; una sola vita per una vita, e non un intero villaggio in rappresaglia. La legge del taglione rappresentava dunque già un progresso significativo, anche se oggi ci appare ancora insufficiente. La pedagogia dei profeti affronta costantemente il problema della violenza, ma si scontra con una grande difficoltà psicologica: l’uomo che accetta di non vendicarsi teme di perdere il proprio onore. I testi biblici allora mostrano all’uomo che il suo vero onore è altrove: consiste proprio nell’assomigliare a Dio, che è «buono con gli ingrati e i malvagi». Il discorso di Gesù, che leggiamo questa domenica, rappresenta l’ultima tappa di questa educazione: dalla legge del taglione siamo passati all’invito alla dolcezza, al disinteresse, alla gratuità perfetta. Egli insiste: per due volte, all’inizio e alla fine, dice «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano»…. Dio è misericordioso e ci invita a imitarlo. Ma ecco che le ultime righe sembrano cambiare tono: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato (Lc 6,37-38). Siamo forse tornati a una logica del “do ut des”? Ovviamente no! Gesù qui ci sta semplicemente indicando un cammino molto rassicurante: per non temere di essere giudicati, basta non giudicare né condannare gli altri. Giudicate le azioni, ma mai le persone. Instaurate un clima di benevolenza. In questo modo, le relazioni fraterne non verranno mai spezzate.
+Giovanni D’Ercole
Buona giornata sotto lo sguardo materno della B.V. di Lourdes.
Commento alle Letture della VI Domenica del Tempo Ordinario anno C [16 Febbraio 2025].
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (17, 5 – 8)
Il profeta Geremia inizia in maniera solenne: “Così dice il Signore” per avvisare che quanto si sta per ascoltare è importante e grave perché è il “Signore” – cioè il Dio stesso dell’Alleanza del Sinai - che afferma: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Qui però sorgono due domande: Dio può maledire l’uomo? E perché e in che senso fidarsi di un uomo è un errore? Non c’è alcun dubbio: Dio non può maledirci e l’espressione ebraica tradotta con “maledetto” nei profeti è “arur” (אָרוּר), che compare spesso nella Bibbia ebraica e il suo significato non va inteso come un’azione diretta di Dio che maledice, piuttosto come una dichiarazione dello stato di rovina o disgrazia in cui cade chi si allontana da Lui. Si tratta quindi di un avvertimento profetico e “maledetto l’uomo che confida nell’uomo” non indica un’azione attiva di Dio, ma un monito di questo tipo: se scegli di confidare solo negli uomini e non in Dio, ti metti in una situazione di insicurezza e fallimento. Nella mentalità biblica, Dio è fonte di vita e benedizione (berakha), e l’allontanamento da Lui porta automaticamente alla ’arur (rovina, sterilità, fallimento). Quando dunque i profeti usano “maledetto”, stanno dicendo: “Attenzione, questa strada porta alla tua distruzione”. Non è Dio a lanciare una maledizione come un castigo arbitrario, ma è una legge spirituale: quando ci si allontana dalla sorgente dell’acqua viva (Dio), inevitabilmente ci si ritrova nella siccità del deserto. Circa la seconda domanda concernente l’uomo che confida nell’uomo, dovremmo diffidare gli uni degli altri? Certamente no, perché Dio vuole che l’umanità diventi una cosa sola e dunque ogni sfiducia tra gli uomini va contro il suo disegno d’amore. Qui si tratta di chi si allontana da Dio e confida, cioè ha fede nell’uomo. La parola chiave è confida/ ha “fede”, un termine assai forte che indica fare affidamento, appoggiarsi in modo assoluto sugli uomini, come ci si arrocca su una roccia. Senza Dio ogni sicurezza è fragile e si diventa come un arbusto nel deserto senza acqua destinato a morire. Chiaro il messaggio: Se ti allontani da Dio diventi spiritualmente arido e instabile, come un cespuglio nel deserto, mentre se confidi, hai fede, la tua vita sarà come un albero che rimane verde perché ha le sue radici nell’acqua. Facile capire l’importanza dell’acqua per un popolo che camminava nel deserto e Geremia parla per esperienza avendo sotto gi occhi la strada che da Gerusalemme va a Gerico in un deserto completamente arido per gran parte dell’anno. Rinverdisce soltanto e fiorisce con le piogge primaverili, e così, attingendo a esempi e immagini dalla vita quotidiana dei suoi ascoltatori, il profeta offre saggi consigli di vita spirituale. La fede quindi è il fondamento: la fiducia in Dio è come radicarsi in una roccia sicura (Mt 7,24-25). Far dipendere la vita solo da umane realtà come il potere, il successo, i soldi, le relazioni, porta a diventare fragili. Inoltre il fatto di aver posto la propria fede in Dio non ti risparmia dalle difficoltà e dai problemi, ma dà la forza per superare ogni ostacolo. E allora ogni giorno Il credente è chiamato a scegliere: affidarsi solo su sé stesso e vivere nella paura, oppure radicare la vita in Dio e affrontare le tempeste dell’esistenza senza perdersi d’animo.
Una nota: Geremia probabilmente sta denunciando i due errori/peccati fatali dei re, dei capi religiosi e dell’intero popolo: l’idolatria e le alleanze. Per quanto concerne l’idolatria molti hanno introdotto in Israele vari culti idolatrici e offerto sacrifici agli idoli e Geremia lo stigmatizza: “Il mio popolo mi ha dimenticato per bruciare offerte a chi è un nulla.” ( 18,15). Quanto invece alle alleanze, il profeta critica la politica dei re che invece di contare sulla protezione di Dio, hanno moltiplicato manovre diplomatiche, alleandosi di volta in volta con ciascuna delle potenze del Medio Oriente ricavandone solo guerre e disgrazie. Così è avvenuto per Sedecia che, affidandosi a manovre diplomatiche e alla sua forza militare, è andato incontro al fallimento con massacri, umiliazioni per sé e per il popolo (Gr 39,1-10).
*Salmo Responsoriale (1)
Questo salmo, il primo, molto breve dove ogni dettaglio è significativo, costituisce la chiave interpretativa di tutto il Salterio ed è stato scelto per introdurre alla preghiera di Israele. Esso si apre con questa parola: Beato! “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siete in compagnia degli arroganti “. Il termine “beato” nella Bibbia deriva dall’ebraico “ashré”, che esprime uno stato di felicità e profondo appagamento, condizione di benedizione e di pace interiore che Dio accorda a chi vive secondo la sua volontà. Questo concetto è simile a “shalom”, che indica una pace profonda e completa. Chi evita le influenze negative e trova gioia nella legge del Signore, meditandola costantemente, viene paragonatao a un albero piantato lungo corsi d’acqua, che produce frutto al momento opportuno e le cui foglie non appassiscono. Il salmista ha compreso che Dio vuole la nostra felicità, e questa è la cosa più importante che ha voluto dirci sin dall’inizio. Per capire il senso della parola beato nella Bibbia, dobbiamo pensare alle felicitazioni che ci si scambia nelle occasioni di festa augurando gioia e prosperità. L’espressione “Beato” etimologicamente significa riconoscerlo felice e rallegrarsi con lui; è innanzitutto una constatazione (sei felice), ma è anche un augurio, un incoraggiamento a far crescere la felicità ogni giorno. È come dire: sei sulla buona strada, continua a essere felice. Il termine biblico “Beato” esprime in definitiva una duplice dimensione: constatazione e incoraggiamento. Per questo, molti studiosi, come André Chouraqui, traducono beato con “in cammino”, immagine che invita a considerare la storia dell’umanità come un lungo viaggio, durante il quale gli uomini sono continuamente chiamati a scegliere la strada che porta alla vera felicità.
Qualche nota per meglio entrare nella Parola:
1. Nei pochi versetti del salmo troviamo un’insistenza particolare sulla parola via: “via dei peccatori…cammino dei giusti…via dei malvagi” ed emerge il tema delle due vie: la via giusta e la via sbagliata, il bene e il male. L’immagine è chiara: la nostra vita è come un incrocio, dove dobbiamo decidere quale direzione prendere. Se imbocchiamo la strada giusta, ogni passo ci avvicinerà alla meta; se scegliamo la direzione sbagliata, ogni passo ci allontanerà sempre di più dal traguardo. L’intera Rivelazione biblica ha lo scopo di indicare all’umanità il cammino della felicità che Dio desidera per noi e per tale motivo offre tanti segnali come le espressioni beato/maledetto o felice/infelice che sono indicatori del cammino. Quando Geremia nella prima Lettura dice “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo… o Isaia proclama “Guai a coloro che promulgano leggi inique” (10,1), non stanno giudicando o condannando le persone in modo definitivo, ma stanno lanciando un allarme, come chi grida per avvertire un passante del pericolo di un burrone. Al contrario, espressioni come “Benedetto l’uomo che confida nel Signore (Ger 17,7) o “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei peccatori” (Sal 1) sono un incoraggiamento: siete sulla strada giusta!
2. Il tema delle due vie ci ricorda che siamo liberi e il desiderio di felicità è inscritto nel cuore di ogni uomo, ma spesso si sbaglia direzione e la legge di Dio non è altro che una guida per la nostra libertà, un aiuto per scegliere la via giusta. Israele sa che la Torah è un dono di Dio, un segno del suo desiderio di felicità per noi e per questo “la sua legge medita giorno e notte”.
3. Quando il salmo parla di giusti e malvagi, si riferisce a comportamenti, non a persone perché non esistono uomini perfettamente giusti o completamente malvagi e in verità dentro di noi convivono entrambe le tendenze. Ogni sforzo per ascoltare la Parola di Dio è un passo sulla via del vero bene. Ecco perché il salmo dice: ”Beato l’uomo che nella legge del Signore trova la sua gioia”. Infine si capisce che la stessa costruzione letteraria del salmo sottolinea l’importanza della scelta giusta: il salmo non è infatti simmetrico e contrappone due atteggiamenti, quello dei giusti e quello dei peccatori, ma dedica la maggior parte a descrivere la felicità dei giusti per dirci che ciò che merita attenzione è il bene, non il male. Questo salmo è dunque un invito a scegliere consapevolmente il cammino della fedeltà a Dio e non è un caso che il salterio inizi proprio con questa parola: Beato l’uomo che confida nel Signore!
*Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (15, 12 – 20)
Comprendiamo meglio quello che san Paolo vuol dirci se pensiamo allo svolgimento del funerale di un cristiano il cui rituale prevede tre “segni” di alto valore simbolico. Anzitutto il Cero Pasquale accanto alla bara arde durante tutta la celebrazione a ricordare la presenza del Cristo risorto vivo fra noi. Nel rito di commiato che segue la messa il celebrante e, secondo alcuni usi, anche i fedeli aspergono il corpo del defunto con l’acqua benedetta a ricordo del Battesimo. Inoltre il celebrante incensa il feretro e questo per i cristiani dei primi secoli era un gesto assai audace perché nell’Impero Romano l’incenso veniva bruciato davanti alle statue degli dèi e sembrava un fuori luogo incensare un corpo umano senza vita ridotto a nulla. Ma questo gesto è molto eloquente perché un cristiano, fin dal suo Battesimo, è tempio dello Spirito Santo come ci ricorda san Paolo e dimenticandolo si finisce per perdere il segno e il valore della risurrezione dei corpi. I cristiani di Corinto e forse non pochi oggi anche se credono alla risurrezione di Cristo, faticano a trarne la conseguenza che per Paolo è evidente: se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo. E per spiegarci questa verità di fede procede per due tappe. Prima riafferma che Gesù è veramente risorto e poi ne trae le conseguenze. Essendo la risurrezione di Cristo il fondamento della fede cristiana, Paolo afferma che “se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede”. In verità se non si crede nella risurrezione di Cristo, l’edificio della fede cristiana crolla: un rischio che corre ogni comunità. Chiediamoci: tutti i cattolici credono nella risurrezione di Cristo e nella nostra risurrezione?
Da questa premessa san Paolo trae le conseguenze argomentando così: poiché Cristo è risorto e molti lo hanno visto vivo e lo possono testimoniare, egli è davvero il Salvatore del mondo ed è vero tutto ciò che ha detto e promesso. Con il battesimo noi siamo diventati tempio dello Spirito e questo significa che lo Spirito vive in noi, ma se lo Spirito d’amore è l’opposto del peccato, essendo il peccato mancanza di amore per Dio e per gli altri, lo Spirito Santo ci libera dal peccato e noi siamo, come Cristo, abitati dallo Spirito di Dio, per cui risorgeremo come lui. Ciò che è stato tempio dello Spirito può essere trasformato, ma non può essere distrutto. La morte biologica distrugge il nostro corpo, ma Gesù lo farà risorgere.
Note per meglio capire il testo:
1.L’apostolo aggiunge “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”. Nel testo greco il termine utilizzato significa primizia nel senso di inizio di una lunga serie. Nell’Antico Testamento, le primizie erano i primi frutti della terra che segnavano l’inizio del raccolto. Dire che Gesù è risorto come “primizia di coloro che sono morti” significa affermare che è il fratello maggiore dell’umanità, il primo nato, come dice altrove Paolo: “Egli è il capo del corpo… Egli è il principio, il primogenito di coloro che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose…” (Col 1,18).
2. In definitiva, occorre sempre tornare al progetto misericordioso di Dio che è quello di riunire tutta l’umanità in Gesù Cristo come leggiamo nella Lettera agli Efesini ( cf. Ef 1,9-10). E Dio non ha certo previsto di riunire dei morti, ma dei vivi e Gesù nella sua discussione con i Sadducei: ebbe a spiegare: “Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Egli non è il Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22,31-32).
3. C’è un aspetto del mistero dell’Incarnazione da non dimenticare: Dio prende sul serio la nostra umanità, il nostro corpo perché il Verbo si è fatto carne diventando in tutto simile agli uomini, così simile che il suo destino è diventato il nostro: se è risorto, anche noi risorgeremo. La risurrezione di Cristo non è dunque solo il felice epilogo della sua storia personale ma l’alba della vittoria dell’umanità sulla morte. La morte non è più un muro, ma una porta… e noi vi entriamo dietro di lui. Da qui si capisce l’inconciliabilità della fede cristiana con qualsiasi idea di reincarnazione. La dignità dell’essere umano arriva fino a questo punto: anche se il nostro corpo a volte è fragile e segnato dalla sofferenza, Dio non lo tratta mai come una cosa da gettare e sostituire; la nostra persona è un tutt’uno. Può capitare che ci disprezziamo, ma agli occhi di Dio, siamo ognuno unico e insostituibile. Il nostro intero essere è chiamato a vivere per sempre accanto a Lui.
*Dal Vangelo secondo Luca ( 6, 17......26)
Nella prima lettura il profeta Geremia ha esortato a non confidare in sé stessi e sui beni materiali, ma a poggiare la propria vita su Dio. Il Vangelo delle Beatitudini va ben oltre affermando: Beati voi poveri che ponete la vostra fiducia in Dio perché egli vi colmerà delle sue ricchezze. Ma chi sono i poveri secondo il vangelo? Il termine poveri nell’Antico Testamento non ha alcun legame con il conto in banca perché nel senso biblico (anawim) poveri sono coloro che non hanno un cuore superbo né lo sguardo altero chiamati “i curvi di schiena”: sono i piccoli, gli umili, che, mai sazi e compiaciuti di sé, sentono che manca loro qualcosa e proprio per questo Dio può colmarli. I profeti alternano nella loro predicazione il tono severo e minaccioso quando il popolo si smarrisce e insegue valori sbagliati, con quello incoraggiante e consolante quando attraversa momenti di sofferenza e disperazione. Gesù cerca di educare lo sguardo dei discepoli e della folla riprendendo il doppio linguaggio del profeta presente nella prima lettura. Geremia afferma: voi che ponete la vostra fiducia nelle ricchezze materiali, nella vostra posizione sociale, voi che siete ben considerati, presto non vi invidieranno più e per questo non siete sulla strada giusta. Se lo foste, non sareste così ricchi e così ben visti. Un vero profeta si espone al rischio di non piacere, e Gesù lo sa bene. Un vero profeta non ha né il tempo né la preoccupazione di accumulare denaro o curare la propria immagine. Queste quattro beatitudini fotografano perfettamente Gesù che è così povero da non avere una pietra su cui posare il capo ed è morto nell’abbandono totale; è colui che ha pianto la morte dell’amico Lazzaro e ha conosciuto l’angoscia nell’orto degli Ulivi, ha pianto la sorte di Gerusalemme; ha avuto fame e sete nel deserto e drammaticamente sulla croce; è colui che è stato disprezzato, calunniato, perseguitato e infine eliminato in nome dei principi della legge e quindi di quella che si riteneva la vera religione. In queste Beatitudini si profila la promessa della Risurrezione ed emerge un senso di gratitudine a Dio perché Gesù vuol far comprendere con quale sguardo d’amore il Padre ci avvolge sapendo che la vittoria è già certa. Ci rivela così lo sguardo di Dio, la sua misericordia: e noi sappiamo che “misericordia” etimologicamente significa viscere che fremono di compassione. In definitiva questo è il messaggio: lo sguardo dell’uomo è ben diverso da quello di Dio; l’ammirazione umana rischia spesso di sbagliare l’oggetto del proprio entusiasmo e si dirige ai ricchi, ai sazi, ai privilegiati della vita. Lo sguardo di Dio è ben diverso: “Un povero grida, il Signore lo ascolta”, dice il Salmo e “Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 50/51). Isaia arriva persino a dire: “Nella sofferenza che schiaccia il suo servo, Dio lo ama con un amore di predilezione” (Is 53,10). I poveri, i perseguitati, coloro che hanno fame e che piangono, Dio si china su di loro con predilezione: non per un loro merito, ma per la loro stessa condizione. E così Gesù ci apre gli occhi su un’altra dimensione della felicità: la vera felicità è lo sguardo di Dio su di noi. Certi di questo sguardo di Dio, i poveri, coloro che piangono, coloro che hanno fame, troveranno la forza di prendere in mano il proprio destino.
Una nota per meglio entrare nella Parola:
Ricordo che André Chouraqui afferma che la parola “beati” significa anche “in cammino”. Cita l’esempio del popolo guidato da Mosè che trovò la forza di affrontare la lunga marcia nel deserto nella certezza della costante presenza di Dio. Ancora una volta, la contrapposizione tra beatitudini e maledizioni non divide l’umanità in due gruppi distinti: da una parte quelli che meritano parole di conforto, dall’altra quelli che meritano solo rimproveri. Tutti, a seconda dei momenti della vita, possiamo trovarci nell’uno o nell’altro gruppo. E a ciascuno di noi Cristo dice: “In cammino…Sarete saziati, consolati, rallegratevi ed esultate”. Tutto questo era già presente nel linguaggio dell’Antico Testamento per descrivere la felicità che avrebbe portato il Messia. I discepoli conoscevano bene queste espressioni e capiscono subito cosa Gesù sta annunciando loro: Voi che siete usciti dalla folla per seguirmi, non lo avete fatto per raccogliere onori o ricchezze, ma avete fatto la scelta giusta, perché avete saputo riconoscere in me il Messia.
Commento Breve:
*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (17, 5 – 8)
Il profeta Geremia inizia in maniera solenne: “Così dice il Signore” per avvisare che quanto si sta per ascoltare è importante e grave perché è il “Signore” – cioè il Dio stesso dell’Alleanza del Sinai - che afferma: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Qui però sorgono due domande: Dio può maledire l’uomo? E perché e in che senso fidarsi di un uomo è un errore? Non c’è alcun dubbio: Dio non può maledirci e l’espressione ebraica che compare spesso nella Bibbia e il suo significato non va inteso come un’azione diretta di Dio che maledice, piuttosto come una dichiarazione dello stato di rovina o disgrazia in cui cade chi si allontana da Lui. Si tratta quindi di un avvertimento profetico e “maledetto l’uomo che confida nell’uomo” non indica un’azione attiva di Dio, ma un monito di questo tipo: se scegli di confidare solo negli uomini e non in Dio, ti metti in una situazione di insicurezza e fallimento. Quando dunque i profeti usano “maledetto”, stanno dicendo: “Attenzione, questa strada porta alla tua distruzione”. Non è Dio a lanciare una maledizione come un castigo arbitrario, ma è una legge spirituale: quando ci si allontana dalla sorgente dell’acqua viva (Dio), inevitabilmente ci si ritrova nella siccità del deserto. Circa la seconda domanda concernente l’uomo che confida nell’uomo, dovremmo diffidare gli uni degli altri? Certamente no, perché Dio vuole che l’umanità diventi una cosa sola e dunque ogni sfiducia tra gli uomini va contro il suo disegno d’amore. Qui si tratta di chi si allontana da Dio e confida, cioè mette tutta la sua fiducia nell’uomo, appoggiarsi in modo assoluto sugli uomini. Senza Dio ogni sicurezza è fragile e si diventa come un arbusto nel deserto senza acqua destinato a morire. Chiaro il messaggio: Se ti allontani da Dio diventi spiritualmente arido e instabile, come un cespuglio nel deserto, mentre se confidi, hai fede, la tua vita sarà come un albero che rimane verde perché ha le sue radici nell’acqua. La fede quindi è il fondamento: la fiducia in Dio è come radicarsi in una roccia sicura (Mt 7,24-25). Far dipendere la vita solo da umane realtà come il potere, il successo, i soldi, le relazioni, porta a diventare fragili. Inoltre il fatto di aver posto la propria fede in Dio non ti risparmia dalle difficoltà e dai problemi, ma dà la forza per superare ogni ostacolo. E allora ogni giorno Il credente è chiamato a scegliere: affidarsi solo su sé stesso e vivere nella paura, oppure radicare la vita in Dio e affrontare le tempeste dell’esistenza senza perdersi d’animo.
*Salmo Responsoriale (1)
Questo salmo, il primo, molto breve dove ogni dettaglio è significativo, costituisce la chiave interpretativa di tutto il Salterio ed è stato scelto per introdurre alla preghiera di Israele. Esso si apre con questa parola: Beato! “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siete in compagnia degli arroganti “. Il termine “beato” nella Bibbia esprime uno stato di felicità e profondo appagamento, condizione di benedizione e di pace interiore che Dio accorda a chi vive secondo la sua volontà. Questo concetto è simile a “shalom”, che indica una pace profonda e completa. Chi evita le influenze negative e trova gioia nella legge del Signore, meditandola costantemente, viene paragonatao a un albero piantato lungo corsi d’acqua, che produce frutto al momento opportuno e le cui foglie non appassiscono. Il salmista ha compreso che Dio vuole la nostra felicità, e questa è la cosa più importante che ha voluto dirci sin dall’inizio. Per capire il senso della parola beato nella Bibbia, dobbiamo pensare alle felicitazioni che ci si scambia nelle occasioni di festa augurando gioia e prosperità. L’espressione “Beato” etimologicamente significa riconoscerlo felice e rallegrarsi con lui; è innanzitutto una constatazione (sei felice), ma è anche un augurio, un incoraggiamento a far crescere la felicità ogni giorno. È come dire: sei sulla buona strada, continua a essere felice. Il termine biblico “Beato” esprime in definitiva una duplice dimensione: constatazione e incoraggiamento.
*Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (15, 12 – 20)
Comprendiamo meglio quello che san Paolo vuol dirci se pensiamo allo svolgimento del funerale di un cristiano il cui rituale prevede tre “segni” di alto valore simbolico. Anzitutto il Cero Pasquale accanto alla bara arde durante tutta la celebrazione a ricordare la presenza del Cristo risorto vivo fra noi. Nel rito di commiato che segue la messa il celebrante e, secondo alcuni usi, anche i fedeli aspergono il corpo del defunto con l’acqua benedetta a ricordo del Battesimo. Inoltre il celebrante incensa il feretro e questo per i cristiani dei primi secoli era un gesto assai audace perché nell’Impero Romano l’incenso veniva bruciato davanti alle statue degli dèi e sembrava un fuori luogo incensare un corpo umano senza vita ridotto a nulla. Ma questo gesto è molto eloquente perché un cristiano, fin dal suo Battesimo, è tempio dello Spirito Santo come ci ricorda san Paolo e dimenticandolo si finisce per perdere il segno e il valore della risurrezione dei corpi. I cristiani di Corinto e forse non pochi oggi anche se credono alla risurrezione di Cristo, faticano a trarne la conseguenza che per Paolo è evidente: se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo. E per spiegarci questa verità di fede procede per due tappe. Prima riafferma che Gesù è veramente risorto e poi ne trae le conseguenze. Essendo la risurrezione di Cristo il fondamento della fede cristiana. In verità se non si crede nella risurrezione di Cristo, l’edificio della fede cristiana crolla: un rischio che corre ogni comunità. Chiediamoci: tutti i cattolici credono nella risurrezione di Cristo e nella nostra risurrezione? Da questa premessa san Paolo trae la conclusione che, se con il battesimo siamo, come Cristo, abitati dallo Spirito di Dio, risorgeremo come lui. La morte biologica distrugge il nostro corpo, ma Gesù lo farà risorgere.
*Dal Vangelo secondo Luca ( 6, 17......26)
Nella prima lettura il profeta Geremia ha esortato a non confidare in sé stessi e sui beni materiali, ma a poggiare la propria vita su Dio. Il Vangelo delle Beatitudini va ben oltre affermando: Beati voi poveri che ponete la vostra fiducia in Dio perché egli vi colmerà delle sue ricchezze. Ma chi sono i poveri secondo il vangelo? Il termine poveri nell’Antico Testamento non ha alcun legame con il conto in banca perché nel senso biblico (anawim) poveri sono coloro che non hanno un cuore superbo né lo sguardo altero chiamati “i curvi di schiena”: sono i piccoli, gli umili, che, mai sazi e compiaciuti di sé, sentono che manca loro qualcosa e proprio per questo Dio può colmarli. I profeti alternano nella loro predicazione il tono severo e minaccioso quando il popolo si smarrisce e insegue valori sbagliati, con quello incoraggiante e consolante quando attraversa momenti di sofferenza e disperazione. Queste quattro beatitudini fotografano perfettamente Gesù che è così povero da non avere una pietra su cui posare il capo ed è morto nell’abbandono totale; è colui che ha pianto la morte dell’amico Lazzaro e ha conosciuto l’angoscia nell’orto degli Ulivi, ha pianto la sorte di Gerusalemme; ha avuto fame e sete nel deserto e drammaticamente sulla croce; è colui che è stato disprezzato, calunniato, perseguitato e infine eliminato in nome dei principi della legge e quindi di quella che si riteneva la vera religione. In queste Beatitudini si profila la promessa della Risurrezione ed emerge un senso di gratitudine a Dio perché Gesù vuol far comprendere con quale sguardo d’amore il Padre ci avvolge sapendo che la vittoria è già certa. Ci rivela così lo sguardo di Dio, la sua misericordia. Lo sguardo dell’uomo è ben diverso da quello di Dio; l’ammirazione umana rischia spesso di sbagliare l’oggetto del proprio entusiasmo e si dirige ai ricchi, ai sazi, ai privilegiati della vita. Lo sguardo di Dio è ben diverso: “Un povero grida, il Signore lo ascolta”, dice il Salmo e “Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 50/51). E così Gesù ci apre gli occhi su un’altra dimensione della felicità: la vera felicità è lo sguardo di Dio su di noi. Certi di questo sguardo di Dio, i poveri, coloro che piangono, coloro che hanno fame, troveranno la forza di prendere in mano il proprio destino.
We see that the disciples are still closed in their thinking […] How does Jesus answer? He answers by broadening their horizons […] and he confers upon them the task of bearing witness to him all over the world, transcending the cultural and religious confines within which they were accustomed to think and live (Pope Benedict)
Vediamo che i discepoli sono ancora chiusi nella loro visione […] E come risponde Gesù? Risponde aprendo i loro orizzonti […] e conferisce loro l’incarico di testimoniarlo in tutto il mondo oltrepassando i confini culturali e religiosi entro cui erano abituati a pensare e a vivere (Papa Benedetto)
The Fathers made a very significant commentary on this singular task. This is what they say: for a fish, created for water, it is fatal to be taken out of the sea, to be removed from its vital element to serve as human food. But in the mission of a fisher of men, the reverse is true. We are living in alienation, in the salt waters of suffering and death; in a sea of darkness without light. The net of the Gospel pulls us out of the waters of death and brings us into the splendour of God’s light, into true life (Pope Benedict)
I Padri […] dicono così: per il pesce, creato per l’acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all’uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita (Papa Benedetto)
We may ask ourselves: who is a witness? A witness is a person who has seen, who recalls and tells. See, recall and tell: these are three verbs which describe the identity and mission (Pope Francis, Regina Coeli April 19, 2015)
Possiamo domandarci: ma chi è il testimone? Il testimone è uno che ha visto, che ricorda e racconta. Vedere, ricordare e raccontare sono i tre verbi che ne descrivono l’identità e la missione (Papa Francesco, Regina Coeli 19 aprile 2015)
There is the path of those who, like those two on the outbound journey, allow themselves to be paralysed by life’s disappointments and proceed sadly; and there is the path of those who do not put themselves and their problems first, but rather Jesus who visits us, and the brothers who await his visit (Pope Francis)
C’è la via di chi, come quei due all’andata, si lascia paralizzare dalle delusioni della vita e va avanti triste; e c’è la via di chi non mette al primo posto se stesso e i suoi problemi, ma Gesù che ci visita, e i fratelli che attendono la sua visita (Papa Francesco)
So that Christians may properly carry out this mandate entrusted to them, it is indispensable that they have a personal encounter with Christ, crucified and risen, and let the power of his love transform them. When this happens, sadness changes to joy and fear gives way to missionary enthusiasm (John Paul II)
Perché i cristiani possano compiere appieno questo mandato loro affidato, è indispensabile che incontrino personalmente il Crocifisso risorto, e si lascino trasformare dalla potenza del suo amore. Quando questo avviene, la tristezza si muta in gioia, il timore cede il passo all’ardore missionario (Giovanni Paolo II)
This is the message that Christians are called to spread to the very ends of the earth. The Christian faith, as we know, is not born from the acceptance of a doctrine but from an encounter with a Person (Pope Benedict))
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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