don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Mag 23, 2025

Piccola Pentecoste

Pubblicato in Angolo dell'ottimista

"Maria si mise in viaggio verso la montagna..." (Lc 1,39).

Risuonano nel nostro cuore le parole dell'evangelista Luca: "Appena ebbe udito il saluto di Maria,... Elisabetta fu piena di Spirito Santo" (1,41).

L'incontro tra la Madonna e la cugina Elisabetta è come una sorta di "piccola Pentecoste". Vorrei sottolinearlo questa sera alla vigilia ormai della grande solennità dello Spirito Santo.

Nel racconto evangelico, la Visitazione segue immediatamente l'Annunciazione: la Vergine Santa, che porta in grembo il Figlio concepito per opera dello Spirito Santo, irradia intorno a sé grazia e gaudio spirituale. E' la presenza in Lei dello Spirito che fa sussultare di gioia il figlio di Elisabetta, Giovanni, destinato a preparare la via al Figlio di Dio fatto uomo.

Dove c'è Maria, c'è Cristo; e dove c'è Cristo, c'è il suo Spirito Santo, che procede dal Padre e da Lui nel mistero sacrosanto della vita trinitaria. Gli Atti degli Apostoli sottolineano a ragione la presenza orante di Maria, nel Cenacolo, insieme con gli Apostoli riuniti in attesa di ricevere la "potenza dall'Alto". Il "sì" della Vergine attira sull'umanità il Dono di Dio: come nell'Annunciazione, così nella Pentecoste. Così continua ad avvenire nel cammino della Chiesa.

Riuniti in preghiera con Maria, invochiamo una copiosa effusione dello Spirito Santo sulla Chiesa intera, perché a vele spiegate prenda il largo nel nuovo millennio. In modo particolare, invochiamolo su quanti operano quotidianamente al servizio della Sede Apostolica, affinché il lavoro di ciascuno sia sempre animato da spirito di fede e di zelo apostolico.

Si chiude il nostro pellegrinaggio mariano nella quiete della sera e questo ci induce anche a pensare all'orizzonte ultimo della nostra esistenza. La Vergine Maria cammina con la Chiesa pellegrinante e, al tempo stesso, regna nel Paradiso tra gli Angeli e i Santi. Ella ci insegni, con la sua Visitazione, che la gioia si trova spendendo la vita per Cristo. E' così, infatti, che ci si prepara ad entrare con Lui nella gloria del Padre celeste. Possa lo Spirito Santo rafforzare i nostri passi su questa via, che ci conduce al Cielo.

Con questi sentimenti, tutti di cuore vi benedico.

 

E’ molto significativo che l’ultimo giorno di maggio ci porti la festa della Visitazione. Con questa conclusione è come se volessimo dire che ogni giorno di questo mese è stato una sorta di visitazione. Abbiamo vissuto durante il mese di maggio una continua visitazione, così come l’hanno vissuta Maria ed Elisabetta. Siamo grati a Dio che questo fatto biblico oggi ci sia riproposto dalla Liturgia.

A tutti voi, qui riuniti così numerosi, auguro che la grazia della visitazione mariana, vissuta durante il mese di maggio e specialmente in quest’ultima serata, si prolunghi nei giorni che verranno.

 

[Papa Giovanni Paolo II, 31 maggio 2001]

Mag 23, 2025

Porta le gioie

Pubblicato in Angolo dell'apripista

Sono tanti i cristiani che non conoscono la gioia. E anche quando sono in chiesa a lodare Dio, sembrano a un funerale più che a una celebrazione gioiosa. Se invece imparassero a uscire da se stessi e a rendere grazie a Dio, «capirebbero realmente cos’è quella gioia che ci rende liberi».

E proprio la gioia cristiana è stata al centro dell’omelia di Papa Francesco, questa mattina, venerdì 31 maggio, festa della Visitazione, durante la messa concelebrata nella cappella della Domus Sanctae Marthae […]

«Le due letture di oggi — ha infatti esordito il Pontefice riferendosi ai brani tratti dal libro del profeta Sofonia (3, 14-18) e dal vangelo di Luca (1, 39-56) — ci parlano di gioia, di allegria: “rallegrati, grida di gioia”, dice Sofonia. Gridare di gioia. Forte questo! “Il Signore in mezzo a te”; non temere; “non lasciarti cadere le braccia”! Il Signore è potente; gioirà per te. Anche lui gioirà per noi. Anche lui è gioioso. “Esulterà per te con grida di gioia”. Sentite quante cose belle si dicono della gioia!».

Nel racconto evangelico la gioia caratterizza la visita di Maria a Elisabetta. «La Madonna va a fare visita a Elisabetta» ha ricordato il Santo Padre. E presentando l’immagine di Maria come madre che va sempre in fretta — così come aveva fatto domenica scorsa nella parrocchia romana dei Santi Elisabetta e Zaccaria — Papa Francesco si è soffermato su quel «sussulto del bimbo nel grembo di Elisabetta» rivelato da lei stessa a Maria: «Ecco, appena il tuo saluto è giunto alle mie orecchie, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo».

«Tutto è gioia. Ma noi cristiani — ha notato il vescovo di Roma — non siamo tanto abituati a parlare di gioia, di allegria. Credo che tante volte ci piacciano più le lamentele! Cosa è la gioia? La chiave per capire questa gioia è quello che dice il vangelo: “Elisabetta fu colmata di Spirito Santo”. Quello che ci dà la gioia è lo Spirito Santo. Anche nella prima preghiera della messa abbiamo chiesto la grazia della docilità allo Spirito Santo, quello che ci dà la gioia».

Il Papa ha parlato poi di un altro aspetto della gioia che ci viene dallo Spirito. «Pensiamo — ha detto — a quel momento in cui la Madonna e san Giuseppe portano Gesù al tempio per compiere la Legge. Il vangelo dice che loro vanno a fare quello che stava scritto nella Legge». Lì sono anche due anziani; ma, ha notato, il Vangelo non dice che essi sono andati lì per compiere la Legge, quanto piuttosto perché spinti dalla «forza dello Spirito Santo. Lo Spirito li porta al tempio». Tanto che, davanti a Gesù, i due «fanno una preghiera di lode: ma questo è il messia, benedetto il Signore! E anche fanno una liturgia spontanea di gioia». È la fedeltà maturata in tanti anni in attesa dello Spirito Santo a far sì che «questo Spirito venga e dia loro la gioia».

«A me — ha poi confidato Papa Francesco — piace pensare: i giovani compiono la Legge; gli anziani hanno la libertà di lasciare che lo Spirito li guidi. E questo è bellissimo! È proprio lo Spirito che ci guida. Lui è l’autore della gioia, il creatore della gioia. E questa gioia nello Spirito ci dà la vera libertà cristiana. Senza gioia noi cristiani non possiamo diventare liberi. Diventiamo schiavi delle nostre tristezze».

Quindi il Pontefice ha citato «il grande Paolo VI», ricordando che diceva «non si può portare avanti il Vangelo con cristiani tristi, sfiduciati, scoraggiati; non si può. Questo atteggiamento è un po’ funerario». Invece la gioia cristiana deriva proprio dalla lode a Dio.

«Ma cosa è questo lodare Dio?» si è chiesto il Papa. «Lodare lui gratuitamente, come è gratuita la grazia che lui ci dà» è stata la sua risposta. Poi, rivolgendosi a uno dei presenti alla celebrazione, ha detto: «Io posso fare la domanda a lei che è qui a messa: lei, loda Dio? O soltanto chiede a Dio e ringrazia Dio? Ma loda Dio?». Questo, ha ripetuto, significa «uscire da noi stessi per lodare Dio, perdere il tempo lodando».

A questo punto il Pontefice ha fatto riferimento a una delle critiche che spesso viene rivolta ai sacerdoti: «Questa messa che fate è lunga». Certo, ha spiegato rivolgendosi ancora ai presenti, «se tu non lodi Dio e non conosci la gratuità del perdere il tempo lodando a Dio, certo che è lunga la messa! Ma se tu vai a questo atteggiamento della gioia, della lode a Dio, questo è bello». Del resto, «l’eternità sarà questa: lodare Dio. Ma questo non sarà noioso, sarà bellissimo. Questa gioia ci fa liberi».

«E voglio aggiungere — ha detto in conclusione — un’ultima cosa: è proprio lei, la Madonna che porta le gioie. La Chiesa la chiama causa della nostra gioia, causa nostrae letitiae, Perché? Perché porta la gioia nostra più grande, porta Gesù. E portando Gesù fa sì che “questo bambino sussulti nel grembo della madre”. Lei porta Gesù. Lei con la sua preghiera fa sì che lo Spirito Santo irrompa. Irrompe quel giorno di Pentecoste; era là. Dobbiamo pregare la Madonna perché portando Gesù ci dia la grazia della gioia, della libertà; ci dia la grazia di lodare, di fare una preghiera di lode gratuita, perché lui è degno di lode, sempre».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 01/06/2013]

Afflizione e gioia nei dolori del parto

(Gv 16,20-23a)

 

Una credenza diffusa al tempo di Gesù era che il tempo ultimo sarebbe stato preceduto da un eccesso di tribolazioni e violenze.

Il gaudio dell'età d’oro futura sarebbe stato annunciato da un periodo di prove senza precedenti.

L’immagine della partoriente esprimeva il senso della storia intensamente dolorosa nel volgere dei tempi.

Tempi che ci si attendeva non eccessivamente durevoli - compensati da una liberazione la quale avrebbe fatto trasalire di gioia.

Lo spirito di autosufficienza e finta sicurezza del mondo circostante [anche della casta religiosa, preoccupata di salvaguardarsi] avrebbe condotto i membri di chiesa a una terrificante solitudine.

I fedeli contraddicevano il modo “pio” e imperiale di considerare la vita, fondato su false sicurezze e spirito di affermazione.

Il momento storico sembrava invaso da tristezza e insieme da un’aspettativa ineffabile, radicale, che paradossalmente sorgeva dalla medesima causa delle persecuzioni.

L’esclusione produceva senso di sconforto, ma era anche una molla che attivava sguardi incisivi, e l’azione, per un appagamento a rovescio - nell’esperienza viva della Presenza divina.

L’allontanamento sociale faceva scattare una situazione di Libertà: diventava Dono inatteso, proficuo, tangibile.

Tutto si mostrava utile a conciliare la molteplicità dei volti con la propria storia dispersa, i fratelli e sorelle, il futuro di Dio.

Fine delle incomprensioni.

Alla luce dell’esperienza reale della Visione-Fede operante, anche nei malesseri non vi sarebbero state questioni da avanzare: solo risposte.

Il mistero dell’esistenza di ciascuno veniva chiarito in modo eloquente, senza più interrogativi dispersivi: piuttosto, con guide interiori.

 

Nella figura di Gesù che “saluta” i suoi, Gv introduce il Dono del Paraclito. Spirito che reca la gioia della Presenza [silenziosa] del Maestro.

Ancora «in mezzo» - Egli stava facendo nascere il mondo nuovo.

Le allusioni frequenti alle sofferenze intime descrivono nel testo la realtà delle comunità giovannee dell’Asia Minore di fine primo secolo, tormentate da defezioni.

L’oppressione sotto Domiziano aumentava, e molti fratelli di comunità erano impazienti: avevano bisogno d’una chiave d’interpretazione profonda, e di una prospettiva.

Non ce l’avrebbero fatta da soli, a partire da se stessi.

Gv intende sostenere le pene dei credenti ed evitare fughe, incoraggiando tutti a vedere nelle persecuzioni un meccanismo generatore di vita nuova [doglie del parto: v.21].

Solo così chi aveva la morte davanti agli occhi non temeva di proseguire nella sua franchezza di testimone: doveva avere una Speranza forte.

Su tale raggio di luce e sulla scia di Dio nella storia, passo dopo passo tutto diventava chiaro.

Nella vita della donna e dell’uomo di Fede, malinconia e gioia andavano a braccetto - anzi, erano le prove assolute e laceranti che sprigionavano un flusso vitale.

La morte del Cristo e dei suoi rendeva possibile una nuova Nascita dell’umanità.

Mistero della vita, delle tribolazioni, e dell’essere in pienezza «nuove creature» ‘di genesi in genesi’.

 

Proprio il travaglio produceva nei figli di Dio la gioia d’una ritrovata Presenza, nel tempo lungo dell’evangelizzazione - sempre in pericolo di smarrire e nella tentazione di cedere.

Bisogna ricordarsi questo ritmo: mestizia del congedo e cuore nuovo, gioia e tristezza…

Paradossale sinergia che può far crescere la nostra unione coinvolgente col Risorto, riconosciuto «Signore personale».

 

 

[Venerdì 6.a sett. di Pasqua, 30 maggio 2025]

Afflizione e gioia nei dolori del parto

(Gv 16,20-23a)

 

Una credenza diffusa al tempo di Gesù era che il tempo ultimo sarebbe stato preceduto da un eccesso di tribolazioni e violenze.

Il gaudio dell'età d’oro futura sarebbe stato annunciato da un periodo di prove senza precedenti.

L’immagine della partoriente esprimeva il senso della storia intensamente dolorosa nel volgere dei tempi.

Tempi che ci si attendeva non eccessivamente durevoli - compensati da una liberazione la quale avrebbe fatto trasalire di gioia.

Lo spirito di autosufficienza e finta sicurezza del mondo circostante (anche della casta religiosa, preoccupata di salvaguardarsi) avrebbe condotto i membri di chiesa a una terrificante solitudine.

I fedeli contraddicevano il modo pio e imperiale di considerare la vita, fondato su false sicurezze e spirito di affermazione.

Il momento storico sembrava invaso da tristezza e insieme da un’aspettativa ineffabile, radicale, che paradossalmente sorgeva dalla medesima causa delle persecuzioni.

L’esclusione produceva senso di sconforto, ma era anche una molla che attivava sguardi incisivi, e l’azione, per un appagamento a rovescio - nell’esperienza viva della Presenza divina.

L’allontanamento sociale faceva scattare una situazione di Libertà: diventava Dono inatteso, proficuo, tangibile.

Tutto si mostrava utile a conciliare la molteplicità dei volti con la propria storia dispersa, i fratelli e sorelle, il futuro di Dio.

Fine delle incomprensioni.

Alla luce dell’esperienza reale della Visione-Fede operante, anche nei malesseri non vi sarebbero state questioni da avanzare: solo risposte.

Il mistero dell’esistenza di ciascuno veniva chiarito in modo eloquente, senza più interrogativi dispersivi: piuttosto, con guide interiori.

 

Nella figura di Gesù che “saluta” i suoi, Gv introduce il Dono del Paraclito. Spirito che reca la gioia della Presenza [silenziosa] del Maestro.

Ancora in mezzo - Egli stava facendo nascere il mondo nuovo.

Le allusioni frequenti alle sofferenze intime descrivono nel testo la realtà delle comunità giovannee dell’Asia Minore di fine primo secolo, tormentate da defezioni.

L’oppressione sotto Domiziano aumentava, e molti fratelli di comunità erano impazienti: avevano bisogno d’una chiave d’interpretazione profonda, e di una prospettiva.

Non ce l’avrebbero fatta da soli, a partire da se stessi.

Gv intende sostenere le pene dei credenti ed evitare fughe, incoraggiando tutti a vedere nelle persecuzioni un meccanismo generatore di vita nuova [doglie del parto: v.21].

Solo così chi aveva la morte davanti agli occhi non temeva di proseguire nella sua franchezza di testimone: doveva avere una Speranza forte.

Su tale raggio di luce e sulla scia di Dio nella storia, passo dopo passo tutto diventava chiaro.

Nella vita della donna e dell’uomo di Fede, malinconia e gioia andavano a braccetto - anzi, erano le prove assolute e laceranti che sprigionavano il flusso vitale.

La morte del Cristo e dei suoi rendeva possibile una nuova Nascita dell’umanità.

Mistero della vita, delle tribolazioni, e dell’essere in pienezza nuove creature, di genesi in genesi.

 

Nella Bibbia la Felicità è percezione di pienezza di vita, luogo della festa che trasporta la persona e la fraternità intera, dai malesseri del viaggio - è il grande segnale del Mondo nuovo.

Ma le comunità primitive facevano esperienza che la gioia intima nasceva dalle lacrime d’un parto doloroso: così doveva essere anche per il mondo avvenire; di conquista inedita e libertà.

Dalle doglie sorgeva appunto una vita differente, primordiale, colma di un’esultanza altra: dissonante da vecchi moduli, nomenclature, e propositi, persino per chi partoriva.

Insomma, la sofferenza non negava l’irradiazione dello Spirito: era una legge della nascita [non forza negativa] che poteva sì annientare, ma solo coloro che avevano lo sguardo ripiegato.

Così era anche per il Regno: la sua instaurazione accadeva all’interno di una lotta, mai innocua - che pur feriva fuori e dentro anche la sostanza umana, nel riposto del cuore e delle relazioni.

Ma essa poi riarmonizzava e più, nel brivido delle scoperte, nelle suggestioni che palpitavano - dalle quali scaturiva una nuova creazione.

Alle note ufficiali della vera Chiesa [una santa cattolica apostolica] bisognava forse aggiungere: vessata, flagellata, inchiodata. In tal guisa, rafforzata da una Parola-Persona che risuonava dentro.

Da tutto ciò è derivato sin dai primi tempi un “gusto” senza impedimenti, che subito incorre nell’ostilità mondana. Nulla a che vedere con l’impero e la sua logica piramidale-feudale.

Proprio nel travaglio, ogni prova produceva nei figli di Dio la gioia d’una ritrovata Presenza, nel tempo lungo dell’evangelizzazione - sempre in pericolo di smarrire e nella tentazione di cedere.

Bisogna ricordarsi di questo ritmo: mestizia del congedo e cuore nuovo, gioia e tristezza…

Paradossale sinergia che può far crescere la nostra unione coinvolgente col Risorto, riconosciuto Signore.

 

 

Spe Salvi

 

Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo. La parola « vita eterna » cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura; « vita » ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l'altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell'immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo.

[Papa Benedetto, Spe Salvi n.12]

Mag 23, 2025

Spe Salvi

Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo. La parola « vita eterna » cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura; « vita » ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l'altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell'immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo.

[Papa Benedetto, Spe Salvi n.12]

1. Abbiamo già più volte udito da San Paolo che “la gioia è frutto dello Spirito Santo” (Gal 5, 22), come lo sono l’amore e la pace, di cui abbiamo trattato nelle precedenti catechesi. È chiaro che l’Apostolo parla della vera gioia, quella che colma il cuore umano, non certo di una gioia superficiale e transitoria, come è spesso quella mondana.

Non è difficile, ad un osservatore che si muova anche solo sulla linea della psicologia e dell’esperienza, scoprire che il degrado, nel campo del piacere e dell’amore, è proporzionale al vuoto lasciato nell’uomo dalle fallaci e deludenti gioie cercate in quelle che San Paolo chiamava le “opere della carne”: “Fornicazione, impurità, libertinaggio . . . ubriachezze, orge e cose del genere” (Gal 5, 19.21). A queste false gioie si possono aggiungere - e vi sono spesso collegate - quelle cercate nel possesso e nell’uso smodato della ricchezza, nel lusso, nell’ambizione del potere, insomma in quella passione e quasi frenesia dei beni terreni che facilmente produce cecità di mente, come avverte San Paolo (cf. Ef 4, 18-19), e lamenta Gesù (cf. Mc 4, 19).

2. Paolo si riferiva alla situazione del mondo pagano, per esortare i convertiti a guardarsi dalle nefandezze: “Voi non così avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici. Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4, 20-24). È la “nuova creatura” (2 Cor 5, 17), che è opera dello Spirito Santo, presente nell’anima e nella Chiesa. Perciò l’Apostolo conclude così la sua esortazione alla buona condotta e alla pace: “Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno santo della redenzione” (Ef 4, 30).

Se il cristiano “rattrista” lo Spirito Santo, vivente nell’anima, non può certo sperare di possedere la vera gioia, che viene da lui: “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace . . .” (Gal 5, 22). Solo lo Spirito Santo dà la gioia profonda, piena e durevole, a cui aspira ogni cuore umano. L’uomo è un essere fatto per la gioia, non per la tristezza. Lo ha ricordato Paolo VI ai cristiani e a tutti gli uomini del nostro tempo con l’esortazione apostolica “Gaudete in Domino”. E la gioia vera è dono dello Spirito Santo.

3. Nel testo della Lettera ai Galati Paolo ci ha detto che la gioia è legata alla carità (cf. Gal 5, 22). Essa non può quindi essere un’esperienza egoistica, frutto di un amore disordinato. La vera gioia include la giustizia del regno di Dio, del quale dice San Paolo che “è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 4, 17).

Si tratta della giustizia evangelica, consistente nella conformità alla volontà di Dio, nell’obbedienza alle sue leggi, nella personale amicizia con Lui. Fuori di questa amicizia non c’è vera gioia. Anzi “la tristezza come male e vizio - spiega San Tommaso - è causata dall’amore disordinato di se stessi, il quale . . . è la radice generale dei vizi” (S. Thomae, Summa theologiae, II-II, q. 28, a. 4, ad 1; cf. Ivi, I-II, q. 72, a. 4). Specialmente il peccato è fonte di tristezza, perché è una deviazione e quasi una distorsione dell’animo dal giusto ordine di Dio, che dà consistenza alla vita. Lo Spirito Santo, che opera nell’uomo la nuova giustizia nella carità, elimina la tristezza e dà la gioia: quella gioia che vediamo fiorire nel Vangelo.

4. Il Vangelo è un invito alla gioia e un’esperienza di gioia vera e profonda. Così nell’Annunciazione, Maria viene invitata alla gioia: “Rallegrati (Khaire), piena di grazia” (Lc 1, 28). È il coronamento di tutta una serie di inviti formulati dai profeti nell’Antico Testamento (cf. Zc 9, 9; Sof 3, 14-17; Gl 2, 21-27; Is 54, 1). La gioia di Maria si realizzerà con la venuta dello Spirito Santo, annunciata a Maria come motivo del “Rallègrati”.

Nella Visitazione, Elisabetta è piena di Spirito Santo e di gioia, nella partecipazione naturale e soprannaturale alla esultanza del figlio che è ancora nel suo seno: “Il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo” (Lc 1, 44). Elisabetta percepisce la gioia del figlio, e la manifesta, ma è lo Spirito Santo che, secondo l’evangelista, riempie ambedue di tale gioia. Maria, a sua volta proprio allora sente sgorgare dal cuore il canto di esultanza che esprime la gioia umile, limpida e profonda che la riempie quasi in attuazione del “Rallegrati” dell’Angelo: “Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore” (Lc 1, 47). Anche in queste parole di Maria echeggia la voce di gioia dei profeti, quale risuona nel Libro di Abacuc: “Io gioirò nel Signore, esulterò in Dio mio salvatore” (Ab 3, 18).

Un prolungamento di questa esultanza si ha durante la presentazione del bambino Gesù al Tempio, quando, all’incontro con lui, Simeone gioisce sotto l’impulso dello Spirito Santo che gli aveva fatto desiderare di vedere il Messia e lo aveva spinto a recarsi al Tempio (cf. Lc 2, 26-32); e a sua volta la profetessa Anna, così chiamata dall’evangelista, che pertanto la presenta come una donna consacrata a Dio e interprete dei suoi pensieri e comandi, secondo la tradizione d’Israele (cf. Es 15, 20; Gdc 4, 9; 2 Re 22, 14), esprime con la lode a Dio l’intima gioia che anche in lei ha origine dallo Spirito Santo (Lc 2, 36-38).

5. Nelle pagine evangeliche riguardanti la vita pubblica di Gesù, leggiamo che, a un certo momento, egli stesso “esultò nello Spirito Santo” (Lc 10, 21). Gesù esprime gioia e gratitudine in una preghiera che celebra la benevolenza del Padre: “Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto” (Lc 10, 21). In Gesù la gioia assume tutta la sua forza nello slancio verso il Padre. Così è per le gioie stimolate e sostenute dallo Spirito Santo nella vita degli uomini: la loro carica di vitalità segreta li orienta nel senso di un amore pieno di gratitudine verso il Padre. Ogni vera gioia ha come ultimo termine il Padre.

Ai discepoli Gesù rivolge l’invito a rallegrarsi, a vincere la tentazione della tristezza per la partenza del Maestro, perché questa partenza è condizione disposta nel disegno divino per la venuta dello Spirito Santo: “È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado non verrà a voi il Paraclito; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò” (Gv 16, 7). Sarà il dono dello Spirito a procurare ai discepoli una gioia grande, anzi la pienezza della gioia, secondo l’intenzione espressa da Gesù. Il Salvatore, infatti, dopo aver invitato i discepoli a rimanere nel suo amore, aveva detto: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15, 11; cf. Gv 17, 13). È lo Spirito Santo a mettere nel cuore dei discepoli la stessa gioia di Gesù, gioia della fedeltà all’amore che viene dal Padre.

San Luca attesta che i discepoli, i quali al momento dell’Ascensione avevano ricevuto la promessa del dono dello Spirito Santo, “tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24, 52-53). Negli Atti degli Apostoli risulta che, dopo la Pentecoste, si era creato negli Apostoli un clima di profonda gioia, che si comunicava alla comunità, in forma di esultanza e di entusiasmo nell’abbracciare la fede, nel ricevere il battesimo e nel vivere insieme, come dimostra quel “prendere i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo” (At 2, 46-47). Il libro degli Atti annota: “I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo” (At 13, 52).

6. Ben presto sarebbero venute le tribolazioni e persecuzioni predette da Gesù proprio nell’annunciare la venuta del Paraclito-Consolatore (cf. Gv 16,1ss.). Ma secondo gli Atti la gioia perdura anche nella prova: vi si legge infatti che gli Apostoli, tradotti davanti al Sinedrio, fustigati, ammoniti e rimandati a casa, se ne tornarono “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù. E ogni giorno, nel tempio e a casa, non cessavano di insegnare e di portare il lieto annunzio che Gesù è il Cristo” (At 5, 41-42).

Questa, del resto, è la condizione e la sorte dei cristiani, come ricorda San Paolo ai Tessalonicesi: “Voi siete diventati imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione” (1 Ts 1, 6). I cristiani, secondo Paolo, ripetono in sé il mistero pasquale di Cristo, che ha come cardine la Croce. Ma il suo coronamento è la “gioia dello Spirito Santo” per coloro che perseverano nelle prove. È la gioia delle beatitudini, e più particolarmente della beatitudine degli afflitti, e dei perseguitati (cf. Mt 5, 4.10-12). Non affermava forse l’apostolo Paolo: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi . . .” (Col 1, 24)? E Pietro, per parte sua, esortava: “Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare” (1 Pt 4, 13).

Preghiamo lo Spirito Santo perché accenda sempre più in noi il desiderio dei beni celesti e ce ne faccia godere un giorno la pienezza: “Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna”.

Amen.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 19 giugno 1991]

«Non aver paura», soprattutto nei momento difficili: ecco il messaggio che Papa Francesco ha riproposto nella messa celebrata venerdì 30 maggio nella cappella della Casa Santa Marta. Un messaggio di speranza che sprona a essere coraggiosi e ad avere «la pace nell’anima» proprio nelle prove — la malattia, la persecuzione, i problemi di tutti giorni in famiglia — sicuri che dopo si vivrà la gioia vera, perché «dopo il buio arriva sempre il sole».

In questa prospettiva il Pontefice ha indicato subito la testimonianza di san Paolo — un uomo «molto coraggioso» — presentata negli Atti degli apostoli (18, 9-18). Paolo, ha spiegato, «ha fatto tante cose perché aveva la forza del Signore, la sua vocazione per portare avanti la Chiesa, per predicare il Vangelo». Eppure sembra che anche lui alcune volte avesse timore. Tanto che il Signore una notte, in visione, lo ha invitato espressamente a «non avere paura».

Dunque anche san Paolo «conosceva quello che succede a tutti noi nella vita», avere cioè «un po’ di paura». Una paura che ci porta persino a rivedere la nostra vita cristiana, chiedendoci magari se, in mezzo a tanti problemi, in fondo «non sarebbe meglio abbassare un po’ il livello» per essere «non tanto cristiano», cercando «un compromesso con il mondo» in modo che «le cose non siano tanto difficili».

Un ragionamento, però, che non è appartenuto a san Paolo, il quale «sapeva che quello che faceva non piaceva né ai giudei né ai pagani». E gli Atti degli apostoli raccontano le conseguenze: è stato portato in tribunale, poi ecco «le persecuzioni, i problemi». Tutto questo, ha proseguito il Pontefice, ci riporta anche «nelle nostre paure, nei nostri timori». E viene da chiederci se aver paura è da cristiano. Del resto, ha ricordato il Papa, «lo stesso Gesù ne ha avuta. Pensate alla preghiera del Getsemani: “Padre allontana da me questo calice”. Aveva angoscia». Però Gesù dice anche: «Non spaventarti, vai avanti!». Proprio di questo parla nel discorso di congedo dai suoi discepoli, nel Vangelo di Giovanni (16, 20-23), quando dice loro chiaramente: «Voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà»; di più, si farà beffa di voi.

Cosa, poi, puntualmente avvenuta. «Pensiamo — ha rimarcato il vescovo di Roma — a quegli spettacoli del Colosseo, per esempio con i primi martiri» che sono stati condotti a «morire mentre la gente si rallegrava» dicendo: «Questi sciocchi che credono nel Risorto adesso che finiscano così!». Per tanti il martirio dei cristiani «era una festa: vedere come morivano!». È avvenuto dunque proprio quanto aveva detto Gesù ai discepoli: «il mondo si rallegrerà» mentre «voi sarete nella tristezza».

C’è, allora, «la paura del cristiano, la tristezza del cristiano». Del resto, ha spiegato il Papa, «noi dobbiamo dirci la verità: non tutta la vita cristiana è una festa. Non tutta! Si piange, tante volte si piange!». Le situazioni difficili della vita sono molteplici: per esempio, ha notato, «quando tu sei malato, quando tu hai un problema in famiglia, con i figli, con la figlia, la moglie, il marito. Quando tu vedi che lo stipendio non arriva alla fine del mese e hai un figlio malato e tu vedi che non puoi pagare il mutuo della casa e devi andartene via». Sono «tanti problemi che noi abbiamo». Eppure «Gesù ci dice: non aver paura!».

C’è anche «un’altra tristezza», ha aggiunto Papa Francesco: quella «che viene a tutti noi quando andiamo per una strada che non è buona». O quando, «per dirla semplicemente, compriamo, andiamo a comprare la gioia, l’allegria del mondo, quella del peccato». Con il risultato che «alla fine c’è il vuoto dentro di noi, c’è la tristezza». E questa è proprio «la tristezza della cattiva allegria».

Ma se il Signore non nasconde la tristezza, non ci lascia però soltanto con questa parola. Va avanti e dice: «Ma se voi siete fedeli, la vostra tristezza si cambierà in gioia». Ecco il punto chiave: «La gioia cristiana è una gioia in speranza che arriva. Ma nel momento della prova noi non la vediamo». È infatti «una gioia che viene purificata per le prove, anche per le prove di tutti i giorni». Dice il Signore: «La vostra tristezza si cambierà in gioia». Un discorso difficile da far comprendere, ha riconosciuto il Papa. Lo si vede, per esempio, «quando tu vai da un ammalato, da un’ammalata che soffre tanto, per dire: coraggio, coraggio, domani tu avrai gioia!». Si tratta di far sentire quella persona che soffre «come l’ha fatta sentire Gesù». È «un atto di fede nel Signore» e lo è anche per noi «quando siamo proprio nel buio e non vediamo nulla». Un atto che ci fa dire: «Lo so, Signore, che questa tristezza si cambierà in gioia. Non so come, ma lo so!».

In questi giorni, ha osservato il Pontefice, nella liturgia la Chiesa celebra il momento in cui «il Signore se n’è andato e ha lasciato i discepoli soli». In quel momento «forse alcuni di loro avranno sentito paura». Ma in tutti «c’era la speranza, la speranza che quella paura, quella tristezza si cambierà in gioia». E «per farci capire bene che questo è vero, il Signore prende l’esempio della donna che partorisce», spiegando: «Sì, è vero, nel parto la donna soffre tanto, ma poi quando ha il bambino con sé si dimentica» di tutto il dolore. E «quello che rimane è la gioia», la gioia «di Gesù: una gioia purificata nel fuoco delle prove, delle persecuzioni, di tutto quello che si deve fare per essere fedeli». Solo questa «è la gioia che rimane, una gioia nascosta in alcuni momenti della vita, che non si sente nei momenti brutti, ma che viene dopo». È, appunto, «una gioia in speranza».

Ecco allora «il messaggio della Chiesa oggi: non aver paura», essere «coraggiosi nella sofferenza e pensare che dopo viene il Signore, dopo viene la gioia, dopo il buio arriva il sole». Il Pontefice ha quindi espresso l’auspicio che «il Signore dia a tutti noi questa gioia in speranza». E ha spiegato che la pace è «il segno che noi abbiamo di questa gioia in speranza». A dare testimonianza di questa «pace nell’anima» sono, in particolare, tanti «ammalati alla fine della vita, con i dolori». Perché proprio «la pace — ha concluso il Papa — è il seme della gioia, è la gioia in speranza». Se infatti «hai pace nell’anima nel momento del buio, nel momento delle difficoltà, nel momento delle persecuzioni, quando tutti si rallegrano del tuo male», è il segno chiaro «tu hai il seme di quella gioia che verrà dopo».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 31/05/2014]

«Un tempo brevissimo»: non siamo in sala d’aspetto

(Gv 16,16-20)

 

La comunione umana dei primi discepoli col Maestro è stata suggestiva, non esauriente. Essa deve ora rinnovarsi.

Ciò avviene nel passaggio di Gesù dal mondo al Padre. Quindi nel cammino e dialogo fuori di ogni cerchia, cui gli apostoli stessi sono chiamati.

Il distacco terreno dal Signore è stato drammatico. Ma anche oggi siamo spinti a vivere e crescere nella ‘Chiesa in uscita’.

Spostamento che obbliga i fedeli in Cristo a transitare dai fratelli e sorelle di comunità a un rapporto totalizzante con la famiglia umana.

L’immediata percezione diventerebbe infrangibile: Gesù deve andare e lasciarci soli perché entriamo nel Mistero, in ricerca.

Ciò affinché sia il Risorto e il totalmente Altro a emergere in questo distacco, nella nebbia e notte dell’Esodo ribadito, tutto reale e tutto nuovo.

Anche per noi, la certezza si fa problema; la stabilità conosce le scosse. 

Non siamo dei protetti - come nella religione pagana, dove gli dèi scendevano nelle difficoltà e parteggiavano per gli amici.

C’è un distacco dalle rappresentazioni di Dio, persino dal nostro modo comune di pensare il Risorto.

Egli diventa eco dell’anima, che guida. E si fa ‘corpo’ ossia Chiesa; nonché “chiamata” alla frantumazione degl’idoli, alla testimonianza in uscita.

L'attività evangelizzatrice degli apostoli genuini va di pari passo con il Signore, e ne riflette le vicende, l’insegnamento, il tipo di confronti.

In tal guisa il Vivente si fa presente e operante in noi, senza soluzioni di continuità.

 

Gv riflette una catechesi a domande e risposte rivolta a coloro che non riuscivano a comprendere il senso della morte del Maestro e chiedevano spiegazioni.

Ebbene: «un tempo brevissimo» o «entro breve tempo» sono espressioni che ribadiscono e marcano la continuità fra esperienza di vicinanza fisica con Gesù e ‘visione’ del Risorto.

Trasfigurato e Signore in-noi, è il medesimo Maestro che riconosciamo nella sua vicenda terrena, compresi gli aspetti meno felici. Ad es. di rifiuto, denuncia, rimprovero.

Proprio come di uno che non sa stare al mondo.

Sono momenti inestimabili: tempi di riscoperta della vicinanza cosmica e divina, ovviamente purificata da illusioni di gloria o conformismo sociale.

Malgrado l’ambiente ostile, la situazione interiore del discepolo non muta: è di ‘unità permanente e non subisce interruzione, anzi diventa più incisiva e diretta al fine.

Fede è Relazione penetrante: anche oggi, non più legata al sentire, al vissuto rituale o ai segni di una civitas christiana consolidata - bensì all’acutezza e incisività dell’adesione personale.

Talora sembra dileguarsi? Subito dopo un dubbio che sorge, ogni cosa si capovolge.

La franchezza nell’aspro confronto con il potere consolidato o con le idee conformiste Lo rende improvvisamente Presente.

Vivo e fastidioso, ma stupefacente.

È vero: quando tutto sa di tristezza e prova, in un istante la situazione si rovescia.

È il momento della Felicità profonda: della ‘visione’ dell’Amico [invisibile] che si manifesta nella sua Sapienza e forza reali.

Incarnazione che continua nei testimoni critici e nelle assemblee che si configurano quali Risveglio luminoso del Signore.

Esse affrontano la medesima Passione d’amore e non scansano i problemi: li fanno fiorire come Novità vitale di Dio.

 

 

[Giovedì 6.a sett. di Pasqua, 29 maggio 2025]

«Un tempo brevissimo»: non siamo in sala d’aspetto

(Gv 16,16-20)

 

La comunione umana dei primi discepoli col Maestro è stata suggestiva, non esauriente. Essa deve ora rinnovarsi.

Ciò avviene nel passaggio di Gesù dal mondo al Padre. Quindi nel cammino e dialogo fuori di ogni cerchia, cui gli apostoli stessi sono chiamati.

Il distacco terreno dal Signore è stato drammatico. Ma anche oggi siamo spinti a vivere e crescere nella ‘Chiesa in uscita’.

Spostamento che obbliga i fedeli in Cristo a transitare dai fratelli e sorelle di comunità a un rapporto totalizzante con la famiglia umana.

L’immediata percezione diventerebbe infrangibile: Gesù deve andare e lasciarci soli perché entriamo nel Mistero, in ricerca.

Ciò affinché sia il Risorto e il totalmente Altro a emergere in questo distacco, nella nebbia e notte dell’Esodo ribadito, tutto reale e tutto nuovo.

Anche per noi, la certezza si fa problema; la stabilità conosce le scosse. 

Non siamo dei protetti - come nella religione pagana, dove gli dèi scendevano nelle difficoltà e parteggiavano per gli amici.

 

C’è un distacco dalle rappresentazioni di Dio, persino dal nostro modo comune di pensare il Risorto.

Egli diventa eco dell’anima, che guida. E si fa ‘corpo’ ossia Chiesa; nonché “chiamata” alla frantumazione degl’idoli, alla testimonianza in uscita.

L'attività evangelizzatrice degli apostoli genuini va di pari passo con il Signore, e ne riflette le vicende, l’insegnamento, il tipo di confronti.

In tal guisa il Vivente si fa presente e operante in noi, senza soluzioni di continuità.

Certo, gli eventi che si avvicinano assumono una loro configurazione - ogni volta particolare.

Ma per Fede nella vittoria della vita sulla morte, capiamo: tutto si configura nelle modalità che consentono di esprimere il Nucleo profondo dell’essere, il nostro sentirci chiamati.

Gioia fontale, autentica.

In quanto discepoli, dispieghiamo il Risorto nella storia di ciascuno: morte risurrezione manifestazioni... personali, inedite anche nel segno dei travagli - per ogni credente.

In tale prospettiva tipicamente giovannea (e azione pratica) la morte-risurrezione, la glorificazione alla destra del Padre [Ascensione] e il Dono dello Spirito si rendono simultanei.

Come un ‘nuovo ordine’ di cose [cosiddetto Ritorno alla fine dei tempi].

 

Insomma, l’avvenimento integrale del Messia umanizzante concede al fedele di sentirsi in comunione con Dio, e unito al Figlio - senza cesura alcuna, né ritardi temporali.

La Fede-Visione coglie lo Spirito innovatore e creatore del Padre all’opera, per edificare il mondo definitivo.

Pertanto, il Giudizio dalla Croce è adesso, non si collocherà dopo un’attesa snervante, in un momento lontano.

Il Tempo della Chiesa non diventa così “intermedio”. Né può giustificare forme di spiritualità oscura e vuota.

L’impatto col divino sfida ed espone. Tuttavia possiede una sua densità, unica.

Le tribolazioni ci sarebbero state - anche tanto serie, ricolme d’imbarazzo e senza precedenti - ma avrebbero trascinato le coscienze ben oltre lo sconcerto e il repentino poco appagante.

Nell’esperienza degli inviati, posti faccia a faccia con la Missione, l’enigmatico «fra poco» non avrebbe avuto nulla d’impenetrabile.

Lo ‘rivediamo’ in Spirito, però non solo nel cuore.

È per un Annuncio insieme - senza intimismi. Libero rapporto con la realtà e il Vivente, “da” noi stessi.

 

Gv riflette una catechesi a domande e risposte rivolta a coloro che non riuscivano a comprendere il senso della morte del Maestro e chiedevano spiegazioni.

I padroni dell’antica religione del consenso gioivano per la scomparsa di quel sovversivo ed eretico che invece di tenersi quieto e fare carriera era stato una spina nel fianco del loro prestigio - e guadagni - finalmente fatto fuori e svergognato.

Ormai un fallito e rifiutato anche da Dio.

Ebbene: «un tempo brevissimo» o «entro breve tempo» sono espressioni che ribadiscono e marcano la continuità fra esperienza di vicinanza fisica con Gesù e ‘visione’ del Risorto.

Trasfigurato e Signore in-noi, è il medesimo Maestro che riconosciamo nella sua vicenda terrena, compresi gli aspetti meno felici. Ad es. di rifiuto, denuncia, rimprovero.

Proprio come di uno che non sa stare al mondo.

Sono momenti inestimabili: tempi di riscoperta della vicinanza cosmica e divina, ovviamente purificata da illusioni di gloria o conformismo sociale.

Malgrado l’ambiente ostile, la situazione interiore del discepolo non muta: è di unità permanente e non subisce interruzione, anzi diventa più incisiva e diretta al fine.

Fede è Relazione penetrante: anche oggi, non più legata al sentire, al vissuto rituale, o ai segni di una civitas christiana monopolista e consolidata - bensì all’acutezza e incisività dell’adesione personale.

 

Talora sembra dileguarsi? Subito dopo un dubbio che sorge, ogni cosa si capovolge.

La franchezza nell’aspro confronto con il potere consolidato o con le idee della devozione buona per le sagre e tutte le stagioni, Lo rende improvvisamente Presente.

Vivo e fastidioso, ma stupefacente.

È vero: quando tutto sa di tristezza e prova, in un istante la situazione si rovescia.

È il momento della Felicità profonda: della Visione dell’Amico invisibile che si manifesta nella sua Sapienza e forza reali.

Incarnazione che continua nei testimoni critici e nelle assemblee che si configurano quali Risveglio luminoso del Signore.

Esse affrontano la medesima Passione d’amore e non scansano i problemi: li fanno fiorire come Novità vitale di Dio.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

La tua testimonianza è cosa diluita e fa dormire, o è intensa, perspicace, pungente?

1. Ascoltando le parole del Salmo 125 si ha l’impressione di vedere scorrere davanti agli occhi l’evento cantato nella seconda parte del Libro di Isaia: il «nuovo esodo». È il ritorno di Israele dall’esilio babilonese alla terra dei padri in seguito all’editto del re persiano Ciro nel 538 a.C. Allora si ripeté l’esperienza gioiosa del primo esodo, quando il popolo ebraico fu liberato dalla schiavitù egiziana.

Questo Salmo acquistava particolare significato quando veniva cantato nei giorni in cui Israele si sentiva minacciato e impaurito, perché sottomesso di nuovo alla prova. Il Salmo comprende effettivamente una preghiera per il ritorno dei prigionieri del momento (cfr v. 4). Esso diventava, così, una preghiera del popolo di Dio nel suo itinerario storico, irto di pericoli e di prove, ma sempre aperto alla fiducia in Dio Salvatore e Liberatore, sostegno dei deboli e degli oppressi.

2. Il Salmo introduce in un’atmosfera di esultanza: si sorride, si fa festa per la libertà ottenuta, affiorano sulle labbra canti di gioia (cfr vv. 1-2).

La reazione di fronte alla libertà ridonata è duplice. Da un lato, le nazioni pagane riconoscono la grandezza del Dio di Israele: «Il Signore ha fatto grandi cose per loro» (v. 2). La salvezza del popolo eletto diventa una prova limpida dell’esistenza efficace e potente di Dio, presente e attivo nella storia. D’altro lato, è il popolo di Dio a professare la sua fede nel Signore che salva: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi» (v. 3).

3. Il pensiero corre poi al passato, rivissuto con un fremito di paura e di amarezza. Vorremmo fissare l’attenzione sull’immagine agricola usata dal Salmista: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo» (v. 5). Sotto il peso del lavoro, a volte il viso si riga di lacrime: si sta compiendo una semina faticosa, forse votata all’inutilità e all’insuccesso. Ma quando giunge la mietitura abbondante e gioiosa, si scopre che quel dolore è stato fecondo.

In questo versetto del Salmo è condensata la grande lezione sul mistero di fecondità e di vita che può contenere la sofferenza. Proprio come aveva detto Gesù alle soglie della sua passione e morte: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

4. L’orizzonte del Salmo si apre così alla festosa mietitura, simbolo della gioia generata dalla libertà, dalla pace e dalla prosperità, che sono frutto della benedizione divina. Questa preghiera è, allora, un canto di speranza, cui ricorrere quando si è immersi nel tempo della prova, della paura, della minaccia esterna e dell’oppressione interiore.

Ma può diventare anche un appello più generale a vivere i propri giorni e a compiere le proprie scelte in un clima di fedeltà. La perseveranza nel bene, anche se incompresa e contrastata, alla fine giunge sempre ad un approdo di luce, di fecondità, di pace.

È ciò che san Paolo ricordava ai Galati: «Chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna. E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo» (Gal 6,8-9).

5. Concludiamo con una riflessione di san Beda il Venerabile (672/3-735) sul Salmo 125 a commento delle parole con cui Gesù annunziava ai suoi discepoli la tristezza che li attendeva e insieme la gioia che sarebbe scaturita dalla loro afflizione (cfr Gv 16,20).

Beda ricorda che «piangevano e si lamentavano quelli che amavano Cristo quando lo videro preso dai nemici, legato, portato in giudizio, condannato, flagellato, deriso, da ultimo crocifisso, colpito dalla lancia e sepolto. Gioivano invece quelli che amavano il mondo…, quando condannavano a morte turpissima colui che era per loro molesto anche solo a vederlo. Si rattristarono i discepoli della morte del Signore, ma, conosciuta la sua risurrezione, la loro tristezza si mutò in gioia; visto poi il prodigio dell’ascensione, con gioia ancora maggiore lodavano e benedicevano il Signore, come testimonia l’evangelista Luca (cfr Lc 24,53). Ma queste parole del Signore si adattano a tutti i fedeli che, attraverso le lacrime e le afflizioni del mondo, cercano di arrivare alle gioie eterne, e che a ragione ora piangono e sono tristi, perché non possono vedere ancora colui che amano, e perché, fino a quando stanno nel corpo, sanno di essere lontani dalla patria e dal regno, anche se sono certi di giungere attraverso le fatiche e le lotte al premio. La loro tristezza si muterà in gioia quando, terminata la lotta di questa vita, riceveranno la ricompensa della vita eterna, secondo quanto dice il Salmo: “Chi semina nelle lacrime, mieterà nella gioia”» (Omelie sul Vangelo, 2,13: Collana di Testi Patristici, XC, Roma 1990, pp. 379-380).

 

[Papa Benedetto, Udienza Generale 17 agosto 2005]

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John is the origin of our loftiest spirituality. Like him, ‘the silent ones' experience that mysterious exchange of hearts, pray for John's presence, and their hearts are set on fire (Athenagoras)
Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma (Atenagora)
This is to say that Jesus has put himself on the level of Peter, rather than Peter on Jesus' level! It is exactly this divine conformity that gives hope to the Disciple, who experienced the pain of infidelity. From here is born the trust that makes him able to follow [Christ] to the end: «This he said to show by what death he was to glorify God. And after this he said to him, "Follow me"» (Pope Benedict)
Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Papa Benedetto)
Unity is not made with glue [...] The great prayer of Jesus is to «resemble» the Father (Pope Francis)
L’Unità non si fa con la colla […] La grande preghiera di Gesù» è quella di «assomigliare» al Padre (Papa Francesco)
Divisions among Christians, while they wound the Church, wound Christ; and divided, we cause a wound to Christ: the Church is indeed the body of which Christ is the Head (Pope Francis)
Le divisioni tra i cristiani, mentre feriscono la Chiesa, feriscono Cristo, e noi divisi provochiamo una ferita a Cristo: la Chiesa infatti è il corpo di cui Cristo è capo (Papa Francesco)
The glorification that Jesus asks for himself as High Priest, is the entry into full obedience to the Father, an obedience that leads to his fullest filial condition [Pope Benedict]
La glorificazione che Gesù chiede per se stesso, quale Sommo Sacerdote, è l'ingresso nella piena obbedienza al Padre, un'obbedienza che lo conduce alla sua più piena condizione filiale [Papa Benedetto]
All this helps us not to let our guard down before the depths of iniquity, before the mockery of the wicked. In these situations of weariness, the Lord says to us: “Have courage! I have overcome the world!” (Jn 16:33). The word of God gives us strength [Pope Francis]
Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza [Papa Francesco]
The Ascension does not point to Jesus’ absence, but tells us that he is alive in our midst in a new way. He is no longer in a specific place in the world as he was before the Ascension. He is now in the lordship of God, present in every space and time, close to each one of us. In our life we are never alone (Pope Francis)
L’Ascensione non indica l’assenza di Gesù, ma ci dice che Egli è vivo in mezzo a noi in modo nuovo; non è più in un preciso posto del mondo come lo era prima dell’Ascensione; ora è nella signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, vicino ad ognuno di noi. Nella nostra vita non siamo mai soli (Papa Francesco)
The Magnificat is the hymn of praise which rises from humanity redeemed by divine mercy, it rises from all the People of God; at the same time, it is a hymn that denounces the illusion of those who think they are lords of history and masters of their own destiny (Pope Benedict)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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