don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Quale strada conduce al Padre?

(Lc 11,29-32)

 

Gesù si scontra con l’incredulità. Essa viene da vari accecamenti e partiti presi, o (soprattutto nei discepoli) nasce da disattenzione.

Il Signore si allontana da chi lo mette alla prova e da coloro che rifiutano ciò ch’è donato da Dio, pretendendo di fissare come debba agire.

Il Figlio dell’uomo rispetta ogni persona che lo segue, ma fa comprendere che le decisioni e ancor prima la mancanza di percezione acuta impediscono l’Incontro e la redenzione della vita.

In tale ottica, i credenti non vivono per “dimostrare”. Cristo stesso non ci aspetta in manifestazioni subliminali e mirabolanti, ma sulla sponda d’una spiritualità terrestre.

 

Il Valore non ha bisogno di applausi (arma a doppio taglio) - maschera della proposta artificiosa, e della vita inautentica.

 

La corrispondenza umanizzante non cresce col moltiplicarsi dei segnali da capogiro.

Dio non costringe i poco convinti, né surclassa con prove; così guadagna un patrimonio d’Amore nella crescita.

La sua Chiesa autentica, senza strepiti né posizioni persuasive - apparentemente insignificante - è raccolta tutta in intima unità col suo Primogenito: potenza nativa, portentosa e rigeneratrice - solida e reale.

 

La regina del mezzogiorno cercava soluzioni accattivanti a curiosità enigmatiche, ma le poteva conoscere dentro la sua anima e nella vita.

Incarnazione: non ci sono altri segni validi che gli accadimenti e le nuove relazioni - con se stessi e gli altri - le quali porgono la Persona stessa e inaudita del Risorto [quello senza involucri].

L’Eterno non è più la pura trascendenza dei giudei, né la vetta della sapienza del mondo antico.

Il segno dell’Altissimo è la vicenda di Gesù vivo in noi. Essa apre la strada emozionante che conduce verso il Padre.

 

Confidiamo in Cristo, quindi niente droghe spirituali che c’illudano di felicità.

È il senso della nuova Creazione: nell’abbandono allo Spirito - ma tutto concreto (non di maniera) e che procede trascinando la realtà alternativa.

La sua Persona è segnale unico, che scioglie dai molti surrogati della religione delle paure, delle pastoie, dei ruoli consolidati.

Tare che vorrebbero imprigionarlo in “alleato” facitore di miracoli seducenti e immediatamente risolutivi.

Qualcuno in semplice purificatore del tempio o in un personaggio da mulino bianco - e così noi, se ci lasciamo manipolare.

 

Infatti, i leaders religiosi cui Gesù si rivolge sono quelli di ritorno nelle sue comunità!

Si trattava di giudaizzanti i quali volevano inquadrare il Messia nello schema delle normali attese cui erano stati da sempre abituati.

O già se la intendevano e si mostravano stufi...

In questi “veterani” non c’era cifra alcuna di conversione all’idea del Figlio di Dio come Servitore, fiducioso nei sogni senza prestigio.

In loro? Nessuna traccia d’idea nuova - né cambio di passo che segnasse tramonto della società plateale, disumanizzante, e anche sacrale - dell’esterno.

 

Ai leaders popolari talora sfugge il significato dell’unico Segno vivo: Gesù Alimento della vita.

Per causa loro, non dei lontani, il Signore «geme nello spirito» [cf. Mc 8,12 testo greco] - ancora oggi, rattristato da tanta cecità.

La vita è infatti preclusa a chi non sa spostare lo sguardo.

Subito dopo Lc (12,1) si riferisce infatti al pericolo dell’ideologia dominante che faceva perdere alle stesse guide la percezione obiettiva degli accadimenti.

Un «lievito» grossolano ma radicato nell’esperienza penosa della gente; che stimolava gonfiori persino nei discepoli, contaminandoli.

 

Ai primi della classe poteva sembrare che Gesù fosse un leader come Mosè, per il fatto che aveva appena alimentato il popolo affamato nel deserto [cf. Mt 15,32-39; Mc 8,1-9].

Ma il rifiuto è netto: in specie Mc (8,12) lo rende acuto sottolineando il senso di sofferenza del Maestro.

Quindi come anche Mt e Lc nell’episodio appunto di Giona - il suo radicale, perentorio diniego.

Per salvare il popolo bisognoso di tutto non c’è altra via che partire da dentro.

Poi procedere verso una pienezza di essere che dilaga, ci approva, e sfociando consente di spezzare la vita in favore dei fratelli.

 

Non c’è scappatoia.

Unicamente la comunione con la sorgente celata del proprio Sé eminente e il dialogo rispettoso e fattivo con gli altri, salva da una mentalità di gruppo chiuso.

In tal guisa, nessun club è ammesso - che rivendicasse l’esclusiva monopolista su Dio e sulle anime (Lc 9,49-50) con esplicita pretesa a disciplinare le moltitudini.

La comunità del Risorto aborrisce la concezione competitiva della stessa vita religiosa, se riflesso sacrale del mondo imperiale e d’una società che angustia e amareggia l’esistenza dei piccoli.

Sarebbe una vita malata nella ricerca di prestigio purchessia, anche solo apparente.

 

Viceversa, nelle realtà fraterne «il più piccolo tra tutti, questi è grande» (Lc 9,48).

Quindi bisogna assolutamente evitare che nei fedeli s’insinui una mentalità piramidale e dello scarto.

Spirito di competizione che poi inesorabilmente finisce per cercare rifugio nel miracolismo ipocrita, surrogato della vita di Fede.

Lo stesso fa il Maestro per educare i membri di Chiesa che restano [alcuni tuttora] affetti da senso di superiorità nei confronti delle folle e degli estranei.

Sentimento di popolo eletto e privilegiato (Lc 9,54-55) che si stava infiltrando persino nelle comunità primitive.

 

A chi non vuole aprire gli occhi se non per farsi catturare i sensi da fenomeni tutti da discernere - perché malgrado il credo ufficiale che professa rimane legato a una ideologia di potere - il Signore non riserva mai conferme impressionanti venute «dal cielo» (Lc 11,16) che ne sarebbero la paradossale convalida.

Unico segnale è e sarà la sua Chiesa vivente: “vittoria” del Risorto, che pulsa in tutti coloro che lo prendono sul serio.

Senza gerarchie fisse - sotto la guida infallibile della Chiamata e della Parola - i figli sanno reinterpretare, anche in modo inedito.

Tale il prodigio, incarnato nelle mille vicende della storia, della vita personale e comunitaria; nei recuperi, risanamenti e rivalutazioni impossibili.

L’autentico Messia non elargisce alcuna esibizione cosmica.

Nessun festival che obblighi gli spettatori a chinare il capo, a cospetto di tanta gloria sconvolgente e degnazione - come se fosse un dittatore celeste.

E nessun fulmine a scorciatoia.

 

Nel corso dei secoli le Chiese sono cadute spesso in questa tentazione “apologetica”, tutta interna alle devozioni dall’impulso arido: cercare segni meravigliosi e sbandierarli per mettere a tacere gli avversari.

Stratagemmi per un banale tentativo di chiudere la bocca a coloro che chiedono non esperienze di parapsicologia, bensì testimonianze poco avvizzite e senza trucco o escamotage: di concreta disalienazione.

Niente male, questa nostra attività di liberazione in favore degli ultimi, e che tiene duro; non avvinghiata all’idea d’un arruffapopolo dagli aspetti trionfalistici o consolatori.

Preferiamo l’onda del Mistero.

Aneliamo essere guidati da una energia sconosciuta, che ha in serbo un obbiettivo non artificioso - condotti dall’Amico eminente ma intimo e nascosto. Esclusivo in noi.

Saremo una sola umanità nel Maestro, sulla Via giusta e che ci appartiene. Anche percorrendo sentieri interrotti e incompleti, persino di smarrimento.

 

A commento del Tao Tê Ching (i) il maestro Ho-shang Kung scrive: 

«L’eterno Nome vuol essere come l’infante che ancora non ha parlato, come il pulcino che ancora non s’è sgusciato.

La perla luminosa sta dentro l’ostrica, la bella gemma sta in mezzo alla roccia: per quanto all’interno esso risplenda, all’esterno esso è stolto e insipiente».

 

Tutto ciò è forse valutato “incoscienza” e “inconcludenza”... ma porta ciò che siamo - esprimendo un altro modo di vedere il mondo.

In noi stessi e dentro il Richiamo dei Vangeli abbiamo una potenza fresca, che approva il percorso differente dall’immediatamente normale e dal vistoso lampante.

Un Appello che è incanto, delizia e splendore, perché ci attiva rimettendo in discussione.

Verbo che non ragiona secondo gli schemi.

Istanza accorata, che non si fa impressionare dalle cose eccezionali, dalle recite che soffocano l’anima in ricerca di senso e autenticità.

Genuina Meraviglia, impulso indomabile annidato nella dimensione di pienezza umana, e che non si arrende: vuole esprimersi nella sua trasparenza e farsi realtà.

Una sorta d’Infante intimo: si muove in modo giudicato “astruso”, ma rimette le cose a posto, dentro e fuori.

 

La testimonianza libera e vivificante, attenta e sempre personalmente geniale, sarà innata e inedita, graffiante, inventiva senz’accorgimenti, imprevedibile e affatto conformista.

Essa farà scaturire e incessantemente rialimenterà una esperienza di Fede convinta, singolare, incisiva - malgrado possa apparire perdente e non di successo, poco onorevole e insensazionale.

Assai più dei miracoli, le suppliche della nostra essenza e della realtà faranno riconoscere il richiamo e l’agire di Dio negli uomini e nella trama della storia.

Inviti che possono germinare altri sbalordimenti e prodigi di bontà divino-umana, che visioni parossistiche condite di nevrosi e sentimentalismi vuoti o magie.

Unico segno di salvezza è Cristo in noi - senza cuciture, né grandi gesti isterici.

Persona immagine e somiglianza dell’umanità nuova; manifestazione del potere di Dio sulla terra.

 

Per l’autentica conversione: nulla di esteriore.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Di che genere è la tua ricerca di prove?

In cosa si discosta il tuo Segno che fa credere dagli espedienti, da atti di forza, o da quello che altri vorrebbero che diffondessi?

Martedì, 04 Marzo 2025 05:57

Giona annuncia l’avvenimento di Gesù

2) Il libro di Giona ci annuncia l’avvenimento di Gesù Cristo – Giona è una prefigurazione della venuta di Gesù. Il Signore stesso ci dice questo nel Vangelo del tutto chiaramente

Richiesto dai giudei di dar loro un segno che lo riveli apertamente come il Messia, risponde, secondo Matteo: "Nessun segno sarà dato a questa generazione se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra" (Mt12,39s). 

La versione di Luca delle parole di Gesù è più semplice: "Questa generazione [...] cerca un segno ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. Poiché come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione" (Lc 11,29s). Vediamo due elementi in entrambi i testi: lo stesso Figlio dell’uomo, Cristo, l’inviato di Dio, è il segno. Il mistero pasquale indica Gesù come il Figlio dell’uomo, egli è il segno in e attraverso il mistero pasquale.

Nel racconto veterotestamentario proprio questo mistero di Gesù traspare del tutto chiaramente. 

Nel primo capitolo del libro di Giona si parla di una triplice discesa del profeta: egli scende al porto di Giaffa; scende nella nave; e nella nave egli si mette nel luogo più riposto. Nel suo caso, però, questa triplice discesa è una tentata fuga davanti a Dio. Gesù è colui che scende per amore, non per fuggire, ma per giungere nella Ninive del mondo: scende dalla sua divinità nella povertà della carne, dell’essere creatura con tutte le sue miserie e sofferenze; scende nella semplicità del figlio del carpentiere, e scende nella notte della croce, infine persino nella notte dello Sheòl, il mondo dei morti. Così facendo egli ci precede sulla strada della discesa, lontano dalla nostra falsa gloria da re; la via della penitenza, che è via verso la nostra stessa verità: via della conversione, via che ci allontana dall’orgoglio di Adamo, dal volere essere Dio, verso l’umiltà di Gesù che è Dio e per noi si spoglia della sua gloria (Fil 2,1-10). Come Giona, Gesú dorme nella barca mentre la tempesta infuria. In un certo senso nell’esperienza della croce egli si lascia gettare in mare e così placa la tempesta. I rabbini hanno interpretato la parola di Giona "Gettatemi in mare" come offerta di sé del profeta che voleva con questo salvare Israele: egli aveva timore davanti alla conversione dei pagani e al rifiuto della fede da parte di Israele, e per questo – così dicono – voleva farsi gettare in mare. Il profeta salva in quanto egli si mette al posto degli altri. Il sacrificio salva. Questa esegesi rabbinica è diventata verità in Gesù.

[Papa Benedetto card. Ratzinger, Lectio in s. Maria in Traspontina, 24 gennaio 2003; in “30Giorni” febbraio 2003]

Martedì, 04 Marzo 2025 05:53

È Lui stesso il Segno

4. In effetti Gesù invita al discernimento in rapporto alle parole ed opere, che testimoniano l'imminente avvento del Regno del Padre. Anzi, Egli indirizza e concentra tutti i segni nell'enigmatico "segno di Giona". E con ciò rovescia la logica mondana tesa a cercare segni che confermino il desiderio di autoaffermazione e di potenza dell'uomo. Come sottolinea l'apostolo Paolo, "mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani" (1 Cor 1,22-23).

Come primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), Cristo per primo ha vinto in se stesso la "tentazione" diabolica di servirsi di mezzi mondani per realizzare la venuta del Regno di Dio. Ciò è avvenuto dal momento delle prove messianiche nel deserto alla sarcastica sfida rivoltagli mentre era inchiodato alla croce: "Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!" (Mt 27,40). In Gesù crocifisso avviene come una trasformazione e concentrazione dei segni: è Lui stesso il "segno di Dio", soprattutto nel mistero della sua morte e resurrezione. Per discernere i segni della sua presenza nella storia, occorre liberarsi d'ogni mondana pretesa ed accogliere lo Spirito che "scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio" (1 Cor 2,10).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 23 settembre 1998]

Martedì, 04 Marzo 2025 05:26

Giona: Segno o sindrome?

Ecco la sindrome di Giona, che «colpisce quelli che non hanno lo zelo per la conversione della gente, cercano una santità — mi permetto la parola — una santità di tintoria, cioè tutta bella, tutta ben fatta ma senza lo zelo che ci porta a predicare il Signore». Il Papa ha ricordato che il Signore «davanti a questa generazione, malata della sindrome di Giona, promette il segno di Giona». E ha aggiunto: «Nell’altra versione, quella di Matteo, si dice: ma Giona è stato nella balena tre notti e tre giorni... Il riferimento è a Gesù nel sepolcro, alla sua morte e alla sua risurrezione. E questo è il segno che Gesù promette: contro l’ipocrisia, contro questo atteggiamento di religiosità perfetta, contro questo atteggiamento di un gruppo di farisei».

Per rendere più chiaro il concetto il vescovo di Roma si è riferito a un’altra parabola del Vangelo «che rappresenta bene quello che Gesù vuole dire. È la parabola del fariseo e del pubblicano che pregano nel tempio (Luca 14, 10-14). Il fariseo è talmente sicuro davanti all’altare che dice: ti ringrazio Dio che non sono come tutti questi di Ninive e neppure come quello che è là! E quello che era là era il pubblicano, che diceva soltanto: Signore abbi pietà di me che sono peccatore».

Il segno che Gesù promette «è il suo perdono — ha precisato Papa Francesco — tramite la sua morte e la sua risurrezione. Il segno che Gesù promette è la sua misericordia, quella che già chiedeva Dio da tempo: misericordia voglio e non sacrifici». Dunque «il vero segno di Giona è quello che ci dà la fiducia di essere salvati dal sangue di Cristo. Ci sono tanti cristiani che pensano di essere salvati solo per quello che fanno, per le loro opere. Le opere sono necessarie ma sono una conseguenza, una risposta a quell’amore misericordioso che ci salva». Le opere da sole, senza questo amore misericordioso, non sono sufficienti.

Dunque «la sindrome di Giona colpisce quelli che hanno fiducia solo nella loro giustizia personale, nelle loro opere». E quando Gesù dice «questa generazione malvagia», si riferisce «a tutti quelli che hanno in sé la sindrome di Giona». Ma c’è di più: «La sindrome di Giona — ha affermato il Papa — ci porta all’ipocrisia, a quella sufficienza che crediamo di raggiungere perché siamo cristiani puliti, perfetti, perché compiamo queste opere osserviamo i comandamenti, tutto. Una grossa malattia, la sindrome di Giona!». Mentre «il segno di Giona» è «la misericordia di Dio in Gesù Cristo morto e risorto per noi, per la nostra salvezza».

«Ci sono due parole nella prima lettura — ha aggiunto — che si collegano con questo. Paolo dice di se stesso che è apostolo, non perché ha studiato, ma è apostolo per chiamata. E ai cristiani dice: siete voi chiamati da Gesù Cristo. Il segno di Giona ci chiama». La liturgia odierna, ha concluso il Pontefice, ci aiuti a capire e a fare una scelta: «Vogliamo seguire la sindrome di Giona o il segno di Giona?».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 15.10.13]

Lunedì, 03 Marzo 2025 09:36

Mercoledì delle Ceneri

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.

Ecco il commento per le letture di Mercoledì delle Ceneri

5 Marzo 2025   (anno C)

 

La liturgia del mercoledì delle Ceneri, che apre la Quaresima, era segnata un tempo dall’inizio della penitenza pubblica che si svolgeva quest’oggi e dall’avvio dell’ultimo tratto della formazione dei catecumeni, che si preparavano a ricevere il battesimo nella Veglia Pasquale. A simboleggiare l’invito alla preghiera e alla conversione del cuore, che proclamano i testi della Sacra Scrittura, c’è il rito della cenere, segno di penitenza e di conversione.  Si tratta di un “simbolo austero” con cui iniziamo il cammino spirituale della Quaresima riconoscendo che il nostro corpo, formato dalla polvere, ritornerà tale e per questo siamo invitati a rendere la nostra esistenza un sacrificio Dio in unione con la morte di Cristo Gesù. Ciò che illumina il mercoledì delle Ceneri e l’intera Quaresima è l’evento della Risurrezione di Gesù, che celebreremo con rinnovata speranza in quest’anno giubilare. il mercoledì delle ceneri è giorno di penitenza, di digiuno e di elemosina che va intesa come condivisione di ciò che siamo e di ciò che possediamo con i nostri fratellil a gloria di Dio. Questo richiede il coraggio di rinunciare a qualcosa che ci costa per vivere la Quaresima come tempo di vera purificazione interiore 

 

*Prima Lettura dal Libero del profeta Gioele (Gl 2,12-18) 

Ritornate al Signore con tutto il cuore! Ecco l’invito che oggi ci lancia il profeta Gioele. Il suo libro è molto breve (contiene in totale settantatré versetti suddivisi in quattro capitoli) ed è collocato intorno all’anno 600 a.C., cioè poco prima dell’esilio a Babilonia. Ci sono tre temi che si intrecciano costantemente: la prospettiva di terribili flagelli, appelli accorati al digiuno e alla conversione, e l’annuncio della salvezza di Dio. Oggi è il secondo tema che la liturgia ci propone all’inizio della Quaresima. Il solenne appello alla conversione spinge a prendere sul serio ciò che segue, cioè l’invito: “Ritornate a me”, e il popolo risponde e supplica: “Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti”. I profeti insegnano sempre a non accontentarsi di manifestazioni esteriori e anche Gioele non manca di sottolinearlo: “Laceratevi il cuore e non le vesti e ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso”.  Questo afferma Isaia: “Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto: le vostre mani sono piene di sangue. Lavatevi, purificatevi. Allontanate dai miei occhi le vostre azioni malvagie cessate di fare il male. Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia…” (Is 1,14-17). E il Salmo 50/51 commenta “Il sacrificio che piace a Dio è uno spirito contrito; un cuore affranto e umiliato, o Dio, tu non lo disprezzi”. Il profeta Ezechiele ci aiuta a comprendere cosa vuol dire il salmista: bisogna cioè spezzare i nostri cuori di pietra affinché possa emergere il cuore di carne e il profeta Gioele segue questa linea quando invita a lacerare i cuori e non le vesti per sfuggire a un castigo meritato. Scrive infatti: “chi sa che Dio non cambi e si ravveda e lasci dietro a sé una benedizione?” E conclude annunciando che il perdono è già stato concesso. La traduzione liturgica dice: “Il Signore si mostra geloso per la sua terra” avendo avuto pietà del suo popol, ma la misericordia di Dio è destinata a tutti gli uomini, ed è proprio questo il messaggio che troviamo nel libro di Giona molto affine a quello di Gioele. Giona infatti narra la conversione di Ninive, la città pagana che aveva percorso un giorno di cammino proclamando: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”, e  gli abitanti credettero subito in Dio. Proclamarono un digiuno e si vestirono di sacco, grandi e piccoli. Persino il re di Ninive depose il manto regale, si coprì di sacco e si sedette sulla cenere e quindi proclamò lo stato d’allerta e fece annunciare che tutti in Ninive si dovevano coprire di sacco e invocare Dio con forza. Dio vide la loro conversione e revocò il castigo che aveva minacciato di infliggere (Gn 3,4-10). Il segreto  è che Dio trabocca di zelo e di amore, come ricorda Gioele, per tutti gli uomini, e san Paolo dirà: “Dio dimostra il suo amore per noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).

 

*Salmo responsoriale (50 (51).  Perdonaci, Signore: abbiamo peccato

Uniamoci anche noi al popolo d’Israele riunito nel Tempio di Gerusalemme per una grande celebrazione penitenziale. Sa di essere pieno di peccati, ma conosce per esperienza che la misericordia di Dio è inesauribile e allora chiede perdono con la certezza di essere esaudito. Fu proprio questa la scoperta del re Davide dopo aver peccato con Betsabea, sposa di un ufficiale, Uria, che in quel momento era in guerra. Betsabea fece sapere a Davide di essere incinta di lui e Davide organizzò la morte in battaglia del marito tradito, così da poter prendere definitivamente per sé la donna e il bambino che portava in grembo. Il profeta Natan non cercò subito di far ammettere a Davide il suo peccato, ma gli ricordò anzitutto i molti doni di Dio e gli annunciò il perdono prima ancora che Davide avesse il tempo di confessare la sua colpa (cf 2 Samuele 12). Oltre tutti i doni e privilegi che Dio gli aveva concesso, aggiunse pure che il Signore era pronto ad accordargli tutto ciò che desiderava. Nel corso della storia, Israele ha avuto occasione di registrare che Dio è davvero “il Signore misericordioso e benevolo, lento all’ira, ricco di fedeltà e di lealtà”, come aveva rivelato a Mosè nel deserto (Es 34,6). Anche i profeti hanno ribadito questo messaggio, e i versetti del Salmo 50/51 ne sono pieni. Isaia, ad esempio, dice: “Io, io solo cancello le tue colpe per amore di me stesso e non ricordo più i tuoi peccati” (Is 43,25). L’annuncio del perdono gratuito di Dio ci sorprende sempre: ci sembra quasi troppo bello per essere vero. Per alcuni, addirittura, può sembrare ingiusto: se tutto è perdonabile, perché sforzarsi di vivere bene? Ma questo significa dimenticare che tutti, senza eccezione, abbiamo bisogno della misericordia di Dio e lui ci sorprende, poiché, come dice Isaia, i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri. E proprio nel perdono Dio ci sorprende di più. Pensiamo alla parabola evangelica degli operai dell’ultima ora: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? O sei invidioso perché io sono buono?» (cf Mt 20,15), a quella del figliol prodigo (Lc 15): quando il figlio ingrato ritorna dal padre, animato da motivazioni tutt’altro che nobili, Gesù mette sulle sue labbra una frase del Salmo 50: “Contro di te, contro te solo ho peccato”. E con questa sola frase, il legame spezzato viene riallacciato. Davanti all’annuncio sempre nuovo della misericordia di Dio, il popolo d’Israele, che nei Salmi parla a nome di tutti noi, si riconosce peccatore. Il suo pentimento non è dettagliato, non lo è mai nei Salmi penitenziali, ma esprime tutto in una semplice supplica: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro”. E Dio, che è tutta misericordia, attratto dalla miseria dell’uomo, non aspetta altro che questa umile confessione della nostra povertà. Ed è utile ricordare che “pietà” ha la stessa radice di “elemosina” e questo ci ricorda che siamo mendicanti di amore e di perdono davanti a Dio. Cosa fare allora: ringraziare e perdonare. Ringraziare per il perdono che Dio ci offre continuamente. In ogni celebrazione penitenziale, la preghiera più importante è il riconoscimento dei doni e del perdono di Dio. Prima di tutto, dobbiamo contemplare Dio stesso, e solo dopo possiamo riconoscerci peccatori. Il rito della Riconciliazione  afferma chiaramente che confessiamo l’amore di Dio insieme al nostro peccato e la lode scaturirà spontanea dalle nostre labbra: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclamerà la tua lode” (questa è la frase che apre la Liturgia delle Ore, ogni mattina ed è tratta proprio dal Salmo 50/51) in cui viene ricordato che  la lode e la gratitudine nascono in noi solo se Dio apre il nostro cuore e le nostre labbra. E il secondo passo che Dio si aspetta da noi e costituisce il programma ascetico di tutta la vita è l’impegno a perdonare a nostra volta, senza indugi né condizioni. 

 

*Seconda Lettura dalla Seconda Lettera di san Paolo ai Corinti (5,20-6,2) 

“Lasciatevi riconciliare con Dio”! Paolo parla di riconciliazione ben consapevole della rottura dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Nell’Antico Testamento il popolo sapeva che Dio non è in contrasto con gli uomini, come il Salmo 102/103 esprime chiaramente:”Il Signore non è sempre in lite, non conserva per sempre il suo sdegno; non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe… Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe… Egli sa di che siamo plasmati, ricorda che siamo polvere”.  Ugualmente leggiamo in Isaia: “L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore, che avrà misericordia di lui, al nostro Dio, che largamente perdona” (Is 55,7), nel Libro della Sapienza: “Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, e chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento… La tua sovranità su tutti ti rende indulgente verso tutti” (Sap 11,23; 12,16). Davide fece questa esperienza quando uccise Uria, marito di Betsabea e Dio gli inviò il profeta Natan che in sostanza questo gli comunicò: Tutto ciò che hai, te l’ho dato io; e se non fosse ancora abbastanza, sarei pronto a darti ancora tutto ciò che desideri. Dio non ignorava neppure che Salomone aveva ottenuto il trono eliminando i suoi rivali, eppure ascoltò la sua preghiera a Gabaon ed esaudì le sue richieste ben oltre ciò che il giovane re aveva osato domandare (1 Re 3). Ma c’è di più: il Nome stesso di Dio, “Misericordioso”, significa che ci ama tanto più quanto più siamo miseri. Dunque, Dio non è in lite con l’uomo. Eppure Paolo parla di riconciliazione, perché fin dall’inizio del mondo (Paolo dice «da Adamo», ma è la stessa cosa), è l’uomo che è in conflitto con Dio. Il racconto della Genesi (Gn 2-3) attribuisce al serpente l’origine di questa accusa contro Dio perché è geloso dell’uomo e non vuole il suo bene.: “Dio sa che quando ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gn 3,4) La Bibbia lascia intendere che questo sospetto non è naturale nell’uomo—è la voce del serpente, e dunque può essere curato. È proprio questo afferma san Paolo: “Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. E che cosa ha fatto Dio per rimuovere dal nostro cuore questa diffidenza? Continua l’apostolo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore” (2 Cor 5,21). Gesù non ha conosciuto il peccato anzi, come leggiamo nella  lettera ai Filippesi, Gesù si fece obbediente (Fil 2,8), e rimase sempre fiducioso, anche nella sofferenza e nella morte. Per questo insegna agli uomini questa fiducia e rivela che Di è tutto amore e perdono: è Misericordia. Per un paradosso incredibile Gesù per questa rivelazione fu considerato un bestemmiatore, trattato da peccatore e giustiziato come un maledetto (cf Dt 21,23). L’odio e la cecità degli uomini si abbatterono su di lui e il Padre lasciò fare, perché questo era l’unico modo per farci toccare con mano fin dove “il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo” come afferma il profeta Gioele. Gesù ha affrontato il peccato degli uomini, la violenza, l’odio, il rifiuto di un Dio che è Amore e sulla croce appare fin dove arriva l’orrore del peccato umano e fin dove arrivano la dolcezza e il perdono di Dio. Ed è proprio da questa contemplazione che può nascere la nostra conversione, quella che Paolo chiama “giustificazione”. “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, leggiamo nel libro del profeta Zaccaria (Zc 12,10), ripreso da Giovanni (Gv 19,37). In Gesù morente che perdona i suoi carnefici scopriamo il volto stesso di Dio («Chi ha visto me ha visto il Padre» Gv 14,9) e, grazie a lui, siamo riconciliati da Dio. Compito dei battezzati è annunciare e testimoniare quest’amore, alla scuola di Paolo che grida: “Noi siamo ambasciatori di Cristo”, missione che coinvolge ognuno di noi. Chiude questo breve testo una citazione del profeta Isaia “Al momento favorevole ti ho esaudito

e nel giorno della salvezza ti ho soccorso” che parlava agli esuli a Babilonia, annunciando loro che l’ora della salvezza era giunta. Mentre Israele doveva annunciare la liberazione, perché le false immagini di Dio imprigionano il cuore degli uomini, Gesù Cristo ha affidato alla sua Chiesa la missione di annunciare al mondo la remissione dei peccati.

 

*Dal Vangelo secondo Matteo (6, 1-6. 16-18)

Il vangelo oggi riporta due brevi tratti del Discorso della Montagna, che occupa i capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo. Tutto il discorso ruota attorno a un nucleo centrale che è  il Padre Nostro (Mt 6,9-13), la preghiera che dà senso a tutto il resto. Questo indica che le esortazioni, qui riportate, non sono semplici consigli morali, bensì conducono al cuore della fede e il messaggio è il seguente: tutte le nostre azioni devono radicarsi nella scoperta che Dio è Padre. Preghiera, elemosina e digiuno non sono quindi solo pratiche religiose, ma strade per avvicinarci al Dio-Padre: Digiunare significa imparare a spostare il centro da noi stessi e con la preghiera centriamo la nostra vita su Dio mentre l’elemosina apre il nostro cuore ai fratelli. Per tre volte Gesù usa espressioni che invitano a non essere come coloro che amano mettersi in mostra. Avevano certamente grande importanza le pratiche religiose nella società ebraica dell’epoca e il rischio era quello di dare troppo valore alle manifestazioni esteriori come taluni facevano. Matteo ricorda i rimproveri di Gesù a coloro che badavano più alla lunghezza delle loro frange che alla misericordia e alla fedeltà (Mt 23,5ss). Qui, Gesù invita i suoi discepoli a un’autentica purificazione interiore perché per essere veramente giusti bisogna evitate di agire davanti agli uomini per essere ammirati da loro. La giustizia era un tema fondamentale per i credenti e nelle Beatitudinine Gesù ne parla due volte: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati.” (Mt 5,6)  “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli.” (Mt 5,10) Ma nel linguaggio biblico, la vera giustizia non consiste nell’accumulare pratiche religiose, per quanto possano essere nobili. Vera giustizia è essere in armonia con il progetto di Dio come già leggiamo nella Genesi: “Abramo credette al Signore, e per questo il Signore lo considerò giusto.” (Gen 15,6). Non quindi una giustizia che è moralismo, bensì una sintonia e un accordo profondo con Dio.  Preghiera, digiuno, elemosina diventano tre vie per vivere la giustizia: Nella preghiera, lasciamo che Dio ci plasmi secondo il suo progetto:“Sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà.”E proprio per questo, Gesù raccomanda: “Quando pregate, non sprecate parole come fanno i pagani; il Padre vostro sa di cosa avete bisogno prima ancora che glielo chiediate.” (Mt 6,7-8) Il digiuno è sulla stessa linea: ci libera dall’illusione di ciò che crediamo essenziale per essere felici, ma che spesso finisce per imprigionarci. Gesù stesso, digiunando nel deserto, risponde a satana:“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio.” (Mt 4,4)  L’elemosina è il frutto del nostro cammino di giustizia, perché ci rende misericordiosi.Non a caso, il termine greco per elemosina deriva dalla stessa radice di eleison («abbi pietà») e fare elemosina significa aprire il cuore alla compassione. Poiché Dio ama tutti i suoi figli non ci può essere vera giustizia senza giustizia sociale. E questo lo vediamo chiaramente nel giudizio finale: “Venite, benedetti del Padre mio… Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…”E alla fine:“I giusti andranno alla vita eterna.” (Mt 25,31-46). In definitiva coloro che ostentano sono in contrasto con la vera giustizia perché mostrano una forma sottile di egoismo spirituale, un modo per rimanere centrati su sé stessi. E il vero dramma è che questo atteggiamento ci chiude il cuore all’azione santificatrice dello Spirito.

+Giovanni D’Ercole

VIII Domenica del Tempo Ordinario (anno C)  2 Marzo 2025

 Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

 

*Prima Lettura dal Libro del Siracide (27, 4-7)

 Si tratta di un libro della Bibbia che ha avuto un percorso piuttosto movimentato. Per iniziare, porta tre nomi: Ben Sira il Saggio, Siracide, l’Ecclesiastico. Siracide o Ben Sira sono due nomi simili, entrambi legati al suo nome di famiglia. “Ben” significa “figlio di”, quindi l’autore è figlio di Sira. Alla fine del libro, si firma “Gesù, figlio di Sira”, il che offre un’indicazione ulteriore, dato che Gesù è un nome tipicamente ebraico. Si tratta dunque di un ebreo di Gerusalemme che scrive in ebraico e il titolo “il Saggio” fa capire che non si tratta di un libro storico né profetico, ma di uno di quei libri chiamati “sapienziali”. Si dice Ecclesiastico perché nei primi secoli del Cristianesimo, la Chiesa faceva leggere questo libro ai nuovi battezzati per completare la loro formazione morale. Il libro fu scritto da Ben Sira a Gerusalemme in ebraico verso il 180 a.C., tradotto in greco circa cinquant’anni dopo, intorno al 130 a.C. dal suo stesso nipote ad Alessandria d’Egitto. Nella Bibbia, il Siracide occupa un posto particolare: appartiene ai libri chiamati “deuterocanonici”. Infatti, quando alla fine del primo secolo d.C. i dottori della legge fissarono in modo definitivo la lista ufficiale degli scritti considerati parte della Bibbia, non furono inclusi tutti i libri che circolavano in Israele. Alcuni testi erano riconosciuti da tutti da quasi sempre come Parola di Dio – per esempio, il Libro della Genesi o dell’Esodo. Ma per alcuni testi più recenti, la questione rimaneva aperta. Il Siracide rientrava tra questi e alla fine fu escluso perché per entrare nel canone ufficiale della Bibbia ebraica, un libro doveva essere scritto in ebraico e redatto nella terra di Israele. Ma all’epoca della fissazione del canone (fine del I secolo d.C.), l’originale ebraico del Siracide era perduto e circolava solo la traduzione greca ad Alessandria. Per questo, il libro non venne accettato dalle comunità ebraiche della terra d’Israele. Tuttavia, nelle comunità ebraiche della diaspora (soprattutto ad Alessandria), era già considerato parte della Bibbia, quindi continuò a essere riconosciuto.

La Comunità cristiana invece lo ricevette in eredità attraverso le comunità di lingua greca, e così il Siracide entrò a far parte del canone biblico cristiano.  L’autore, Ben Sira, forse aveva fondato una scuola di saggezza a Gerusalemme e lo si deduce dagli ultimi capitoli del libro, che sembrano una raccolta di insegnamenti per giovani studenti ebrei, apprendisti filosofi, a Gerusalemme intorno al 180 a.C.  

Gerusalemme in quel tempo era sotto il dominio greco, ma l’occupazione era relativamente liberale e pacifica dato che le persecuzioni ebbero inizio più tardi, sotto Antioco Epifane, verso il 165 a.C. Tuttavia, sebbene il potere greco rispettasse la religione ebraica, il contatto tra le due culture metteva in pericolo la purezza della fede.

Questa eccessiva apertura culturale poteva portare a un sincretismo pericoloso, un problema simile a quello del nostro tempo: viviamo infatti in un’epoca di tolleranza che può facilmente trasformarsi in indifferenza religiosa. Non è forse vero che oggi siamo come in un supermercato delle idee e dei valori, dove ognuno prende ciò che preferisce e questo sembra persino logico e da accettare come la migliore scelta?  Uno degli obiettivi di Ben Sira era di trasmettere la fede ebraica nella sua integrità, in particolare l’amore per la Legge di Dio (Torah). Secondo lui, la vera saggezza risiedeva nella Legge d’Israele. Israele doveva preservare la propria identità e la propria fede per mantenere vivo l’insegnamento dei Padri nella fede e la purezza dei costumi e si ritenevano questi i principi fondamentali per la sopravvivenza del popolo eletto. 

Venendo al contenuto, il libro è come una raccolta di massime e proverbi interessanti ma non sempre immediatamente comprensibili per noi, perché utilizzano immagini e modi di dire appartenenti a un’altra cultura. Nel testo di oggi Ben Sira usa tre immagini che all’epoca erano molto comuni. Se l’oro viene passato al setaccio appaiono evidenti le scorie; quando un vaso viene cotto nel forno, si vede subito se è stato ben lavorato e un albero sano produce frutti buoni. Ecco allora che come il setaccio separa l’oro dalle impurità, il fuoco del forno rivela le qualità del vaso e dai frutti si riconosce se l’albero è sano o malato, così le nostre parole rivelano la vera natura del nostro cuore perché solo un cuore buono dirà parole buone. Circa duecento anni dopo, Gesù insegna la stessa cosa come leggiamo nel vangelo di questa domenica: “L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 6,45). Le nostre parole sono lo specchio del nostro cuore.

 

*Salmo responsoriale (91 (92), 2-3. 13-14. 15-16)

Israele ha accusato Dio di inganno nel deserto del Sinai quando la disidratazione minacciava uomini e animali: è il celebre episodio di Massa e Meriba (Es 17,1-7).  Dio però si è dimostrato più grande dell’ira del suo popolo: ha fatto scaturire acqua da una roccia. Da allora, Dio è stato chiamato la nostra roccia per ricordare la sua fedeltà, più salda di tutti i sospetti del popolo. Da questa roccia Israele ha attinto l’acqua della sua sopravvivenza… ma soprattutto, nei secoli, è diventata la sorgente della sua fede e della sua fiducia. Questo concetto è espresso alla fine del salmo: “per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia”. Il riferimento alla roccia richiama l’esperienza del deserto e la fedeltà di Dio, più forte di ogni ribellione. Anche l’espressione “il tuo amore e la tua fedeltà” (v 3) richiama l’esperienza del deserto: sono le parole che Dio stesso ha usato per rivelarsi al suo popolo: “Il Signore Dio misericordioso e benevolo, lento all’ira, ricco di fedeltà e lealtà…” espressione ripresa molte volte nella Bibbia, soprattutto nei salmi, come segno dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo: “Dio d’amore e di fedeltà, lento all’ira e ricco di misericordia” (Es 34,6).  L’episodio di Massa e Meriba – la prova nel deserto, il sospetto del popolo, l’intervento di Dio – si è ripetuto così spesso che Israele ha finito per capire che si tratta di un rischio costante: l’uomo è sempre tentato di sospettare di Dio quando le cose non vanno come si desidera. Il racconto del Giardino dell’Eden aiuta a comprendere quest’importante insegnamento: l’astuto serpente riesce a convincere i progenitori che è Dio a ingannarli. Infatti travisa il pensiero di Dio affermando che vieta loro i frutti migliori con la scusa di proteggerli quando in realtà è l’opposto e Adamo ed Eva si lasciano ingannare. Purtroppo è una storia che si ripete nel corso della storia e come è possibile evitare l’inganno demoniaco? Questo salmo ci aiuta suggerendosi di avere fiducia: “é bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte”. E’ infatti un bene per noi lodare il Signore e cantare al suo nome e Israele ha compreso che lodare, cantare per Dio fa bene soprattutto all’uomo stesso. Sant’Agostino lo dirà chiaramente: “Tutto ciò che l’uomo fa per Dio, giova all’uomo e non a Dio.” Cantare per Dio, aprire gli occhi sul suo amore e sulla sua fedeltà, di giorno e di notte, ci protegge dalle astuzie del serpente. In questo salmo, l’espressione “è bello” corrisponde al termine ebraico “tôv”, lo stesso usato per dire “buono da mangiare”, però per saperlo, occorre averne fatto esperienza e per questo il salmo aggiunge nel versetto 7 (che oggi non leggiamo): “L’uomo insensato non li conosce e lo stolto non capisce”, ma il credente sa bene “quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità”.  Soltanto una fiducia incrollabile nell’amore di Dio può illuminare la vita dell’uomo in ogni circostanza mentre la diffidenza e il sospetto distorcono completamente la nostra visione della realtà. Sospettare di Dio è un tranello mortale. Chi si affida a Dio è come un albero sempre verde, che mantiene sempre la sua linfa e la sua freschezza (cf salmo1). Gesù parlerà di “acqua viva” riprendendo un’immagine familiare alla gente di allora. Non solo è un bene per noi stessi lodare e cantare l’amore di Dio, ma diventa un bene anche per gli altri ascoltarlo da noi. Per tale scopo il salmo ripete all’inizio e alla fine: “È bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, e annunciare al il tuo amore”. “Annunciare” significa proclamare agli altri, ai non credenti:  ancora una volta, Israele ricorda la sua missione di testimone dell’amore di Dio per tutti gli uomini. Per concludere annoto che questo salmo porta un’intestazione: “Salmo per il giorno di sabato”, il giorno per eccellenza in cui si canta l’amore e la fedeltà di Dio. Si potrebbe fare di questo salmo il salmo della domenica, pefrchè per noi la domenica è la celebrazione dell’amore e della fedeltà di Dio che in Gesù Cristo si sono manifestati in modo definitivo 

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo Apostolo ai Corinti (15,54-58)

 Da diverse settimane leggiamo il capitolo 15 della prima lettera di Paolo ai Corinzi, che è una lunga riflessione sulla Risurrezione. Oggi Paolo conclude la sua meditazione con un grido di trionfo: «Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (v 57). E’ la vittoria della Risurrezione perché, come egli scrive, ciò che è corruttibile in noi diventerà incorruttibile, ciò che è mortale rivestirà l’immortalità (v 53): l’immortalità, l’incorruttibilità sono prerogative di Dio. Solo così diventeremo a immagine e somiglianza di Dio, secondo il progetto originario annunciato e realizzato durante l’intero itinerario della Bibbia, con i molteplici fallimenti dell’umanità e i continui interventi di Dio per salvare il suo disegno d’amore. E’ il disegno della salvezza: Dio cioè ci salva per essere veramente felici e lo compie attraverso varie tappe che la lettera agli Efesini riassume così: “facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”. (Ef 1, 9-10). Nel creare l’umanità il Signore aveva il progetto di renderla felice, unita, colma dello Spirito di Dio, ammessa a condividere la vita della Trinità. Progetto che mai è venuto meno e sussiste per sempre poiché i disegni del cuore di Dio durano di generazione in generazione (cf sal 32/33). Lo annota il profeti Isaia: ”Il mio progetto sussisterà e tutto ciò che mi piace lo compirò “(Is 46, 1) e anche Geremia: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di prosperità e non di sventura: vi darò un futuro e una speranza» (Ger 29, 11). La storia dell’umanità ha dunque senso, significato e direzione. Sappiamo cioè dove andiamo e gli anni non si susseguono tutti uguali, perché Dio ha un progetto, un piano ben preciso. Siamo orientati verso il futuro e aspettiamo che questo disegno giunga a compimento pregando con il Padre nostro, che venga il suo regno e si compia la sua volontà come in cielo così in terra. Tuttavia la storia testimonia che l’umanità è in rovina rispetto a questo progetto e gli uomini non sembrano collaborare. Dio rispetta la nostra libertà e noi spesso sembriamo per nulla disposti ad ascoltare la voce di Dio perché è un progetto che supera le nostre prospettive razionali. Ma perché meravigliarsi? San Paolo afferma che questo progetto – lo chiama mistero della volontà di Dio - ci supera ed è impensabile per noi. L’umanità ha però due scelte: accettare il progetto e impegnarsi per farlo avanzare, oppure rifiutarlo e cercare altrove la propria felicità. Adamo è l’esempio di chi rifiuta e prende un’altra direzione, a suo danno. Dio però resta paziente e salverà il suo progetto non lasciandosi scoraggiare dalla cattiva volontà dell’uomo perché  nessuno e nulla potranno spegnere il fuoco dell’amore di Dio per noi. Leggiamo nel Cantico dei Cantici che «Le grandi acque non potrebbero spegnere l’Amore e i fiumi non lo sommergerebbero» (Ct 8, 6-7a). Sta proprio qui la nostra speranza che Paolo proclama con vigore: “Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?". Non è certamente la morte biologica a separarci da lui e dai nostri fratelli, poiché risusciteremo, ma la morte spirituale, conseguenza del peccato. Tuttavia pure il peccato è sconfitto da Gesù Cristo: d’ora in poi, innestati in Cristo risorto, possiamo vivere come lui e con lui vincere la partita dell’amore. Anzi Paolo afferma che la vittoria è già acquisita: contrariamente a quanto sembra, la morte e il peccato sono i grandi sconfitti e il progetto di Dio è salvo: Gesù con il perdono dato a tutti, ci libera dalle nostre colpe e, se vogliamo, la porta è aperta allo Spirito Santo. Possiamo allora vivere l’amore e la fraternità per cui siamo creati. Risuona in noi il grido di trionfo di san Paolo: “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” Non ci resta che proseguire nell’impegno della lotta con Cristo: “Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore”. 

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (6, 39-45)

 Troviamo qui diverse istruzioni di Gesù che sono come avvertimenti che concernono le relazioni all’interno della comunità cristiana, raccomandazioni presenti anche nei vangeli di Matteo e di Giovanni pur in ordine sparso e proclamate in contesti diversi. San Luca le ha riunite qui perché probabilmente vedeva un legame tra di esse ed è proprio tale legame che cerchiamo insieme di capire. Per meglio procedere dividiamo il testo in due parti: la prima è una riflessione sullo sguardo, mentre la seconda è la metafora dell’albero e dei frutti. Nella prima parte Gesù sviluppa il tema dello sguardo e comincia con una constatazione: un cieco non può guidare un altro cieco ed è chiaro il messaggio: occorre fare bene attenzione perché quando ci si pone come guide, non bisogna dimenticare che siamo ciechi dalla nascita. Va in tale direzione l’apologo della pagliuzza e della trave giacché con una trave nell’occhio, si è davvero ciechi e non è possibile pretendere di curare la cecità degli altri. Tra queste due osservazioni, Luca inserisce una frase che a prima vista sembra enigmatica: “Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro”. La preparazione di cui parla Gesù è, in un certo senso, la guarigione di noi che siamo ciechi. È sempre lo stesso Luca a notare che i discepoli di Emmaus hanno iniziato a vedere chiaramente solo quando «Gesù aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45). Poiché Gesù è venuto nel mondo per aprire gli occhi ai ciechi, anche i suoi discepoli, guariti da lui dalla loro cecità, hanno la missione di portare al mondo la luce della rivelazione. Ciò che il profeta Isaia diceva del servo di Dio, nei cosiddetti canti del servo, è vero per Gesù Cristo, ma anche per i suoi discepoli: «Io ti ho destinato a essere luce delle nazioni, per aprire gli occhi ai ciechi, per liberare dal carcere il prigioniero e dalla prigione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,6-7). Una missione quanto mai interessante, alla quale possiamo far fronte solo restando sempre sotto la luce del Maestro e lasciando che sia lui a guarire la nostra cecità. L’evangelista passa poi senza transizione alla metafora dell’albero e dei frutti, il che suggerisce che il tema sia ancora lo stesso: il vero discepolo, che si lascia illuminare da Gesù Cristo, porta buoni frutti, ma chi al contrario non lascia che sia Gesù Cristo ad illuminarlo, rimane nella sua cecità e produce frutti cattivi. Occorre adesso capire di quali frutti si tratta. Tenendo conto che il testo è dopo un intero discorso di Gesù sull’amore reciproco, possiamo capire che i frutti sono legati al nostro comportamento. La norma guida è “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (lc 6,36).  Per i contemporanei di Gesù non era difficile capire questo linguaggio: sapevano infatti che il Padre aspetta da noi frutti di giustizia e di misericordia, che possono essere sia azioni che parole perché “la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Lc 6,45). Nella prima lettura abbiamo letto che il frutto manifesta la qualità dell’albero; allo stesso modo la parola rivela i sentimenti e non bisogna lodare nessuno prima che abbia parlato, perché è proprio la sua parola che permette di giudicarlo. E’ davvero straordinario come in poche parole Luca abbia sviluppato l’intero mistero cristiano: quando ci lasciamo formare da Cristo veniamo trasformati in tutto il nostro essere: nello sguardo, nel comportamento e nel linguaggio. Insegnamento che torna spesso nel Nuovo Testamento come, ad esempio, nella Lettera ai Filippesi: «Voi risplendete come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita» (Fil 2,15-16), oppure nella Lettera agli Efesini: “Un tempo eravate tenebre, ora siete luce nel Signore. Vivete come figli della luce. Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef 5,8). Il primo passo consiste nell’imparare a guardare gli altri come Dio li guarda: con uno sguardo che non giudica, non condanna, che non si compiace nel rimarcare una pagliuzza nell’occhio dell’altro, cioè nel notare qualcosa di veramente minuscolo. Come la paglia è spazzata via dal vento e quindi senza spessore e  importanza, allo stesso modo vanno calcolati i difetti degli altri. Se Gesù non da ad essi importanza, Il discepolo ben formato alla sua scuola sarà come il suo maestro. A questa frase segue tutto il discorso sulla misericordia di Dio e sulla nostra vocazione a somigliargli, un programma di vita molto ambizioso: amate i vostri nemici, siate misericordiosi, non giudicate, non condannate perché il Padre vostro è misericordioso e noi siamo chiamati a essere la sua immagine nel mondo. Gesù conclude così: la bocca del discepolo esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. Per diventare immagine di Dio il segreto è immergerci nella sua Parola.

+Giovanni D’Ercole

 

 

Commento Breve:

*Prima Lettura dal Libro del Siracide (27, 4-7)

 Si tratta di un libro della Bibbia che ha avuto un percorso piuttosto movimentato. Per iniziare, porta tre nomi: Ben Sira il Saggio, Siracide, l’Ecclesiastico. Siracide o Ben Sira sono due nomi simili, entrambi legati al suo nome di famiglia. “Ben” significa “figlio di”, quindi l’autore è figlio di Sira. Alla fine del libro, si firma “Gesù, figlio di Sira”, il che offre un’indicazione ulteriore, dato che Gesù è un nome tipicamente ebraico. Si tratta dunque di un ebreo di Gerusalemme che scrive in ebraico e il titolo “il Saggio” fa capire che non si tratta di un libro storico né profetico, ma di uno di quei libri chiamati “sapienziali”. Si dice Ecclesiastico perché nei primi secoli del Cristianesimo, la Chiesa faceva leggere questo libro ai nuovi battezzati per completare la loro formazione morale. Il libro fu scritto da Ben Sira a Gerusalemme in ebraico verso il 180 a.C., tradotto in greco circa cinquant’anni dopo, intorno al 130 a.C. dal suo stesso nipote ad Alessandria d’Egitto. Nella Bibbia, il Siracide occupa un posto particolare: appartiene ai libri chiamati “deuterocanonici”. Infatti, quando alla fine del primo secolo d.C. i dottori della legge fissarono in modo definitivo la lista ufficiale degli scritti considerati parte della Bibbia, non furono inclusi tutti i libri che circolavano in Israele. Alcuni testi erano riconosciuti da tutti da quasi sempre come Parola di Dio – per esempio, il Libro della Genesi o dell’Esodo. Ma per alcuni testi più recenti, la questione rimaneva aperta. Il Siracide rientrava tra questi e alla fine fu escluso perché per entrare nel canone ufficiale della Bibbia ebraica, un libro doveva essere scritto in ebraico e redatto nella terra di Israele. Ma all’epoca della fissazione del canone (fine del I secolo d.C.), l’originale ebraico del Siracide era perduto e circolava solo la traduzione greca ad Alessandria. Per questo, il libro non venne accettato dalle comunità ebraiche della terra d’Israele. Tuttavia, nelle comunità ebraiche della diaspora (soprattutto ad Alessandria), era già considerato parte della Bibbia, quindi continuò a essere riconosciuto. La Comunità cristiana invece lo ricevette in eredità attraverso le comunità di lingua greca, e così il Siracide entrò a far parte del canone biblico cristiano. 

Venendo al contenuto, il libro è come una raccolta di massime e proverbi utilizzando immagini e modi di dire appartenenti a un’altra cultura. Nel testo di oggi Ben Sira usa tre immagini che all’epoca erano molto comuni. Se l’oro viene passato al setaccio appaiono evidenti le scorie; quando un vaso viene cotto nel forno, si vede subito se è stato ben lavorato e un albero sano produce frutti buoni. Ecco allora che come il setaccio separa l’oro dalle impurità, il fuoco del forno rivela le qualità del vaso e dai frutti si riconosce se l’albero è sano o malato, così le nostre parole rivelano la vera natura del nostro cuore perché solo un cuore buono dirà parole buone. Gesù insegna la stessa cosa come leggiamo nel vangelo di questa domenica: “L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 6,45). Le nostre parole sono lo specchio del nostro cuore.

 

*Salmo responsoriale (91 (92), 2-3. 13-14. 15-16)

Israele ha accusato Dio di inganno nel deserto del Sinai quando la disidratazione minacciava uomini e animali: è il celebre episodio di Massa e Meriba (Es 17,1-7).  Dio però si è dimostrato più grande dell’ira del suo popolo: ha fatto scaturire acqua da una roccia. Da allora, Dio è stato chiamato la nostra roccia per ricordare la sua fedeltà, più salda di tutti i sospetti del popolo. Da questa roccia Israele ha attinto l’acqua della sua sopravvivenza… ma soprattutto, nei secoli, è diventata la sorgente della sua fede e della sua fiducia. Questo concetto è espresso alla fine del salmo: “per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia”. Il racconto del Giardino dell’Eden l’astuto serpente riesce a convincere i progenitori che è Dio a ingannarli. Infatti travisa il pensiero di Dio affermando che vieta loro i frutti migliori con la scusa di proteggerli quando in realtà è l’opposto e Adamo ed Eva si lasciano ingannare. Purtroppo è una storia che si ripete nel corso della storia e come è possibile evitare l’inganno demoniaco? Questo salmo ci aiuta suggerendosi di avere fiducia: “é bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte”. Cantare per Dio fa bene soprattutto all’uomo e  sant’Agostino lo dirà chiaramente: “Tutto ciò che l’uomo fa per Dio, giova all’uomo e non a Dio.” Cantare per Dio, aprire gli occhi sul suo amore e sulla sua fedeltà, di giorno e di notte, ci protegge dalle astuzie del serpente. Soltanto una fiducia incrollabile nell’amore di Dio può illuminare la vita dell’uomo in ogni circostanza mentre la diffidenza e il sospetto distorcono completamente la nostra visione della realtà. Sospettare di Dio è un tranello mortale. Chi si affida a Dio è come un albero sempre verde, che mantiene sempre la sua linfa e la sua freschezza (cf salmo1). Per concludere annoto che questo salmo porta un’intestazione: “Salmo per il giorno di sabato”, il giorno per eccellenza in cui si canta l’amore e la fedeltà di Dio. Si potrebbe fare di questo salmo il salmo della domenica, perché per noi la domenica è la celebrazione dell’amore e della fedeltà di Dio che in Gesù Cristo si sono manifestati in modo definitivo  

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo Apostolo ai Corinti (15,54-58)

 Da diverse settimane leggiamo il capitolo 15 della prima lettera di Paolo ai Corinzi, che è una lunga riflessione sulla Risurrezione. Oggi Paolo conclude la sua meditazione con un grido di trionfo: «Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (v 57). E’ la vittoria della Risurrezione perché, come egli scrive, ciò che è corruttibile in noi diventerà incorruttibile, ciò che è mortale rivestirà l’immortalità (v 53): l’immortalità, l’incorruttibilità sono prerogative di Dio. Solo così diventeremo a immagine e somiglianza di Dio, secondo il progetto originario annunciato e realizzato durante l’intero itinerario della Bibbia, con i molteplici fallimenti dell’umanità e i continui interventi di Dio per salvare il suo disegno d’amore. Nel creare l’umanità il Signore aveva il progetto di renderla felice, unita, colma dello Spirito di Dio, ammessa a condividere la vita della Trinità. Progetto che mai è venuto meno e sussiste per sempre poiché i disegni del cuore di Dio durano di generazione in generazione (cf sal 32/33). La storia dell’umanità ha dunque senso, significato e direzione. Sappiamo cioè dove andiamo e gli anni non si susseguono tutti uguali, perché Dio ha un progetto, un piano ben preciso. Siamo orientati verso il futuro e aspettiamo che questo disegno giunga a compimento pregando con il Padre nostro, che venga il suo regno e si compia la sua volontà come in cielo così in terra. Tuttavia la storia testimonia che l’umanità è in rovina rispetto a questo progetto e gli uomini non sembrano collaborare. Dio rispetta la nostra libertà e noi spesso sembriamo per nulla disposti ad ascoltare la voce di Dio perché è un progetto che supera le nostre prospettive razionali. Ma perché meravigliarsi? San Paolo afferma che questo progetto – lo chiama mistero della volontà di Dio - ci supera ed è impensabile per noi. L’umanità ha però due scelte: accettare il progetto e impegnarsi per farlo avanzare, oppure rifiutarlo e cercare altrove la propria felicità. Adamo è l’esempio di chi rifiuta e prende un’altra direzione, a suo danno. Dio però resta paziente e salverà il suo progetto non lasciandosi scoraggiare dalla cattiva volontà dell’uomo perché nessuno e nulla potranno spegnere il fuoco dell’amore di Dio per noi. Non è certamente la morte biologica a separarci da lui e dai nostri fratelli, poiché risusciteremo, ma la morte spirituale, conseguenza del peccato. Tuttavia pure il peccato è sconfitto da Gesù Cristo: d’ora in poi, innestati in Cristo risorto, possiamo vivere come lui e con lui vincere la partita dell’amore. Anzi Paolo afferma che la vittoria è già acquisita: contrariamente a quanto sembra, la morte e il peccato sono i grandi sconfitti e il progetto di Dio è salvo: Gesù con il perdono dato a tutti, ci libera dalle nostre colpe e, se vogliamo, la porta è aperta allo Spirito Santo. Possiamo allora vivere l’amore e la fraternità per cui siamo creati.

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (6, 39-45)

 Troviamo qui diverse istruzioni di Gesù che sono come avvertimenti che concernono le relazioni all’interno della comunità cristiana, raccomandazioni presenti anche nei vangeli di Matteo e di Giovanni pur in ordine sparso e proclamate in contesti diversi. San Luca le ha riunite qui perché probabilmente vedeva un legame tra di esse ed è proprio tale legame che cerchiamo insieme di capire. Per meglio procedere dividiamo il testo in due parti: la prima è una riflessione sullo sguardo, mentre la seconda è la metafora dell’albero e dei frutti. Nella prima parte Gesù sviluppa il tema dello sguardo e comincia con una constatazione: un cieco non può guidare un altro cieco ed è chiaro il messaggio: occorre fare bene attenzione perché quando ci si pone come guide, non bisogna dimenticare che siamo ciechi dalla nascita. Va in tale direzione l’apologo della pagliuzza e della trave giacché con una trave nell’occhio, si è davvero ciechi e non è possibile pretendere di curare la cecità degli altri. Tra queste due osservazioni, Luca inserisce una frase che a prima vista sembra enigmatica: “Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro”. La preparazione di cui parla Gesù è, in un certo senso, la guarigione di noi che siamo ciechi. È sempre lo stesso Luca a notare che i discepoli di Emmaus hanno iniziato a vedere chiaramente solo quando «Gesù aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45). Poiché Gesù è venuto nel mondo per aprire gli occhi ai ciechi, anche i suoi discepoli, guariti da lui dalla loro cecità, hanno la missione di portare al mondo la luce della rivelazione. Una missione quanto mai interessante, alla quale possiamo far fronte solo restando sempre sotto la luce del Maestro e lasciando che sia lui a guarire la nostra cecità. L’evangelista passa poi senza transizione alla metafora dell’albero e dei frutti, il che suggerisce che il tema sia ancora lo stesso: il vero discepolo, che si lascia illuminare da Gesù Cristo, porta buoni frutti, ma chi al contrario non lascia che sia Gesù Cristo ad illuminarlo, rimane nella sua cecità e produce frutti cattivi. Occorre adesso capire di quali frutti si tratta. Tenendo conto che il testo è dopo un intero discorso di Gesù sull’amore reciproco, possiamo capire che i frutti sono legati al nostro comportamento. La norma guida è “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (lc 6,36).  Nella prima lettura abbiamo letto che il frutto manifesta la qualità dell’albero; allo stesso modo la parola rivela i sentimenti e non bisogna lodare nessuno prima che abbia parlato, perché è proprio la sua parola che permette di giudicarlo. E’ davvero straordinario come in poche parole Luca abbia sviluppato l’intero mistero cristiano: quando ci lasciamo formare da Cristo veniamo trasformati in tutto il nostro essere: nello sguardo, nel comportamento e nel linguaggio. Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef 5,8). Il primo passo consiste nell’imparare a guardare gli altri come Dio li guarda: con uno sguardo che non giudica, non condanna, che non si compiace nel rimarcare una pagliuzza nell’occhio dell’altro, cioè nel notare qualcosa di veramente minuscolo. Come la paglia è spazzata via dal vento e quindi senza spessore e importanza, allo stesso modo vanno calcolati i difetti degli altri. Se Gesù non da ad essi importanza, Il discepolo ben formato alla sua scuola sarà come il suo maestro. Gesù conclude così: la bocca del discepolo esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. Per diventare immagine di Dio il segreto è immergerci nella sua Parola.

+Giovanni D’Ercole

Il Signore ci benedica e la Vergine ci protegga!

VII Domenica del tempo Ordinario anno C (23 febbraio 2025)

 

Lettura dal Primo Libro di Samuele (26,2.7-9.12-13.22-23)

Saul fu il primo re del popolo d’Israele, intorno al 1040 a.C. I testi dicono che «nessun figlio d’Israele era più bello di lui, e superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo» (1 Sam 9,2). Era un contadino, originario di una famiglia semplice della  tribù di Beniamino, scelto da Dio e consacrato re dal profeta Samuele che inizialmente esitò  perché diffidava della monarchia in generale, ma dovette obbedire a Dio. Saul fu consacrato con l’unzione dell’olio e portava il titolo di “messia”.  Dopo un buon inizio, Saul purtroppo diede ragione ai peggiori timori di Samuele: il suo piacere personale, l’amore per il potere e per la guerra prevalsero sulla fedeltà all’Alleanza. Fu così grave che, senza attendere la fine del suo regno, Samuele, su ordine di Dio, si mise a cercare il suo successore e scelse Davide, il piccolo pastore di Betlemme, l’ottavo figlio di Iesse. Davide fu accolto alla corte di Saul e divenne pian piano un abile capo di guerra, i cui successi erano sulla bocca di tutti. Un giorno, Saul  udì il canto popolare che circolava ovunque: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18,7) e fu preso dalla gelosia che  divenne così feroce nei confronti di Davide da farlo impazzire. Davide dovette fuggire più volte per salvarsi, ma contrariamente ai sospetti di Saul, Davide non venne mai meno alla sua lealtà verso il re. Nell’episodio che ci viene qui narrato è Saul a prendere l’iniziativa: i tremila uomini di cui si parla furono radunati da lui con il solo scopo di soddisfare il suo odio per Davide. “Saul scese nel deserto di Zif con tremila uomini scelti d’Israele per cercare Davide” (v 2) e chiara era la sua intenzione: eliminarlo appena possibile. Ma la situazione si ribalta a favore di Davide: durante la notte Davide entra nel campo di Saul e trova tutti addormentati e quindi l’occasione favorevole per ucciderlo. Abisai, la guardia del corpo di Davide, non ha dubbi e si offre di ucciderlo: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” (v 8). Davide sorprende tutti, incluso Saul, che stenterà a credere ai suoi occhi quando vedrà la prova che Davide lo ha risparmiato. Si pongono due domande: perché Davide ha risparmiato colui che voleva la sua morte? L’unica ragione è il rispetto per la scelta di Dio: “Non ho voluto stendere la mano contro il messia del Signore” (v.11).  Perché la Bibbia racconta questo episodio? Ci sono certamente diversi motivi. Anzitutto, l’autore sacro vuole delineare il ritratto di Davide: rispettoso della volontà di Dio e magnanimo, che  rifiuta la vendetta e comprende che la Provvidenza non si manifesta mai attraverso la semplice consegna del nemico nelle proprie mani. In secondo luogo, perché il re regnante è intoccabile e non va dimenticato che questo racconto fu scritto alla corte di Salomone, il quale aveva tutto l’interesse a far passare questo insegnamento. Infine, questo testo rappresenta una tappa nella storia biblica, un momento nella pedagogia di Dio: prima di imparare ad amare tutti gli uomini, bisogna iniziare a trovare qualche buona ragione per amarne alcuni. Davide risparmia un nemico pericoloso perché questi è stato, a suo tempo, l’eletto di Dio. L’ultima tappa sarà comprendere che ogni uomo va rispettato ovunque perché in lui è segnata l’immagine di Dio. Siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio.

 

*Salmo 102 (103), 1-2, 3-4, 8. 10. 12-13

Questo salmo s’incontra più volte nei tre anni liturgici e possiamo ammirare il parallelismo dei versetti, una sorta di alternanza dei versi che si rispondono l’un l’altro. Sarebbe bene recitarlo o cantarlo a due voci, riga per riga o a due cori alternati. Primo coro: “Benedici il Signore, anima mia”… Secondo coro: “quanto è in me benedica  il suo santo nome santo”… Primo coro: “Egli perdona tutte le tue colpe … Secondo coro: “Non ci tratta secondo i nostri peccati”. E così via. Un’altra caratteristica è la tonalità gioiosa del rendimento di grazie. L’espressione “Benedici il Signore, anima mia” si ripete come inclusione nel primo e nell’ultimo versetto del salmo. Tra tutti i benefici, i versetti scelti per questa domenica insistono sul perdono di Dio: “Egli perdona tutte le tue colpe… Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore; non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe.” Più volte lo abbiamo notato: una delle grandi scoperte della Bibbia è che Dio è solo amore e perdono. Ed è proprio per questo che è così diverso da noi e costantemente ci sorprende. Quando il profeta Isaia afferma: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, dice Dio; le vostre vie non sono le mie vie” (55,6-8), invita a cercare il Signore mentre si fa trovare, a invocarlo mentre è vicino. Invita l’empio ad abbandonare la sua via e l’uomo perverso i suoi pensieri, e aggiunge: “Ritorni al Signore che avrà misericordia di lui, al nostro Dio che largamente perdona” - e aggiunge - ”perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Proprio la congiunzione “perché” dà il senso a tutta la frase: è proprio la sua misericordia inesauribile a fare la differenza tra Dio e noi. Circa cinquecento anni prima di Cristo, si era già compreso che il perdono di Dio è incondizionato e che precede tutte le nostre preghiere o pentimenti. Il perdono di Dio non è un atto puntuale, un evento, ma è la sua essenza stessa. Tuttavia, siamo solo noi a poter compiere liberamente il gesto di andare a ricevere questo perdono di Dio e rinnovare l’Alleanza; Egli non ci forzerà mai e allora andiamo da lui con fiducia, compiamo il passo indispensabile per entrare nel perdono di Dio che è già acquisito. A ben vedere si tratta di una scoperta che risale a tempi molto antichi. Quando Natan annunciò al re Davide, che si era appena sbarazzato del marito della sua amante, Betsabea, il perdono di Dio, Davide in verità non aveva ancora avuto il tempo di esprimere il minimo pentimento.  Dopo avergli ricordato tutti i benefici con cui Dio lo aveva colmato, il profeta aggiunse: “E se questo fosse poco, aggiungerei ancora di più” (2 Sam 12,8). Ecco il significato della parola perdono, formata da due sillabe che è bene separare “per – dono” a indicare il dono perfetto, dono al di là dell’offesa e al di là dell’ingratitudine; è l’alleanza sempre offerta nonostante l’infedeltà. Perdonare chi ci ha fatto del male significa continuare, nonostante tutto, a offrirgli un’alleanza, una relazione di amore o di amicizia; significa accettare di rivedere quella persona, tendergli la mano, accoglierla comunque alla nostra tavola o nella nostra casa; significa rischiare un sorriso; significa rifiutare di odiare e di vendicarsi. Tuttavia, questo non significa dimenticare. Spesso si sente dire: posso perdonare ma non dimenticherò mai. In realtà, si tratta di due cose completamente diverse. Il perdono non è un colpo di spugna, non è né dimenticanza né cancellazione di quanto è successo perché nulla lo cancellerà, sia che si tratti di un bene o di un male. Ci sono offese che non si potranno mai dimenticare, perché è successo l’irreparabile. È proprio questo che conferisce grandezza e gravità alle nostre vite umane: se un colpo di spugna potesse cancellare tutto, che senso avrebbe agire bene? Potremmo fare qualsiasi cosa. Il perdono quindi non cancella il passato, ma apre al futuro. Spezza le catene della colpa, porta la liberazione interiore e ci permette di ripartire. Quando Davide fece uccidere il marito di Betsabea, nulla poté riparare il male commesso. Ma Davide, perdonato, poté rialzare la testa e cercare di non fare più il male. Quando i genitori perdonano l’assassino di un loro figlio non significa che dimenticano il crimine commesso ma proprio nel loro dolore trovano la forza necessaria per perdonare e il perdono diventa un atto profondamente liberatore per loro stessi. Chi viene perdonato non sarà mai più un innocente, ma può rialzare la testa. Senza arrivare a crimini così gravi, la vita di ogni giorno è segnata da gesti più o meno gravi che seminano ingiustizia o dolore. Perdonando e ricevendo il perdono si smette di guardare al passato e si volge lo sguardo verso il futuro. Avviene così nel nostro rapporto con Dio dato che nessuno può dirsi innocente, ma tutti siamo peccatori perdonati.

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,45-49)

Continua la meditazione di san Paolo sulla resurrezione di Cristo e sulla nostra e si rivolge a cristiani di origine greca che vorrebbero avere una risposta chiara e precisa sulla resurrezione della carne, sul quando e sul come avverrà. Paolo ha già spiegato domenica scorsa  che la resurrezione è un articolo di fede per cui non credere nella resurrezione dei morti, significa non credere nemmeno nella resurrezione di Cristo. Adesso affronta la domanda: Come risorgono i morti e con quale corpo ritornano? In verità riconosce di non sapere come saranno i risorti, ma ciò che può affermare con certezza è che il nostro corpo risorto sarà completamente diverso da quello terreno. Se pensiamo che Gesù apparso dopo la risurrezione non veniva subito riconosciuto dai suoi discepoli e Maria Maddalena lo ha scambiato per il giardiniere, ciò dimostra che era lo stesso e, allo stesso tempo, completamente diverso. Paolo distingue un corpo animale da un corpo spirituale e l’espressione corpo spirituale ha sorpreso i suoi ascoltatori che conoscevano la distinzione greca tra corpo e anima. Egli però, essendo ebreo, sa che il pensiero ebraico non contrappone mai il corpo e l’anima e la sua formazione giudaica lo ha condotto invece a contrapporre due tipi di comportamento: quello dell’uomo terreno e quello dell’uomo spirituale, inaugurato dal Messia. In ogni uomo, Dio ha insufflato un soffio di vita che lo rende capace di vita spirituale, ma rimane ancora un uomo terreno. Solo nel Messia abita pienamente lo Spirito stesso di Dio, che guida ogni sua azione. Paolo per argomentare fa riferimento alla Genesi, nella quale legge la vocazione dell’umanità, ma non la interpreta in modo storico. Per lui Adamo è un tipo di uomo o, meglio, un tipo di comportamento. Questa lettura può sembrarci insolita, ma dobbiamo abituarci a leggere i testi della creazione nella Genesi non come un resoconto degli eventi, bensì come racconti di vocazione. Creando l’umanità (Adamo è un nome collettivo), Dio la chiama a un destino straordinario. Adamo, l’essere terrestre, è chiamato a diventare il tempio dello Spirito di Dio. E va ricordato che nella Bibbia la Creazione non è considerata un evento del passato perché la Bibbia parla molto di più di Dio Creatore che della Creazione; parla del nostro rapporto con Dio: siamo stati creati da Lui, dipendiamo da Lui, siamo sospesi al suo soffio e non si tratta del passato, bensì del futuro. L’atto creativo ci viene presentato come un progetto ancora in corso: nei due racconti della creazione, l’uomo ha un ruolo da svolgere. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” nel primo racconto (Gn 1,28). “Il SIGNORE Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” nel secondo racconto (Gn 2,15). E questo compito riguarda tutti noi, poiché Adamo è un nome collettivo che rappresenta tutta l’umanità. La nostra vocazione, dice ancora la Genesi, è essere l’immagine di Dio, cioè abitati dallo Spirito stesso di Dio. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.” (Gn 1,26-27). Adamo è anche il tipo di uomo che non risponde alla sua vocazione; si è lasciato influenzare dal serpente, che gli ha instillato, come un veleno, la sfiducia verso Dio. Questo è ciò che Paolo chiama un comportamento terreno, come il serpente che striscia rasoterra. Gesù Cristo, il nuovo Adamo, invece, si lascia guidare solo dallo Spirito di Dio. In questo modo, egli realizza la vocazione di ogni uomo, cioè di Adamo; è questo il senso della frase di Paolo: “Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo  ( cioè il Cristo) divenne  spirito datore di vita.”

Chiaro il messaggio: il comportamento di Adamo conduce alla morte, quello di Cristo conduce alla vita. Noi però siamo costantemente combattuti tra questi due comportamenti, tra cielo e terra e possiamo fare nostra l’espressione di Paolo quando grida: “Infelice uomo che sono! Non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7,24.19). In altri termini la storia individuale e quella collettiva di tutta l’umanità è un lungo cammino per lasciarci abitare sempre di più dallo Spirito di Dio.  Scrive Paolo: “Il primo uomo tratto dalla terra è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli della terra e come è l’uomo celeste, così anche i celesti”. E san Giovanni osserva: “Carissimi, fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.» (1 Gv 3,2). L’immagine perfetta di Dio in Gesù Cristo, gli apostoli l’hanno vista sul volto di Cristo durante la Trasfigurazione.

Nota: il serpente strisciante per terra tenta l’umanità (Adamo – adam uomo collegato a adamah terra, non è il nome di una persona ma indica l’umanità intera  fatta di terra Gn1,26-27)  e il nome del serpente è nahash parola che può significare sia serpente che il dragone dell’Apocalisse: Gn3,15; Ap 12)

 

*Dal Vangelo secondo Luca (6, 27-38)

“Siate misericordiosi come il vostro Padre è misericordioso” e sarete allora figli dell’Altissimo, perché lui è buono con gli ingrati e i cattivi.  Questo è il programma di ogni cristiano, è la nostra vocazione. L’intera Bibbia appare come il racconto della conversione dell’uomo, che impara gradualmente a dominare la propria violenza. Non è certo un processo facile, ma Dio è paziente, perché, come dice san Pietro , un giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno (cf 2 Pt 3,8) ed educa il suo popolo con tanta pazienza, come leggiamo nel Deuteronomio: “Come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te” (Dt 8,5). Questa lenta estirpazione della violenza dal cuore dell’uomo è espressa in modo figurato fin dal libro della Genesi: la violenza viene presentata come una forma di animalità. Riprendiamo il racconto del giardino dell’Eden: Dio aveva invitato Adamo a dare un nome agli animali, a simboleggiare la sua superiorità su tutte le creature. Dio aveva infatti concepito Adamo come il re della creazione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza. Domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Gn 1,26). E lo stesso Adamo si era riconosciuto diverso, superiore: «L’uomo diede un nome a tutti gli animali, agli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche; ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse» (Gn 2,20). L’uomo non trovò il suo pari. Ma due capitoli dopo, troviamo la storia di Caino e Abele. Nel momento in cui Caino è preso da una folle voglia di uccidere, Dio gli dice: «Il peccato è accovacciato (come una bestia) alla tua porta. È in agguato, ma tu devi dominarlo» (Gn 4,7). E a partire da questo primo omicidio, il testo biblico mostra la proliferazione della vendetta (Gn 4,1-26). Fin dai primi capitoli della Bibbia, la violenza è dunque riconosciuta: esiste, ma viene smascherata e paragonata a un animale. L’uomo non merita più di essere chiamato uomo quando è violento. I testi biblici intraprendono quindi l’arduo cammino della conversione del cuore dell’uomo. In questo percorso possiamo distinguere delle tappe. Fermiamoci sulla prima: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24). In risposta al terribile vanto di Lamech (Gn 4,23), pronipote di Caino, che si glorificava di uccidere uomini e bambini per vendicare semplici graffi, la Legge introduce un primo limite: un solo dente per un dente, e non tutta la mascella; una sola vita per una vita, e non un intero villaggio in rappresaglia. La legge del taglione rappresentava dunque già un progresso significativo, anche se oggi ci appare ancora insufficiente. La pedagogia dei profeti affronta costantemente il problema della violenza, ma si scontra con una grande difficoltà psicologica: l’uomo che accetta di non vendicarsi teme di perdere il proprio onore. I testi biblici allora mostrano all’uomo che il suo vero onore è altrove: consiste proprio nell’assomigliare a Dio, che è «buono con gli ingrati e i malvagi». Il discorso di Gesù, che leggiamo questa domenica, rappresenta l’ultima tappa di questa educazione: dalla legge del taglione siamo passati all’invito alla dolcezza, al disinteresse, alla gratuità perfetta. Egli insiste: per due volte, all’inizio e alla fine, dice «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano»… «Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare nulla in cambio». E così il finale ci sorprende un po’: fino a questo punto, sebbene non fosse facile, almeno era logico. Dio è misericordioso e ci invita a imitarlo. Ma ecco che le ultime righe sembrano cambiare tono: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,37-38). Siamo forse tornati a una logica del “do ut des”? Ovviamente no! Gesù qui ci sta semplicemente indicando un cammino molto rassicurante: per non temere di essere giudicati, basta non giudicare né condannare gli altri. Giudicate le azioni, ma mai le persone. Instaurate un clima di benevolenza. In questo modo, le relazioni fraterne non verranno mai spezzate. Quanto alla frase: «La vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo», essa esprime la meraviglia che sperimentano coloro che si conformano all’ideale cristiano della mitezza e del perdono. È la profonda trasformazione che avviene in loro: perché hanno aperto la porta allo Spirito di Dio, e lui abita in loro e li ispira sempre di più. A poco a poco vedono compiersi in loro la promessa formulata dal profeta Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.» (Ez 36,26).

+Giovanni D’Ercole

 

 

Sintesi su richiesta: Commento breve.

 

Lettura dal Primo Libro di Samuele (26,2.7-9.12-13.22-23)

Saul fu il primo re del popolo d’Israele, intorno al 1040 a.C. Era un contadino, originario di una famiglia semplice della  tribù di Beniamino, scelto da Dio e consacrato re dal profeta Samuele che inizialmente esitò  perché diffidava della monarchia in generale, ma dovette obbedire a Dio. Dopo un buon inizio, Saul purtroppo diede ragione ai peggiori timori di Samuele: il suo piacere personale, l’amore per il potere e per la guerra prevalsero sulla fedeltà all’Alleanza. Fu così grave che, senza attendere la fine del suo regno, Samuele, su ordine di Dio, si mise a cercare il suo successore e scelse Davide, il piccolo pastore di Betlemme, l’ottavo figlio di Iesse. Davide fu accolto alla corte di Saul e divenne pian piano un abile capo di guerra, i cui successi erano sulla bocca di tutti. Un giorno, Saul  udì il canto popolare che circolava ovunque: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18,7) e fu preso dalla gelosia che  divenne così feroce nei confronti di Davide da farlo impazzire. Davide dovette fuggire più volte per salvarsi, ma contrariamente ai sospetti di Saul, Davide non venne mai meno alla sua lealtà verso il re. Nell’episodio che ci viene qui narrato è Saul a prendere l’iniziativa: i tremila uomini di cui si parla furono radunati da lui con il solo scopo di soddisfare il suo odio per Davide. “Saul scese nel deserto di Zif con tremila uomini scelti d’Israele per cercare Davide” (v 2) e chiara era la sua intenzione: eliminarlo appena possibile. Ma la situazione si ribalta a favore di Davide: durante la notte Davide entra nel campo di Saul e trova tutti addormentati e quindi l’occasione favorevole per ucciderlo. Abisai, la guardia del corpo di Davide, non ha dubbi e si offre di ucciderlo: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” (v 8). Davide sorprende tutti, incluso Saul, che stenterà a credere ai suoi occhi quando vedrà la prova che Davide lo ha risparmiato. Si pongono due domande: perché Davide ha risparmiato colui che voleva la sua morte? L’unica ragione è il rispetto per la scelta di Dio: “Non ho voluto stendere la mano contro il messia del Signore” (v.11).  L’autore sacro vuole delineare il ritratto di Davide: rispettoso della volontà di Dio e magnanimo, che  rifiuta la vendetta e comprende che la Provvidenza non si manifesta mai attraverso la semplice consegna del nemico nelle proprie mani. In secondo luogo, perché il re regnante è intoccabile e non va dimenticato che questo racconto fu scritto alla corte di Salomone, il quale aveva tutto l’interesse a far passare questo insegnamento. Infine, questo testo rappresenta una tappa nella storia biblica, un momento nella pedagogia di Dio: prima di imparare ad amare tutti gli uomini, bisogna iniziare a trovare qualche buona ragione per amarne alcuni e Davide risparmia un nemico pericoloso perché come re è l’eletto di Dio. L’ultima tappa sarà comprendere che ogni uomo va rispettato perché siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio.

 

*Salmo 102 (103), 1-2, 3-4, 8. 10. 12-13

Questo salmo sarebbe bene recitarlo o cantarlo a due voci, a due cori alternati. Primo coro: “Benedici il Signore, anima mia”… Secondo coro: “quanto è in me benedica  il suo santo nome santo”… Primo coro: “Egli perdona tutte le tue colpe … Secondo coro: “Non ci tratta secondo i nostri peccati”. E così via. Un’altra caratteristica è la tonalità gioiosa del rendimento di grazie. L’espressione “Benedici il Signore, anima mia” si ripete come inclusione nel primo e nell’ultimo versetto del salmo. Tra tutti i benefici, i versetti scelti per questa domenica insistono sul perdono di Dio: “Perché Egli perdona tutte le tue colpe… Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore; non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe …”perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Proprio la congiunzione “perché” dà il senso a tutta la frase: è proprio la sua misericordia inesauribile a fare la differenza tra Dio e noi. Circa cinquecento anni prima di Cristo, si era già compreso che il perdono di Dio è incondizionato e che precede tutte le nostre preghiere o pentimenti. Il perdono di Dio non è un atto puntuale, un evento, ma è la sua essenza stessa. Tuttavia, siamo solo noi a poter compiere liberamente il gesto di andare a ricevere questo perdono di Dio e rinnovare l’Alleanza; Egli non ci forzerà mai e allora andiamo da lui con fiducia, compiamo il passo indispensabile per entrare nel perdono di Dio che è già acquisito. A ben vedere si tratta di una scoperta che risale a tempi molto antichi. Quando Natan annunciò al re Davide, che si era appena sbarazzato del marito della sua amante, Betsabea, il perdono di Dio, Davide in verità non aveva ancora avuto il tempo di esprimere il minimo pentimento.  Dopo avergli ricordato tutti i benefici con cui Dio lo aveva colmato, il profeta aggiunse: “E se questo fosse poco, aggiungerei ancora di più” (2 Sam 12,8). Ecco il significato della parola perdono, formata da due sillabe che è bene separare “per – dono” a indicare il dono perfetto, dono al di là dell’offesa e al di là dell’ingratitudine; è l’alleanza sempre offerta nonostante l’infedeltà. Perdonare chi ci ha fatto del male significa continuare, nonostante tutto, a offrirgli un’alleanza, una relazione di amore o di amicizia; significa rifiutare di odiare e di vendicarsi. Tuttavia, questo non significa dimenticare. Spesso si sente dire: posso perdonare ma non dimenticherò mai. In realtà, si tratta di due cose completamente diverse. Il perdono non è un colpo di spugna. Ci sono offese che non si potranno mai dimenticare, perché è successo l’irreparabile. È proprio questo che conferisce grandezza e gravità alle nostre vite umane: se un colpo di spugna potesse cancellare tutto, che senso avrebbe agire bene? Potremmo fare qualsiasi cosa. Il perdono quindi non cancella il passato, ma apre al futuro. Spezza le catene della colpa, porta la liberazione interiore e ci permette di ripartire. Quando Davide fece uccidere il marito di Betsabea, nulla poté riparare il male commesso. Ma Davide, perdonato, poté rialzare la testa e cercare di non fare più il male. Quando i genitori perdonano l’assassino di un loro figlio non significa che dimenticano il crimine commesso ma proprio nel loro dolore trovano la forza necessaria per perdonare e il perdono diventa un atto profondamente liberatore per loro stessi. Chi viene perdonato non sarà mai più un innocente, ma può rialzare la testa. Senza arrivare a crimini così gravi, la vita di ogni giorno è segnata da gesti più o meno gravi che seminano ingiustizia o dolore. Perdonando e ricevendo il perdono si smette di guardare al passato e si volge lo sguardo verso il futuro. Avviene così nel nostro rapporto con Dio dato che nessuno può dirsi innocente, ma tutti siamo peccatori perdonati.

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,45-49)

Continua la meditazione di san Paolo sulla resurrezione di Cristo e sulla nostra e si rivolge a cristiani di origine greca che vorrebbero avere una risposta chiara e precisa sulla resurrezione della carne, sul quando e sul come avverrà. Paolo ha già spiegato domenica scorsa  che la resurrezione è un articolo di fede per cui non credere nella resurrezione dei morti, significa non credere nemmeno nella resurrezione di Cristo. Adesso affronta la domanda: Come risorgono i morti e con quale corpo ritornano? In verità riconosce di non sapere come saranno i risorti, ma ciò che può affermare con certezza è che il nostro corpo risorto sarà completamente diverso da quello terreno. Se pensiamo che Gesù apparso dopo la risurrezione non veniva subito riconosciuto dai suoi discepoli e Maria Maddalena lo ha scambiato per il giardiniere, ciò dimostra che era lo stesso e, allo stesso tempo, completamente diverso. Paolo distingue un corpo animale da un corpo spirituale e l’espressione corpo spirituale ha sorpreso i suoi ascoltatori che conoscevano la distinzione greca tra corpo e anima. Egli però, essendo ebreo, sa che il pensiero ebraico non contrappone mai il corpo e l’anima e la sua formazione giudaica lo ha condotto invece a contrapporre due tipi di comportamento: quello dell’uomo terreno e quello dell’uomo spirituale, inaugurato dal Messia. In ogni uomo, Dio ha insufflato un soffio di vita che lo rende capace di vita spirituale, ma rimane ancora un uomo terreno. Paolo per argomentare fa riferimento alla Genesi e vede Adamo  come un tipo di comportamento perché  il racconto della creazione nella Genesi non è il resoconto degli eventi, bensì il racconto di una vocazione. Creando l’umanità (Adamo è un nome collettivo), Dio la chiama a un destino straordinario. Adamo, l’essere terrestre, è chiamato a diventare il tempio dello Spirito di Dio. E va ricordato che nella Bibbia la Creazione non è considerata un evento del passato ma parla del nostro rapporto con Dio: siamo stati creati da Lui, dipendiamo da Lui, siamo sospesi al suo soffio e non si tratta del passato, bensì del futuro. L’atto creativo ci viene presentato come un progetto ancora in corso: nei due racconti della creazione, l’uomo ha un ruolo da svolgere. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Gn 1,28). “Il SIGNORE Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). E questo compito riguarda tutti noi, poiché Adamo è un nome collettivo che rappresenta tutta l’umanità. La nostra vocazione, dice ancora la Genesi, è essere l’immagine di Dio, cioè abitati dallo Spirito stesso di Dio. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.” (Gn 1,26-27). Adamo è anche il tipo di uomo che non risponde alla sua vocazione; si è lasciato influenzare dal serpente, che gli ha instillato, come un veleno, la sfiducia verso Dio. Questo è ciò che Paolo chiama un comportamento terreno, come il serpente che striscia rasoterra. Gesù Cristo, il nuovo Adamo, invece, si lascia guidare solo dallo Spirito di Dio. In questo modo, egli realizza la vocazione di ogni uomo, cioè di Adamo; è questo il senso della frase di Paolo: “Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo  ( cioè il Cristo) divenne  spirito datore di vita.”

Chiaro il messaggio: il comportamento di Adamo conduce alla morte, quello di Cristo conduce alla vita. Noi però siamo costantemente combattuti tra questi due comportamenti, tra cielo e terra e possiamo fare nostra l’espressione di Paolo quando grida: “Infelice uomo che sono! Non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7,24.19). In altri termini la storia individuale e quella collettiva di tutta l’umanità è un lungo cammino per lasciarci abitare sempre di più dallo Spirito di Dio.  Scrive Paolo: “Il primo uomo tratto dalla terra è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli della terra e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. 

 

*Dal Vangelo secondo Luca (6, 27-38)

“Siate misericordiosi come il vostro Padre è misericordioso” e sarete allora figli dell’Altissimo, perché lui è buono con gli ingrati e i cattivi.  Questo è il programma di ogni cristiano, è la nostra vocazione. L’intera Bibbia appare come il racconto della conversione dell’uomo, che impara gradualmente a dominare la propria violenza. Non è certo un processo facile, ma Dio è paziente ed educa il suo popolo con tanta pazienza. Questa lenta estirpazione della violenza dal cuore dell’uomo è espressa in modo figurato fin dal libro della Genesi: la violenza viene presentata come una forma di animalità. Dio aveva invitato Adamo a dare un nome agli animali, a simboleggiare la sua superiorità su tutte le creature.  E lo stesso Adamo si era riconosciuto diverso, superiore e non trovò il suo pari. Ma dopo troviamo la storia di Caino e Abele. Nel momento in cui Caino è preso da una folle voglia di uccidere, Dio gli dice: «Il peccato è accovacciato (come una bestia) alla tua porta. È in agguato, ma tu devi dominarlo» (Gn 4,7). E a partire da questo primo omicidio, il testo biblico mostra la proliferazione della vendetta (Gn 4,1-26). Fin dai primi capitoli della Bibbia, la violenza è dunque riconosciuta: esiste, ma viene smascherata e paragonata a un animale. L’uomo non merita più di essere chiamato uomo quando è violento. I testi biblici intraprendono quindi l’arduo cammino della conversione del cuore dell’uomo. In questo percorso possiamo distinguere delle tappe. Fermiamoci sulla prima: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24). In risposta al terribile vanto di Lamech (Gn 4,23), pronipote di Caino, che si glorificava di uccidere uomini e bambini per vendicare semplici graffi, la Legge introduce un primo limite: un solo dente per un dente, e non tutta la mascella; una sola vita per una vita, e non un intero villaggio in rappresaglia. La legge del taglione rappresentava dunque già un progresso significativo, anche se oggi ci appare ancora insufficiente. La pedagogia dei profeti affronta costantemente il problema della violenza, ma si scontra con una grande difficoltà psicologica: l’uomo che accetta di non vendicarsi teme di perdere il proprio onore. I testi biblici allora mostrano all’uomo che il suo vero onore è altrove: consiste proprio nell’assomigliare a Dio, che è «buono con gli ingrati e i malvagi». Il discorso di Gesù, che leggiamo questa domenica, rappresenta l’ultima tappa di questa educazione: dalla legge del taglione siamo passati all’invito alla dolcezza, al disinteresse, alla gratuità perfetta. Egli insiste: per due volte, all’inizio e alla fine, dice «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano»…. Dio è misericordioso e ci invita a imitarlo. Ma ecco che le ultime righe sembrano cambiare tono: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato (Lc 6,37-38). Siamo forse tornati a una logica del “do ut des”? Ovviamente no! Gesù qui ci sta semplicemente indicando un cammino molto rassicurante: per non temere di essere giudicati, basta non giudicare né condannare gli altri. Giudicate le azioni, ma mai le persone. Instaurate un clima di benevolenza. In questo modo, le relazioni fraterne non verranno mai spezzate.

+Giovanni D’Ercole

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In today’s Gospel passage (cf. Jn 10:27-30) Jesus is presented to us as the true Shepherd of the People of God. He speaks about the relationship that binds him to the sheep of the flock, namely, to his disciples, and he emphasizes the fact that it is a relationship of mutual recognition […] we see that Jesus’ work is explained in several actions: Jesus speaks; Jesus knows; Jesus gives eternal life; Jesus safeguards (Pope Francis)
Nel Vangelo di oggi (cfr Gv 10,27-30) Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca […] vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce (Papa Francesco)
To enter into communion with God, before observing the laws or satisfying religious precepts, it is necessary to live out a real and concrete relationship with him […] And this “scandalousness” is well represented by the sacrament of the Eucharist: what sense can there be, in the eyes of the world, in kneeling before a piece of bread? Why on earth should someone be nourished assiduously with this bread? The world is scandalized (Pope Francis)
Per entrare in comunione con Dio, prima di osservare delle leggi o soddisfare dei precetti religiosi, occorre vivere una relazione reale e concreta con Lui […] E questa “scandalosità” è ben rappresentata dal sacramento dell’Eucaristia: che senso può avere, agli occhi del mondo, inginocchiarsi davanti a un pezzo di pane? Perché mai nutrirsi assiduamente di questo pane? Il mondo si scandalizza (Papa Francesco)
What is meant by “eat the flesh and drink the blood” of Jesus? Is it just an image, a figure of speech, a symbol, or does it indicate something real? (Pope Francis)
Che significa “mangiare la carne e bere il sangue” di Gesù?, è solo un’immagine, un modo di dire, un simbolo, o indica qualcosa di reale? (Papa Francesco)
What does bread of life mean? We need bread to live. Those who are hungry do not ask for refined and expensive food, they ask for bread. Those who are unemployed do not ask for enormous wages, but the “bread” of employment. Jesus reveals himself as bread, that is, the essential, what is necessary for everyday life; without Him it does not work (Pope Francis)
Che cosa significa pane della vita? Per vivere c’è bisogno di pane. Chi ha fame non chiede cibi raffinati e costosi, chiede pane. Chi è senza lavoro non chiede stipendi enormi, ma il “pane” di un impiego. Gesù si rivela come il pane, cioè l’essenziale, il necessario per la vita di ogni giorno, senza di Lui la cosa non funziona (Papa Francesco)
In addition to physical hunger man carries within him another hunger — all of us have this hunger — a more important hunger, which cannot be satisfied with ordinary food. It is a hunger for life, a hunger for eternity which He alone can satisfy, as he is «the bread of life» (Pope Francis)
Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame – tutti noi abbiamo questa fame – una fame più importante, che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che Lui solo può appagare, in quanto è «il pane della vita» (Papa Francesco)
The Eucharist draws us into Jesus' act of self-oblation. More than just statically receiving the incarnate Logos, we enter into the very dynamic of his self-giving [Pope Benedict]
L'Eucaristia ci attira nell'atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione [Papa Benedetto]

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