don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

11. Dinanzi ai rischi che l'umanità vive in questa nostra epoca, è compito di tutti i cattolici intensificare, in ogni parte del mondo, l'annuncio e la testimonianza del « Vangelo della pace », proclamando che il riconoscimento della piena verità di Dio è condizione previa e indispensabile per il consolidamento della verità della pace. Dio è Amore che salva, Padre amorevole che desidera vedere i suoi figli riconoscersi tra loro come fratelli, responsabilmente protesi a mettere i differenti talenti a servizio del bene comune della famiglia umana. Dio è inesauribile sorgente della speranza che dà senso alla vita personale e collettiva. Dio, solo Dio, rende efficace ogni opera di bene e di pace. La storia ha ampiamente dimostrato che fare guerra a Dio per estirparlo dal cuore degli uomini porta l'umanità, impaurita e impoverita, verso scelte che non hanno futuro. Ciò deve spronare i credenti in Cristo a farsi testimoni convincenti del Dio che è inseparabilmente verità e amore, mettendosi al servizio della pace, in un'ampia collaborazione ecumenica e con le altre religioni, come pure con tutti gli uomini di buona volontà.

[Papa Benedetto, Messaggio per la XXXIX Giornata Mondiale per la Pace, 2006]

1. Dominus flevit (cf. Lc19, 41).

C’è un luogo a Gerusalemme, sul versante del Monte degli Ulivi, dove secondo la tradizione Cristo pianse sulla città di Gerusalemme. In quelle lacrime del Figlio dell’uomo vi è quasi una lontana eco di un altro pianto, di cui parla la prima lettura tratta dal Libro di Neemia. Dopo il ritorno dalla schiavitù babilonese, gli Israeliti si accinsero a ricostruire il tempio. Prima, però, ascoltarono le parole della Sacra Scrittura, e del sacerdote Esdra, che poi benedisse il popolo con il libro della Legge. Allora tutti scoppiarono in lacrime. Leggiamo infatti che il governatore Neemia e il sacerdote Esdra dissero ai presenti: “Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete! [ . . .] non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza” (Ne8, 9.10).

Ecco, quello degli israeliti era pianto di gioia per il tempio ricuperato, per la libertà riacquistata.

2. Il pianto di Cristo sul versante del Monte degli Ulivi non fu, invece, un pianto di gioia. Egli infatti esclamò: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta” (Mt 23, 37-38).

Parole simili Gesù dirà poco più tardi sulla via del Calvario, incontrando le donne di Gerusalemme in lacrime.

Nel pianto di Gesù su Gerusalemme trova espressione il suo amore per la Città Santa, assieme al dolore per il suo futuro non lontano, che egli prevede: la Città sarà conquistata e il tempio distrutto, i giovani saranno sottoposti allo stesso suo supplizio, la morte di croce. “Allora cominceranno a dire ai monti: cadete su di noi! e ai colli: copriteci! Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?” (Lc 23, 30-31).

[Papa Giovanni Paolo II, omelia Siracusa 6 novembre 1994]

La grazia di riconoscere quando Gesù passa, quando «bussa alla nostra porta», la grazia «di riconoscere il tempo in cui siamo stati visitati, siamo visitati e saremo visitati». È la preghiera rivolta al Signore per ogni cristiano da Papa Francesco al termine dell’omelia tenuta durante la messa celebrata a Santa Marta giovedì 17 novembre. Una preghiera per non cadere in un «dramma» ripetuto nella storia, dalle origini ai giorni nostri: quello di «non riconoscere l’amore di Dio».

La meditazione del Pontefice ha preso spunto dal brano evangelico in cui Luca (19, 41-44) descrive il pianto di Gesù sulla città di Gerusalemme. «Cosa sentì Gesù, nel suo cuore — si è chiesto il Papa — in questo momento del suo pianto? Perché piange Gesù su Gerusalemme?». E la risposta può venire sfogliando la Bibbia: «Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre».

Così «nel cuore di Gesù, nella memoria di Gesù, in quel momento, venivano i passi dei profeti». Come quello di Osea — «Io la sedurrò, la condurrò al deserto e parlerò al suo cuore; la farò mia sposa» — nel quale si incontra «l’entusiasmo e la voglia di Dio per il suo popolo», il suo «amore». O le parole di Geremia: «Di te ricordo il tempo della tua giovinezza, il tempo del tuo fidanzamento, del tuo amore giovane, quando mi seguivi nel deserto. Ma ti sei allontanata da me». E ancora: «Cosa trovarono i vostri padri per allontanarsi da me?», «Disgrazia per voi che i vostri padri si siano allontanati da me...».

Il Pontefice ha provato a immaginare il flusso di memoria che ha coinvolto Gesù in quel momento e ha di nuovo richiamato il profeta Osea: «Quando Israele era fanciullo io l’ho amato, ma più lo chiamavo, più si allontanava da me». Ne è emerso il «dramma dell’amore di Dio e l’allontanarsi, l’infedeltà del popolo». Era, ha spiegato, «quello che aveva Gesù nel cuore»: da una parte la memoria di una «storia di amore», addirittura di «amore “pazzo” di Dio per il suo popolo, un amore senza misure», e dall’altra la risposta «egoista, sfiduciata, adultera, idolatrica» del popolo.

C’è poi un altro aspetto che emerge dal brano evangelico del giorno. Gesù infatti si lamenta su Gerusalemme, «perché — dice — non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata da Dio, dai patriarchi, dai profeti». Il Pontefice ha suggerito che nella memoria di Gesù ci fosse «quella parabola divinatoria, quella di quando il padrone invia un suo impiegato a chiedere i soldi: lo bastonano; e poi un altro lo uccidono. Alla fine invia suo figlio e cosa dice questa gente? “Ma questo è il figlio! Questo ha l’eredità... Uccidiamolo! Ammazziamolo e l’eredità sarà per noi!». È la spiegazione di cosa s’intende per «l’ora della visita», ovvero: «Gesù è il figlio che viene e non è riconosciuto. È rifiutato!». Infatti nel vangelo di Giovanni si legge: «È venuto da loro e loro non lo hanno accettato», «la luce è venuta e il popolo ha scelto le tenebre». È quindi questo, ha spiegato Francesco, «che fa dolore al cuore di Gesù Cristo, questa storia di infedeltà, questa storia di non riconoscere le carezze di Dio, l’amore di Dio, di un Dio innamorato» che vuole la felicità dell’uomo.

Gesù, ha detto il Papa, «vide in quel momento cosa lo aspettava come Figlio. E pianse “perché questo popolo non ha riconosciuto il tempo in cui è stato visitato”».

A questo punto la meditazione del Pontefice si è rivolta alla vita quotidiana di ogni cristiano, perché, ha detto, «questo dramma non è accaduto soltanto nella storia e finito con Gesù. È il dramma di tutti i giorni». Ognuno di noi può chiedersi: «Io so riconoscere il tempo nel quale sono stato visitato? Mi visita Dio?».

Per meglio far comprendere il concetto, Francesco ha fatto riferimento alla liturgia di martedì scorso, nella quale si parlava di «tre momenti della visita di Dio: per correggere; per entrare in colloquio con noi; e per invitarsi alla nostra casa». In quell’occasione è emerso che «Dio sta, Gesù sta davanti a noi, e quando vuole correggerci ci dice: “Svegliati! Cambia vita! Questo non va bene!”. Poi quando vuol parlare con noi dice: “Io busso alla porta e chiamo. Aprimi!». Come quando a Zaccheo disse: «Scendi!» per «farsi invitare a casa».

E allora oggi possiamo domandarci: «Com’è il mio cuore davanti alla visita di Gesù?”». E anche «fare un esame di coscienza: “Io sono attento a quello che passa nel mio cuore? Io sento? So ascoltare le parole di Gesù, quando lui bussa alla mia porta o quando lui mi dice: “Svegliati! Correggiti!”; o quando lui mi dice: “Scendi, che voglio cenare con te”?». È una domanda importante perché, ha ammonito il Pontefice, «ognuno di noi può cadere nello stesso peccato del popolo di Israele, nello stesso peccato di Gerusalemme: non riconoscere il tempo nel quale siamo stati visitati».

Di fronte a tante nostre certezze — «Ma io sono sicuro delle mie cose. Io vado a messa, sono sicuro» — bisogna ricordare che «ogni giorno il Signore ci fa visita, ogni giorno bussa alla nostra porta». E dunque «dobbiamo imparare a riconoscere questo, per non finire in quella situazione tanto dolorosa» che si ritrova nelle parole del profeta Osea: «Quanto più li amavo, quanto più li chiamavo, più si allontanavano da me». Perciò ha ripetuto il Papa: «Tu fai tutti i giorni un esame di coscienza su questo? Oggi il Signore mi ha visitato? Ho sentito qualche invito, qualche ispirazione per seguirlo più da vicino, per fare un’opera di carità, per pregare un po’ di più?», insomma per realizzare tutte quelle cose alle quali «il Signore ci invita ogni giorno per incontrarsi con noi»?

L’insegnamento che emerge da questa meditazione è dunque che «Gesù pianse non solo per Gerusalemme, ma per tutti noi», e che egli «dà la sua vita, perché noi riconosciamo la sua visita». In tal senso il Pontefice ha ricordato «una frase molto forte» di sant’Agostino: «“Ho paura di Dio, di Gesù, quando passa!” — “Ma perché hai paura? — “Ho paura di non riconoscerlo!”». Perciò, ha concluso il Papa, «se tu non stai attento al tuo cuore, mai saprai se Gesù ti sta visitando o no».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 18/11/2016]

 

Con lacrime di padre e di madre

Oggi Dio continua a piangere — con lacrime di padre e di madre — davanti alle calamità, alle guerre scatenate per adorare il dio denaro, a tanti innocenti uccisi dalle bombe, a un’umanità che sembra non volere la pace. È un forte invito alla conversione quello rilanciato da Francesco nella messa celebrata giovedì mattina, 27 ottobre, nella cappella della Casa Santa Marta. Un invito che il Pontefice ha motivato ricordando che Dio si è fatto uomo proprio per piangere con e per i suoi figli.

Nel passo del vangelo di Luca (13, 31-35) proposto dalla liturgia, ha spiegato il Papa, «sembra che Gesù avesse perso la pazienza e usa anche parole forti: non è un insulto ma non è fare un complimento dire “volpe” a una persona». Per la precisione dice ai farisei che gli hanno parlato di Erode: «Andate a dire a quella volpe». Ma già «in altre occasioni Gesù ha parlato duro»: ad esempio, ha detto «generazione perversa e adultera». E ha chiamato i discepoli «duri di cuore» e «stolti». Luca riporta le parole con cui Gesù fa un vero e proprio «riassunto di quello che dovrà accadere: “è necessario che io prosegua il mio cammino perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”». In pratica il Signore «dice quello che succederà, si prepara a morire».

Ma «poi subito Gesù cambia i toni», ha evidenziato Francesco. «Dopo questo scoppio tanto forte», infatti, «cambia tono e guarda il suo popolo, guarda la città di Gerusalemme: “Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te!”». Egli guarda «la Gerusalemme chiusa, che non ha sempre ricevuto i messaggeri del Padre». E «il cuore di Gesù incomincia a parlare con tenerezza: “Gerusalemme, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una chioccia i suoi pulcini!”». Ecco «la tenerezza di Dio, la tenerezza di Gesù». Quel giorno egli «pianse su Gerusalemme». Ma «quel pianto di Gesù — ha spiegato il Papa — non è il pianto dell’amico davanti alla tomba di Lazzaro. Quello è il pianto di un amico davanti alla morte dell’altro»; invece «questo è il pianto di un padre che piange, è Dio Padre che piange qui nella persona di Gesù».

«Qualcuno ha detto che Dio si è fatto uomo per poter piangere quello che avevano fatto i suoi figli» ha affermato il Pontefice. E così «il pianto davanti alla tomba di Lazzaro è il pianto dell’amico». Ma quello che racconta Luca «è il pianto del Padre». A questo proposito Francesco ha voluto riproporre anche l’atteggiamento del «padre del figliol prodigo, quando il figlio più piccolo gli ha chiesto i soldi dell’eredità e se ne è andato via». E «quel padre è sicuro, non è andato dai suoi vicini a dire: “guarda cosa mi è accaduto, ma questo povero disgraziato cosa mi ha fatto, io maledico questo figlio!”. No, non ha fatto questo». Invece, ha detto il Papa, «sono sicuro» che quel padre «se ne è andato a piangere da solo».

È vero, il Vangelo non rivela questo particolare — ha proseguito Francesco — però racconta «che quando il figlio tornò vide il padre da lontano: questo significa che il padre continuamente saliva sul terrazzo a guardare il cammino per vedere se il figlio tornava». E «un padre che fa questo è un padre che vive nel pianto, aspettando che il figlio torni». Proprio questo è «il pianto di Dio Padre; e con questo pianto il Padre ricrea nel suo Figlio tutta la creazione».

«Quando Gesù andava con la croce al Calvario — ha ricordato il Pontefice — le pie donne piangevano e ha detto loro: “No, non piangete su di me, piangete per i vostri figli”». È il «pianto di padre e di madre che Dio anche oggi continua a fare: anche oggi davanti alle calamità, alle guerre che si fanno per adorare il dio denaro, a tanti innocenti uccisi dalle bombe che gettano giù gli adoratori dell’idolo denaro». E così «anche oggi il Padre piange, anche oggi dice: “Gerusalemme, Gerusalemme, figlioli miei, cosa state facendo?”». E «lo dice alle vittime poverette e anche ai trafficanti delle armi e a tutti quelli che vendono la vita della gente».

In conclusione Francesco ha suggerito di «pensare che Dio si è fatto uomo per poter piangere. E ci farà bene pensare che nostro Padre Dio oggi piange: piange per questa umanità che non finisce di capire la pace che lui ci offre, la pace dell’amore».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 27 ottobre 2016]

Talenti, Doni del nuovo Regno

(Lc 19,11-28)

 

Tutti noi abbiamo punti di forza, qualità e inclinazioni esclusive. Ciascuno riceve doni da battistrada [fosse anche uno solo] e può inserirsi in servizi ecclesiali.

Ognuno - anche il normalmente escluso come Zaccheo (vv.1-10) - ha un bagaglio di risorse impareggiabili che può trasmettere, per l’arricchimento della comunità.

Lc narra questa parabola perché nota che alcuni convertiti delle sue assemblee hanno difficoltà a sbloccarsi.

A dirla tutta e in modo chiaro, fra di essi nasce una competizione che concerne l’importanza degli incarichi [è il vero senso evangelico dei «talenti secondo capacità» del testo parallelo Mt 25,15].

Mansioni insidiate anche dall’arrembaggio dei provenienti dal paganesimo, meno intimiditi e più sciolti dei fedeli giudaizzanti.

Il conseguente puntiglio irrigidisce l’atmosfera interna, accentua difficoltà a collaborare e scambiarsi doti, risorse - arricchendo gli uni gli altri.

L’idea stessa di Dio come legislatore e giudice (vv.21-22) induceva i credenti a non crescere né trasmettere, anzi a rinchiudersi e allontanarsi dal progetto del Padre.

Per comprendere il senso del v.22 dove il Re sembrerebbe ribadire l’idea meschina del lavativo, basta inserire il punto interrogativo.

I codici originali in greco non avevano punteggiatura:

«Gli dice: Dalla tua stessa bocca ti giudico, servo malvagio! Sapevi che io sono un uomo severo, che prendo quello che non ho depositato e che mieto quello che non ho seminato?».

Come dire: «Ma chi te lo ha insegnato, diseducandoti?!».

Il Signore ribadisce con forza che un’idea deforme del Cielo può incidere sulle linee portanti della personalità e rovinare l’esistenza delle persone.

Ciò se esse percepiscono la Libertà e il rischio dell’Amore come fosse una colpa e comunque un pericolo di peccato che li potrebbe condurre a non essere più “in grazia di Dio”.                              

Invece il Signore vuole Famiglia, dove nessuno è allarmato, tenuto a freno, bloccato, messo in buca.

Non vuole che le conquiste ci spaventino e trattengano.

Chiunque si aggiorna, si confronta, s’interessa, dà un contributo - senza farsi travolgere dalla routine, dal timore, dalla fatica - vede la propria ricchezza umana e spirituale crescere, fiorire.

Viceversa, nessuno si sorprenderà che le situazioni poco intraprendenti subiscano ulteriori flessioni e infine periscano senza lasciare rimpianti (vv.24-26).

Gesù sapeva che neppure le norme erano sufficienti «se si pensa che la soluzione ai problemi consista nel dissuadere mediante la paura» (FT n.262).

Il Signore infatti frequentava i fuori del giro; si teneva alla larga dagli ambienti invidiosi e con la puzza sotto il naso.

Agiva in modo laborioso, «artigianale» (FT n.217) e mettendoci la faccia.

Aveva alternative? Certo: non muoversi, non custodire i minimi, non proteggerli, limitarsi, tenere la bocca chiusa; eventualmente aprirla, ma solo per adulare i potenti, gli affermati e ben introdotti.

Vale anche per noi: il gioco al ribasso, sul sicuro, atrofizza la vita personale e sociale; non fa crescere un nuovo Regno - lo perde.

 

 

[Mercoledì 33.a sett. T.O.  20 novembre 2024]

Talenti, mine - Doni del nuovo Regno

(Lc 19,11-28)

 

Come può una comunità rivelare la Presenza di Dio? Valorizzando e accentuando le sfaccettature della vita, difendendole, promuovendole, e rallegrando.

Perché c’è chi cresce e chi no? Per quale motivo chi avanza meno degli altri, proprio nel cammino “religioso” rischia di rovinare?

Tutti noi abbiamo punti di forza, pallini, qualità e inclinazioni esclusive. Ciascuno riceve doni da battistrada [fosse anche uno solo - come la sua Chiamata] e può inserirsi in servizi ecclesiali.

Ognuno - anche il normalmente escluso come Zaccheo (vv.1-10) - ha un bagaglio di risorse impareggiabili che può trasmettere, per l’arricchimento della comunità.

Lc narra questa parabola perché nota che alcuni convertiti delle sue assemblee hanno difficoltà a sbloccarsi e innescare un’evoluzione che riguardi anche il prossimo.

Qualcuno proprio non fiorisce, appiccicandosi al suo ministero, al personaggio, a ruoli, precedenze e gerarchie.

A dirla tutta e in modo chiaro, fra di essi nasce una competizione che concerne l’importanza degli incarichi ecclesiali [è il vero senso evangelico dei «talenti secondo capacità» del testo parallelo Mt 25,15].

Mansioni insidiate anche dall’arrembaggio dei provenienti dal paganesimo, meno intimiditi e più sciolti dei fedeli giudaizzanti un po’ da museo.

Il conseguente puntiglio irrigidisce l’atmosfera interna, accentua difficoltà a collaborare e scambiarsi doti, risorse - arricchendo gli uni gli altri.

Situazioni vanitose e competitive che conosciamo.

 

Tutti riceviamo qualche accento del Regno, beni da moltiplicare trasmettendo, ad esempio (come qui) la Parola di Dio.

Dono unico, ma non raro: prosperità immensa e dalle virtù propulsive di vita straordinarie... per ciascuno e tutti.

Così lo spirito di servizio e condivisione, l’attitudine al discernimento e valorizzazione delle unicità irripetibili, e tanto altro.

Beninteso, la comunità cresce non se produce, colloca in vetrina, “frutta” e rende. Essa è composta di membri che sanno collocarsi spontaneamente!

Donne e uomini di Fede non cercano meriti, non trattengono per sé; si relazionano con Dio e il prossimo in modo sapiente.

Anche non in termini e formule “corretti” - secondo libretto d’istruzione.

 

Purtroppo, per obbligare al rispetto di tabelloni e configurazione, e ricalcare il costume… i veterani facevano leva sull’inclinazione popolare a non mettersi nei guai.

Situazione e “percezione” a rovescio, che paralizzava la vita anche interiore.

Dai tempi di Gesù, non sono mancate situazioni dominate da gravi paure, e desiderio di evitare ricatti [diceva sbalordita mia madre dei leaders nostrani, di provincia (quelli disonesti): «Usano la religione come un’arma!»].

L’idea stessa di Dio come legislatore e giudice (vv.21-22) induceva i credenti a non crescere né trasmettere, anzi a chiudersi e allontanarsi dal progetto del Padre.

Pena l’esclusione sociale, spesso è ancora (perfino) in clima di cammino sinodale, fatto divieto di accogliere nuove esperienze di Dio…

Gravissimo, incontrare autenticamente se stessi, aprire spazi personali (persino radicalmente vocazionali), tracciare propri cammini.

Così per secoli. Identificazione e basta.

 

Per comprendere il senso del v.22 dove nella traduzione CEI il Re sembrerebbe ribadire l’idea meschina del lavativo diseducato, basta inserire il punto interrogativo.

I codici originali in greco non avevano punteggiatura:

«Gli dice: Dalla tua stessa bocca ti giudico, servo malvagio! Sapevi che io sono un uomo severo, che prendo quello che non ho depositato e che mieto quello che non ho seminato?».

Come dire: «Ma chi te lo ha insegnato questo, diseducando?!».

Lo stesso vale per il passo parallelo di Mt 25,26: «Ma rispondendo il suo Signore gli disse: Servo malvagio e poltrone... Sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso?».

Il Signore ribadisce con forza che un’idea deforme del Cielo può incidere sulle linee portanti della personalità e rovinare l’esistenza delle persone.

Ciò se esse percepiscono la Libertà e il rischio dell’Amore come fosse una colpa e comunque un pericolo di peccato che li potrebbe condurre al deleterio di non essere più considerati “in grazia di Dio”.

                              

Le religioni dell’antichità avevano bisogno di seguaci anche immaturi e ottusi, senza nerbo - i quali si accontentavano di evitare pericoli, e s’attaccavano alle piccine sicurezze del tran tran d’ogni giorno.

Invece, il Padre desidera cuori adulti, che intraprendono e rischiano per amore e per l’amore.

Se il Dio del folklore necessita di greggi ottuse e servili, Cristo ha bisogno di amici, famigliari e collaboratori temerari, capaci di camminare sulle loro gambe, che non disumanizzano [anche gli altri].

La pastorale del consenso - “io ti dò ciò che tu vuoi”; oppure le mode del pensiero unico à la page - presuppone masse ubbidienti e devote, deprivate di personalità e sogni.

Invece il Signore desidera Famiglia, dove nessuno è allarmato, tenuto a freno, bloccato, e messo in buca.

Magari questa inibizione viene accettata dalla gente anche per timore di perdere la quiete famigliare, il posticino che qualcuno ha, le finte sicurezze che si è ritagliato - o preso in elemosina.

 

Cristo non vuole che le conquiste ci spaventino e trattengano, ma che da consanguinei del nostro lato eterno siamo i primi a vibrare d'ideali profetici.

E speronare le false certezze che non inquietano [anzi, ci mettono in letargo] per stimolare ambiti ideali più grandiosi - per qualità di respiro e umanizzazione.

Anche il poco che abbiamo può essere investito - attraverso un contributo da porgere a disposizione di tutti, nella comunità che ci valorizza…

Si tratta della Chiesa ministeriale: «banca» del v.27 - la quale proietta e dilata all’infinito risorse, il Pane spezzato, i beni del Regno.

Insomma, quel che promuove le assemblee e rivela la Presenza di Dio è personale e unico, tuttavia non deve permanere raro.

 

Ciascuno ha un'occasione di apostolato, la sua attitudine d’amicizia e competenze irripetibili: ma esse sono da esplorare senza limiti, affinché vengano condivise, rese sapienziali e propulsive.

Come ha dichiarato il Pontefice:

«L'incapacità degli esperti di vedere i segni dei tempi è dovuta al fatto che sono chiusi nel loro sistema; sanno cosa si può e non si può fare, e stanno sicuri lì. Interroghiamoci: sono aperto solo alle mie cose e alle mie idee, oppure sono aperto al Dio delle sorprese?».

Chiunque si aggiorna, si confronta, s’interessa, dà un contributo - senza farsi travolgere dalla routine, dal timore, dalla fatica - vede la propria ricchezza umana e spirituale crescere, fiorire.

Viceversa, nessuno si sorprenderà che le situazioni di retroguardia - estenuanti, in sé fiacche, esaurite, prive di spina dorsale e solo noiose - subiscano ulteriori flessioni e infine periscano senza lasciare rimpianti (vv.24-26).

 

In questa catechesi Lc ricorda che Gesù non era un tipo che si faceva mettere sotto scorta, ma una figura coinvolta, volenterosa.

Non lasciava correre, ma entrava dentro… in merito alle questioni - né diceva: ma che figura ci faccio?

Neppure Egli ha voluto limitarsi a lottare per un cambiamento giuridico - apprezzabile e necessario - ma standosene a distanza di sicurezza.

Ha invece incarnato il dono di sé, tracciando la Via della scelta sociale in prima persona, con arduità d’intraprenderla - senza nulla collocare in cassaforte, per timore di persecuzioni e fallimento.

Parafrasando l’enciclica Fratelli Tutti (n.262) diremmo: sapeva che neppure le norme erano sufficienti «se si pensa che la soluzione ai problemi consista nel dissuadere mediante la paura».

Il Signore infatti frequentava i fuori del giro e le figure intermedie. Si teneva alla larga da ambienti invidiosi e con la puzza sotto il naso.

Agiva in modo laborioso, «artigianale» (FT n.217) e mettendoci la faccia.

 

Aveva alternative? Certo: non muoversi, non custodire i minimi, non proteggerli, limitarsi, tenere la bocca chiusa; eventualmente aprirla, ma solo per adulare i potenti, gli affermati e ben introdotti.

Bastava deponesse ideali e azioni di libertà:

Rinunciando a lottare e intraprendere vie tortuose, non avrebbe avuto problemi.

E se alla mediocrità comune delle guide spirituali del tempo avesse aggiunto l'omertà, avrebbe potuto benissimo fare carriera.

Vale anche per noi: il gioco al ribasso, sul sicuro, atrofizza la vita personale e sociale, non fa crescere un nuovo Regno - lo perde.

La Parola di Dio di questa domenica – la penultima dell’anno liturgico – ci ammonisce circa la provvisorietà dell’esistenza terrena e ci invita a viverla come un pellegrinaggio, tenendo lo sguardo rivolto alla meta, a quel Dio che ci ha creato e, poiché ci ha fatto per sé (cfr S. Agostino, Conf. 1,1), è il nostro destino ultimo e il senso del nostro vivere. Passaggio obbligato per giungere a tale realtà definitiva è la morte, seguita dal giudizio finale. L’apostolo Paolo ricorda che “il giorno del Signore verrà come un ladro di notte” (1 Ts 5,2), cioè senza preavviso. La consapevolezza del ritorno glorioso del Signore Gesù ci sprona a vivere in un atteggiamento di vigilanza, attendendo la sua manifestazione nella costante memoria della sua prima venuta.

Nella celebre parabola dei talenti – riportata dall’evangelista Matteo (cfr 25,14-30) – Gesù racconta di tre servi ai quali il padrone, al momento di partire per un lungo viaggio, affida le proprie sostanze. Due di loro si comportano bene, perché fanno fruttare del doppio i beni ricevuti. Il terzo, invece, nasconde il denaro ricevuto in una buca. Tornato a casa, il padrone chiede conto ai servitori di quanto aveva loro affidato e, mentre si compiace dei primi due, rimane deluso del terzo. Quel servo, infatti, che ha tenuto nascosto il talento senza valorizzarlo, ha fatto male i suoi conti: si è comportato come se il suo padrone non dovesse più tornare, come se non ci fosse un giorno in cui gli avrebbe chiesto conto del suo operato. Con questa parabola, Gesù vuole insegnare ai discepoli ad usare bene i suoi doni: Dio chiama ogni uomo alla vita e gli consegna dei talenti, affidandogli nel contempo una missione da compiere. Sarebbe da stolti pensare che questi doni siano dovuti, così come rinunciare ad impiegarli sarebbe un venir meno allo scopo della propria esistenza. Commentando questa pagina evangelica, san Gregorio Magno nota che a nessuno il Signore fa mancare il dono della sua carità, dell’amore. Egli scrive: “È perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere” (Omelie sui Vangeli 9,6). E dopo aver precisato che la vera carità consiste nell’amare tanto gli amici quanto i nemici, aggiunge: “se uno manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre” (ibidem).

Cari fratelli, accogliamo l’invito alla vigilanza, a cui più volte ci richiamano le Scritture! Essa è l’atteggiamento di chi sa che il Signore ritornerà e vorrà vedere in noi i frutti del suo amore. La carità è il bene fondamentale che nessuno può mancare di mettere a frutto e senza il quale ogni altro dono è vano (cfr 1 Cor 13,3). Se Gesù ci ha amato al punto da dare la sua vita per noi (cfr 1 Gv 3,16), come potremmo non amare Dio con tutto noi stessi e amarci di vero cuore gli uni gli altri? (cfr 1 Gv 4,11) Solo praticando la carità, anche noi potremo prendere parte alla gioia del nostro Signore. La Vergine Maria ci sia maestra di operosa e gioiosa vigilanza nel cammino verso l’incontro con Dio.

[Papa Benedetto, Angelus 13 novembre 2011]

1. “Bene, servo buono e fedele, sei rimasto fedele nel poco, ti darò autorità su molto, prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25, 23).

Avvicinandosi il termine dell’anno liturgico, la Chiesa ci fa ascoltare le parole del Signore che ci invitano a vegliare nell’attesa della parusia. Ad essa dobbiamo prepararci con una risposta semplice, ma decisa, all’appello di conversione, che Gesù ci rivolge chiamandoci a vivere il Vangelo come tensione, speranza, attesa.

Oggi, nell’odierna liturgia, il Redentore ci parla con la parabola dei talenti, per mostrarci come chi aderisce a lui nella fede e vive operosamente nell’attesa del suo ritorno, è paragonabile al “servo buono e fedele”, che in modo intelligente, alacre e fruttuoso cura l’amministrazione del padrone lontano.

Che cosa significa talento? In senso letterale indica una moneta di grande valore usata ai tempi di Gesù. In senso traslato vuol dire “le doti”, che sono partecipate a ogni uomo concreto: il complesso delle qualità, di cui un soggetto personale, nella sua interezza psicofisica, viene dotato “dalla natura”.

Tuttavia la parabola mette in evidenza che queste capacità sono al tempo stesso un dono del Creatore “dato”, trasmesso ad ogni uomo.

Queste “doti” sono diverse e multiformi. Ce lo conferma l’osservazione della vita umana, in cui si vede la molteplicità e la ricchezza dei talenti che sono negli uomini.

Il racconto di Gesù sottolinea con fermezza che ogni “talento” è una chiamata e un obbligo ad un lavoro determinato, inteso nel duplice significato di lavoro su se stessi e di lavoro per gli altri. Afferma, cioè, la necessità di un’ascesi personale unita all’operosità in favore del fratello.

3. La parola di Dio nell’odierna celebrazione permette di approfondire la consapevolezza che la parrocchia è una comunità di fratelli e sorelle, che sono chiamati ad aderire a Cristo e ad esserne la trasparenza nei luoghi dove vivono e dove lavorano.

Questo implica che ognuno di voi, con le capacità che ha avuto da Dio, lavori su di sé per convertire ogni giorno il proprio cuore in un cammino religioso fatto con costanza e decisione, con volontà e generosità.

Ognuno di voi deve sentirsi impegnato a fissare la mente e il cuore in ciò che vale. Deve condurre una vita che non sia determinata dalla stima mondana, dal rispetto umano. E ciò sarà possibile se presterete efficace ascolto alla parola di Gesù, come sorgente di virtù cristiana, e obbedirete all’esortazione dell’apostolo Paolo: “Qualsiasi cosa facciate, o in parole o in opere, fate tutto nel nome del Signore Gesù rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di lui” (Col 3, 17); in tal modo, come ci ricorda la seconda lettura della messa, certi della redenzione di Cristo “sia che vegliamo, sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Perciò confortatevi a vicenda, edificandovi gli uni gli altri come già fate” (1 Ts 5, 9-11).

Uno dei segni più grandi di mancanza di lavoro su di sé, di assenza di ascesi è la non accettazione della propria persona, caratterizzata da quei talenti che sono da accogliere, perché dati da quel Dio di misericordia, che ci ha creati, ci tiene in vita e ci aiuta a percorrere le strade dell’esistenza.

4. Frequentemente i doni che Dio pone nel nostro essere sono talenti difficili, ma non possono essere sprecati né per disistima, né per disobbedienza, né tantomeno perché sono faticosi. La croce per Cristo non fu motivo di obiezione alla volontà del Padre, ma la condizione, il talento supremo, con il quale “morendo ha distrutto la morte e risorgendo ci ha ridonato la vita” (Prefazio pasquale). Perciò io chiedo a tutti voi, e in particolare ai malati, ai sofferenti, ai portatori di handicap, di rendere fruttuoso, mediante la preghiera e l’offerta, il difficile talento, l’impegnativo talento ricevuto.

Tenete sempre presente che l’invocazione, le preghiere e la libera accettazione delle fatiche e delle pene della vita, vi permettono di raggiungere tutti gli uomini e di contribuire alla salvezza di tutto il mondo.

5. Questo lavoro su di sé, che porta frutto a tutti gli uomini, ha la sua radice nel Battesimo, il quale ha dato inizio in ciascuno di voi alla vita nuova, mediante il dono soprannaturale della grazia e la liberazione dal peccato originale. Con tale sacramento, che vi ha resi figli di Dio, avete ricevuto quelle “doti”, che costituiscono un’autentica ricchezza interiore della vita in Cristo.

Incorporati a Gesù, conformati a lui, siete chiamati come membra vive a contribuire con tutte le vostre forze e attitudini all’incremento della vostra parrocchia, che è la porta della Chiesa romana-universale.

I talenti ricevuti con il Battesimo sono pure una chiamata alla cooperazione con la grazia, che implica un dinamismo inerente alla vita cristiana e una crescita graduale e costante in quella maturità, che viene formata dalla fede, dalla speranza, dalla carità e dai doni dello Spirito Santo.

Tale collaborazione si compie soprattutto in quel centro di comunione che è la parrocchia, comunità di uomini e donne, che mettono le loro varie capacità a servizio della crescita personale e dei fratelli vicini e lontani.

La parrocchia è Chiesa: comunità di uomini che devono sviluppare in se stessi “i talenti del Battesimo”. Tutta la sua struttura, favorendo e garantendo un apostolato comunitario, soprattutto attraverso la liturgia, la catechesi e la carità, fonde insieme le molteplici differenze umane che vi si trovano e permette che ognuno, secondo le capacità che possiede, dia fraternamente il suo contributo a ogni iniziativa missionaria della sua famiglia ecclesiale (cf. Apostolicam Actuositatem, 10).

6. La parabola dell’odierno Vangelo parla pure di un talento “nascosto sottoterra”, non utilizzato.

“Colui che aveva ricevuto un solo talento disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, per paura andai a nascondere il tuo talento sottoterra; ecco qui il tuo talento” (Mt 25, 24-25). Quest’ultimo servo che ha ricevuto un solo talento mostra come si comporta l’uomo quando non vive un’operosa fedeltà nei confronti di Dio. Prevale la paura, la stima di sé, l’affermazione dell’egoismo, che cerca di giustificare il proprio comportamento con la pretesa ingiusta del padrone, che miete dove non ha seminato.

Questo atteggiamento implica da parte del Signore una punizione, perché quell’uomo è venuto meno alla responsabilità che gli era stata chiesta, e, così facendo, non ha portato a compimento ciò che la volontà di Dio esigeva, con la conseguenza sia di non realizzare se stesso, sia di non essere di utilità a nessuno.

Invece il lavoro su di sé e per il mondo è qualcosa che deve impegnare concretamente il vero discepolo di Cristo. Nelle varie e specifiche situazioni in cui il cristiano è posto, egli deve saper discernere ciò che Dio vuole da lui ed eseguirlo con quella gioia, che poi Gesù rende piena ed eterna.

7. Carissimi fratelli e sorelle, vi esorto ad unirvi con tutto il vostro spirito al sacrificio di Cristo, alla liturgia eucaristica, che rappresenta ogni volta la presenza del Salvatore nella vostra comunità.

Perseverate nell’essere e nel diventare sempre più un cuor solo e un’anima sola, per accogliere ogni giorno tra voi Cristo. Che egli entri in voi, e rimanga in voi, per portarvi la sua pienezza.

Che la Madre di Dio, Santa Maria del Popolo, introduca Gesù nella vostra comunità e l’aiuti a rimanere con il suo Figlio, per portare molto frutto.

Ecco la sintesi dell’insegnamento racchiuso nella parabola dei talenti, che insieme abbiamo ascoltato e meditato: per avere la pienezza della vita e portare frutto occorre, con appassionata vigilanza, compiere la volontà di Dio e rimanere in Cristo, con preghiera supplice e adorante.

Rimaniamo in lui! Rimaniamo in Gesù Cristo!

Rimaniamo mediante tutti i talenti della nostra anima e del nostro corpo!

Mediante i talenti della grazia santificante e operante!

Mediante tutti i talenti che comporta la partecipazione alla parola di Dio e ai sacramenti, soprattutto nell’Eucaristia!

Rimaniamo!

Rimaniamo per dare molto frutto!

[Papa Giovanni Paolo II, omelia 18 novembre 1984]

In questa penultima domenica dell’anno liturgico, il Vangelo ci presenta la parabola dei talenti (cfr Mt 25,14-30). Un uomo, prima di partire per un viaggio, consegna ai suoi servi dei talenti, che a quel tempo erano monete di notevole valore: a un servo cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno. Il servo che ha ricevuto cinque talenti è intraprendente e li fa fruttare guadagnandone altri cinque. Allo stesso modo si comporta il servo che ne ha ricevuti due, e ne procura altri due. Invece il servo che ne ha ricevuto uno, scava una buca nel terreno e vi nasconde la moneta del suo padrone.

È questo stesso servo che spiega al padrone, al suo ritorno, il motivo del suo gesto, dicendo: «Signore, io so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra» (vv. 24-25). Questo servo non ha col suo padrone un rapporto di fiducia, ma ha paura di lui, e questa lo blocca. La paura immobilizza sempre e spesso fa compiere scelte sbagliate. La paura scoraggia dal prendere iniziative, induce a rifugiarsi in soluzioni sicure e garantite, e così si finisce per non realizzare niente di buono. Per andare avanti e crescere nel cammino della vita, non bisogna avere paura, bisogna avere fiducia.

Questa parabola ci fa capire quanto è importante avere un’idea vera di Dio. Non dobbiamo pensare che Egli sia un padrone cattivo, duro e severo che vuole punirci. Se dentro di noi c’è questa immagine sbagliata di Dio, allora la nostra vita non potrà essere feconda, perché vivremo nella paura e questa non ci condurrà a nulla di costruttivo, anzi, la paura ci paralizza, ci autodistrugge. Siamo chiamati a riflettere per scoprire quale sia veramente la nostra idea di Dio. Già nell’Antico Testamento Egli si è rivelato come «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). E Gesù ci ha sempre mostrato che Dio non è un padrone severo e intollerante, ma un padre pieno di amore, di tenerezza, un padre pieno di bontà. Pertanto possiamo e dobbiamo avere un’immensa fiducia in Lui.

Gesù ci mostra la generosità e la premura del Padre in tanti modi: con la sua parola, con i suoi gesti, con la sua accoglienza verso tutti, specialmente verso i peccatori, i piccoli e i poveri […] ma anche con i suoi ammonimenti, che rivelano il suo interesse perché noi non sprechiamo inutilmente la nostra vita. È segno infatti che Dio ha grande stima di noi: questa consapevolezza ci aiuta ad essere persone responsabili in ogni nostra azione. Pertanto, la parabola dei talenti ci richiama a una responsabilità personale e a una fedeltà che diventa anche capacità di rimetterci continuamente in cammino su strade nuove, senza “sotterrare il talento”, cioè i doni che Dio ci ha affidato, e di cui ci chiederà conto.

La Vergine Santa interceda per noi, affinché restiamo fedeli alla volontà di Dio facendo fruttificare i talenti di cui ci ha dotato. Così saremo utili agli altri e, nell’ultimo giorno, saremo accolti dal Signore, che ci inviterà a prendere parte alla sua gioia.

[Papa Francesco, Angelus 19 novembre 2017]

Zaccheo: sorprendersi di sé e rimettere i conti a posto

(Lc 19,1-10)

 

Zaccheo vuole «vedere Gesù, chi è» (v.3): ossia, desidera ardentemente capire se Dio è sensibile alle sue ansie.

Benché abiti in ambiente devoto, la folla attorno non gli consente di avere un minimo rapporto personale diretto.

Il sicomoro è un albero molto frondoso - pensa: «Cerco di vedere senza essere visto».

Comprende di aver bisogno di un occhio immediato: deve assolutamente scartare lo sguardo moralizzatore dei conformisti.

Il turbamento indotto dai giudizi senz’appello è una barriera invalicabile per un rapporto d’amore con nostro Signore.

Una nuova percezione è allora essenziale: infatti, malgrado la gazzarra attorno a sé, Gesù vede proprio il piccolo, disprezzato e mortificato.

Se il mondo severo lo notasse, leggerebbe una macchia; la visuale di Gesù è differente. Viene attratto proprio da colui che ha persino vergogna di sé e disagio di essere scrutato.

Non solo: il Signore lo chiama per nome, e in aramaico Zachàr significa Giusto, Puro!

Mentre tutti ravvisano l’obbrobrio, Dio coglie in ciascuno una purezza innata e le possibilità di bene. Anche di quanti si nascondono.

 

Allorché il Signore si trova insieme a chi nella vita ha sbagliato, è sempre in basso, perché servitore, non giudice o padrone.

Allo stesso modo guarda anche Zaccheo: dal basso in alto, non viceversa (Lc 19,5).

I “piccoli di statura” possono anche essere delle stanghe: nel Vangelo mikròi (v.3) sono gli incipienti che vengono subito messi in riga o in buca.

Ma Chi è Dio? Colui che riposa col piccolo - deturpato più dal pregiudizio che dal suo malcostume.

Una volta fatta l’esperienza della gratuità che sgretola le sentenze della buoncostume di paese, Dio ci mette un attimo a cambiarci e moltiplicare il bene, il senso di legame e giustizia.

Infatti il Padre ha fretta d’incontrarci, proprio come un innamorato perduto. Sa che abbiamo bisogno di trovare gioia - oggi (vv.5.9).

Quindi non frappone il tempo delle pratiche, di trafile o adempimenti che dimostrino la conversione, prima: un Padre simile non sarebbe amabile.

 

Ogni disciplina tradizionale guarda il passato e vuole innalzare l’uomo in astratto, badando a concatenazioni puntigliose.

Gesù mira il presente e l’a-capo, non il fatto distante.

Egli senza condizioni accentua i «sentimenti di appartenenza a una medesima umanità» [cf. Fratelli Tutti n.30].

L’Altissimo punta in basso: desidera condividere la sua presenza vivificante con l'anomalo e isolato.

Ne ha bisogno subito, anche se alcuni ristagnano attorno offesi (Lc 19,7).

Tutto sommato, il gabelliere era il peggior nemico di un mondo sommerso dal provincialismo, cui volentieri estorceva denaro.

Proprio quello dell’escluso, il peggiore impuro e (anche religiosamente) furfante che ci possa essere, diventa l’unico cuore recuperabile.

Insomma, nessun uomo deve considerarsi un caso disperato, estraneo alla beatitudine di un nuovo Cielo sulla terra.

 

Anche noi, dove accolti, sorprenderemo noi stessi. E rimetteremo i conti a posto.

 

 

[Martedì 33.a sett. T.O.  19 novembre 2024]

Zaccheo: Sorprendersi di sé e rimettere i conti a posto

(Lc 19,1-10)

 

In che senso bisogna “migliorare” - e cosa devo fare? Oppure siamo segnati per sempre?

Come incontrare Cristo autenticamente? Da cosa scaturisce un percorso da salvati e la sua incomparabile gioia che si riflette nelle opere?

Come posso cambiare vita e dare un colpo d’ali? Più volte ho tentato e non riesco: la felicità è un’illusione?

E... come relazionarsi con gli esclusivisti del sacro e della disciplina [o delle idee in voga]?

Davvero il Volto del Padre ha quei tratti graffianti, spietati, forensi o unilaterali ch’essi proclamano?

La soluzione di Lc è quella di non avere a che fare coi moralismi o l’opinione corrente, perché la testa piena di vento e le manfrine ci risucchierebbero.

Bisogna sorvolare, guardando la realtà da un punto di vista inedito e non soggetto a manipolazioni - quindi cogliendo se stessi, in Cristo.

E non farsi plagiare o intralciare.

Per questo motivo l’episodio è situato a Gerico (ultima tappa dell’Esodo) che un tempo aveva fatto da soglia decisiva alla conquista della Terra Promessa.

 

Gesù attraversa anche la nostra città (Lc 19,1), per mostrare il volto del Padre, che persino nel [considerato] antipatico, furfante e ricco riesce a scorgere un figlio pieno di risorse.

Zaccheo sono io stesso quando mi lascio coinvolgere dalla gara dell’avere, e perciò divento un caso quasi disperato.

Avendo già molto, potrei probabilmente starmene per i fatti miei. Invece dentro sento un malessere.

L’inquietudine, l’insoddisfazione, mettono in moto: sintomi dell’anima riarsa, indizi da non tacitare.

Il traguardo professionale o ministeriale che avevo in testa forse l’ho raggiunto, ma mi accorgo che sebbene non sia un totalmente fallito, dietro la maschera che indosso resto un angosciato: mi rendo conto di aver smarrito l’obiettivo.

Il mio cuore voleva ben altro, per questo non colgo sintonie radicali con la mia essenza profonda, con l’Oro del mio dna.

Allora devo rimettermi in campo, perché qualcosa nel mio Centro non va - malgrado l’eventuale ruolo conquistato, o gioie parziali.

Non mi sento riuscito, non posso tirare avanti così. Devo smuovermi. Come iniziare?

Il Vangelo ci dice: da una rinnovata Percezione. Bisogna affinare lo sguardo!

 

Zaccheo vuole «vedere Gesù, chi è» [Lc 19,3 testo greco]: desidera ardentemente capire se Dio è sensibile alle sue ansie.

Benché abiti in ambiente formalmente devoto, la folla attorno non gli consente di avere un minimo rapporto franco e diretto.

La massa dei seguaci consolidati non fa che accentuare lacci e affanno, anche perché nessuno gli avrebbe consentito di salire su una scala o sul tetto della propria abitazione (in quel territorio, tutte senza falde).

Ospitando un pubblico peccatore, si credeva che la stessa abitazione divenisse impura: non poteva nemmeno sfiorarla, né calcare i pioli di una scala esterna; figuriamoci andare in terrazza.

In colui che viene socialmente additato, il problema si accentua, e con esso la convinzione che non ci sia nulla da fare, ormai.

La gente non di rado intralcia la crescita e l’esistenza altrui con fissazioni puriste o ideologiche.

Giudizi gretti che rivelano l’incapacità di accogliere, di ascoltare, comprendere, avanzare, far crescere, promuovere davvero.

Siccome a causa delle saccenti moltitudini non c’è modo per via diretta, bisogna inventarsi qualcosa - anche a costo del disonore d’una corsa avanti [in ambiente orientale, particolarmente disdicevole: v.4].

«Poiché sulla strada principale tutti hanno lo sguardo cattivo che mi fa pentire di esistere - ma voglio vedere coi miei occhi (e non solo farmelo raccontare) - cerco di vedere senza esser visto».

 

Il sicomoro è un albero molto frondoso - e pensa Zaccheo:

«Siccome dovrei salire ma non mi danno possibilità di raggiungere nessun ripiano (per timore che li contamini) - e poiché gli sguardi sono così cupi da infastidire e ossessionare, mi nascondo da qualche parte… anche nel fogliame... in modo che nessuno mi noti».

Il turbamento indotto dai giudizi è una barriera invalicabile per un rapporto d’amore con nostro Signore. Come regolarsi?

Semplicemente, non bisogna “regolarsi”.

Malgrado la gazzarra attorno, il Maestro vede proprio il piccolo, il disprezzato e mortificato.

Se il mondo severo lo notasse, noterebbe solo una macchia, guarderebbe senza tante sottigliezze

Lo sguardo di Gesù è differente. Non ci mortifica, né fa disperare.

Viene attratto proprio da chi ha persino imbarazzo di sé e disagio di essere notato.

Non solo: lo chiama per nome, e in aramaico «Zachàr» [ebraico  «Zakkài»] significa Giusto, Puro!

 

Mentre tutti ravvisano l’obbrobrio, il Figlio coglie in ciascun malfermo e curioso una purezza innata e le possibilità di bene.

Anche di chi si nasconde.

Mentre le persone chic ti scansano, Dio ti cerca. Anzi, la mèta del suo passaggio è proprio la tua dimora [Lc 19,4: «doveva»].

Il Disegno su di noi è che nessuno si perda, perciò il Signore scorge sapientemente i doni e le occasioni che si celano anche dietro lati in affanno della nostra personalità.

Sembra trasgressivo?

Ma mentre i discepoli rimangono a bocca aperta di fronte allo spettacolo dei sacerdoti paludati e delle magnificenze del Tempio nella città eterna e santa, Cristo vede il gesto insignificante della vedovella (Mc 12,41-44).

Insomma, quando il Signore si trova insieme a chi nella vita è in difficoltà o ha sbagliato, è sempre in basso, perché servitore; non giudice e padrone.

Così nell’episodio dell’adultera [Gv 8,3-11 testo greco], e allo stesso modo guarda anche l’emarginato: dal basso in alto, non viceversa (Lc 19,5).

Anche le buone guide spirituali fanno lo stesso: attratte da chi soffre a causa d’una vita isolata e deturpata perché sotto condanna.

I ridicoli schematismi - quelli che invitano a innalzare impalcature esterne e scalarle - ci procurano un assurdo dispendio di energie

Lo spreco vano di attenzione, facoltà e impegni va ad incidere non solo sullo stile e i dettagli - persino sulle linee portanti della personalità.

Invece Gesù impone a Zaccheo (a tutti noi) di scendere, affinché egli - continuando a trascurare tutte le opinioni - potesse realizzare il suo destino.

Terra promessa che nell’animo già gli palpitava dentro. Senza prima le rinunce, né sforzo ascetico particolare.

 

«Percepire e scendere» invece di «farsi guardare e salire». Ecco la “regola” non regola, indispensabile.

Essere fedeli a se stessi, all’Amico innato - invece di lasciarsi condizionare dai “migliori” del club [capirai che straordinario beneficio e redenzione!].

Ciò che non è spazzatura di se stessi, accade spontaneamente; avviene senza artifici, né propositi inculcati.

Tutto, aderendo in modo genuino all’impulso dell’Incontro schietto.

Lasciandosi sorprendere: affacciati dal belvedere del «nuovo occhio».

Punto di svolta che trasmette come interiorizzare una vita in crescita, scandita da genesi evolutive - che preparano la Nuova Nascita.

La trasformazione poi avviene a terra, nella vita pratica - smettendo di farsi dire come avrebbe (avremmo) dovuto essere.

Del resto, un’elaborazione arcaica o una configurazione troppo sofisticata, entrambe condite d’esteriorità perbenista - ci farebbero solo ammalare.

Zaccheo non ha voluto assomigliare a nessuno degli attori intorno.

Quindi si è realizzato sul serio - accorgendosi dei suoi e altrui bisogni, spazzando via le banalità dei giudizi e i piagnistei dei luoghi comuni eticisti.

 

I «piccoli di statura» possono anche essere delle stanghe: nel Vangelo mikròi (v.3) sono gli incipienti, i caratterizzati da scarse conoscenze ed energie.

Coloro che hanno un briciolo di Fede, e ci provano ad affacciarsi in comunità, ma vengono subito messi in riga o in buca.

E spesso rimangono scandalizzati proprio dagli adultoidi: ossia quanti restano appiccicati alla pratica abitudinaria e impersonale - o i sofisticati à la page.

Però non sono quelli i veri discepoli, bensì massa che offusca.

Guarda caso, è gente che adempie, osserva, obbedisce, e dalla vita sì sterilizzata, ma pettegola, condizionante - e sempre di malumore (Lc 19,7).

Sebbene facciano spesso ressa attorno a Gesù, sono lì solo per abitudine, o per timore che scappi e combini qualche sproposito imprevisto - rallegrante i malfermi e fuori del “giro”.

Come con Zaccheo. I diversi dai primi della classe [loro] sono minimi cui tenersi alla larga, quelli che fanno quasi ribrezzo.

Valutati al pari di vermi striscianti, o non adeguati; pertanto indegni di venire considerati.

Invece sono Appelli alla missione, un Richiamo ad approfondire e stare più attenti.

Nell’atteggiarsi, i promotori del proprio look si comportano come fossero sfingi o intoccabili.

E in tal guisa credono l’Eterno proprio nel modo che fa rimanere perplessi.

 

Sembrano non avere contrasti, ma guarda caso non vedono l’ora di proiettare sui diversi le proprie voglie inespresse.

Perciò vedono colui che si occulta per vergogna di sé - non per recuperarlo, ma per sotterrarlo bene.

Illudendosi così di annientare i loro stessi volti reconditi, che però - sotto la bella reputazione - covano (e cronicizzano).

 

Chi è dunque Dio (cf. v.3)?

Colui che riposa col piccolo e microbo - deturpato più dal giudizio esterno che dal suo malcostume.

Dentro, i “santi” e non segnati a vita [i “vorrei ma non posso” - immacolati per una questione di perbenismo di facciata] sono uguali uguali a lui.

Una volta fatta l’esperienza della gratuità che sgretola i pregiudizi [devoti o modernissimi] e le sentenze della buoncostume di paese, Cristo ci mette un attimo a cambiarci e moltiplicare il bene.

Il Maestro ha fretta d’incontrare ogni disorientato; proprio come un innamorato perduto.

Sa che abbiamo bisogno di trovare gioia oggi (vv.5.9).

Quindi non frappone il tempo delle pratiche, delle trafile, o adempimenti che dimostrino conversione artificiosa: un Padre simile non sarebbe amabile.

Non susciterebbe trasformazione, né senso di legame e giustizia.

 

Dice il Tao Tê Ching (xxvii): «Chi ben lega non usa corde né vincoli, eppur non si può sciogliere».

 

La religione tradizionale guarda il passato e vuole innalzare l’uomo in astratto, badando a concatenazioni esterne puntigliose.

L’ideologia woke contemporanea vaneggia il futuro edonista, situazionalista, relativo, sradicato e disincarnato; senza spina dorsale, senza pensiero profondo, né bene duraturo.

Gesù mira il presente e l’a-capo. Non il fatto distante.

Egli senza condizioni accentua i «sentimenti di appartenenza a una medesima umanità» (cf. Fratelli Tutti n.30).

L’Altissimo punta nel profondo e in basso: desidera condividere la sua Presenza vivificante con l'anomalo e l’isolato.

Ne ha bisogno «subito», anche se i suoi “amici” [non di rado i più “intimi”] ristagnano attorno offesi (Lc 19,7).

 

Insomma, la Famiglia autentica del Signore non è fatta di persone diffidenti. Egli sta dentro e in mezzo a situazioni di Libertà.

Non osserva prima chi è già introdotto - e chi è ancora fuori. Così ci ridona statura, gratuitamente, senza condizione alcuna.

Certo, nella testa dei capi della religione antica o astratta un Dio tale non vale nulla: non sa neanche distinguere gli “amici-nostri” e i “meriti-miei”.

Le autorità e i fenomeni lo rifiutano, certo. Ma finalmente hanno capito Chi è (v.3).

Anche Zac-euro è stato curato dall’antica cecità: prima vedeva in Dio un notaio, e nel prossimo solo gente da sfruttare - tanto più perché scontrosa, sgradevole, odiosa, insopportabile.

Tutto sommato, il gabelliere era il peggior nemico di un mondo sommerso dal provincialismo, cui volentieri estorceva denaro.

 

Il super trasgressore si cela dunque alla vista altrui… perché nella scoperta dei codici che lo abitano, non vuole più farsi plagiare.

Desidera un occhio che veda il Volto di Dio e si guardi dentro, senza più zavorre apparentemente ovvie, ma che non gli corrispondono.

Zaccheo non vuole più guardare come e dove guardano gli altri, anzitutto quelli sicuri in sella; branco di disturbanti - che non recuperano e non consentono di riparare.

Essi non fanno realizzare alcun sogno che collimi dentro, e che possa ancora guidarci.

La persona autentica vuole allora incamminarsi sulla “sua” strada.

Rimettendo in discussione le certezze di tutti, fa scendere in campo la personale essenza recondita, il motivo per cui è nato.

Il proprio destino non vuole le certezze esterne, le vicende comuni, i giudizi e gli accadimenti che non gli appartengono davvero.

 

La visione intima del Zaccheo in noi non è innestata e identificata; neppure quella che avevamo forse scelto, per diventare straricchi.

Ci bastava distogliere la visuale da quello stesso progetto, come dai propositi della religiosità che si adattava, o troppo alternativa (da non sfiorare la carne).

E allontanarci persino dall’idea scontata della vita, che ci eravamo fatti - dentro la solita «angolazione».

Zaccheo [ciascuno] trova libertà solo nel suo “rifugio”.

Nascondendosi, si defila dall’obbligo di apparire. Fugge dalle passerelle conformi all’ambiente.

Palcoscenici ingannatori - perché interferiscono, e chiudono assai più che lo stare con se stessi e con l’unica Relazione fondante.

Nessun altro poteva occuparsene, a parte un Sé superiore, quello dei labirinti interiori che si percorrono in prima persona, i quali si oppongono ai conformismi.

Essi che accentuano la curiosità e il mai visto prima, anche per noi.

Sembrano allontanarci dalla scansione ordinaria dei soliti obbiettivi intermedi. Ma ci somigliano.

 

Zaccheo comprende che il primo dei suoi compiti era «vegliare», spalancando la percezione elementare (ma non grossolana).

Stimolando processi intuitivi; non spersonalizzanti, né cerebrali.

Senza neppure cambiare mestiere. Senza mandar via le sue emozioni: veri segnali da notare, che lo guidavano all’autenticità della sua sorte.

 

Cristo ha qualcosa da dirci solo se lo esploriamo senza la scorza delle precomprensioni omologanti: nulla hanno a che fare con Lui e il nostro carattere, in essenza.

Le cose del Padre vanno ricercate, colte, ospitate e comprese come sono - incontrando i disagi.

Senza neppure lottare con sforzo estremo contro i lati di sé che avrebbero dovuto non appartenerci.

È vero: elementi di discernimento raramente insegnati in modo esplicito: ad es. “come cambiare” nome e destino.

Ma il rapporto logorante con “eletti” tanto gretti facilita paradossalmente. Fa cogliere anche ciò che la nostra stessa ostinazione - unica cosa da disturbare - non ci faceva mettere a fuoco e considerare.

Cose mai sospettate, che non “conoscevamo”, mai viste... In realtà, forze che non utilizziamo.

Mentre lo Sconosciuto avanza (vv.1.4-5) affinché le scopriamo insieme a Lui, e le facciamo emergere.

 

A nostro favore Egli desidera prendere il timone della rotta decisiva che mai avremmo saputo tracciare. E portarci avanti, rigenerarci ancora.

Saremo posti in contatto con il Fuoco della Chiamata primordiale, che tirerà fuori meraviglie proprio dai lati sconosciuti, in penombra; dagli stati profondi e opposti.

Appello per tutti i figli che non vogliono perdersi in superficie, nel giudizio poco ampio di veterani o anteposti che smarriscono le persone, e tutto il popolo.

Interessante che anche nei racconti dei Chassidim riportati da Buber, persino in occasione dell’Annuncio della Torah si raccomandava la ricerca di una sorta di vuoto nelle idee che facesse posto a un altro Eros.

E in particolare di «non sentire più affatto se stessi [ossia la propria formazione e visione del mondo], non essere più che un orecchio che ascolta ciò che il mondo del Verbo dice in Lui. Non appena si cominciano a sentire le proprie parole, si cessi».

 

Ciò che non piace e mai avremmo scelto, diventa Voce che senza mortificare interroga, e umanizza.

Facendoci scoprire - attraverso gravidanze ininterrotte - la nostra e altrui dimensione piena.

Privi di cappe, faremo scattare quell’energia antica, futura e intelligente che guida al viaggio imprevedibile.

Alla Mèta della Vita totale. Alla Casa che è davvero nostra. Alla Dimora di una vita da salvati, in pienezza di essere.

Tenda che ancora fa emergere la naturalezza spontanea dei fiori che vengono su, senza sfiancarci con sudori artificiosi.

 

Curata la vista - sia dei pii che del caduto - proprio quello dell’escluso, il peggiore impuro e (anche religiosamente) trasgressore che ci possa essere, diventa l’unico caso recuperabile.

Gesù sgretola l’dea che costituiva la trama della profonda zavorra sacrale archetipa.

Ora nel rapporto da pari a pari col suo Logos fondante, il peccatore si accorge che non è la “perfezione” incontaminata che dà una patente d’immunità per (poi) avere diritto d’incontrare il Padre.

È il rapporto immediato e gratuito col Risorto che lo purifica, abilitando il cuore a godere già qui una vita esponenziale e feconda.

 

Nessun uomo deve considerarsi un caso disperato, un estraneo alla beatitudine di un nuovo Cielo sulla terra.

 

Tutto forse possiamo aspettarci, meno che qualcuno ci dica: dentro sei indefettibile, hai la chiave che spalanca il portone che appare serrato...

Se Zaccheo avesse preteso di “migliorare”, intossicandosi secondo un modello culturale, comportamentale e religioso, si sarebbe arenato, divenendo insignificante.

Tutta la vita precedente è stata invece recuperata e reinvestita, da un’Amicizia immediata; senza prima il cliché della “perfezione”.

La persona cruda ma spontanea non si è lasciata prendere in ostaggio da falsi maestri, che lo avrebbero introdotto nelle loro assurde etichette [i codici-labirinto su come si deve “stare al mondo”].

Anche nel caso di questo strozzino, i disagi non sono stati vinti opponendosi, ma accogliendo.

Nel loro accadere dentro, quei malumori hanno stimolato il riconoscimento di un profilo unico; della propria anima così diversa. 

Sarebbe stato deleterio combatterla coi muscoli della volontà, e osservanze asettiche, dottrine cerebrali, mortificazioni, ripetizioni a fotocopia.

 

Quella delle deviazioni indotte da condizionamenti è una cosmesi velenosa per l’anima e per le opere che siamo chiamati a far sgorgare dalla nostra anima irripetibile.

Le altrui convinzioni guidano l’io inferiore fuori dai binari dell’orientamento che profondamente e unicamente gli appartiene.

L’essenza profonda chiama all’immediatezza, più che all’identità. Alla spontaneità (particolare ma colma) del nostro Germe, il quale matura a tappe e balzi, e farà il nostro destino dissimmetrico.

Condurrà però alla vera Mèta: non è «il problema» - come spesso s’immagina.

È tale Nido che dentro non diverge, poi a proteggerci - nell’alleanza con il sé e nell’esuberanza del nostro fiorire.

Condotti a noi stessi, sentiremo la nostra natura anche relazionale, prima soffocata dalla cappa d’un perbenismo omologante, che zampilla di suo.

Adeguarsi a una mentalità e vita religiosa da logica o chiacchiericcio esterni, spersonalizzante o convenzionale, distanzia dall’autentica purificazione e dai salti di qualità che ci equivalgono sul serio.

Essi sì innescano i codici d’una guarigione che si sviluppa non da stati parossistici, né da pratiche tutte uguali. Ma da un faccia a faccia con il nostro nocciolo costituente, colmo di forze benefiche; energetico e passionale.

Con Gesù il nostro divenire non sarà mai in un rapporto banale con ciò che siamo stati o come dovremmo essere: non una concatenazione formale.

Passeremo attraverso Genesi inattese e meravigliose, che sorvolano qualsiasi organigramma di previsioni e sviluppo lineare.

 

La differenza tra religiosità e Fede?

È esplicita nella vicenda imprevedibile di Zaccheo, che decide di non stare lì dove lo hanno messo, a ricalcare pedissequamente una disciplina impossibile e che non voleva.

Ha capito che non sarebbe stato in grado di “migliorare”: ha scelto di non farsi infettare tutta la vita.

È prima una inquieta insoddisfazione, poi un coinvolgente tentativo di Visione genuina, quindi un semplice Incontro da uomo a uomo, che ha preparato le sue decisioni.

Anche se non siamo considerati “pronti” [da un esperto e dal suo codice], è con immediatezza e senza troppe lotte o lacerazioni interiori che possiamo raggiungere un altro Territorio.

E far cambiare aria anche agli altri, sorelle e fratelli - partendo semplicemente dalla «percezione senza condizioni» di un nuovo Volto di Dio.

Lo scopriremo affatto ficcanaso e arcigno, né paternalista.

Egli trasmette invece quell’assurda autostima che modifica la nostra sorte, e il destino del mondo.

Dove accolti, sorprenderemo noi stessi. E rimetteremo i conti a posto.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Hai uno sguardo personale su Gesù che passa, o lo prendi in prestito dall’opinione di esperti che lacerano l’anima di accuse?

In quale occasione il Cristo ti ha trasmesso un’assurda autostima, che ha aperto nuovi spazi di vita e rimesso i conti a posto?

 

 

Antivedere: nuova Estetica che salverà chiesa e mondo

 

Bisogno di vederlo. Antivedere: pienezza, non bellezza tra le altre

 

Il cristiano, colui che vuole essere seguace di Cristo, colui che sente il bisogno di stringersi a Lui mediante i vincoli della sua autenticità e della propria certezza, avrà sempre, come uomo, come uomo specialmente del nostro tempo tanto nutrito dell’immagine visiva, il bisogno istintivo di vederlo, Lui, Gesù il Cristo, com’era nel volto, nell’aspetto, nel portamento, nella persona. L’abbiamo detto altra volta. Ma questo desiderio rimane, e ricorre quando sorgono questioni circa l’interpretazione genuina del suo messaggio, e circa il dovere d’uniformare la nostra condotta al suo insegnamento. Non è, del resto, questa aspirazione sempre presente nei personaggi del Vangelo? Prendiamo Zaccheo, nel racconto di S. Luca: «voleva vedere Gesù, chi fosse»; e, piccolo di statura come era, in mezzo alla folla non vi riusciva; salì allora sopra un albero di sicomoro; e di là vide, anzi fu visto dal Signore che lo chiamò e gli disse di discendere volendo Egli essere in quel giorno ospite suo (Luc. 19, 1 ss.).

Ma la fortuna dei contemporanei di Gesù, che lo videro con i loro occhi (Cfr. 1 Io. 1, 1) non è la nostra. Come non è di tutta l’umanità venuta dopo di Lui. Già S. Ireneo, Vescovo di Lione (alla fine del II secolo) avverte che sono apocrife le immagini corporee che fin d’allora si tentava divulgare di Cristo (Adv. Haereses, 1, 25; PG 7, 685). S. Agostino è categorico: «Noi del tutto ignoriamo» quale fosse il volto corporeo di Gesù, come pure quello della Madonna (De Trinit. 8, 5; PL 42, 952). Dobbiamo formarci la figura partendo da elementi comuni alla natura umana e dai riflessi immaginativi che le notizie da noi possedute su di Lui, leggendo il Vangelo o credendo alla sua parola, provocano nel nostro spirito. Arte e pietà si aiutano in questa non facile elaborazione.

Essa non è vana fantasia; è uno sforzo meritevole, e in certo senso indispensabile, per chiunque voglia avere di Cristo un concetto concreto e fedele, che senza mitico artificio si presenta ideale.

Proviamo noi stessi a chiederci: come ci raffiguriamo Cristo Gesù? Cioè: qual è l’aspetto caratteristico di Lui, che risulta dal Vangelo? Come, a prima vista, si presenta Gesù? Una volta ancora le sue stesse parole ci aiutano: «Io sono mite ed umile di cuore» (Matth. 11, 29). Gesù vuol essere guardato così, veduto così. Se noi lo vedessimo, ci apparirebbe così, anche se la visione, che di Lui ci dà l’Apocalisse, riempie di forma e di luce la sua figura celeste (Apoc. 1, 12 , ss.). Questo aspetto dolce, buono e soprattutto umile si impone come essenziale. Meditando si avverte che esso manifesta ed insieme nasconde un mistero fondamentale relativo a Cristo, quello dell’Incarnazione, quello del Dio umile, mistero che governa tutta la vita e tutta la missione di Cristo: «Il Christus humilis è il centro della cristologia» di S. Agostino (Cfr. POKTALIÉ, D. Th. C. 1, II, 2372); e che impronta tutto l’insegnamento evangelico a nostro riguardo: «Che cosa d’altro insegnò, se non questa umiltà? . . . in questa umiltà noi ci possiamo avvicinare a Dio», dice ancora il dottore d’Ippona (En. in Ps. 31, 18; PL 36, 270). Del resto, S. Paolo non ha un termine, che sa di assoluto, quando ci dice che Cristo si è «annientato»: semetipsum exinanivit? (Phil. 2, 7) Gesù è l’uomo buono per eccellenza; ed è per ciò ch’Egli è disceso al livello infimo anche della scala umana; si è fatto bambino, si è fatto povero, si è fatto paziente, si è fatto vittima, affinché nessuno dei suoi fratelli in umanità potesse sentirlo superiore e lontano; si è messo ai piedi di tutti. Egli è per tutti. Egli è di tutti; anzi di ciascuno di noi, al singolare; lo dice San Paolo: «Egli ha amato me e si è sacrificato per me» (Gal. 2, 20).

Non è da stupire se l’iconografia di Cristo abbia sempre cercato d’interpretare questa mansuetudine, questa estrema bontà. L’intelligenza mistica di Lui è arrivata a contemplarlo nel cuore, e a fare, per noi moderni, sentimentali e psicologi, sempre polarizzati verso la metafisica dell’amore, del culto al Sacro Cuore, il focolare ardente e simbolico della devozione e dell’attività cristiana.

Qui sorge, oggi specialmente, un’obiezione: questa immagine di Cristo, che realizza in se stesso la propria parola, cioè le beatitudini della povertà, della mitezza, della non resistenza (Cfr. Matth. 5, 38, ss.), è il Cristo vero? È il Cristo per noi? Dov’è il Cristo Pantocratore, il Cristo forte, il Re dei re, il Signore dei dominanti? (Cfr. Apoc. 19, 11, ss.) Il Cristo riformatore? («Ego autem dico vobis . . .», Matth. 5) il Cristo polemico, con le sue contestazioni (P. es. Matth. 5, 20) e con i suoi anatemi? (Cfr. Matth. 23) Il Cristo liberatore, il Cristo della violenza? (Cfr. Matth. 11, 12) Oggi non si parla del cristianesimo della violenza e della teologia della rivoluzione? Dopo tanto parlare di pace la tentazione della violenza, come suprema affermazione di libertà e di maturità, come unico mezzo di riforma e di redenzione, è così forte che si parla di teologia della violenza e della rivoluzione; e spesso alle eccitanti teorie i fatti, o almeno le tendenze della riscossa al «disordine costituito», corrispondono. Si cerca allora di avere Cristo per sé, e di giustificare certi atteggiamenti disordinati, demagogici e ribelli, con gli atteggiamenti e con le parole di Lui.

Il discorso è di molti. Noi stessi vi abbiamo altre volte accennato. Un solo consiglio per ora. Dinanzi a questa supposta contraddizione fra la figura del Cristo mite e soave, del Cristo buon Pastore, del Cristo crocifisso per amore e la figura del Cristo virile e severo, sdegnato e pugnace, occorrerà riflettere bene, e vedere come stanno le cose nei documenti originari, i Vangeli, il Nuovo Testamento, la Tradizione autentica e coerente, e nella loro genuina interpretazione. Ci sembra doveroso reclamare a tale riguardo onesta attenzione. Specialmente sulla complessità della figura di Cristo: Egli è certamente al tempo stesso mite e forte, com’è al tempo stesso uomo e Dio; e poi sulla vera reazione, non certo politica, non certo anarchica, che l’energia riformatrice di Cristo immette nel mondo decaduto e corrotto; cioè sulle vere speranze ch’Egli propone all’umanità.

Vedremo allora che la figura di Cristo presenta, sì, senza alterare l’incanto della sua misericordiosa dolcezza, anche un aspetto grave e forte, formidabile, se volete, contro la viltà, le ipocrisie, le ingiustizie, le crudeltà, ma non mai disgiunto da una sovrana irradiazione di amore.

Solo l’amore lo definisce Salvatore. E solo per le vie dell’amore lo potremo avvicinare, imitare, inserire nelle nostre anime e nella sempre drammatica vicenda della storia umana.

Sì, potremo vedere Lui, che ha abitato con noi, e ha condiviso la nostra sorte terrena, per infondere in questo il suo vangelo di salvezza, e per predisporci a questa piena salvezza; lo vedremo «pieno di grazia e di verità» (Io. 1, 14).

Fede ed amore sono gli occhi che ora a noi servono per poterlo in qualche modo vedere; cioè antivedere.

(Papa Paolo VI, Udienza Generale 27 gennaio 1971)

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Herod is a figure we dislike, whom we instinctively judge negatively because of his brutality. Yet we should ask ourselves: is there perhaps something of Herod also in us? Might we too sometimes see God as a sort of rival? Might we too be blind to his signs and deaf to his words because we think he is setting limits on our life and does not allow us to dispose of our existence as we please? (Pope Benedict)
Erode è un personaggio che non ci è simpatico e che istintivamente giudichiamo in modo negativo per la sua brutalità. Ma dovremmo chiederci: forse c’è qualcosa di Erode anche in noi? Forse anche noi, a volte, vediamo Dio come una sorta di rivale? Forse anche noi siamo ciechi davanti ai suoi segni, sordi alle sue parole, perché pensiamo che ponga limiti alla nostra vita e non ci permetta di disporre dell’esistenza a nostro piacimento? (Papa Benedetto)i
John is the origin of our loftiest spirituality. Like him, ‘the silent ones' experience that mysterious exchange of hearts, pray for John's presence, and their hearts are set on fire (Athinagoras)
Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma (Atenagora)
Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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