don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Mercoledì, 09 Ottobre 2024 05:03

Costante tensione

La pagina evangelica, proseguendo il messaggio di domenica scorsa, invita i cristiani a distaccarsi dai beni materiali in gran parte illusori, e a compiere fedelmente il proprio dovere con una costante tensione verso l'alto. Il credente resta desto e vigilante per essere pronto ad accogliere Gesù quando verrà nella sua gloria. Attraverso esempi tratti dalla vita quotidiana, il Signore esorta i suoi discepoli, cioè noi, a vivere in questa disposizione interiore, come quei servi della parabola che sono in attesa del ritorno del loro padrone. "Beati quei servi - Egli dice - che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli" (Lc 12, 37). Dobbiamo dunque vegliare, pregando e operando il bene.

Era ben consapevole di ciò la primitiva comunità cristiana che si considerava quaggiù "forestiera" e chiamava i suoi nuclei residenti nelle città "parrocchie", che significa appunto colonie di stranieri [in greco pàroikoi] (cfr 1Pt 2, 11). In questo modo i primi cristiani esprimevano la caratteristica più importante della Chiesa, che è appunto la tensione verso il cielo. L'odierna liturgia della Parola vuole pertanto invitarci a pensare "alla vita del mondo che verrà", come ripetiamo ogni volta che con il Credo facciamo la nostra professione di fede. Un invito a spendere la nostra esistenza in modo saggio e previdente, a considerare attentamente il nostro destino, e cioè quelle realtà che noi chiamiamo ultime: la morte, il giudizio finale, l'eternità, l'inferno e il paradiso. E proprio così noi assumiamo la responsabilità per il mondo e costruiamo un mondo migliore.

La Vergine Maria, che dal cielo veglia su di noi, ci aiuti a non dimenticare che qui, sulla terra, siamo solo di passaggio, e ci insegni a prepararci ad incontrare Gesù che "siede alla destra di Dio Padre Onnipotente: di là verrà a giudicare i vivi e i morti".

[Papa Benedetto, Angelus 12 agosto 2007]

Mercoledì, 09 Ottobre 2024 05:00

Riconoscere i segni

Resta con noi Signore risorto!

È questa anche la nostra quotidiana aspirazione.

Se tu rimani con noi,

il nostro cuore è in pace.

Accompagnaci, come hai fatto

con i discepoli di Emmaus, nel nostro cammino personale ed ecclesiale. Aprici gli occhi, affinché sappiamo riconoscere

i segni della tua ineffabile presenza.

Rendici docili all’ascolto del tuo Spirito.

Nutriti ogni giorno

del tuo Corpo e del tuo Sangue,

sapremo riconoscerti

e ti serviremo nei nostri fratelli.

[Giovanni Paolo II]

Mercoledì, 09 Ottobre 2024 04:52

Nostalgici del Cielo

Nell’odierna pagina evangelica (cfr Lc 12,32-48), Gesù richiama i suoi discepoli alla continua vigilanza. Perché? Per cogliere il passaggio di Dio nella propria vita, perché Dio continuamente passa nella vita. E indica le modalità per vivere bene questa vigilanza: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese» (v. 35). Questa è la modalità. Anzitutto «le vesti strette ai fianchi», un’immagine che richiama l’atteggiamento del pellegrino, pronto per mettersi in cammino. Si tratta di non mettere radici in comode e rassicuranti dimore, ma di abbandonarsi, di essere aperti con semplicità e fiducia al passaggio di Dio nella nostra vita, alla volontà di Dio, che ci guida verso la meta successiva. Il Signore sempre cammina con noi e tante volte ci accompagna per mano, per guidarci, perché non sbagliamo in questo cammino così difficile. Infatti, chi si fida di Dio sa bene che la vita di fede non è qualcosa di statico, ma è dinamica! La vita di fede è un percorso continuo, per dirigersi verso tappe sempre nuove, che il Signore stesso indica giorno dopo giorno. Perché Lui è il Signore delle sorprese, il Signore delle novità, ma delle vere novità.

E poi – la prima modalità era “le vesti strette ai fianchi” – poi ci è richiesto di mantenere «le lampade accese», per essere in grado di rischiarare il buio della notte. Siamo invitati, cioè, a vivere una fede autentica e matura, capace di illuminare le tante “notti” della vita. Lo sappiamo, tutti abbiamo avuto giorni che erano vere notti spirituali. La lampada della fede richiede di essere alimentata di continuo, con l’incontro cuore a cuore con Gesù nella preghiera e nell’ascolto della sua Parola. Riprendo una cosa che vi ho detto tante volte: portate sempre un piccolo Vangelo in tasca, nella borsa, per leggerlo. È un incontro con Gesù, con la Parola di Gesù. Questa lampada dell’incontro con Gesù nella preghiera e nella sua Parola ci è affidata per il bene di tutti: nessuno, dunque, può ritirarsi intimisticamente nella certezza della propria salvezza, disinteressandosi degli altri. È una fantasia credere che uno possa da solo illuminarsi dentro. No, è una fantasia. La fede vera apre il cuore al prossimo e sprona verso la comunione concreta con i fratelli, soprattutto con coloro che vivono nel bisogno.

E Gesù, per farci capire questo atteggiamento, racconta la parabola dei servitori che attendono il ritorno del padrone quando torna dalle nozze (vv. 36-40), presentando così un altro aspetto della vigilanza: essere pronti per l’incontro ultimo e definitivo col Signore. Ognuno di noi si incontrerà, si troverà in quel giorno dell’incontro. Ognuno di noi ha la propria data dell’incontro definitivo. Dice il Signore: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; … E, se giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!» (vv. 37-38). Con queste parole, il Signore ci ricorda che la vita è un cammino verso l’eternità; pertanto, siamo chiamati a far fruttificare tutti i talenti che abbiamo, senza mai dimenticare che «non abbiamo qui la città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (Eb 13,14). In questa prospettiva, ogni istante diventa prezioso, per cui bisogna vivere e agire su questa terra avendo la nostalgia del cielo: i piedi sulla terra, camminare sulla terra, lavorare sulla terra, fare il bene sulla terra, e il cuore nostalgico del cielo.

Noi non possiamo capire davvero in cosa consista questa gioia suprema, tuttavia Gesù ce lo fa intuire con la similitudine del padrone che trovando ancora svegli i servi al suo ritorno: «si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli» (v. 37). La gioia eterna del paradiso si manifesta così: la situazione si capovolgerà, e non saranno più i servi, cioè noi, a servire Dio, ma Dio stesso si metterà a nostro servizio. E questo lo fa Gesù fin da adesso: Gesù prega per noi, Gesù ci guarda e prega il Padre per noi, Gesù ci serve adesso, è il nostro servitore. E questa sarà la gioia definitiva. Il pensiero dell’incontro finale con il Padre, ricco di misericordia, ci riempie di speranza, e ci stimola all’impegno costante per la nostra santificazione e per costruire un mondo più giusto e fraterno.

La Vergine Maria, con la sua materna intercessione, sostenga questo nostro impegno.

[Papa Francesco, Angelus 11 agosto 2019]

Aprire i portoni blindati

(Lc 12,13-21)

 

«Certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti» [Fratelli Tutti n.18].

Basilio il Grande commentava: «Qui non si condanna chi rapina, ma chi non condivide il suo».

Il Dono di Dio è completo, ma ciascuno è bisognoso. Perché? Per accentuare il «fecondo interscambio» - direbbe Papa  Francesco.

E lo stiamo sperimentando: solo la voglia di ‘nascere nella reciprocità’ può combattere l’«impoverimento di tutti» e la stessa «sclerosi culturale» [cf. FT 133-138].

Ogni gesto di generosità cela la fioritura d’una energia vivificante innata, che fa scorrere l’anima e i capitali fuori delle mura compaginate e oltre i bordi di magazzino.

Pungolo che non ripiega le persone sulla convenienza. Impulso che viceversa sposterà la nostra immaginazione su ben altri orizzonti, credenze e desideri.

Insomma, fare comunione è questione di vita o morte, perché ricco e povero vivono o declinano insieme.

La crescita è dunque nel porgersi e accogliere.

 

Nell’insuperabile Omelia 6, il primo dei Padri cappadoci sottolineava che anche chi sovrabbonda di beni si tormenta sul da farsi, chiedendosi: «Che farò?».

«Si lamenta come i poveri. Non sono forse queste le parole di chi è oppresso dalla miseria? Che farò? [...] Che farò? La risposta era semplice: ‘Sazierò gli affamati, aprirò i granai e chiamerò tutti i poveri’ [...] Non alzare i prezzi. Non aspettare la carestia per aprire i granai [...] Non attendere che il popolo sia ridotto alla fame per accrescere il tuo oro, né la miseria generale per il tuo arricchimento. Non fare commercio sulle umane disgrazie [...] Non esacerbare le ferite inflitte dal flagello dell’avversità. Tu volgi lo sguardo al tuo oro e lo distogli dal tuo fratello, riconosci ogni moneta e sai distinguere quella falsa da quella vera, ma ignori completamente il fratello che si trova nel bisogno».

 

Il ricco della parabola sembra non avere braccianti o parenti, né una moglie, o figli e amici: li aveva, ma nella sua realtà ci sono - davvero - solamente lui e i beni.

«Imbecille!» - gli dice Dio (v.20).

La soluzione era semplicissima: aprire i cancelli, affinché l’alimento ammucchiato potesse traboccare per le necessità dei meno fortunati - invece di perdere tempo a sfasciare e ricostruire immobili.

Forse è morto d’infarto, ma era già defunto nell’anima.

L’imprenditore che scruta i bisogni altrui per tornaconto, perisce immediatamente dentro e fuori; subisce agitazione, insonnia, tormento, per lo stress del gestire quei miraggi esteriori.

Son questi sogni strampalati che poi tolgono respiro e diventano incubi senza svolta, dissipando le migliori energie.

Ecco la soglia dei nuovi Tesori che viceversa possono emergere: fidarsi della vita, delle nuove strade, delle azioni che non bloccano lo sviluppo di tutti, né minacciano il senso di fraternità.

Tralasciando l’accaparramento, potremo cedere all’Esodo liberante.

 

Primo passo lungo la Via della nostra piena Felicità: investire i tanti beni che ancora abbiamo per creare Incontro e Relazione.

Questione di vita o morte (v.20).

 

 

[Lunedì 29.a sett. T.O.  21 Ottobre 2024]

Martedì, 08 Ottobre 2024 03:41

Saggezza e stoltezza

Nel Vangelo […] l’insegnamento di Gesù riguarda proprio la vera saggezza ed è introdotto dalla domanda di uno della folla: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità» (Lc 12,13). Gesù, rispondendo, mette in guardia gli ascoltatori dalla brama dei beni terreni con la parabola del ricco stolto, il quale, avendo accumulato per sé un abbondante raccolto, smette di lavorare, consuma i suoi beni divertendosi e s’illude persino di poter allontanare la morte. «Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”» (Lc 13,20). L’uomo stolto nella Bibbia è colui che non vuole rendersi conto, dall’esperienza delle cose visibili, che nulla dura per sempre, ma tutto passa: la giovinezza come la forza fisica, le comodità come i ruoli di potere. Far dipendere la propria vita da realtà così passeggere è, dunque, stoltezza. L’uomo che confida nel Signore, invece, non teme le avversità della vita, neppure la realtà ineludibile della morte: è l’uomo che ha acquistato “un cuore saggio”, come i Santi.

[Papa Benedetto, Angelus 1 agosto 2010]

Martedì, 08 Ottobre 2024 03:37

Vanità delle ricchezze

1. La nostra meditazione sul Salmo 48 sarà scandita in due tappe, proprio come fa la Liturgia dei Vespri, che ce lo propone in due tempi. Ne commenteremo ora in modo essenziale la prima parte, nella quale la riflessione prende lo spunto da una situazione di disagio, come nel Salmo 72. Il giusto deve affrontare «giorni tristi», perché lo «circonda la malizia dei perversi», i quali «si vantano della loro grande ricchezza» (cfr Sal 48,6-7).

La conclusione a cui il giusto arriva è formulata come una sorta di proverbio, che si ritroverà anche nella finale dell’intero Salmo. Essa sintetizza in modo limpido il messaggio dominante della composizione poetica: «L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono» (v. 13). In altri termini, la «grande ricchezza» non è un vantaggio, anzi! Meglio è essere povero e unito a Dio.

2. Nel proverbio sembra echeggiare la voce austera di un antico sapiente biblico, l’Ecclesiaste o Qoelet, quando descrive il destino apparentemente uguale di ogni creatura vivente, quello della morte, che rende del tutto vano l’aggrapparsi frenetico alle cose terrene: «Come è uscito nudo dal grembo di sua madre, così se ne andrà di nuovo come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portar con sé… Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli... Tutti sono diretti verso la medesima dimora» (Qo 5,14; 3,19.20).

3. Un’ottusità profonda s’impadronisce dell’uomo quando s’illude di evitare la morte affannandosi ad accumulare beni materiali: non per nulla il Salmista parla di un «non comprendere» di impronta quasi bestiale.

Il tema sarà, comunque, esplorato da tutte le culture e da tutte le spiritualità e sarà espresso nella sua sostanza in modo definitivo da Gesù che dichiara: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc 12,15). Egli narra poi la famosa parabola del ricco insipiente, che accumula beni a dismisura senza immaginare l’agguato che la morte gli sta tendendo (cfr Lc 12,16-21).

4. La prima parte del Salmo è tutta centrata proprio su questa illusione che conquista il cuore del ricco. Costui è convinto di riuscire a «comprarsi» anche la morte, tentando quasi di corromperla, un po’ come ha fatto per avere tutte le altre cose, ossia il successo, il trionfo sugli altri in ambito sociale e politico, la prevaricazione impunita, la sazietà, le comodità, i piaceri.

Ma il Salmista non esita a bollare come stolta questa pretesa. Egli fa ricorso a un vocabolo che ha un valore anche finanziario, «riscatto»: «Nessuno può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo. Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba» (Sal 48,8-10).

5. Il ricco, aggrappato alle sue immense fortune, è convinto di riuscire a dominare anche la morte, così come ha spadroneggiato su tutto e su tutti col denaro. Ma per quanto ingente sia la somma che è pronto ad offrire, il suo destino ultimo sarà inesorabile. Egli, infatti, come tutti gli uomini e le donne, ricchi o poveri, sapienti o stolti, dovrà avviarsi alla tomba, così come è accaduto anche ai potenti e dovrà lasciare sulla terra quell’oro tanto amato, quei beni materiali tanto idolatrati (cfr vv. 11-12).

Gesù insinuerà ai suoi ascoltatori questa domanda inquietante: «Che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?» (Mt 16,26). Nessun cambio è possibile perché la vita è dono di Dio, che «ha in mano l’anima di ogni vivente e il soffio d’ogni carne umana» (Gb 12,10).

6. Tra i Padri che hanno commentato il Salmo 48 merita un’attenzione particolare sant’Ambrogio, che ne allarga il senso secondo una visione più ampia, proprio a partire dall’invito iniziale del Salmista: «Ascoltate, popoli tutti, porgete l’orecchio, abitanti del mondo».

L’antico Vescovo di Milano commenta: «Riconosciamo qui, proprio all’inizio, la voce del Signore salvatore che chiama i popoli alla Chiesa, perché rinuncino al peccato, diventino seguaci della verità e riconoscano il vantaggio della fede». Del resto, «tutti i cuori delle varie generazioni umane erano inquinati dal veleno del serpente e la coscienza umana, schiava del peccato, non era in grado di staccarsene». Per questo il Signore «di sua iniziativa promette il perdono nella generosità della sua misericordia, perché il colpevole non abbia più paura, ma, in piena consapevolezza, si rallegri di dover offrire ora i suoi uffici di servo al Signore buono, che ha saputo perdonare i peccati, premiare le virtù» (Commento a dodici Salmi, n. 1: SAEMO, VIII, Milano-Roma 1980, p. 253).

7. In queste parole del Salmo si sente riecheggiare l’invito evangelico: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi» (Mt 11,28). Ambrogio continua: «Come uno che verrà a visitare gli ammalati, come un medico che verrà a curare le nostre piaghe dolorose, così egli ci prospetta la cura, perché gli uomini lo sentano bene e tutti corrano con fiduciosa sollecitudine a ricevere il rimedio della guarigione… Chiama tutti i popoli alla sorgente della sapienza e della conoscenza, promette a tutti la redenzione, perché nessuno viva nell’angoscia, nessuno viva nella disperazione» (n. 2: ibid., pp. 253.255).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 20 ottobre 2004]

Martedì, 08 Ottobre 2024 03:31

Sicurezze che passano

Il Vangelo di oggi (cfr Lc 12, 13-21) si apre con la scena di un tale che si alza tra la folla e chiede a Gesù di dirimere una questione giuridica circa l’eredità di famiglia. Ma Egli nella risposta non affronta la questione, ed esorta a rimanere lontano dalla cupidigia, cioè dall’avidità di possedere. Per distogliere i suoi ascoltatori da questa ricerca affannosa della ricchezza, Gesù racconta la parabola del ricco stolto, che crede di essere felice perché ha avuto la fortuna di una annata eccezionale e si sente sicuro per i beni accumulati. Sarà bello che oggi voi la leggiate; è nel capitolo dodicesimo di San Luca, versetto 13. È una bella parabola che ci insegna tanto. Il racconto entra nel vivo quando emerge la contrapposizione tra quanto il ricco progetta per se stesso e quanto invece Dio gli prospetta.

Il ricco mette davanti alla sua anima, cioè a se stesso, tre considerazioni: i molti beni ammassati, i molti anni che questi beni sembrano assicurargli e terzo, la tranquillità e il benessere sfrenato (cfr v.19). Ma la parola che Dio gli rivolge annulla questi suoi progetti. Invece dei «molti anni», Dio indica l’immediatezza di «questa notte; stanotte morirai»; al posto del «godimento della vita» Gli presenta il «rendere la vita; renderai la vita a Dio», con il conseguente giudizio. Per quanto riguarda la realtà dei molti beni accumulati su cui il ricco doveva fondare tutto, essa viene ricoperta dal sarcasmo della domanda: «E quello che ha preparato, di chi sarà?» (v.20). Pensiamo alle lotte per le eredità; tante lotte di famiglia. E tanta gente, tutti sappiamo qualche storia, che all’ora della morte incomincia a venire: i nipoti, i nipotini vengono a vedere: “Ma cosa tocca a me?”, e portano via tutto. È in questa contrapposizione che si giustifica l’appellativo di «stolto» - perché pensa a cose che lui crede essere concrete ma sono una fantasia - con cui Dio si rivolge a quest’uomo. Egli è stolto perché nella prassi ha rinnegato Dio, non ha fatto i conti con Lui.

La conclusione della parabola, formulata dall’evangelista, è di singolare efficacia: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (v.21). È un ammonimento che rivela l’orizzonte verso cui tutti noi siamo chiamati a guardare. I beni materiali sono necessari – sono beni! -, ma sono un mezzo per vivere onestamente e nella condivisone con i più bisognosi. Gesù oggi ci invita a considerare che le ricchezze possono incatenare il cuore e distoglierlo dal vero tesoro che è nei cieli. Ce lo ricorda anche San Paolo nell’odierna seconda lettura. Dice così: «Cercate le cose di lassù. … rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2).

Questo – si capisce - non vuol dire estraniarsi dalla realtà, ma cercare le cose che hanno un vero valore: la giustizia, la solidarietà, l’accoglienza, la fraternità, la pace, tutte cose che costituiscono la vera dignità dell’uomo. Si tratta di tendere ad una vita realizzata non secondo lo stile mondano, bensì secondo lo stile evangelico: amare Dio con tutto il nostro essere, e amare il prossimo come lo ha amato Gesù, cioè nel servizio e nel dono di sé. La cupidigia dei beni, la voglia di avere beni, non sazia il cuore, anzi provoca di più fame! La cupidigia è come quelle buone caramelle: tu ne prendi una e dice: “Ah! Che buona”, e poi prendi l’altra; e una tira l’altra. Così è la cupidigia: non si sazia mai. State attenti! L’amore così inteso e vissuto è la fonte della vera felicità, mentre la ricerca smisurata dei beni materiali e delle ricchezze è spesso sorgente di inquietudine, di avversità, di prevaricazioni, di guerre. Tante guerre incominciano per la cupidigia.

La Vergine Maria ci aiuti a non lasciarci affascinare dalle sicurezze che passano, ma ad essere ogni giorno credibili testimoni dei valori eterni del Vangelo.

[Papa Francesco, Angelus 4 agosto 2019]

Domenica, 06 Ottobre 2024 03:04

La prima fila, o l’anti-ambizione

Scelta del Calice

(Mc 10,35-45)

 

Mc scrive il suo Vangelo nell’anno dei quattro Cesari (68-69). In semplicità, ne riflette le emergenze o le tensioni anche comunitarie.

Malgrado la persecuzione di Nerone sia passata da pochi anni, immediatamente i credenti tornano a sgomitare fra loro per essere “grandi” e al primo posto.

Dentro la comunità romana riparte la gara del primeggiare. Ecco lo spunto del richiamo evangelico.

Farsi venerare, fame di protagonismo, meglio contare che essere contati? Il posto d’onore è l’ultimo.

L’alternativa è: una religione che produce e ribadisce distanze, o la vita di umiltà-coesistenza segnata da simpatia verso i meno titolati.

In tal guisa, la persona di Fede si riconosce e caratterizza grazie alla compiutezza umana, che l’assomiglia a Dio.

 

Nei Vangeli il «Figlio dell’uomo» (vv.33.45) è icona di santità trasmissibile, Santuario vivente da cui irradia la divina Compassione.

Figlio dell’uomo’ è colui che avendo raggiunto il massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina e la irradia in modo diffuso - non selettivo [come ci si aspettava].

“Figlio riuscito”: la Persona dal passo definitivo, che in noi aspira alla dilatazione conviviale, a una caratura indistruttibile dentro ciascuno che accosta - e incontra contrassegni divini.

È crescita e umanizzazione del popolo: il frutto tranquillo, trasparente e completo del progetto divino sull’umanità.

Nell’icona del «Figlio dell’uomo» gli evangelisti desiderano far trapelare e innescare il trionfo dell’umano sul disumano; la progressiva scomparsa di tutto ciò che blocca la comunicazione di esistenza piena.

 

Ecco i due orientamenti di vita contrapposti.

Da un lato la consuetudine del prevalere-asservire, perpetuando il mondo antico; quindi pretendere, farsi strada, esigere con linguaggio duro; così via.

Diverso è sostenere le persone a dilatare vita e stimarsi, scoprendone la Chiamata, ciò che gli è conforme e bello; incoraggiando a maturare il Sogno che coltivano.

Nella proposta di Gesù, la Gloria celeste s’identifica con quant’è fonte di realizzazione per tutti, non solo per i ben introdotti [sordi d’ambizione].

Perché se i castelli di cartapesta esterni sono estasianti e ancora ci fanno rimanere a bocca aperta, nella storia i presuntuosi divengono d’improvviso pula al vento; non hanno peso, non durano.

Ma la malattia dei posti d’onore non guarisce.

La febbre del farsi riverire e sembrare primi della classe non si placa, anzi diventa una vera pazzia; e la testa ancora non cambia.

Sempre in lotta per la scalata, la fila di riguardo - e conseguire spazi. Misura di un modo di concepire.

 

«Figlio dell’uomo» non è dunque un titolo “religioso” o selettivo, ma una possibilità per tutti coloro che si lasciano attrarre nella umanità del Cristo.

Egli non è l’archetipo di un’autorità piramidale, attentissima a equilibri e punti strategici.

In tal guisa, i detentori di ruoli di prestigio sono solo «ritenuti» (v.42) capi.

Tali dinamiche non appartengono alla comunità dei Figli - segnata dal condividere la ‘scelta del Calice’ (v.39): l’anti-ambizione.

Insomma, Cristo ribadisce che nemico autentico di Dio non è l’imperfezione, né il limite - o addirittura l’apparente rovina del proprio prestigio - bensì un demone tutto interno.

Controparte del Signore è il desiderio di salire sul tabellone della vita e farsi servire dagli altri, per ebbrezza di potere.

 

Nell’icona del «Figlio dell’uomo» gli evangelisti desiderano far trapelare e innescare il trionfo dell’umano sul disumano; la progressiva scomparsa di tutto ciò che blocca la comunicazione di esistenza piena.

Appunto. Il Signore disdegna il modello dei satrapi.

 

 

[29.a Domenica T.O.  B  (Mc 10,35-45)  20 ottobre 2024]

Domenica, 06 Ottobre 2024 03:01

L’anti-ambizione o la prima fila

Il modello dei satrapi

(Mc 10,35-45)

 

In via non ufficiale, Pio VII ci provò a sollevare il triregno (stile neoclassico, inusuale) regalato da Napoleone, ma i suoi paggi quasi non riuscivano a tirarlo su... per il peso.

Figuriamoci sopportare in testa 8 chili e 200 grammi! Provò tuttavia anche a infilarselo, mentre ovviamente qualcuno lo sosteneva anche di lato (immagina se fosse caduto sulle pantofole rosse).

Ma risultava pure troppo stretto: impossibile ficcarci la testa!

Per dispetto, Bonaparte novello imperatore glielo aveva fatto confezionare in modo che nessun Papa potesse mai fregiarsene; e così fu, l’ironico pezzo da museo.

La formula d’imposizione era: «Ricevi la Tiara ornata di tre corone, e sappi che Tu sei Padre dei Principi e dei Re, Reggitore del mondo, Vicario in terra del Salvatore Nostro Gesù Cristo, cui è onore e gloria nei secoli dei secoli». Amen.

Mentre tra sinfonie e cori qualcuno attendeva proprio il momento della tiara per lagrimare un poco sugli antichi fasti, alla celebrazione della riapertura del Concilio - dopo l’incoronazione - Paolo VI depose definitivamente il triregno sull’altare papale.

Se lo tolse con soddisfazione, non perché fosse poco confortevole (aveva sul capo ben 4 chili e mezzo): in seguito fece anche altri gesti d’inattesa rinuncia con pretese a farsi ossequiare.

Dopo di lui nessun Papa ebbe il coraggio di adornarsene.

Occasione ghiotta: imperdibile per chi aveva vasta esperienza degli ambienti curiali e diplomatici.

Con in pugno le chiavi del Cielo, le briglie della terra e il comando del Purgatorio (le tre corone), il pontefice decise di far salire diverse vampe da sottoterra - per surriscaldare gli strapuntini di qualche carrierista da strascico, abituato a dirigere le anime stando sopra un qualsiasi purchessia tronetto.

 

Mc scrive il suo Vangelo nell’anno dei quattro Cesari (68-69).

Malgrado la persecuzione di Nerone sia passata da pochi anni, immediatamente i credenti tornano a sgomitare fra loro per essere “grandi” e al primo posto.

Dentro la comunità romana riparte la gara del primeggiare. Ecco lo spunto del richiamo evangelico.

Farsi venerare, fame di protagonismo, meglio contare che essere contati?

Il posto d’onore è l’ultimo.

L’alternativa è: una religione che produce e ribadisce distanze, o la vita di umiltà-comunione segnate da simpatia verso i meno titolati.

La persona di Fede si riconosce e caratterizza grazie alla compiutezza umana, che l’assomiglia a Dio.

 

Nei Vangeli il «Figlio dell’uomo» (vv. 33.45) è icona di santità trasmissibile, Santuario vivente da cui irradia la divina Compassione.

Figlio dell’uomo è colui che avendo raggiunto il massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina e la irradia in modo diffuso - non selettivo come ci si aspettava.

Figlio riuscito: la Persona dal passo definitivo, che in noi aspira alla dilatazione conviviale, a una caratura indistruttibile dentro ciascuno che accosta - e incontra contrassegni divini.

È crescita e umanizzazione del popolo: lo sviluppo tranquillo, trasparente e completo del progetto divino sull’umanità.

Figlio dell’uomo non è dunque un titolo religioso, riposto, cauto, controllato e riservato, ma un’occasione per tutti coloro che danno adesione alla proposta di vita del Signore, e la reinterpretano in modo creativo personale.

Essi superano i fermi e propri confini naturali facendo spazio al Dono; accogliendo dalla Grazia pienezza di essere, nei suoi nuovi irripetibili binari.

Sentendoci totalmente e immeritatamente amati, scopriamo altre sfaccettature... cambiamo il modo di stare con noi stessi, e possiamo crescere, realizzarci, fiorire, irradiare la completezza ricevuta - senza più chiusure.

Nei Vangeli il Figlio dell’uomo - lo sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato dai frequentatori dei luoghi di malaffare, ma dagli habitué dei recinti sacri.

Appunto. Il Signore disdegna il modello dei satrapi.

 

Ecco allora i due orientamenti di vita contrapposti.

Da un lato la consuetudine del prevalere-asservire, perpetuando il mondo antico; quindi pretendere, farsi strada, dominare, manipolare, agire con doppiezza, esigere con linguaggio duro (ma anche mellifluo - pur di ottenere per sé)...

Diversa traccia umanizzante è invece quella di sostenere le persone a dilatare la vita e stimarsi, scoprendo i propri stati profondi, la personale Chiamata - ciò che gli è conforme e bello - incoraggiando a maturare il Sogno che coltivano.

Nella proposta di Gesù la Gloria celeste s’identifica con quant’è fonte di realizzazione per tutti, non con un archetipo piramidale di ben introdotti (sordi d’ambizione).

Perché se i castelli di cartapesta esterni sono estasianti e ancora ci fanno rimanere a bocca aperta, nel volgere della storia i presuntuosi divengono d’improvviso pula al vento; non hanno peso, non durano.

È l’archetipo di autorità e comando piramidale, attentissima a equilibri e punti strategici.

Tali dinamiche non appartengono alla comunità dei Figli - segnata dal condividere la scelta del Calice (v.39): l’anti-ambizione.

Insomma, Gesù ribadisce che nemico autentico di Dio non è l’imperfezione, né il limite - o addirittura l’apparente rovina del proprio prestigio - bensì un demone tutto interno.

Controparte del Signore è il desiderio di salire sul tabellone della vita e farsi servire dagli altri, per l’ebbrezza del potere.

 

Su un capitello crociato conservato al museo di Nazaret è scolpito un Apostolo dalla posa oscillante e dall’andatura incerta che viene trascinato con decisione da una figura femminile incoronata: la Fede.

È la Fede a serrare la mano sul polso (dove pulsa la vita) del personaggio - impacciato ma dotato di aureola (dai tratti sembra decisamente Pietro) insidiato dai demoni dell’avere e del potere.

 

La malattia dei posti d’onore non guarisce. La febbre del farsi riverire e sembrare primi della classe non si placa, anzi diventa una vera pazzia; e la testa ancora non cambia.

Sempre in lotta per la scalata, la fila di riguardo - e conseguire spazi. Misura di un modo di concepire.

Ecco allora il Vescovo di Roma ancora costretto ad ammonire i suoi prìncipi:

«Questa gente gioca a essere Dio»! «La vita riuscita non dipende dal successo o da quello che pensano gli altri». «Oggi c’è una cultura dell’asservimento dell’altro» - e così via.

In tal guisa, i detentori di titoli di prestigio sono «ritenuti» (v.42) capi. 

Nel passo parallelo, Lc aggiunge che questi governanti - anche in relazione alle chiese - per giunta pretendono di essere chiamati «benefattori» (titolo dei grandi sovrani ellenisti).

E purtroppo qua e là il malcostume continua.

È il tipo della sovranità concatenata, attentissima alle posizioni; che si esercita e “funziona” alla grande, ma non va.

Scimmiottare le strutture mondane segnate da logiche di privilegio, prevaricazione, plagio e asservimento è poco nobile e più che sospetto: altro che esempio o motore civile e morale della società!

Tali dinamiche non appartengono alla comunità dei Figli; sebbene ogni tanto vengano evocate, attuate da singoli e fazioni opprimendo i senza-voce (anche sottobanco) o almeno rimpiante da malcelati nostalgici.

Gli stessi che - non avendo perso il vizio di soddisfare se stessi ammantandosi di falso prestigio - continuano a rovinare il clima e allontanano le migliori energie.

 

Gli Apostoli erano già sicuri di aver preso il Maestro in ostaggio (v.35).

Quindi nell’ancora vano tentativo di suscitare le coscienze e dirozzarle, il Signore continua a rivolgersi agli uomini - come nel brano di Vangelo - con cordialità e dal basso, quale uno schiavo coi suoi padroni (v.36).

È Dio il lavoratore coatto a servizio del desiderio di vita dei sottoposti; di riflesso i suoi - se Lo manifestano autenticamente, Grande sul serio.

A coloro che non vivono un rapporto vitale con il Cristo ma pretendono di sequestrarlo, papa Francesco ha ribadito i tratti della «malattia di coloro che si sentono padroni. Si credono superiori o indispensabili e non a servizio. Malattia che deriva dalla patologia del potere, dal narcisismo, dal complesso degli eletti».

I “designati” immaginano spesso di aver già ingabbiato Gesù, quindi te li ritrovi sempre sopra e davanti, mai alla pari; figurati dietro: piuttosto, imbrattati di polvere imperiale che produce lacerazioni e scismi (v.41).

Altro che donarsi e condividere - ribadiamo - la scelta del Calice (l’anti-ambizione)!

 

Ecco l’elemento indicativo della differenza fra religione e Fede:

Nemico di Dio non è il peccato, bensì il potere. L’ebbrezza di venire incoronati di tiara, ossia di essere destinati a lasciarsi continuamente omaggiare, farsi notare e comandare ovunque... pure sotto terra.

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«Too pure water has no fish». Accepting ourselves will complete us: it will make us recover the co-present, opposite and shadowed sides. It’s the leap of profound Faith. And seems incredible, but the Rock on which we build the way of being believers is Freedom
«L’acqua troppo pura non ha pesci». Accettarsi ci completerà: farà recuperare i lati compresenti, opposti e in ombra. È il balzo della Fede profonda. Sembra incredibile, ma la Roccia sulla quale edifichiamo il modo di essere credenti è la Libertà
Our shortages make us attentive, and unique. They should not be despised, but assumed and dynamized in communion - with recoveries that renew relationships. Falls are therefore also a precious signal: perhaps we are not using and investing our resources in the best possible way. So the collapses can quickly turn into (different) climbs even for those who have no self-esteem
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, ma assunte e dinamizzate in comunione - con recuperi che rinnovano i rapporti. Anche le cadute sono dunque un segnale prezioso: forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse. Così i crolli si possono trasformare rapidamente in risalite (differenti) anche per chi non ha stima di sé
God is Relationship simple: He demythologizes the idol of greatness. The Eternal is no longer the master of creation - He who manifested himself strong and peremptory; in his action, again in the Old Covenant illustrated through nature’s irrepressible powers
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza. L’Eterno non è più il padrone del creato - Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura
Starting from his simple experience, the centurion understands the "remote" value of the Word and the magnet effect of personal Faith. The divine Face is already within things, and the Beatitudes do not create exclusions: they advocate a deeper adhesion, and (at the same time) a less strong manifestation
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della Fede personale. Il Cospetto divino è già dentro le cose, e le Beatitudini non creano esclusioni: caldeggiano un’adesione più profonda, e (insieme) una manifestazione meno forte
What kind of Coming is it? A shortcut or an act of power to equalize our stormy waves? The missionaries are animated by this certainty: the best stability is instability: that "roar of the sea and the waves" Coming, where no wave resembles the others.
Che tipo di Venuta è? Una scorciatoia o un atto di potenza che pareggi le nostre onde in tempesta? I missionari sono animati da questa certezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel «fragore del mare e dei flutti» che Viene, dove nessuna onda somiglia alle altre.
The words of his call are entrusted to our apostolic ministry and we must make them heard, like the other words of the Gospel, "to the end of the earth" (Acts 1:8). It is Christ's will that we would make them heard. The People of God have a right to hear them from us [Pope John Paul II]
Queste parole di chiamata sono affidate al nostro ministero apostolico e noi dobbiamo farle ascoltare, come le altre parole del Vangelo, «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). E' volontà di Cristo che le facciamo ascoltare. Il Popolo di Dio ha diritto di ascoltarle da noi [Papa Giovanni Paolo II]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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