don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Il Vangelo […] fa parte della più ampia narrazione indicata come la “giornata di Cafarnao”. Al centro dell’odierno racconto sta l’evento dell’esorcismo, attraverso il quale Gesù è presentato come profeta potente in parole e in opere.

Egli entra nella sinagoga di Cafarnao di sabato e si mette a insegnare; le persone rimangono stupite delle sue parole, perché non sono parole ordinarie, non assomigliano a quanto loro ascoltano di solito. Gli scribi, infatti, insegnano ma senza avere una propria autorevolezza. E Gesù insegna con autorità. Gesù, invece, insegna come uno che ha autorità, rivelandosi così come l’Inviato di Dio, e non come un semplice uomo che deve fondare il proprio insegnamento solo sulle tradizioni precedenti. Gesù ha una piena autorevolezza. La sua dottrina è nuova e il Vangelo dice che la gente commentava: «Un insegnamento nuovo, dato con autorità» (v. 27).

Al tempo stesso, Gesù si rivela potente anche nelle opere. Nella sinagoga di Cafarnao c’è un uomo posseduto da uno spirito immondo, che si manifesta gridando queste parole: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!» (v. 24). Il diavolo dice la verità: Gesù è venuto per rovinare il diavolo, per rovinare il demonio, per vincerlo. Questo spirito immondo conosce la potenza di Gesù e ne proclama anche la santità. Gesù lo sgrida, dicendogli: «Taci! Esci da lui» (v. 25). Queste poche parole di Gesù bastano per ottenere la vittoria su Satana, il quale esce da quell’uomo «straziandolo e gridando forte», dice il Vangelo (v. 26).

Questo fatto impressiona molto i presenti; tutti sono presi da timore e si chiedono: «Ma, chi è mai questo? […] Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» (v. 27). La potenza di Gesù conferma l’autorevolezza del suo insegnamento. Egli non pronuncia solo parole, ma agisce. Così manifesta il progetto di Dio con le parole e con la potenza delle opere. Nel Vangelo, infatti, vediamo che Gesù, nella sua missione terrena, rivela l’amore di Dio sia con la predicazione sia con innumerevoli gesti di attenzione e soccorso ai malati, ai bisognosi, ai bambini, ai peccatori.

Gesù è il nostro Maestro, potente in parole e opere. Gesù ci comunica tutta la luce che illumina le strade, a volte buie, della nostra esistenza; ci comunica anche la forza necessaria per superare le difficoltà, le prove, le tentazioni. Pensiamo a quale grande grazia è per noi aver conosciuto questo Dio così potente e così buono! Un maestro e un amico, che ci indica la strada e si prende cura di noi, specialmente quando siamo nel bisogno.

La Vergine Maria, donna dell’ascolto, ci aiuti a fare silenzio attorno e dentro di noi, per ascoltare, nel frastuono dei messaggi del mondo, la parola più autorevole che ci sia: quella del suo Figlio Gesù, che annuncia il senso della nostra esistenza e ci libera da ogni schiavitù, anche da quella del Maligno.

[Papa Francesco, Angelus 28 gennaio 2018]

In Sinagoga e dal precipizio

(Lc 4,16-30)

 

Anticamente in Israele la famiglia patriarcale, il clan e la comunità erano la base della convivenza sociale.

Garantivano la trasmissione dell’identità di popolo e assicuravano protezione agli afflitti.

Ma al tempo di Gesù la Galilea soffriva la segregazione dettata dalla politica di Erode, e pativa l'oppressione della religiosità ufficiale.

La congiuntura politica ed economica obbligava le persone a ripiegarsi su problemi materiali e individuali o di famiglia ristretta.

Situazione che stava portando al collasso le fasce di popolazione meno tutelate.

Gesù vuole invece tornare al Sogno del Padre: quello ineliminabile della Fraternità, unico suggello alla storia della salvezza.

Così, secondo Lc la prima volta che Gesù entra in una Sinagoga combina un bel pasticcio.

Non va a pregare, ma a Insegnare cosa sia la Grazia di Dio [non svigorita da chiose o false istruzioni] nell’esistenza reale delle persone.

Sceglie un passo che riflette la situazione della sua gente, oppressa dal potere dei dominatori, che ai deboli stava facendo patire confusione e povertà.

Ma la sua prima Lettura non tiene conto del calendario liturgico.

Poi osa predicare a modo suo e personalizzando il brano d’Isaia, da cui si permette di censurare il versetto che annuncia la “vendetta” di Dio.

Quindi neanche proclama il passo previsto della Legge.

Inoltre per il Figlio di Dio lo Spirito non si rivela nei fenomeni straordinari del cosmo, ma nell’Anno di Grazia [«un anno accetto al Signore»: v.19].

 

Possibile che la Somiglianza divina possa manifestarsi in un uomo premuroso verso i meno facoltosi, che disattende le consuetudini ufficiali, non crede alle ritorsioni, e palesa forme di spontaneità incontrollata?

È un richiamo per noi.

Al pari del Maestro, invece di ragionare con pensieri indotti e farci sequestrare dalla pesantezza di rifiuti e timori, in Lui iniziamo a pensare con i codici empatici della nostra Chiamata che irrompe.

La Visione-Relazione (v.18a) irripetibile e a maglie larghe - senza riduzioni - diventa allora strategica, perché possiede in se stessa il ‘richiamo’ dell’essenza radicale, e tutte le risorse per risolvere i veri problemi.

Ascoltare la proclamazione dei Vangeli (v.18b) è ascoltare l’eco di se stessi e del popolo minuto: scelta intima e fraterna.

E starci dentro senza le foglie morte dell’unilateralità - per vagare liberamente in quel medesimo Appello; non trascurando parti preziose di sé, né amputando le eccentricità, o l’intuito proprio dei ceti subalterni.

In tal guisa, permaniamo nell’istinto di essere e fare felici, senza mai lasciarsi imprigionare dalla brama di sicurezze a contorno: ricerca stagnante.

 

Il Regno nello Spirito (cf. vv.14.18) sa cosa ci serve. Esso ha cessato di essere una mèta di semplice avvenire.

È la sorpresa che Cristo in noi suscita grazie al suo Sogno, intorno alla sua proposta dalla marcia in più.

Il Signore non ci trascura: spegne il rimuginare accusatorio e ridisegna in modo creativo.

Egli fa nascere ancora e motiva, recupera le dispersioni e rinsalda la trama.

 

È divina perché personale e sociale l’Energia nuova, abilitata a creare l’uomo autentico.

Questa la piattaforma che opera la svolta.

 

 

[Lunedì 22.a sett. T.O.  2 settembre 2024]

Lc 4,16-30 (16-37)

 

Trasgressioni di Gesù e nostre (che rinsaldano la trama)

(Lc 4,14-22)

 

«Lo Spirito del Signore su di me, perciò mi ha unto per annunciare la Buona Notizia ai poveri» (Lc 4,18).

 

Anticamente in Israele la famiglia patriarcale, il clan e la comunità erano la base della convivenza sociale.

Garantivano la trasmissione dell’identità di popolo e assicuravano protezione agli afflitti.

Difendere il clan era anche un modo concreto di confermare la Prima Alleanza.

Ma al tempo di Gesù la Galilea soffriva sia la segregazione dettata dalla politica di Erode Antipas che l'oppressione della religiosità ufficiale.

Il collaborazionismo smidollato del sovrano aveva accentuato il numero dei senza tetto e privi d’impiego.

La congiuntura politica ed economica obbligava le persone a ripiegarsi su problemi materiali e individuali o di famiglia ristretta.

Un tempo, il collante identitario del clan e della comunità garantivano un carattere (interno) di nazione solidale, espresso nella difesa e soccorso prestati ai meno abbienti del popolo.

Ora tale legame fraterno risultava indebolito, un po’ ingessato, quasi contraddetto - anche a motivo dell’atteggiamento severo delle autorità religiose, fondamentaliste e amanti d’un purismo saccente, contrario al mischiarsi coi ceti meno agiati.

La Legge [scritta e orale] finiva per essere usata non per favorire l’accoglienza degli emarginati e bisognosi, ma per accentuare i distacchi e la ghettizzazione.

Situazioni che stavano portando al collasso le fasce di popolazione meno tutelate.

Insomma la devozione tradizionale - amante dell’alleanza fra trono e altare - invece di rafforzare il senso comunitario veniva usata per accentuare le gerarchie; come arma che legittimasse tutta una mentalità di esclusioni (e confermasse la logica imperiale del dividi et impera).

 

Gesù vuole invece tornare al Sogno del Padre: quello ineliminabile della fraternità, unico suggello alla storia della salvezza.

Per questo il suo criterio non fugace era quello di allacciare la Parola di Dio alla vita della gente, e in tal modo superare le divisioni.

Così, secondo Lc la prima volta che Gesù entra in una Sinagoga combina un bel pasticcio.

Non va a pregare, ma a Insegnare cosa sia la Grazia di Dio [non svigorita da chiose e false istruzioni] nell’esistenza reale delle persone.

Sceglie un passo che riflette appunto la situazione della gente di Galilea, oppressa dal potere dei dominatori, che ai deboli stava facendo patire confusione e povertà.

Ma la sua prima Lettura non tiene conto del calendario liturgico.

Poi osa predicare a modo suo e personalizzando il brano d’Isaia, da cui si permette di censurare il versetto che annuncia la Vendetta di Dio.

Quindi neanche proclama il passo previsto della Legge.

E si atteggia come fosse Lui il padrone del luogo di culto - in realtà lo è: il Risorto che «siede» sta dando un insegnamento ai suoi [ancora giudaizzanti].

Inoltre - si comprende dal tono del passo di Vangelo - per il Figlio di Dio lo Spirito non si rivela nei fenomeni straordinari del cosmo, ma nell’Anno di Grazia («un anno accetto al Signore»: v.19).

È divina perché personale e sociale l’energia nuova, che crea l’uomo autentico.

Questa la piattaforma che opera la svolta.

Essa si fa motore, motivo e contesto, per una trasformazione dell’anima e dei rapporti - a quel tempo appesantiti dal servilismo anche teologico [dei meriti].

 

In un ordito di relazioni vitali, la migliore capacità di comprensione del Dono si fa molla per un futuro armonico, di liberazione e giustizia.

Cristo ritiene che il Regno del Padre sorga facendo crescere dal di dentro il presente, allora impastato di oppressione, angoscia e schiavitù.

Dice il Tao Tê Ching (XLVI): «Quando nel mondo vige la Via, i cavalli veloci sono mandati a concimare i campi».

L’emancipazione offerta dallo Spirito è indirizzata non ai grandi, ma proprio a chi subisce forme di necessità, difetto e penuria: in Gesù... ora tutti aperti alla cifra giubilare della nuova Creazione.

Insomma, sembra ci sia totale antagonismo e inadattabilità fra il Signore e i praticanti della religione tradizionale - pesante, selettiva, votata a legalismi e rappresaglie; piramidale, senza possibilità d’uscita.

Ovvio che sia i capi che gli abitudinari si chiedano - su base rituale e veneranda: possibile che la somiglianza divina possa manifestarsi in un uomo premuroso verso i meno facoltosi, che disattende le consuetudini ufficiali, non crede alle ritorsioni, e palesa forme di spontaneità incontrollata?

È un richiamo per noi. La persona di Fede autentica non si lascia condizionare dalle conformità all’abitudine, inutile e quieta.

Il pensiero comune - assuefatto e concordato ma sottilmente competitivo - diventa un’energia al contrario, troppo normale e paludosa; non propulsiva per l’anima personale e sociale.

Se invece ci lasciamo accompagnare dal Sogno d’una sovreminente gestazione dal Padre, saremo animati attraverso la Presenza regale e Sacra che orienta a sorvolare ripetizioni, o selezioni, emarginazioni e recriminazioni fallaci.

Come se spostassimo il nostro essere in un orizzonte e in un mondo di relazioni amicali che poi fa da calamita alla realtà e anticipa futuro.

 

Al pari del Maestro e Signore, invece di ragionare con pensieri indotti e farci sequestrare dalla pesantezza di rifiuti e timori, iniziamo a pensare con le immagini della Vocazione personale, con i codici empatici della nostra Chiamata che irrompe.

Le risorse evolutive sconosciute che scattano, immediatamente dipanano una rete di percorsi che ai “locali” forse non piacciono, ma evitano il conflitto perenne con l’identità missionaria e il proprio carattere.

La Visione-Relazione (v.18a) irripetibile e a maglie larghe - senza riduzioni - diventa allora strategica, perché possiede in se stessa il richiamo della Quintessenza, e tutte le risorse per risolvere i veri problemi.

 

Ascoltare la proclamazione dei Vangeli (v.18b) è ascoltare l’eco di se stessi e del popolo minuto: scelta intima e sociale.

E starci dentro senza le foglie morte dell’unilateralità - per vagare liberamente in quel medesimo Appello; non trascurando parti preziose di sé, né amputando le eccentricità, o l’intuito proprio dei ceti subalterni.

Ciò per poter manifestare la Radice quieta (ma nel suo stato energico), il nostro Personaggio (nell’Amico amabile e non separatista) - per evitare di stordirlo con un’altra schiavitù.

Tutto nell’istinto di essere e fare felici, senza mai lasciarsi imprigionare dalla brama di sicurezze a contorno; ricerca stagnante.

 

Il Regno nello Spirito (cf. vv.14.18) - che sa cosa ci serve - ha cessato di essere una mèta di semplice avvenire.

È la sorpresa che Cristo in noi suscita intorno alla sua proposta dalla marcia in più.

 

Egli non ci trascura: spegne il rimuginare accusatorio e ridisegna in modo creativo.

Fa nascere ancora e motiva, recupera le dispersioni, e rinsalda la trama.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come allaccio la Fede con la situazione culturale e sociale?

Qual è l’Oggi di Cristo con il tuo oggi, nello Spirito?

Qual è la tua forma di apostolato che libera i fratelli dall’avvilimento della dignità e li promuove?

 

 

Lo Spirito del Signore è sopra di me (et vult Cubam)

 

3. «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare un lieto messaggio» (Lc 4, 18). Ogni ministro di Dio deve far sue nella propria vita queste parole pronunciate da Gesù di Nazareth. Per questo, trovandomi qui tra voi, voglio recarvi la buona notizia della speranza in Dio. Come servitore del Vangelo, vi porto questo messaggio d'amore e di solidarietà che Gesù Cristo, con la sua venuta, offre agli uomini di ogni tempo. Non si tratta né di un'ideologia né di un sistema economico o politico nuovo, bensì di un cammino di pace, giustizia e libertà autentiche.

4. I sistemi ideologici ed economici succedutisi negli ultimi secoli hanno spesso enfatizzato lo scontro come metodo, poiché contenevano nei propri programmi i germi dell'opposizione e della disunione. Questo ha condizionato profondamente la concezione dell'uomo e i rapporti con gli altri. Alcuni di questi sistemi hanno preteso anche di ridurre la religione alla sfera meramente individuale, spogliandola di ogni influsso o rilevanza sociale. In tal senso, è bene ricordare che uno Stato moderno non può fare dell'ateismo o della religione uno dei propri ordinamenti politici. Lo Stato, lontano da ogni fanatismo o secolarismo estremo, deve promuovere un clima sociale sereno e una legislazione adeguata, che permetta ad ogni persona e ad ogni confessione religiosa di vivere liberamente la propria fede, esprimerla negli ambiti della vita pubblica e poter contare su mezzi e spazi sufficienti per offrire alla vita della Nazione le proprie ricchezze spirituali, morali e civiche.

D'altro canto, in vari luoghi si sviluppa una forma di neoliberalismo capitalista che subordina la persona umana e condiziona lo sviluppo dei popoli alle forze cieche del mercato, gravando dai propri centri di potere sui popoli meno favoriti con pesi insopportabili. Avviene così che, spesso, vengono imposti alle Nazioni, come condizione per ricevere nuovi aiuti, programmi economici insostenibili. In tal modo si assiste, nel concerto delle Nazioni, all'arricchimento esagerato di pochi al prezzo dell'impoverimento crescente di molti, cosicché i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

5. Carissimi fratelli: la Chiesa è maestra in umanità. Perciò, di fronte a questi sistemi, essa propone la cultura dell'amore e della vita, restituendo all'umanità la speranza e il potere trasformante dell'amore, vissuto nell'unità voluta da Cristo. Per questo è necessario percorrere un cammino di riconciliazione, di dialogo e di accoglienza fraterna del prossimo, chiunque esso sia. Questo si può dire il Vangelo sociale della Chiesa.

La Chiesa, nel portare a termine la propria missione, propone al mondo una giustizia nuova, la giustizia del Regno di Dio (cfr Mt 6, 33). In diverse occasioni ho fatto riferimento ai temi sociali. È necessario continuarne a parlare fino a quando nel mondo ci sarà un'ingiustizia, per piccola che sia, dato che in caso contrario la Chiesa non si dimostrerebbe fedele alla missione affidatale da Gesù Cristo. La posta in gioco è l'uomo, la persona in carne ed ossa. Anche se i tempi e le circostanze cambiano, ci sono sempre persone che hanno bisogno della voce della Chiesa perché vengano riconosciute le loro angosce, i loro dolori e le loro miserie. Coloro che si trovano in simili situazioni possono essere sicuri che non verranno defraudati, poiché la Chiesa è con loro e il Papa abbraccia, con il cuore e con la sua parola di incoraggiamento, tutti coloro che subiscono l'ingiustizia.

(Giovanni Paolo II, dopo essere stato a lungo applaudito, ha aggiunto)

Io non sono contrario agli applausi, perché quando applaudite il Papa può riposarsi un po'.

Gli insegnamenti di Gesù conservano integro il loro vigore alle soglie dell'anno 2000. Sono validi per tutti voi, miei cari fratelli. Nella ricerca della giustizia del Regno, non possiamo fermarci di fronte a difficoltà e incomprensioni. Se l'invito del Maestro alla giustizia, al servizio e all'amore viene accolto come Buona Novella, allora il cuore si allarga, si trasformano i criteri e nasce la cultura dell'amore e della vita. Questo è il grande cambiamento che la società attende e di cui ha bisogno; lo si potrà raggiungere solo se prima avrà luogo la conversione del cuore di ognuno come condizione per i necessari mutamenti nelle strutture della società.

6. «Lo Spirito del Signore mi ha mandato per proclamare ai prigionieri la liberazione (...) per rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4, 18). La buona novella di Gesù deve essere accompagnata da un annuncio di libertà, basato sul solido fondamento della verità: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31-32). La verità a cui si riferisce Gesù non è solo la comprensione intellettuale della realtà, bensì la verità sull'uomo e la sua condizione trascendente, sui suoi diritti e doveri, sulla sua grandezza e i suoi limiti. È la stessa verità che Gesù proclamò con la sua vita, riaffermò di fronte a Pilato e, con il suo silenzio, di fronte ad Erode; è la stessa che lo portò alla croce salvifica e alla risurrezione gloriosa.

La libertà che non è fondata sulla verità condiziona l'uomo a tal punto che a volte lo rende oggetto anziché soggetto del contesto sociale, culturale, economico e politico, lasciandolo quasi totalmente privo d'iniziativa riguardo allo sviluppo personale. Altre volte, questa libertà è di tipo individualistico e, non tenendo conto della libertà degli altri, chiude l'uomo nel proprio egoismo. La conquista della libertà nella responsabilità rappresenta un compito imprescindibile per ogni persona. Per i cristiani, la libertà dei figli di Dio non è soltanto un dono e un compito; il suo conseguimento implica pure un'inestimabile testimonianza e un genuino contributo nel cammino di liberazione di tutto il genere umano. Questa liberazione non si riduce agli aspetti sociali e politici, ma raggiunge la sua pienezza nell'esercizio della libertà di coscienza, base e fondamento degli altri diritti umani.

(Rispondendo all'invocazione elevata dalla folla: «Il Papa vive e ci vuole tutti liberi!», Giovanni Paolo II ha aggiunto:)

Sì, vive con quella libertà alla quale Cristo vi ha liberato.

Per molti dei sistemi politici ed economici vigenti oggi, la sfida più grande continua ad essere rappresentata dal coniugare libertà e giustizia sociale, libertà e solidarietà, senza che nessuna di esse venga relegata ad un livello inferiore. In tal senso, la Dottrina sociale della Chiesa costituisce uno sforzo di riflessione e una proposta che cerca di illuminare e di conciliare i rapporti tra i diritti inalienabili di ogni uomo e le esigenze sociali, in modo che la persona porti a compimento le sue aspirazioni più profonde e la propria realizzazione integrale secondo la sua condizione di figlio di Dio e di cittadino. Di conseguenza, il laicato cattolico deve contribuire a questa realizzazione mediante l'applicazione degli insegnamenti sociali della Chiesa nei diversi ambienti, aperti a tutti gli uomini di buona volontà.

7. Nel Vangelo proclamato oggi la giustizia appare intimamente legata alla verità. È quello che si osserva anche nel pensiero lucido dei padri della Patria. Il Servo di Dio Padre Félix Varela, animato dalla fede cristiana e dalla fedeltà al ministero sacerdotale, pose nel cuore del popolo cubano i semi della giustizia e della libertà che egli sognava di veder germogliare in una Cuba libera e indipendente.

La dottrina di José Martí sull'amore tra tutti gli uomini ha radici profondamente evangeliche, superando così il falso conflitto tra la fede in Dio e l'amore e il servizio alla Patria. Scrive Martí: «Pura, disinteressata, perseguitata, martirizzata, poetica e semplice, la religione del Nazareno ha sedotto tutti gli uomini onesti... Ogni popolo ha bisogno di essere religioso. Lo deve essere non solo nella sua essenza, ma anche per sua utilità... Un popolo non religioso è destinato a morire, poiché in esso nulla alimenta la virtù. Le ingiustizie umane la disprezzano; è necessario che la giustizia celeste la garantisca».

Come sapete, Cuba possiede un'anima cristiana, e questo l'ha portata ad avere una vocazione universale. Chiamata a vincere l'isolamento, deve aprirsi al mondo e il mondo deve avvicinarsi a Cuba, al suo popolo, ai suoi figli, che ne rappresentano senza dubbio la maggiore ricchezza. È giunta l'ora di intraprendere i nuovi cammini che i tempi di rinnovamento in cui viviamo esigono, all'approssimarsi del Terzo millennio dell'era cristiana!

8. Carissimi fratelli: Dio ha benedetto questo popolo con autentici formatori della coscienza nazionale, chiari e fermi esponenti della fede cristiana, che è il più valido sostegno della virtù e dell'amore. Oggi i Vescovi, insieme ai sacerdoti, ai consacrati, alle consacrate e ai fedeli laici, si sforzano di costruire ponti per avvicinare le menti e i cuori, propiziando e consolidando la pace, preparando la civiltà dell'amore e della giustizia. Sono qui fra voi come messaggero della verità e della speranza. Per questo desidero ripetere il mio appello a lasciarvi illuminare da Gesù Cristo, ad accettare senza riserve lo splendore della sua verità, affinché tutti possano seguire il cammino dell'unità attraverso l'amore e la solidarietà, evitando l'esclusione, l'isolamento e lo scontro, che sono contrari alla volontà del Dio-Amore.

Che lo Spirito Santo illumini con i suoi doni quanti hanno responsabilità diverse nei confronti di questo popolo, che ho nel cuore. Che la «Virgen de la Caridad de El Cobre», Regina di Cuba, ottenga per i suoi figli i doni della pace, del progresso e della felicità.

Questo vento di oggi è molto significativo, perché il vento simboleggia lo Spirito Santo. «Spiritus spirat ubi vult, Spiritus vult spirare in Cuba». Le ultime parole sono in lingua latina perché Cuba appartiene anche alla tradizione latina. America latina, Cuba latina, lingua latina! «Spiritus spirat ubi vult et vult Cubam». Arrivederci.

(Giovanni Paolo II, omelia Piazza «José Martí» L’Avana 25 gennaio 1998)

 

 

Persona, estemporaneità, sinagoghe

 

Due Nomi di Dio

(Lc 4,21-30)

 

Il Vangelo di oggi – tratto dal capitolo quarto di san Luca – è la prosecuzione di quello di domenica scorsa. Ci troviamo ancora nella sinagoga di Nazaret, il paese dove Gesù è cresciuto e dove tutti conoscono lui e la sua famiglia. Ora, dopo un periodo di assenza, Egli è ritornato in un modo nuovo: durante la liturgia del sabato legge una profezia di Isaia sul Messia e ne annuncia il compimento, lasciando intendere che quella parola si riferisce a Lui, che Isaia ha parlato di Lui. Questo fatto suscita lo sconcerto dei nazaretani: da una parte, «tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22); san Marco riferisce che molti dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?» (6,2). D’altra parte, però, i suoi compaesani lo conoscono troppo bene: E’ uno come noi – dicono –. La sua pretesa non può essere che una presunzione » (cfr L’infanzia di Gesù, 11). «Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22), come dire: un carpentiere di Nazaret, quali aspirazioni può avere?

Proprio conoscendo questa chiusura, che conferma il proverbio «nessun profeta è bene accetto nella sua patria», Gesù rivolge alla gente, nella sinagoga, parole che suonano come una provocazione. Cita due miracoli compiuti dai grandi profeti Elia ed Eliseo in favore di persone non israelite, per dimostrare che a volte c’è più fede al di fuori d’Israele. A quel punto la reazione è unanime: tutti si alzano e lo cacciano fuori, e cercano persino di buttarlo giù da un precipizio, ma Egli, con calma sovrana, passa in mezzo alla gente inferocita e se ne va. A questo punto viene spontaneo chiedersi: come mai Gesù ha voluto provocare questa rottura? All’inizio la gente era ammirata di lui, e forse avrebbe potuto ottenere un certo consenso… Ma proprio questo è il punto: Gesù non è venuto per cercare il consenso degli uomini, ma – come dirà alla fine a Pilato – per «dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). Il vero profeta non obbedisce ad altri che a Dio e si mette al servizio della verità, pronto a pagare di persona. E’ vero che Gesù è il profeta dell’amore, ma l’amore ha la sua verità. Anzi, amore e verità sono due nomi della stessa realtà, due nomi di Dio. Nella liturgia odierna risuonano anche queste parole di san Paolo: «La carità …non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità» (1 Cor 13,4-6). Credere in Dio significa rinunciare ai propri pregiudizi e accogliere il volto concreto in cui Lui si è rivelato: l’uomo Gesù di Nazaret. E questa via conduce anche a riconoscerlo e a servirlo negli altri.

In questo è illuminante l’atteggiamento di Maria. Chi più di lei ebbe familiarità con l’umanità di Gesù? Ma non ne fu mai scandalizzata come i compaesani di Nazaret. Ella custodiva nel suo cuore il mistero e seppe accoglierlo sempre di più e sempre di nuovo, nel cammino della fede, fino alla notte della Croce e alla piena luce della Risurrezione. Maria aiuti anche noi a percorrere con fedeltà e con gioia questo cammino.

[Papa Benedetto, Angelus 3 febbraio 2013]

 

Gesù è fastidioso e genera sospetto in coloro che amano schemi esteriori, perché proclama solo Giubileo, invece che confronto duro e vendetta. 

In sinagoga il suo villaggio resta perplesso su questo amore troppo comprensivo - proprio ciò di cui abbiamo bisogno.

Il luogo di culto è quello in cui i credenti sono stati educati al contrario!

Il loro carattere scontroso è frutto acerbo d’una religiosità martellante, che nega il diritto di esprimere idee e sentimenti.

Il codice “sinagogale” ha prodotto fedeli finti, condizionati da una personalità disarmonica e scissa.

Ancora oggi e sin da piccoli, quest’intima lacerazione si manifesta nell’eccesso di controllo sull’apertura verso gli altri.

Conseguenza: un’accentuazione dell’incertezza giovanile - sotto la quale cova chissà cosa - e un carattere rigido da adulti.

Insomma, il martellamento religioso che non fa il balzo della Fede ci blocca, impedisce di capire, e inquina tutta la vita.

 

Anche ai tempi di Gesù l’insegnamento arcaico acuiva nazionalismi, la percezione stessa di traumi o violazioni, e paradossalmente proprio le situazioni ingabbiate da cui si voleva uscire.

Spiritualità esclusiva: è vuota - rozza o sofisticata che sia.

Il pensiero selettivo è la peggiore malattia delle visioni del mondo - che poi stanno sempre a dirci come dobbiamo essere.

Così nella vita concreta non pochi fedeli preferiscono avere amici senza cecità conformiste o gli stessi vincoli di appartenenza.

 

A ben guardare, persino le realtà laicali più devote manifestano un’accentuata e strana dicotomia di relazioni - tribali e altro.

Papa Francesco si è espresso in modo nitido:

«È uno scandalo quello di persone che vanno in chiesa, che stanno lì tutti i giorni e poi vivono odiando gli altri e parlando male della gente: meglio vivere come ateo anziché dare una contro-testimonianza dell'essere cristiani».

Il mondo reale sveglia e stimola alla flessibilità degli standard, non inculca qualche vetero-esattezza, in clima d’ipnosi.

Oggi la realtà globale aiuta a smussare gli spigoli di conventicola [i quali hanno i loro rigurgiti, in termini di seduzione e risucchio].

Di fronte a tali convinzioni e illusioni il Profeta marca distanza; opera per diffondere consapevolezze, non immagini rassicuranti - né idee disincarnate.

Ma gli araldi critici irritano violentemente la folla degli abituali, i quali d’improvviso passano da una sorta di curiosità allo sdegno vendicativo.

Come nel paesino, così - si legge in filigrana - nella Città Santa [Monte Sion] da cui subito ti vogliono buttare giù (Lc 4,29).

Dovunque si parli di persona reale e sogni eterni: i suoi, non altrui.

 

Nell’ostilità che li attornia, gl’intimi del Signore sfidano a viso aperto le convinzioni normalizzate, acquisite dall’ambiente e non rielaborate.

Per loro non conta solo l’analogia calcolata a un contorno meschino. Vedono altri obbiettivi e non vogliono solo “arrivare”.

Se vengono sopraffatti, lasciano dietro sé quella scia d’intuizioni che prima o poi farà riflettere sia clan dannosissimi che opportunisti inutili.

In tal guisa, negli Amici e Fratelli è il Risorto stesso che scampa. E riprende il cammino, attraversando chi vuol farlo fuori (v. 30) per motivi d’interesse personale o tornaconto di quartiere.

 

In ogni tempo, i testimoni fanno pensare: non cercano complimenti e risultati piacevoli, ma recuperano i lati opposti e accettano la felicità altrui.

Sanno che l’Unicità deve fare la sua corsa: sarà ricchezza per tutti, e su questo punto non si lasciano inibire dalla nomenclatura.

Pur circondati dall’odio invidioso e mortale d’idioti astuti e sinagoghe consolidate, annunciano l’Amore in Verità - né bufale burine (approvate quanto vuote) né secondi fini (utilità in solido).

Infatti, senza mungere e tosare gli sprovveduti, tali missionari danno impulso al coraggio e alla crescita altrui, all’autonomia delle scelte.

Tutto ciò, favorendo la coesistenza degli invisibili e disprezzati; in un clima di comprensione e spontaneità.

Essi amano il rigoglio della vita, perciò discriminano tra religione e Fede: non si ergono a ripetitori di dottrine, prescrizioni, consuetudini.

Sulla base della personale esperienza del Padre, i fedeli ispirati valorizzano i diversi approcci, creando una stima sconosciuta.

Affrontano giovani mostri settari [direbbe il Pontefice], vecchi marpioni e i loro steccati, a viso aperto, caldeggiando nuovi atteggiamenti - differenti modi di rapportarsi con Dio.

Non per aggiungere proseliti e considerarsi indispensabili.

Anche se «in patria» (v. 24) sono personaggi scomodi per la mentalità ratificata, i nessuno-Profeti fanno sopravvivere il personalismo di Gesù, strappandolo da chi lo vuole sopito e sequestrato.

Come Lui, a rischio d’impopolarità e senza mendicare approvazioni.

 

Con le cicatrici di quel che è andato via, per un nuovo Viaggio.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In “patria” sei considerato un bambinone del luogo, o un profeta? Un personaggio ratificato, o scomodo? A modo, o impopolare?

La tua testimonianza è trasgressiva o conformista? Fa sopravvivere il personalismo di Gesù, strappandolo da chi lo vuole sopito e sequestrato?

 

 

Dio vuole la fede, loro i miracoli: Dio a proprio vantaggio

Domenica scorsa la liturgia ci aveva proposto l’episodio della sinagoga di Nazaret, dove Gesù legge un passo del profeta Isaia e alla fine rivela che quelle parole si compiono “oggi”, in Lui. Gesù si presenta come colui sul quale si è posato lo Spirito del Signore, lo Spirito Santo che lo ha consacrato e lo ha mandato a compiere la missione di salvezza in favore dell’umanità. Il Vangelo di oggi (cfr Lc 4,21-30) è la prosecuzione di quel racconto e ci mostra lo stupore dei suoi concittadini nel vedere che uno del loro paese, «il figlio di Giuseppe» (v. 22), pretende di essere il Cristo, l’inviato del Padre.

Gesù, con la sua capacità di penetrare le menti e i cuori, capisce subito che cosa pensano i suoi compaesani. Essi ritengono che, essendo Lui uno di loro, debba dimostrare questa sua strana “pretesa” facendo dei miracoli lì, a Nazaret, come ha fatto nei paesi vicini (cfr v. 23). Ma Gesù non vuole e non può accettare questa logica, perché non corrisponde al piano di Dio: Dio vuole la fede, loro vogliono i miracoli, i segni; Dio vuole salvare tutti, e loro vogliono un Messia a proprio vantaggio. E per spiegare la logica di Dio, Gesù porta l’esempio di due grandi profeti antichi: Elia ed Eliseo, che Dio aveva mandato a guarire e salvare persone non ebree, di altri popoli, ma che si erano fidate della sua parola.

Di fronte a questo invito ad aprire i loro cuori alla gratuità e alla universalità della salvezza, i cittadini di Nazaret si ribellano, e addirittura assumono un atteggiamento aggressivo, che degenera al punto che «si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero sul ciglio del monte […], per gettarlo giù» (v. 29). L’ammirazione del primo istante si è mutata in un’aggressione, una ribellione contro di Lui.

E questo Vangelo ci mostra che il ministero pubblico di Gesù comincia con un rifiuto e con una minaccia di morte, paradossalmente proprio da parte dei suoi concittadini. Gesù, nel vivere la missione affidatagli dal Padre, sa bene che deve affrontare la fatica, il rifiuto, la persecuzione e la sconfitta. Un prezzo che, ieri come oggi, la profezia autentica è chiamata a pagare. Il duro rifiuto, però, non scoraggia Gesù, né arresta il cammino e la fecondità della sua azione profetica. Egli va avanti per la sua strada (cfr v. 30), confidando nell’amore del Padre.

Anche oggi, il mondo ha bisogno di vedere nei discepoli del Signore dei profeti, cioè delle persone coraggiose e perseveranti nel rispondere alla vocazione cristiana. Persone che seguono la “spinta” dello Spirito Santo, che le manda ad annunciare speranza e salvezza ai poveri e agli esclusi; persone che seguono la logica della fede e non del miracolismo; persone dedicate al servizio di tutti, senza privilegi ed esclusioni. In poche parole: persone che si aprono ad accogliere in sé stesse la volontà del Padre e si impegnano a testimoniarla fedelmente agli altri.

Preghiamo Maria Santissima, perché possiamo crescere e camminare nello stesso ardore apostolico per il Regno di Dio che animò la missione di Gesù.

[Papa Francesco, Angelus 3 febbraio 2019]

Ci troviamo ancora nella sinagoga di Nazaret, il paese dove Gesù è cresciuto e dove tutti conoscono lui e la sua famiglia. Ora, dopo un periodo di assenza, Egli è ritornato in un modo nuovo: durante la liturgia del sabato legge una profezia di Isaia sul Messia e ne annuncia il compimento, lasciando intendere che quella parola si riferisce a Lui, che Isaia ha parlato di Lui. Questo fatto suscita lo sconcerto dei nazaretani: da una parte, «tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22); san Marco riferisce che molti dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?» (6,2). D’altra parte, però, i suoi compaesani lo conoscono troppo bene: E’ uno come noi – dicono –. La sua pretesa non può essere che una presunzione » (cfr L’infanzia di Gesù, 11). «Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22), come dire: un carpentiere di Nazaret, quali aspirazioni può avere?

Proprio conoscendo questa chiusura, che conferma il proverbio «nessun profeta è bene accetto nella sua patria», Gesù rivolge alla gente, nella sinagoga, parole che suonano come una provocazione. Cita due miracoli compiuti dai grandi profeti Elia ed Eliseo in favore di persone non israelite, per dimostrare che a volte c’è più fede al di fuori d’Israele. A quel punto la reazione è unanime: tutti si alzano e lo cacciano fuori, e cercano persino di buttarlo giù da un precipizio, ma Egli, con calma sovrana, passa in mezzo alla gente inferocita e se ne va. A questo punto viene spontaneo chiedersi: come mai Gesù ha voluto provocare questa rottura? All’inizio la gente era ammirata di lui, e forse avrebbe potuto ottenere un certo consenso… Ma proprio questo è il punto: Gesù non è venuto per cercare il consenso degli uomini, ma – come dirà alla fine a Pilato – per «dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). Il vero profeta non obbedisce ad altri che a Dio e si mette al servizio della verità, pronto a pagare di persona. E’ vero che Gesù è il profeta dell’amore, ma l’amore ha la sua verità. Anzi, amore e verità sono due nomi della stessa realtà, due nomi di Dio.

[Papa Benedetto, Angelus 3 febbraio 2013]

7. Nella sua attività di maestro, iniziata a Nazaret ed estesasi alla Galilea e alla Giudea fino alla capitale, Gerusalemme, Gesù sa cogliere e valorizzare i frutti abbondanti presenti nella tradizione religiosa di Israele. Egli la penetra con intelligenza nuova, ne fa emergere i valori vitali, ne mette in luce le prospettive profetiche. Non esita a denunciare le deviazioni degli uomini nei confronti dei disegni del Dio dell’alleanza.

In questo modo egli opera, nell’ambito dell’unica e medesima rivelazione divina, il passaggio dal “vecchio” al “nuovo”, senza abolire la Legge, ma portandola invece al suo pieno compimento (cf. Mt 5, 17). È il pensiero con il quale si apre la Lettera agli Ebrei: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio . . .” (Eb 1, 1).

8. Questo passaggio dal “vecchio” al “nuovo” caratterizza l’intero insegnamento del “Profeta” di Nazaret. Un esempio particolarmente chiaro è il discorso della montagna riportato nel Vangelo di Matteo. Gesù dice: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere . . . Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio” (Mt 5, 21-22). “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adultero con lei nel suo cuore” (Mt 5, 27-28). “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori . . .” (Mt 5, 43-44).

Insegnando in tal modo, Gesù allo stesso tempo dichiara: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (cf. Mt 5, 17).

9. Questo “compiere” è una parola-chiave che si riferisce non soltanto all’insegnamento della verità rivelata da Dio, ma anche a tutta la storia di Israele, ossia del popolo di cui Gesù è figlio. Questa storia straordinaria, guidata fin dall’inizio dalla mano potente del Dio dell’alleanza, trova in Gesù il suo compimento. Il disegno che il Dio dell’alleanza aveva iscritto fin dall’inizio in questa storia, facendone la storia della salvezza, tendeva alla “pienezza dei tempi” (Gal 4, 4), che si realizza in Gesù Cristo. Il Profeta di Nazaret non esita a parlarne fin dal primo discorso pronunciato nella sinagoga della sua città.

10. Particolarmente eloquenti sono le parole di Gesù riferite nel Vangelo di Giovanni quando dice ai suoi oppositori: “Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno . . .”, e di fronte alla loro incredulità: “Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?”, Gesù conferma ancora più esplicitamente: “In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, lo sono” (Gv 8, 56-58). È evidente che Gesù afferma, non soltanto di essere il compimento dei disegni salvifici di Dio, iscritti nella storia di Israele dai tempi di Abramo, ma che la sua esistenza precede il tempo di Abramo, fino ad identificarsi come “colui che è” (Es 3, 14). Ma proprio per questo è lui, Gesù Cristo, il compimento della storia di Israele, perché “supera” questa storia con il suo mistero.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 4 febbraio 1987]

Il Vangelo […] racconta l’incredulità dei compaesani di Gesù. Egli, dopo aver predicato in altri villaggi della Galilea, ripassa da Nazaret, dove era cresciuto con Maria e Giuseppe; e, un sabato, si mette a insegnare nella sinagoga. Molti, ascoltandolo, si domandano: “Da dove gli viene tutta questa sapienza? Ma non è il figlio del falegname e di Maria, cioè dei nostri vicini di casa che conosciamo bene?” (cfr vv. 1-3). Davanti a questa reazione, Gesù afferma una verità che è entrata a far parte anche della sapienza popolare: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (v. 4). Lo diciamo tante volte.

Soffermiamoci sull’atteggiamento dei compaesani di Gesù. Potremmo dire che essi conoscono Gesù, ma non lo riconoscono. C’è differenza tra conoscere e riconoscere. In effetti, questa differenza ci fa capire che possiamo conoscere varie cose di una persona, farci un’idea, affidarci a quello che ne dicono gli altri, magari ogni tanto incontrarla nel quartiere, ma tutto questo non basta. Si tratta di un conoscere direi ordinario, superficiale, che non riconosce l’unicità di quella persona. È un rischio che corriamo tutti: pensiamo di sapere tanto di una persona, e il peggio è che la etichettiamo e la rinchiudiamo nei nostri pregiudizi. Allo stesso modo, i compaesani di Gesù lo conoscono da trent’anni e pensano di sapere tutto! “Ma questo non è il ragazzo che abbiamo visto crescere, il figlio del falegname e di Maria? Ma da dove gli vengono, queste cose?”. La sfiducia. In realtà, non si sono mai accorti di chi è veramente Gesù. Si fermano all’esteriorità e rifiutano la novità di Gesù.

E qui entriamo proprio nel nocciolo del problema: quando facciamo prevalere la comodità dell’abitudine e la dittatura dei pregiudizi, è difficile aprirsi alla novità e lasciarsi stupire. Noi controlliamo, con l’abitudine, con i pregiudizi. Finisce che spesso dalla vita, dalle esperienze e perfino dalle persone cerchiamo solo conferme alle nostre idee e ai nostri schemi, per non dover mai fare la fatica di cambiare. E questo può succedere anche con Dio, proprio a noi credenti, a noi che pensiamo di conoscere Gesù, di sapere già tanto di Lui e che ci basti ripetere le cose di sempre. E questo non basta, con Dio. Ma senza apertura alla novità e soprattutto – ascoltate bene – apertura alle sorprese di Dio, senza stupore, la fede diventa una litania stanca che lentamente si spegne e diventa un’abitudine, un’abitudine sociale. Ho detto una parola: lo stupore. Cos’è, lo stupore? Lo stupore è proprio quando succede l’incontro con Dio: “Ho incontrato il Signore”. Leggiamo il Vangelo: tante volte, la gente che incontra Gesù e lo riconosce, sente lo stupore. E noi, con l’incontro con Dio, dobbiamo andare su questa via: sentire lo stupore. È come il certificato di garanzia che quell’incontro è vero, non è abitudinario.

Alla fine, perché i compaesani di Gesù non lo riconoscono e non credono in Lui? Perché? Qual è il motivo? Possiamo dire, in poche parole, che non accettano lo scandalo dell’Incarnazione. Non lo conoscono, questo mistero dell’Incarnazione, ma non accettano il mistero. Non lo sanno, ma il motivo è inconsapevole e sentono che è scandaloso che l’immensità di Dio si riveli nella piccolezza della nostra carne, che il Figlio di Dio sia il figlio del falegname, che la divinità si nasconda nell’umanità, che Dio abiti nel volto, nelle parole, nei gesti di un semplice uomo. Ecco lo scandalo: l’incarnazione di Dio, la sua concretezza, la sua “quotidianità”. E Dio si è fatto concreto in un uomo, Gesù di Nazaret, si è fatto compagno di strada, si è fatto uno di noi. “Tu sei uno di noi”: dirlo a Gesù, è una bella preghiera! E perché è uno di noi ci capisce, ci accompagna, ci perdona, ci ama tanto. In realtà, è più comodo un dio astratto, distante, che non si immischia nelle situazioni e che accetta una fede lontana dalla vita, dai problemi, dalla società. Oppure ci piace credere a un dio “dagli effetti speciali”, che fa solo cose eccezionali e dà sempre grandi emozioni. Invece, cari fratelli e sorelle, Dio si è incarnato: Dio è umile, Dio è tenero, Dio è nascosto, si fa vicino a noi abitando la normalità della nostra vita quotidiana. E allora, succede a noi come ai compaesani di Gesù, rischiamo che, quando passa, non lo riconosciamo. Torno a dire quella bella frase di Sant’Agostino: “Ho paura di Dio, del Signore, quando passa”. Ma, Agostino, perché hai paura? “Ho paura di non riconoscerlo. Ho paura del Signore quando passa. Timeo Dominum transeuntem”. Non lo riconosciamo, ci scandalizziamo di Lui. Pensiamo a com’è il nostro cuore rispetto a questa realtà.

Ora, nella preghiera, chiediamo alla Madonna, che ha accolto il mistero di Dio nella quotidianità di Nazaret, di avere occhi e cuore liberi dai pregiudizi e avere occhi aperti allo stupore: “Signore, che ti incontri!”. E quando incontriamo il Signore c’è questo stupore. Lo incontriamo nella normalità: occhi aperti alle sorprese di Dio, alla Sua presenza umile e nascosta nella vita di ogni giorno.

[Papa Francesco, Angelus 4 luglio 2021]

Tradizioni o idee ipocrite, e ordine ideale

(Mc 7,1-13)

 

La religiosità può ingannare l’ordine ideale; la vita di Fede lo promuove, facendo leva su una perfezione e purezza derivate dalla dimensione umana - del buon senso e dell’accorgersi.

È così che si migliora e si redime il mondo: unendosi con la Shekhinah del Padre; non arroccandosi in un fortino, come fossimo in una tana.

E l’avventura piena, oltre i confini, nello Spirito, ci fa sentire belli dentro, invece che malati da curare; anzi, capaci di dare spazio alla magia del Divino in noi stessi e nelle relazioni.

Senza mai sentirsi assediati, i ‘figli’ reagiscono spontaneamente agli accadimenti - con innumerevoli iniziative benefiche personalizzanti, estranee a qualsiasi abitudine, concatenazione, nomenclatura.

 

Sotto la dinastia degli Erode il senso del clan e della comunità si stavano sgretolando.

Causa problemi di sopravvivenza, le famiglie erano costrette a chiudersi in se stesse, allentare i legami, pensare a proprie necessità.

Tale chiusura era rafforzata dalla devozione dell’epoca sotto ogni aspetto. Ai vv.10-12 ne vediamo un esempio incredibile: chi dedicava la propria eredità al Tempio poteva lasciare i genitori privi d’aiuto!

Offesa e offerta: ingiustizia e comportamento normativo - strano legame, nell’apparente forma dall’accento esemplare.

 

L’osservanza delle norme di purità era fattore di ordinaria emarginazione per molte persone.

Proprio i miseri venivano considerati in specie ignoranti e maledetti, perché impossibilitati all’adempimento globale; di conseguenza manchevoli a ricevere la consolante benedizione promessa ad Abramo.

Uno stillicidio quotidiano che minava il significato profondo dell’esistere assieme.

In particolare, le abluzioni erano una sorta di rito durante il quale si celebrava un’appagante divaricazione tra sacro e profano - nel distacco da persone e situazioni considerate impure.

Stando fuori dalle supposte sozzure, mai nessuno dei malfermi poteva essere risollevato.

Quindi le norme non erano fonte di pace, bensì di schiavitù. Porgere una mano caritatevole sarebbe stato perfino sacrilego.

Insomma, si anteponevano inezie disumane alla stessa Legge, vanificandone lo spirito comprensivo [fraternità che avrebbe accentuato l’entusiasmo di esistere].

Calate in quel contesto, le persone abbracciavano solo percorsi che già conoscevano.

La donna e l’uomo smarrivano il senso del loro esistere poliedrico. E la vita senza i “contrari” affievoliva l’Esodo del popolo tutto.

 

«Bellamente annullate il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9).

Gesù non sopporta che il mondo chiuso della religiosità conformista venga piegato e usato per annientare i rapporti.

Per questo al controllo dei farisei si oppone la libertà dei discepoli (v.2), che rifiutano di obbedire a ciò che non ha senso per la vita concreta - dove passa l’amore visibile che alimenta l’amore ideale.

Il Maestro e Signore insegna che il vero culto è Vicinanza. In tal guisa, nel solco della Parola c’è una tappa e un intero ordine nuovo, che conquista all’interiorità tutti i nessi esterni.

Autentica ‘estasi’ è la ‘purezza dell’avvantaggiare tutti’ - non l’autocompiacimento del modello di perfezione.

 

 

[22.a Domenica T.O.  B  (Mc 7,1-8.14-15.21-23)  1 settembre 2024]

Ago 20, 2024

Tradizioni e Purezza

Pubblicato in il Mistero

Il tormento della purità

 

Mc 7,1-8.14-15.21-23 (1-30)

 

 

Quando non ci accettiamo così come siamo perché nell’opinione comune “non andiamo bene” e siamo imperfetti, rischiamo di trasformare l’insoddisfazione in assillo.

Ma oltre l’impudicizia rituale, e al di là persino delle oscillazioni nelle ideologie religiose, o del mal-fatto e dello sbagliato, se ciascuno sposta lo sguardo sull’unicità originalissima del proprio Compito nel mondo e sul Richiamo da irradiare (anche semplicemente di non essere degli spavaldi lontani e vanitosi, ma incolumi che accorrono), persino in un clima d’incertezza i tormenti andranno prima sullo sfondo, poi si trasfigureranno, dispiegando fiducia nella nostra Nascita.

 

La liturgia della Parola di questa domenica colloca nel modo più moderato e sapiente la crudezza dello scontro fra Gesù e i capi religiosi sul peso specifico delle tradizioni orali, le quali nella gente comune amplificano l’idea di una “perfezione” algida e separatista.

Così Gesù fa risaltare la sua nuova proposta di Fede, che si distacca dal senso religioso comune della sua stessa gente, affinché non si coniughi con l’interiorità malata di riti che celebrano distanze frigide dal mondo altrui (comicamente considerato corrotto).

La polemica fra Trasmissione della Parola (unica autentica «Traditio») e costumanze orali o “culturali” acquisisce nel complesso dei brani sacri un contesto profondamente costruttivo per il nostro cammino spirituale.

L’esordio della prima lettura raccomanda Ascolto; poi di non aggiungere né togliere; quindi che la saggezza è nella pratica. Dio è Vicino.

Nella seconda: il Dono «scende» perché diventiamo Primizia; inoltre «accogliere» (non “obbedire”!); alfine il Dono s’impone se non ci si lascia contaminare dal «mondo».

Quest’ultimo termine (nei Vangeli, in specie Gv) è identificabile con la parvenza devota dell’ufficialità.

Una struttura di peccato caratterizzata nel suo nucleo dalla simbiosi tra potere, religione e commercio confessante.

Ancorata a un’opinione di Dio congegnata ad immagine e somiglianza della casta che lo ha sequestrato in luoghi separati e costumanze tribali.

Singolare infatti che Gesù (vv. 21-22) raccomandi un’adesione umanizzante.

Egli non denuncia alcun atteggiamento contrario alla Religione, proprio perché considera l’autocelebrazione delle strettoie inventate da guide spirituali - esplicitamente - una sorta di commedia da teatranti.

La disgiunzione dalla sobrietà della Parola di Dio cela una perversa inimicizia verso la realtà e le persone così come sono.

Malattia sacrale da cui i suoi stessi responsabili di comunità (che si leggono in filigrana quali destinatari dell’insegnamento) possono venire contratti.

Purtroppo, con la medesima frequenza degli attori della santità arcaica.

Infatti, per edificare Comunione con Dio non basta esserne ammiratori. Né ci soddisfa il quietismo del libretto d’istruzioni.

Le procedure (sembra) non ci lasciano disgiunti - solo perché tranquillizzano.

Le consuetudini raccordano l’emotività individuale all’abitudine di tanti (sicurezza apparente della “lunga catena”).

Nelle religioni puriste la precarietà del Cammino personale è aborrita, e l’assopirsi nei meccanismi abitudinari quasi un valore.

Sulla Via della Fede in Cristo e a un certo punto del cammino personale, proprio il confine poco stimato della creaturalità diviene sano spirito d’insoddisfazione - e quella molla che non ci lascia più certi o appagati; imbrigliati nei traguardi.

Giuseppe Cottolengo, Teresa di Calcutta, e i santi che lasciano il segno hanno corrisposto alla personale Chiamata facendo spazio a molteplici sfaccettature dell’anima; tradendo in modo palpabile l’adattamento “sociale” vigente.

Il Cielo non è geloso delle sue prerogative, né invidioso del nostro progresso.

La partenza? Non le costumanze, ma le nostre personali, irripetibili Radici d’essenza.

Le Radici sono nascoste, desiderose di comprensione e valorizzazione; inquiete, tanto da costringerci a esplorare ancora.

Nemico d’una riverenza-paravento, il Signore non si accontenta di becchime ovvio, fragrante solo di compromessi.

Ai suoi non propone d’identificarsi con un modello esterno, che viene inculcato attraverso segni, gesti, formule, immagini tipiche o ruoli consolidati.

Il conformismo del paradigma bigotto e talare rischia di offuscare il motivo per cui siamo.

Il Maestro chiede occhio interiore. Perché anche nei nostri impedimenti radicali, o nel fastidio per la ripetizione e nello stufo dei meccanismi devoti più affermati (un tempo considerato segno di “accidia”) scoviamo segnali misteriosi quanto essenziali.

Dignità e promozione: nell’insegnamento del Maestro autentico il discepolo può permettersi il lusso di seguire la via dello Spirito nel modo più inedito, meno grigio; senza lasciarsi rattrappire da rubriche o conformismi rassicuranti.

A tempo opportuno anche ciò che si considera incompletezza d’un carattere contratto e squilibrato (solo perché desidera vagliare il peso specifico di costumanze che non comprende) può scendere in campo quale risorsa che farà quanto deve.

Divari ed eccentricità ci appartengono, così come la Ricerca per tentativi ed errori: non una colpa, ma una condizione. Ciò sebbene nell’epoca passata non poche “guide” li avrebbero bollati e ridicolizzati al pari d’inquietudini dissacranti, disarmonie o sacrilegio.

Nei nostri punti vulnerabili vediamo noi stessi, scorgiamo in germe persino la Persona completa che saremo (umanizzazione a tutto campo, prima di Gesù impensabile).

Nell’Esodo personale, trovarsi a violare l’ottemperanza “regolare”, scoprirsi a contestare l’abitudine dei “personaggi” o a tradire un ruolo comunemente riconosciuto, in Cristo diventa occasione d’oro per accendere più intense vibrazioni.

Non solo per conoscersi meglio dentro, ma per adempiere la propria irripetibile Realizzazione, non aggranchita dal timore del castigo (anche sociale).

Sebbene possa creare sconcerto nelle anime schizzinose, quel trasmigrare dalla religiosità naturale alla Fede significa passare dalle spiritualizzazioni che innalzano (ma che nel distacco imbarbariscono) all’umanizzazione che avvicina.

Impariamo dunque a non provare sgomento per il fatto che non siamo religiosamente “riusciti”!

 

 

 

Purezza dell’avvantaggiare, non del modello di perfezione

 

Tradizioni o idee ipocrite, e ordine ideale

(Mc 7,1-13)

 

«Non è troppo piccolo il cuore del credente per Colui al quale non bastò il tempio di Salomone. Noi infatti siamo il tempio del Dio vivo. Come è scritto: “Abiterò in mezzo a loro”.

Se un personaggio importante ti dicesse: “Verrò ad abitare da te”, che cosa faresti? Se la tua casa è piccola, non c’è dubbio che rimarresti sconcertato, ti spaventeresti, preferiresti che la cosa non avvenisse. Ma tu non temere la venuta di Dio, non temere il desiderio del tuo Dio. Non ti riduce lo spazio, quando viene. Al contrario, venendo sarà lui a dilatarti» (S. Agostino, Discorso 23,7).

 

La religiosità può ingannare l’ordine ideale; la vita di Fede lo promuove, facendo leva su una perfezione e purezza derivate semplicemente dalla dimensione umana - del buon senso e dell’accorgersi.

È così che si migliora e si redime il mondo: unendosi con la Shekhinah del Padre; non arroccandosi in un fortino, come fossimo in una tana.

E l’avventura piena, oltre i confini, nello Spirito, ci fa sentire belli dentro, invece che malati da curare; anzi, capaci di dare spazio alla magia del Divino in noi stessi e nelle relazioni.

Senza mai sentirsi assediati, i figli reagiscono spontaneamente agli accadimenti - con innumerevoli iniziative benefiche personalizzanti, estranee a qualsiasi abitudine, concatenazione, nomenclatura.

 

Sotto la dinastia degli Erode il senso del clan e della comunità si stavano sgretolando.

Pur sentendo il costante richiamo del Tempio, a motivo delle necessità impellenti non si era più aperti alla comunione.

Troppe le tasse da pagare, sia al governo che alla Casa di Dio.

Così i debiti aumentavano, accentuando problemi di sopravvivenza e sfilacciando la fraternità di parentela e la solidarietà di stirpe.

Le famiglie erano costrette a chiudersi in se stesse, allentare i legami, diradare la partecipazione alle riunioni e pensare alle proprie necessità.

Tale chiusura era rafforzata dalla devozione dell’epoca sotto ogni aspetto, e qui (vv.9-13) ne vediamo un esempio incredibile: chi dedicava la propria eredità al Tempio poteva lasciare i propri genitori privi d’aiuto!

Foto di un credo che rinnegava il comandamento di Dio in nome di Dio: korbàn [offerta fatta a Dio] senza pietà.

Spietatezza rituale priva di qualsiasi barlume di cordialità - però religiosamente connesse.

Offesa e offerta: ingiustizia e comportamento normativo.

Strano legame reciproco, tra due bussole poco affini - nell’apparente forma dall’accento esemplare, devoto, perbenista, longanime, confidente e pio.

«Bellamente annullate il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9).

 

L’osservanza delle norme di purità era fattore di ordinaria emarginazione per molte persone: donne, bambini, malati, stranieri, poveri.

Era la situazione reale più sgradevole per la (vera) sacralità della vita, per il suo incanto - sottoposto a una specie di scuola dell’obbligo, tutta distante dai malfermi.

Proprio i miseri venivano considerati in specie ignoranti e maledetti, perché impossibilitati all’adempimento globale. Di conseguenza, manchevoli a ricevere la consolante benedizione promessa ad Abramo.

Uno stillicidio quotidiano che minava il significato profondo dell’esistere assieme.

In particolare, le abluzioni erano una sorta di rito durante il quale si celebrava un’appagante divaricazione tra sacro e profano - la Santità - nel distacco da persone e situazioni considerate impure.

Stando fuori dalle supposte sozzure, mai nessuno poteva essere risollevato.

Quindi le norme non erano fonte di pace, bensì di schiavitù: come sopra accennato, coloro che non potevano osservarle venivano considerati ignobili, non-persone.

Porgere una mano caritatevole sarebbe stato perfino sacrilego. 

Insomma, si anteponevano inezie disumane alla stessa Legge, vanificandone lo spirito comprensivo [fraternità che avrebbe accentuato l’entusiasmo di esistere].

Poi, sia i limiti stretti che le posizioni estreme portavano all’incoerenza di chi svuotava il contenuto della Parola e impediva di attivare un percorso diverso per raggiungere l’autenticità della purezza.

“Perfezione” doveva essere: immersione nel dialogo, invece che quel precipitare in una ideologia eticista esterna. E in tal guisa lasciarsi sprofondare da lacciuoli sacrali che accentuassero stati esclusivi, di autocompiacimento, esaltazione - o assuefazione.

Calati in quel contesto sterilizzato e umiliante ogni iniziativa, l’identificazione prevaleva su qualsivoglia vocazione o destino missionario.

Ingannate e ingabbiate da cappe unidirezionali, le persone abbracciavano solo percorsi che già conoscevano.

La donna e l’uomo smarrivano il senso del loro esistere poliedrico. E la vita senza i “contrari” affievoliva l’Esodo del popolo tutto.

 

Gesù non sopportava che il mondo chiuso della religiosità potesse esser piegato e usato per controllare, dividere e discriminare - annientare il cammino e i rapporti.

I soddisfatti in tal senso diventavano fonte di mediocrità, ovunque - mentre come anche noi sappiamo, la Gioia è frutto di Liberazione; non di percorsi unilaterali.

Il senso di completezza è legato alla valorizzazione delle differenze. Ciò riguarda sia le vicende personali che sociali.

Lo sappiamo infallibilmente, per sapienza di Natura.

Dice infatti il Tao Tê Ching (LXXXI): «La Via del Cielo è di avvantaggiare, e di non danneggiare».

 

Dappertutto incontriamo i nostri allarmi personali, o crucci materiali; mille occupazioni che distraggono. Anche progetti per la qualità delle relazioni - forse ancora mescolate con l’imparaticcio di usi venerandi o  la page [espedienti senza correlazione] che ci debilitano.

Per questo, al controllo dei farisei si oppone la libertà dei discepoli (v.2), che rifiutano di obbedire a ciò che non ha senso per la vita reale - dove passa l’amore visibile che alimenta l’amore ideale.

Gesù insegna che il vero culto è vicinanza e autenticità pratica, non osservanza letterale ai modelli o alle dottrine cerebrali.

Nel solco della Parola c’è una tappa e un intero ordine nuovo, che conquista all’interiorità tutti i nessi esterni.

Egli collega rito e azione, fede e amore, prescrizione consuetudinaria e obbligo intimo.

Unico comando in grado di purificare e farci immagine e somiglianza di Persona che sa incontrare il suo opposto, secondo l’unità in Spirito del culto.

Quando accogliamo l’appello dei Vangeli riconoscendolo quale stimolo che corrisponde e costruisce convivialità delle differenze, ci sentiamo meno duri e orgogliosi.

Se viceversa restiamo distanti, andremo in chiesa inciampando con le tradizioni o con idee nuove pur grandi, ma senza rapportarci col disegno di salvezza del Padre.

L’Eterno non vuole scippare le nostre capacità, ma spalancare al bene e all’autentica estasi.

Purezza dell’avvantaggiare - non del modello di perfezione.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Qual è il senso della purezza insegnata da Gesù?

La tua fede è vicina o lontana dalla vita?

 

 

Ed ecco il problema

 

Ed ecco il problema: quando il popolo si stabilisce nella terra, ed è depositario della Legge, è tentato di riporre la sua sicurezza e la sua gioia in qualcosa che non è più la Parola del Signore: nei beni, nel potere, in altre ‘divinità’ che in realtà sono vane, sono idoli. Certo, la Legge di Dio rimane, ma non è più la cosa più importante, la regola della vita; diventa piuttosto un rivestimento, una copertura, mentre la vita segue altre strade, altre regole, interessi spesso egoistici individuali e di gruppo. E così la religione smarrisce il suo senso autentico che è vivere in ascolto di Dio per fare la sua volontà - che è la verità del nostro essere - e così vivere bene, nella vera libertà, e si riduce a pratica di usanze secondarie, che soddisfano piuttosto il bisogno umano di sentirsi a posto con Dio. Ed è questo un grave rischio di ogni religione, che Gesù ha riscontrato nel suo tempo, ma che si può verificare, purtroppo, anche nella cristianità. Perciò le parole di Gesù nel Vangelo di oggi contro gli scribi e i farisei devono far pensare anche noi.

[Papa Benedetto, Angelus 2 settembre 2012]

 

 

Due carte d’identità

 

Per conoscere la nostra vera identità non possiamo essere «cristiani seduti» ma dobbiamo avere il «coraggio di metterci sempre in cammino per cercare il volto del Signore», perché noi siamo «immagine di Dio». Nella messa celebrata a Santa Marta martedì 10 febbraio, Papa Francesco, commentando la prima lettura liturgica — il racconto della creazione nel libro della Genesi (1, 20 - 2, 4) — ha riflettuto su una domanda essenziale per ogni persona: «Chi sono io?».

La nostra «carta d’identità», ha detto il Papa, si ritrova nel fatto che gli uomini sono stati creati «all’immagine, secondo la somiglianza di Dio». Ma allora, ha aggiunto, «la domanda che noi possiamo farci è: Come conosco, io, l’immagine di Dio? Come so com’è lui per sapere come sono io? Dove trovo l’immagine di Dio?». La risposta si trova «certamente non sul computer, non nelle enciclopedie, non nei libri», perché «non c’è un catalogo dove c’è l’immagine di Dio». C’è solo un modo «per trovare l’immagine di Dio, che è la mia identità» ed è quello di mettersi in cammino: «Se non ci mettiamo in cammino, mai potremo conoscere il volto di Dio».

Questo desiderio di conoscenza si ritrova anche nell’Antico testamento. I salmisti, ha fatto notare Francesco, «tante volte dicono: io voglio conoscere il tuo volto»; e «anche Mosè una volta l’ha detto al Signore». Ma in realtà «non è facile, perché mettersi in cammino significa lasciare tante sicurezze, tante opinioni di come è l’immagine di Dio, e cercarlo». Significa, in altri termini, «lasciare che Dio, la vita, ci metta alla prova», significa «rischiare», perché «soltanto così si può arrivare a conoscere il volto di Dio, l’immagine di Dio: mettendosi in cammino».

Il Papa ha attinto ancora all’Antico testamento per ricordare che «così ha fatto il popolo di Dio, così hanno fatto i profeti». Per esempio «il grande Elia: dopo aver vinto e purificato la fede di Israele, lui sente la minaccia di quella regina e ha paura e non sa cosa fare. Si mette in cammino. E a un certo punto, preferisce morire». Ma Dio «lo chiama, gli dà da mangiare, da bere e dice: continua a camminare». Così Elia «arriva al monte e lì trova Dio». Il suo è stato dunque «un lungo cammino, un cammino penoso, un cammino difficile», ma ci insegna che «chi non si mette in cammino, mai conoscerà l’immagine di Dio, mai troverà il volto di Dio». È una lezione per tutti noi: «i cristiani seduti, i cristiani quieti — ha affermato il Pontefice — non conosceranno il volto di Dio». Hanno la presunzione di dire: «Dio è così, così...», ma in realtà «non lo conoscono».

Per camminare, invece, «è necessaria quella inquietudine che lo stesso Dio ha messo nel nostro cuore e che ti porta avanti a cercarlo». La stessa cosa, ha spiegato il Pontefice, è successa «a Giobbe che, con la sua prova, ha incominciato a pensare: ma come è Dio, che permette questo a me?». Anche i suoi amici «dopo un grande silenzio di giorni, hanno incominciato a parlare, a discutere con lui». Ma tutto ciò non è stato utile: «con questi argomenti, Giobbe non ha conosciuto Dio». Invece «quando lui si è lasciato interpellare dal Signore nella prova, ha incontrato Dio». E proprio da Giobbe si può ascoltare «quella parola che ci aiuterà tanto in questo cammino di ricerca della nostra identità: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto”». È questo il cuore della questione secondo Francesco: «l’incontro con Dio» che può avvenire «soltanto mettendosi in cammino».

Certo, ha continuato, «Giobbe si è messo in cammino con una maledizione», addirittura «ha avuto il coraggio di maledire la vita e la sua storia: “Maledetto il giorno che sono nato...”». In effetti, ha riflettuto il Papa, «a volte, nel cammino della vita, non troviamo un senso alle cose». La stessa esperienza è stata vissuta dal profeta Geremia, il quale «dopo essere stato sedotto dal Signore, sente quella maledizione: “Ma perché a me?”». Egli voleva «restarsene seduto tranquillo» e invece «il Signore voleva fargli vedere il suo volto».

Questo vale per ognuno di noi: «per conoscere la nostra identità, conoscere l’immagine di Dio, bisogna mettersi in cammino», essere «inquieti, non quieti». Proprio questo «è cercare il volto di Dio».

Papa Francesco si è quindi riferito anche al passo del Vangelo di Marco (7, 1-13), nel quale «Gesù incontra gente che ha paura di mettersi in cammino» e che costruisce una sorta di «caricatura di Dio». Ma quella «è una falsa carta d’identità» perché, ha spiegato il Pontefice, «questi non-inquieti hanno fatto tacere l’inquietudine del cuore: dipingono Dio con i comandamenti» ma così facendo «si dimenticano di Dio» per osservare solo «la tradizione degli uomini». E «quando hanno un’insicurezza, inventano o fanno un altro comandamento». Gesù dice a scribi e farisei che accumulano comandamenti: «Così voi annullate la Parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi, e di cose simili ne fate molte». Proprio questa «è la falsa carta d’identità, quella che possiamo avere senza metterci in cammino, quieti, senza l’inquietudine del cuore».

In proposito il Papa ha messo in evidenza un particolare «curioso»: il Signore infatti «li loda ma li rimprovera dove c’è il punto più dolente. Li loda: “Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione”», ma poi «li rimprovera lì dove è il punto più forte dei comandamenti con il prossimo». Gesù ricorda infatti che Mosè disse: «Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre o la madre sia messo a morte». E prosegue: «Voi invece dite: se uno dichiara al padre o alla madre che “ciò con cui dovrei aiutarti, cioè darti da mangiare, darti da vestire, darti per comprare le medicine, è Korbàn, offerta a Dio”, non consentite loro di fare più nulla per il padre e la madre». Così facendo «si lavano le mani con il comandamento più tenero, più forte, l’unico che ha una promessa di benedizione». E così «sono tranquilli, sono quieti, non si mettono in cammino». Questa dunque «è l’immagine di Dio che loro hanno». In realtà il loro è un cammino «fra virgolette»: ossia «un cammino che non cammina, un cammino quieto. Rinnegano i genitori, ma compiono le leggi della tradizione che loro hanno fatto».

Concludendo la sua riflessione il vescovo di Roma ha riproposto il senso dei due testi liturgici come «due carte d’identità». La prima è «quella che tutti noi abbiamo, perché il Signore ci ha fatto così», ed è «quella che ci dice: mettiti in cammino e tu avrai conoscenza della tua identità, perché tu sei immagine di Dio, sei fatto a somiglianza di Dio. Mettiti in cammino e cerca Dio». L’altra invece ci rassicura: «No, stai tranquillo: compi tutti questi comandamenti e questo è Dio. Questo è il volto di Dio». Da qui l’auspicio che il Signore «dia a tutti la grazia del coraggio di metterci sempre in cammino, per cercare il volto del Signore, quel volto che un giorno vedremo ma che qui, sulla terra, dobbiamo cercare».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 11/02/2015]

 

 

L’origine del male non è in una causa esteriore

 

Purezza, impudicizie e santità travisate

(Mc 7,14-23)

 

La Chiesa ha conservato la fede nella bontà del creato; non vede di malocchio la natura, la società, e l’opera concreta del Padre, come purtroppo si propugna in certe mentalità schizzinose (in chiave devota).

Neppure ritiene che per sentirsi salvi esistano strumenti o zone di rifugio che basterebbe usare, fruire o raggiungere, e rifrequentare. Il Signore è per una umanizzazione a tutto campo.

Nelle culture antiche la visione religiosa e mitica del mondo portava la gente ad apprezzare qualsiasi realtà partendo dalla categoria della santità come distacco e separatezza - persino inaccessibilità.

Le leggi sulla purezza indicavano le condizioni necessarie per mettersi davanti a Dio e sentirsi bene alla sua presenza - ma di fatto sempre sgomenti, perché (ovvio) non totalmente ottemperanti.

Non ci si poteva presentare nel punto in cui la persona era, o in qualsiasi occasione e modo - bensì secondo norme legate al cibo, al contatto, al vestito, ai tempi raccomandati di preghiera; così via.

 

Nel contesto della dominazione achemenide, per valorizzare l’identità, ricostruire il Tempio di Gerusalemme e mantenere la propria classe, i sacerdoti accentuarono le norme di purità e gli obblighi sacrificali, manipolando più volte il senso, i contesti, e le postille della Scrittura.

Ovviamente, parte consistente delle offerte così gonfiate rimanevano al ceto che si occupava dei riti.

Tutto ciò, a spese d’una concezione appiattita sullo stile cultuale propiziatorio e (supposto) taumaturgico, il quale investiva ogni aspetto della vita ordinaria della gente.

Moltitudine resa schiava dalla visione imposta - in sé infantile - algida forse, ma paludosa e irritante.

 

All’epoca di Mc alcuni giudei convertiti ritenevano di poter abbandonare gli antichi costumi e avvicinarsi ai pagani; altri erano di opinione opposta: sarebbe stato come rigettare parti consistenti della Torah [es: Lv 11-16 e 17ss].

Infatti Mc sottolinea che il problema è «in Casa» (v.17 testo greco: dentro casa) ossia nella Chiesa e fra i suoi intimi [la traduzione CEI recita in “una” casa].

Un posto dove paradossalmente ancora non si capisce il Maestro [!] venuto per liberarci dalle ossessioni inventate e artificiose.

Cristo deve insistere nel suo insegnamento, ora non rivolto a degli estranei, ma proprio agli habitué, incapaci - al contrario delle folle - di «comprendere» (v.14) perfino i rudimenti delle cose spirituali.

Per educare i testardi ancora «privi d’intelletto» (v.18) che si ritengono maestri, non si dirige in una dimora qualsiasi, ma esattamente nel posto dove purtroppo si coltivano aspettative talora ben lontane dal popolo (vv.14.17).

L’evangelista rigetta la distinzione tra la sfera religiosa della vita e un assetto quotidiano “contaminato”; fonte di corruzione. Ma normale,  spicciolo, sommario - per questo valutato distante dal “divino”.

Quintessenza che viceversa non intende soggiogare nessuno.

 

Le prescrizioni restano insufficienti a darci accesso a Dio: esse non sono che simboli, traiettorie, e immagini.

La presenza attiva di un Ordine nuovo abolisce le prescrizioni legali, e sposta il centro della moralità dei nostri atti.

Qui si richiama l’insegnamento di Gesù: l’impurità non viene dall’esterno [ossia da fuori a dentro].

Non è quella la minaccia per la vita della donna, dell’uomo, e della comunità, secondo il disegno senza trucchi di Dio.

Le realtà del mondo non sono mai scellerate e inadatte - neanche al culto.

Diventano obbrobrio solo passando attraverso decisioni queste sì sacrileghe, perché bloccano la vita. E distacchi che imbarbariscono.

 

La canonicità del bigotto e talare non c’entra nulla con la divinizzazione, la quale viceversa fa rima con ciò che è concretamente umanizzante.

Il dibattito sul puro e impuro non va collocato sul piano delle cose [ad es. dei cibi che vanno fino allo stomaco] bensì del comportamento, che parte e va fino al cuore. Luogo non sempre sereno e ben “ordinato”.

Non vi sono apriorismi sacri: non basta che un luogo, una casa, degli oggetti, una persona... siano stati legittimati da cerimonie o addirittura scambi, perché diventino intoccabili, onesti ed eminenti.

 

In tal guisa, non vi è sacro e profano in sé.

Mistero e Beatitudine vengono al mondo esclusivamente attraverso il canale del dialogo e dell’incontro nel rispetto dell’intelligenza, dell’anima personale, e delle culture difformi. Non percorrendo entità di meriti, né strettoie travisate.

 

La santificazione è legata alla condotta. E nei casi di coerenza, persino all’insuccesso, all’angoscia, alle frustrazioni, che derivano da scelte di campo impegnative.

Sono decisioni le quali mettono a repentaglio, e talora ci ridicolizzano nel paragone con il costume delle autenticazioni obbligate - ove talora sembra che sia necessario eludere la vita. O non sei “nessuno”.

Qui il legalismo formale purtroppo uccide qualsivoglia dilatarsi delle risorse e degli ideali.

Insomma, impuro è ciò che avvelena l'esistenza e la realizzazione spontanea delle persone, le loro relazioni, e la creazione stessa.

 

Eppure sono le imperfezioni a renderci nuovi, eccezionali, unici!

 

Gesù apre una nuova Via per far avvicinare tutti noi malfermi a Dio, agli altri persino lontani, e a se stessi - senza esclusioni puritane.

Quando ad es. non ci accettiamo così come siamo - dentro, o in campo, non accogliendo il diverso e l’opposto - perché nell’opinione comune “non va bene”, rischiamo di trasformare l’insoddisfazione in un clima d’intimo assillo.

Perfino il religioso senso d’impurezza ci porterà dall’agitazione al disastro.

Ma fuori dall’impegno per l’amicizia con noi stessi, con le cose create, e lo spirito di fraternità, di convivialità dei contrari, la paura di contaminarsi è infondata.

Anzi, siamo chiamati a voler bene ai limiti: sono il terreno anche scomposto e impudico di energie preparatorie della reale fioritura.

Sono impulsi e segni primordiali del nostro compito nel mondo secondo la Novità di Dio.

Ogni Esodo valorizza le alternative.

E troviamo la realizzazione, il senso della vita, nonché via via maggiore completezza, incontrando appunto i nostri lati opposti.

 

Chiunque intimorisce il fratello “inadeguato” minaccia la vita del cosmo e rende sfiduciate proprio le persone più sensibili e attente.

Gesù libera la folla dei senza voce, degli smarriti, dall’ossessione di apprensioni e timori, dallo stare sempre sulla difensiva.

Non siamo chiamati a fissarci in una direzione. Ce ne sono altre.

Impariamo dunque a non provare sgomento per il fatto che non siamo religiosamente “riusciti” - bensì Primizia!

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa ritieni ti renda presentabile in società? In che senso sei impeccabile - perché imbellettato e conforme all’opinione?

Essere “figlio” e “primizia” ti fa stare sulla difensiva o restituisce voglia di vivere in pienezza?

 

 

Conclusione:

Briciole eucaristiche

 

Figli, cagnolini, demoni e libera circolazione

(Mc 7,24-30)

 

Gesù scopriva la volontà del Padre negli eventi della vita. Lo stesso per la crescita di consapevolezza delle prime comunità, le quali si sono trascinate pregiudizi non da poco, almeno sino alla terza generazione di credenti (compresa) - come testimoniato dai Sinottici.

La legge religiosa impediva di occuparsi di persone straniere e di altra etnia, frontiere o cultura. All’inizio, Gesù [ovvero: Lui nelle prime comunità, suo Corpo mistico] sembra non volersene curare (v.27).

Ma dopo aver aiutato le folle e i suoi ad emanciparsi dalla prigione delle norme di purità (vv.14-23) Cristo esce dai modi conformisti di sperimentare Dio.

Egli fa esodo persino da territori nazionali e di razza che allora sequestravano le linfe vitali - così sorvolando i preconcetti sacri.

 

Le singolari iniziative del Figlio nascono sulla base dell’esperienza tutta personale del divino, di un Padre munifico nell’elargire senza condizioni.

Provvidente e disuguale dal Dio taccagno delle religioni: quest’ultimo discordante dalle creature, estraneo, e (incomprensibilmente) abitudinario.

Il Signore stesso ci aiuta nella sua vicenda a sperimentare il trascendente nella vita anche sommaria. Così, a uscire dai modi dottrinali artificiosi che mettono l’esistenza in gabbia [territorio, costumi, ideologia, appartenenze di vario genere - anche “interne”].

Con una trovata inconsueta, il giovane Rabbi cerca di aprire la mentalità giudaizzante, superando le frontiere.

L’intento è quello di farci sviluppare la sua stessa Fede. Essa che promuoveva l’esistere variegato, e al di fuori della miopia tradizionale poteva così riscontrare adesioni sbalorditive.

Nessuno steccato a confine, nessun ostacolo... riescono a contenere la nostra voglia di vivere: vogliamo alimentarci non dell’orgoglio (o di resistenze) ma dell’amore a rischio, non svilito - ed esprimerci completamente.

Persino il dialogo con una donna non del suo popolo era una “pensata” aliena dalla mentalità delle folle dell’epoca - estranea perfino alle concezioni delle prime due generazioni di credenti, sotto questo aspetto ancora ingessate e frammiste d’idoli.

Ma c’era tutto un popolo di sconosciuti [la «donna» meticcia e la sua discendenza spirituale] che sentiva di non avere futuro. E ciò interpellava i tanti apriorismi del tempo.

Insomma, anche la chiesa di Mc non aveva colto appieno il significato del «pane dei figli» - tutto a disposizione affinché venisse “riconosciuto”.

 

A motivo di ataviche rivalità, i popoli antichi erano soliti chiamare gli stranieri con l’appellativo sprezzante di «cane», sinonimo d’impudenza, meschinità e ignobile bassezza.

Erano diffuse titubanze del senso della fraternità umana - da visione primitiva [e non solo, nell’era dell’accesso].

La frase durissima del Signore (v.27) riflette un paragone proveniente dalle zone povere e dalla vita in famiglia, dove un tempo abbondavano animali domestici e gioventù.

Vi era pur differenza tra bambini generati dall’ascolto della Parola di Dio e coloro che si regolavano “a fiuto”.

Ma sebbene nessuno negasse il sostentamento ai «figli» per darlo ai «cani» attorno - questi ultimi avevano almeno il diritto delle briciole cadute sul terreno.

In effetti, il testo parla di «piccoli cani» [kynaría-kynaríois] come animali domestici amati dai giovanissimi e che durante i pasti facilmente davano loro da mangiare gli avanzi.

In certo senso, appartenevano alla “casa”.

 

Per i diversi e lontani - anche malconsiderati - non è un problema ricorrere a Gesù in modo istintivo; anzi, si accontenterebbero dei frantumi.

In base a ciò, nella comunità dei figli non dovrebbe mancare il nutrimento del corpo e l’alimento sapienziale per chiunque (Mc 6,42-44).

Tuttavia i veterani che si ritenevano famigliari di spettanza e accampavano diritti anagrafici, tenevano il broncio e nelle assemblee pretendevano non consentire a tutti di partecipare alla comunione, ai granelli eucaristici, ai doni del Regno di festa.

Ma grazie all’appello dei Vangeli [ben diversi dagli esagerati proclami “evangelici” imperiali o delle legioni] il dominio dei demoni (v.29) - così vivo in tutte le varie forme di religiosità al tempo in Roma - volgeva al termine.

Secondo Mc non dovrebbe esistere ossessione, catena o preconcetto che possa toglierci orientamenti di progresso ed energie, affinché con estrema libertà siamo messi in grado di adoperarci e aprirsi nei confronti dei bisogni altrui, anche pagani (Mc 6,45a).

 

Dunque nelle fraternità romane sorge un dibattito circa le condizioni di appartenenza comunitaria.

Qual è la posizione dei convertiti dal paganesimo? Hanno diritto di partecipare allo spezzare del Pane senza previa trafila dottrina-disciplina? C’è o no frattura con la tradizione osservante?

Mc ribadisce che non abbiamo prelazione alcuna: principio di salvezza universale è l’attitudine di Fede; non un diritto.

La comunità dei battezzati non è autorizzata a vivere di rendita. Il Vangelo è aperto, supera la biblica priorità del popolo eletto.

La ragione di ogni eventuale eccezione è l’amore sensibile, che ha la libertà di cedere, che diviene unico principio di appartenenza.

 

Condizione di adesione al nuovo popolo di Dio è la Fede nel cuore e non nel sangue o nella testa, né nella disciplina che allontana da noi stessi, da Dio e dagli altri.

Fede: principio nuovo, che sgretola ogni illusione di esclusività.

 

Col Padre, nel Figlio, non si tratta più di mortificarsi, dipendere, sforzarsi e lottare, per poter stare uno di fronte all’altro.

La purità legale è insufficiente (vv.1-23), anzi ora è la persona anche dalle origini sconcertanti - prima un’estranea - che esce “vittoriosa” dal botta e risposta con il Signore.

L’Affidamento sponsale è apprezzabile ovunque, da parte di chiunque: Eros fondante che zampilla da ogni anima, e non è legato a repertori. Supera qualsiasi particolarismo.

Certo, ha i suoi criteri - però essenziali: trasparenza, freschezza, tensione all’unità, superamento delle condizioni e dei tabù; valore della persona; empatia segreta di energie.

 

Il passo di Vangelo traccia un intero cammino di adesione a Cristo.

I lontani possono accostarsi e addirittura partire dall’idea popolare - sconveniente - che Gesù sia il «Figlio di Davide» atteso [cf. parallelo Mt 15,22]: comandante militare e sovrano che avrebbe dovuto prendere il potere, assoggettare le nazioni, assicurare l’età dell’oro, adempiere egli stesso le prescrizioni di Legge come fosse un Modello, e imporne a tutti l’osservanza.

Il punto di partenza del cammino può essere un misero barlume, un inizio che forse non promette granché. Infatti nel caso specifico risulta decisamente confusionario: il Maestro non risponde (Mt 15,23).

Il titolo a Lui affibbiato non ha nulla a che vedere con Dio, né riguarda l’autentico Primogenito. Egli non è Messia potente - immagine predatoria, omologata - bensì servitore.

Non ha alcun senso neppure chiedergli «Pietà» (Mt 15,22)! Anzi - diciamola tutta - malgrado le superficiali abitudini rituali che abbiamo, qui Cristo sembra proprio adirato (v.23).

Non è questo il rapporto sano col Signore: Egli non mette in castigo e non gode di sentirsi implorato dai bisognosi.

Piuttosto educa come fa un amico, fratello o genitore; e non concede grazie a lotteria, né miracoli a simpatia e protezione, o favori a territorio - come gli dèi pagani.

Quell’immagine è totalmente deviante, ma è una figura fasulla che vien fuori proprio dagli “interni” (Mt 15,23-24), i quali sul tema non avrebbero nulla da eccepire [cf. ancora v.23].

Anzi, la loro stessa catechesi ne è la scaturigine: il titolo «figlio di Davide» suona strano, sulla bocca di una pagana.

 

Ancora oggi questa idea paternalista omologante - di colpa inculcata - tende ad allontanare chi cerca un compagno di strada amabile.

La priorità per “Israele” è riconosciuta da Gesù perché sono proprio i figli maggiori a doversi convertire a un nuovo Volto del primo Dio del Sinai - ancora valutato Legislatore e Giudice, invece che Creatore e Redentore della nostra intelligenza e libertà.

[Sebbene in modo bonario-infantile, purtroppo continuano a diffonderlo, quale notaio arcigno, sin dal pre-catechismo].

Gesù prende le distanze da chi accampa pretese e nel contempo devia le anime dei bisognosi che lo cercano.

Poi, in termini spirituali nessuno può millantare diritto a nulla: i Doni davvero sacri non derivano da nessun rapporto di elezione selettiva, e neppure clientelare [del tipo compravendita].

 

Dunque, per diventare intimi a Cristo... ci si può accontentare delle «briciole» eucaristiche - ossia “salvezza minima”?

Ci si può sentire appagati dai soli frantumi che cadono dalla tavola dei supponenti chiusi in piccoli schemi (Mc 7,27-28)?

Certo, perché è la Fede che salva (Mc 7,28-29a), non un grande gesto o una lunga consuetudine nelle discipline dell’arcano - né un codice di purità.

L’autentico Signore dice solo:

«Per questa Parola, va’» (v.29) - ossia procedi pure verso la gioia di una vita piena, trasmissibile a una “prole” non destinata a tormenti o morte prematura.

E senza più sul groppone il giudizio altrui, quello con solite tare ingannevoli, d’inadeguatezza.

Grazie a Lui non siamo introdotti in una pratica religiosa sommaria, ma in una Relazione che si cesella nel tempo (vv.25-30).

 

Come orientarsi?

Invece della stretta Legge, è il Vangelo che ci abilita in pieno.

Come fossimo «cagnolini» (vv.27-28) che cercano vita e alimento, procedendo istintivamente [a “fiuto”] per strade inesplorate. E che secondo carattere, inclinazione, Chiamata per Nome, fanno appello ad altre forze segrete.

Insomma, tutti gli uomini - sebbene ancora lontani da un’esplicita adesione di fede - sono abitati da questo sapere al contempo personale e primordiale, che orienta in modo immediato, e infallibile.

Così in semplicità faremo anche noi, per trovare la Via.

Infatti la Fede non ha nazionalità, ed è l’unico linguaggio-relazione-traiettoria validi per la comunicazione fra Dio e la donna e l’uomo.

La proposta è universale; valica i tempi, le frontiere denominazionali e persino religiose.

 

A commento del Tao Te Ching (LVIII), il maestro Wang Pi afferma:

«Chi ben governa non ha forma né nome, non dà inizio ad amministrazioni. Le varie categorie si dividono e si separano, per questo il popolo è frammentato».

Aggiunge il maestro Ho-shang Kung:

«Quando chi governa è liberale, il popolo è unito nella ricchezza e nella sazietà: gli uomini si amano e vanno d’accordo».

 

Oggi si tratta di condividere i minuzzoli e frammenti del “di più” da noi in occidente ereditato dalle passate generazioni.

Un “di più” molto istruttivo e agiato; elargito in modo sovrabbondante, eppure ricevuto senza “nulla di troppo” [ne quid nimis] né tanti meriti o azzardi (da “buoni cristiani...”).

E rispettando in tutto la nomenclatura dei reduci, di cordate e potenti - sempre poco inclini alla convivenza reale.

Cristo è invece vivanda sapienziale per una libera circolazione; non cibo impedito, da tener chiuso nei tabernacoli.

La sua virtù è compresa ormai solo fuori delle sagrestie - da discosti e remoti (vv.24-25) - dove persino un minuzzolo di Pane fa confidare e risorgere, nella condivisione.

Spezzare l’Eucaristia sorgente e culmine è proclamarla Dono da non trattenere né conservare intatto, bensì da esporre e distribuire senza previ moralismi.

Dividere quel Cibo è partecipare l'esistere in radice, ciò che abbiamo e siamo; metro di quel che annunciamo, crediamo e pratichiamo.

 

Purtroppo, non di rado gli estranei e difformi sono più affamati della vera Manna dal Cielo.

Saturi fino alla nausea - e forse ancora incapaci di comprenderne il senso - perché vivere il Nutrimento condiviso [forse con pochi riguardi al suo significato] come problema e paura?

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Se non è del “tuo popolo”, ti va almeno di parlarci - anche se veterani, clubs interni e regolari lo vietano?

Non pensi che il cammino sinodale sia una buona occasione per rivedere posizioni astratte?

Sai di qualche parrocchietta ecclesiale che non lascia possibilità agli esterni?

Conosci persone ferite dalle esclusioni? Tu cosa fai, silenzio-assenso?

Nella Liturgia della Parola di questa domenica emerge il tema della Legge di Dio, del suo comandamento: un elemento essenziale della religione ebraica e anche di quella cristiana, dove trova il suo pieno compimento nell’amore (cfr Rm 13,10). La Legge di Dio è la sua Parola che guida l’uomo nel cammino della vita, lo fa uscire dalla schiavitù dell’egoismo e lo introduce nella «terra» della vera libertà e della vita. Per questo nella Bibbia la Legge non è vista come un peso, una limitazione opprimente, ma come il dono più prezioso del Signore, la testimonianza del suo amore paterno, della sua volontà di stare vicino al suo popolo, di essere il suo Alleato e scrivere con esso una storia di amore. Così prega il pio israelita: «Nei tuoi decreti è la mia delizia, / non dimenticherò la tua parola. (…) Guidami sul sentiero dei tuoi comandi, / perché in essi è la mia felicità» (Sal 119,16.35). Nell’Antico Testamento, colui che a nome di Dio trasmette la Legge al popolo è Mosè. Egli, dopo il lungo cammino nel deserto, sulla soglia della terra promessa, così proclama: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi» (Dt 4,1).

Ed ecco il problema: quando il popolo si stabilisce nella terra, ed è depositario della Legge, è tentato di riporre la sua sicurezza e la sua gioia in qualcosa che non è più la Parola del Signore: nei beni, nel potere, in altre ‘divinità’ che in realtà sono vane, sono idoli. Certo, la Legge di Dio rimane, ma non è più la cosa più importante, la regola della vita; diventa piuttosto un rivestimento, una copertura, mentre la vita segue altre strade, altre regole, interessi spesso egoistici individuali e di gruppo. E così la religione smarrisce il suo senso autentico che è vivere in ascolto di Dio per fare la sua volontà - che è la verità del nostro essere - e così vivere bene, nella vera libertà, e si riduce a pratica di usanze secondarie, che soddisfano piuttosto il bisogno umano di sentirsi a posto con Dio. Ed è questo un grave rischio di ogni religione, che Gesù ha riscontrato nel suo tempo, ma che si può verificare, purtroppo, anche nella cristianità. Perciò le parole di Gesù nel Vangelo di oggi contro gli scribi e i farisei devono far pensare anche noi. Gesù fa proprie le parole del profeta Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7,6-7; cfr Is 29,13). E poi conclude: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7,8).

Anche l’apostolo Giacomo, nella sua Lettera, mette in guardia dal pericolo di una falsa religiosità. Egli scrive ai cristiani: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi» (Gc 1,22). La Vergine Maria, alla quale ora ci rivolgiamo in preghiera, ci aiuti ad ascoltare con cuore aperto e sincero la Parola di Dio, perché orienti i nostri pensieri, le nostre scelte e le nostre azioni, ogni giorno.

[Papa Benedetto, Angelus 2 settembre 2012]

Il primo e principale significato della penitenza è interiore, spirituale. Il principale sforzo della penitenza consiste “nell’entrare in se stesso”, nella propria entità più profonda, entrare in questa dimensione della propria umanità in cui, in un certo senso, ci attende Dio. L’uomo “esteriore” deve – direi – cedere, in ognuno di noi, all’uomo “interiore” e, in un certo senso, “lasciargli il posto”. Nella vita corrente l’uomo non vive abbastanza “interiormente”. Gesù Cristo indica chiaramente che anche gli atti di devozione e di penitenza (come digiuno, elemosina, preghiera) che per la loro finalità religiosa sono principalmente “interiori”, possono cedere all’“esteriorismo” corrente, e quindi possono essere falsificati. Invece la penitenza, come conversione a Dio, richiede soprattutto che l’uomo respinga le apparenze, sappia liberarsi dalla falsità e ritrovarsi in tutta la sua verità interiore. Anche uno sguardo rapido, sommario, nel divino fulgore è già un successo. Bisogna però abilmente consolidare questo successo mediante un lavoro sistematico su se stessi. Tale lavoro viene chiamato “ascesi” (così lo avevano già denominato i Greci dei tempi delle origini del cristianesimo). Ascesi vuol dire sforzo interiore per non lasciarsi rapire e spingere dalle diverse correnti “esteriori”, così da rimanere sempre se stessi e conservare la dignità della propria umanità.

Però il Signore Gesù ci chiama a far ancora qualcosa di più. Quando dice “entra nella tua camera e chiudi la porta”, indica uno sforzo ascetico dello spirito umano, che non deve terminare nell’uomo stesso. Quel chiudersi è, nello stesso tempo, la più profonda apertura del cuore umano. È indispensabile allo scopo di incontrarsi col Padre, e per questo deve essere intrapreso. “Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. Qui si tratta di riacquistare la semplicità del pensiero, della volontà e del cuore, che è indispensabile per incontrarsi nel proprio “io” interiore con Dio. E Dio attende ciò, per avvicinarsi all’uomo internamente raccolto e nel contempo aperto alla sua parola e al suo amore! Dio desidera comunicarsi all’anima così disposta. Desidera donarle la verità e l’amore, che hanno in lui la vera sorgente.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 28 febbraio 1979]

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The family in the modern world, as much as and perhaps more than any other institution, has been beset by the many profound and rapid changes that have affected society and culture. Many families are living this situation in fidelity to those values that constitute the foundation of the institution of the family. Others have become uncertain and bewildered over their role or even doubtful and almost unaware of the ultimate meaning and truth of conjugal and family life. Finally, there are others who are hindered by various situations of injustice in the realization of their fundamental rights [Familiaris Consortio n.1]
La famiglia nei tempi odierni è stata, come e forse più di altre istituzioni, investita dalle ampie, profonde e rapide trasformazioni della società e della cultura. Molte famiglie vivono questa situazione nella fedeltà a quei valori che costituiscono il fondamento dell'istituto familiare. Altre sono divenute incerte e smarrite di fronte ai loro compiti o, addirittura, dubbiose e quasi ignare del significato ultimo e della verità della vita coniugale e familiare. Altre, infine, sono impedite da svariate situazioni di ingiustizia nella realizzazione dei loro fondamentali diritti [Familiaris Consortio n.1]
"His" in a very literal sense: the One whom only the Son knows as Father, and by whom alone He is mutually known. We are now on the same ground, from which the prologue of the Gospel of John will later arise (Pope John Paul II)
“Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni (Papa Giovanni Paolo II)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
But what moves me even more strongly to proclaim the urgency of missionary evangelization is the fact that it is the primary service which the Church can render to every individual and to all humanity [Redemptoris Missio n.2]
Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità [Redemptoris Missio n.2]
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]

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