Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
2. L’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi di Paolo VI ricorda che il primo evangelizzatore è Cristo stesso.
Guardiamo alla luce dell’odierna pericope liturgica come si presenta un giorno (e una notte) dell’attività evangelizzatrice di Cristo.
Ci troviamo a Cafarnao.
Cristo esce dalla Sinagoga e, insieme con Giacomo e Giovanni, si reca alla casa di Simone e Andrea. Lì guarisce la suocera di Simone (Pietro), di modo che quella può subito alzarsi e servirli.
Dopo il tramonto del sole, vengono portati a Cristo “tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta” (Mc 1,32-33). Gesù non parla, ma compie la guarigione: “Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni”. Contemporaneamente, una significativa osservazione: “non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano” (Mc 1,34).
Forse tutto ciò si protrasse fino a tarda sera.
Di buon mattino Gesù è già in preghiera.
Viene Simone con i suoi compagni, per dirgli: “Tutti ti cercano” (Mc 1,37).
Ma Gesù risponde: “Andiamocene altrove per i villaggi vicini perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto” (Mc 1,38).
Leggiamo in seguito: “E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni” (Mc 1,39).
3. In sintesi, in base a quella giornata, trascorsa a Cafarnao, si può affermare che l’evangelizzazione condotta da Cristo stesso consiste nell’insegnamento sul regno di Dio e nel servizio ai sofferenti.
Gesù ha compiuto dei segni, e tutti questi si componevano nell’insieme di un Segno. In questo Segno i figli e le figlie del popolo, che avevano conosciuto l’immagine del Messia, descritto dai profeti e soprattutto da Isaia, possono scoprire senza difficoltà che “il regno di Dio è vicino”: ecco colui che “si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Is 53,4).
Gesù non soltanto predica il Vangelo come hanno fatto tutti dopo di lui, ad esempio il meraviglioso Paolo, le cui parole abbiamo meditato poco fa. Gesù è il Vangelo!
Un grande capitolo nel suo servizio messianico è indirizzato a tutte le categorie della sofferenza umana: spirituali e fisiche.
7. Abbiamo letto nel Vangelo odierno che di buon mattino Gesù perseverava nella preghiera e venne a lui Simon Pietro e gli disse: “Tutti ti cercano”.
Come lontano successore di questo Pietro nella Sede romana, desidero ripetere a Cristo in mezzo alla vostra comunità parrocchiale queste parole: Signore, tutti ti cercano!
In queste parole trovi conferma, cari fratelli e sorelle, che voi fate “tutto per il Vangelo, per diventarne partecipi”.
Così sia!
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 7 febbraio 1982]
Il Vangelo di questa domenica prosegue la descrizione di una giornata di Gesù a Cafarnao, un sabato, festa settimanale per gli ebrei (cfr Mc 1,21-39). Questa volta l’evangelista Marco mette in risalto il rapporto tra l’attività taumaturgica di Gesù e il risveglio della fede nelle persone che incontra. Infatti, con i segni di guarigione che compie per i malati di ogni tipo, il Signore vuole suscitare come risposta la fede.
La giornata di Gesù a Cafarnao incomincia con la guarigione della suocera di Pietro e termina con la scena della gente di tutta la cittadina che si accalca davanti alla casa dove Lui alloggiava, per portargli tutti i malati. La folla, segnata da sofferenze fisiche e da miserie spirituali, costituisce, per così dire, “l’ambiente vitale” in cui si attua la missione di Gesù, fatta di parole e di gesti che risanano e consolano. Gesù non è venuto a portare la salvezza in un laboratorio; non fa la predica da laboratorio, staccato dalla gente: è in mezzo alla folla! In mezzo al popolo! Pensate che la maggior parte della vita pubblica di Gesù è passata sulla strada, fra la gente, per predicare il Vangelo, per guarire le ferite fisiche e spirituali. E’ una umanità solcata da sofferenze, questa folla, di cui il Vangelo parla molte volte. È un’umanità solcata da sofferenze, fatiche e problemi: a tale povera umanità è diretta l’azione potente, liberatrice e rinnovatrice di Gesù. Così, in mezzo alla folla fino a tarda sera, si conclude quel sabato. E che cosa fa dopo, Gesù?
Prima dell’alba del giorno seguente, Egli esce non visto dalla porta della città e si ritira in un luogo appartato a pregare. Gesù prega. In questo modo sottrae anche la sua persona e la sua missione ad una visione trionfalistica, che fraintende il senso dei miracoli e del suo potere carismatico. I miracoli infatti sono “segni”, che invitano alla risposta della fede; segni che sempre sono accompagnati dalle parole, che li illuminano; e insieme, segni e parole, provocano la fede e la conversione per la forza divina della grazia di Cristo.
La conclusione del brano odierno (vv. 35-39) indica che l’annuncio del Regno di Dio da parte di Gesù ritrova il suo luogo più proprio nella strada. Ai discepoli che lo cercano per riportarlo in città – i discepoli sono andati a trovarlo dove Lui pregava e volevano riportarlo in città -, che cosa risponde Gesù? «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là» (v. 38). Questo è stato il cammino del Figlio di Dio e questo sarà il cammino dei suoi discepoli. E dovrà essere il cammino di ogni cristiano. La strada, come luogo del lieto annuncio del Vangelo, pone la missione della Chiesa sotto il segno dell’“andare”, del cammino, sotto il segno del “movimento” e mai della staticità.
La Vergine Maria ci aiuti ad essere aperti alla voce dello Spirito Santo, che spinge la Chiesa a porre sempre più la propria tenda in mezzo alla gente per recare a tutti la parola risanatrice di Gesù, medico delle anime e dei corpi.
[Papa Francesco, Angelus 4 febbraio 2018]
Predicare e Guarire
Predicare e guarire: questa è l’attività principale di Gesù nella sua vita pubblica. Con la predicazione Egli annuncia il Regno di Dio e con le guarigioni dimostra che esso è vicino, che il Regno di Dio è in mezzo a noi. Venuto sulla terra per annunciare e realizzare la salvezza di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, Gesù mostra una particolare predilezione per coloro che sono feriti nel corpo e nello spirito: i poveri, i peccatori, gli indemoniati, i malati, gli emarginati. E’ il vero Salvatore: Gesù salva, Gesù cura, Gesù guarisce. L’opera salvifica di Cristo non si esaurisce con la sua persona e nell’arco della sua vita terrena; essa continua mediante la Chiesa, sacramento dell’amore e della tenerezza di Dio per gli uomini. Curare un ammalato, accoglierlo, servirlo, è servire Cristo: il malato è la carne di Cristo. Pertanto, ciascuno di noi è chiamato a portare la luce della Parola di Dio e la forza della grazia a coloro che soffrono e a quanti li assistono. , familiari, medici, infermieri, perché il servizio al malato sia compiuto sempre più con umanità, con dedizione generosa, con amore evangelico, con tenerezza. (Angelus, 8 febbraio 2015)
[https://www.vaticannews.va/it/vangelo-del-giorno-e-parola-del-giorno/2019/09/04.html]
XXI Domenica Tempo Ordinario (anno C) [24 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Utile in questi tempi rileggere questi testi biblici alla luce di quanto sta succedendo nel Medio Oriente.
*Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia (66,18-21)
I profeti parlano in nome di Dio e gli ascoltatori lo sanno bene, ma quando vogliono sottolineare l’importanza delle loro affermazioni, ricordano che si tratta proprio della parola del Signore, quindi di qualcosa di molto importante, e in questo brano ci sono almeno due grandi annunci: la dimensione universale del progetto di Dio “ Io verrò a radunare”, e il ruolo del piccolo resto dei credenti, “i superstiti”, gli scampati che fra lo scoraggiamento generale conservano la fede. Mentre il primo Isaia o Michea (VIII secolo a.C.) annunciavano soltanto la salvezza del “piccolo Resto d’Israele”, durante e dopo l’esilio (VI secolo) Israele scopre la dimensione universale del progetto di Dio e impara a considerare la propria elezione non come un privilegio esclusivo, ma come una vocazione. Questo è un discorso nuovo perché pone in luce il ruolo missionario che Dio affidata a Israele al servizio dell’intera umanità, la dimensione universale del progetto di Dio: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue” e più sorprendente ancora: “essi verranno e vedranno la mia gloria” (v.18). Il termine gloria indica il fulgore della presenza di Dio (letteralmente in ebraico «peso»). Dio non ha bisogno che noi lo gloriamo; siamo invece noi a diventare felici quando viviamo nell’alleanza d’amore con Lui. “Vedranno la mia gloria” significa riconoscerlo come unico Dio liberando l’umanità da ogni forma di idolatria. E il testo continua: “Manderò i loro superstiti alle popolazioni più lontane… questi messaggeri annunceranno la mia gloria alle genti .. ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti, come offerta al Signore…al mio santo santo di Gerusalemme”(v.20). Ecco realizzata la vocazione del popolo eletto: essere luce delle nazioni, perché la salvezza giunga fino all’estremità della terra (cf Is 49,6). Questa è anche la vocazione della Chiesa, popolo di Dio chiamato a testimoniare la verità di Dio nel mondo, anche se non sostituisce Israele: annunciare la gloria di Dio a tutti i popoli, testimoniare il vangelo che illumina la vita: “Io porrò in essi un segno” (v.19) e in questa luce comprendiamo quel che Gesù dirà: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me (Gv 12,32). L’ultima frase è un terzo annuncio importante: non solo i popoli si avvicineranno al Signore, ma “anche tra loro prenderò sacerdoti e leviti” (v.21), il che significa che non saranno più richieste le condizioni abituali per il sacerdozio e ogni essere umano può avvicinarsi al Dio vivente. Si capisce perché qualche versetto prima della lettura di questa domenica, Isaia invitava a rallegrarsi Gerusalemme tutti quelli che l’amano perché il Signore farà “scorrere verso di essa, come un fiume, la pace, e come un torrente in piena la gloria delle nazioni” (Is 66,10…12).
Alcune Note *Scrive sant’Agostino: «Chi sarebbe tanto folle da credere che Dio abbia bisogno dei sacrifici che gli si offrono? Il culto reso a Dio giova all’uomo e non a Dio. Non è alla sorgente che giova se vi si beve, né alla luce se la si vede» (La città di Dio, X, 5-6).
*Nel Terzo Isaia (profeta del dopo l’silio) si ritrova la teologia del “resto salvatore”, di cui leggiamo una traccia nel Salmo 39/40: “Molti vedranno, avranno timore e confideranno nel Signore” (Sal 39/40,4) da accostare all’annuncio che troviamo qui in Isaia (vv20-21)
*Nella Bibbia, non sempre si parla delle nazioni in modo positivo e il termine è carico di significati talvolta decisamente negativi: Il libro del Deuteronomio, ad esempio, parla delle “abominazioni delle nazioni” (18,9-12) a causa delle loro pratiche religiose in generale e i sacrifici umani in particolare. Nella pedagogia biblica, il popolo eletto viene guidato a restare fedele a Dio, a scoprire il volto del Dio unico, evitando ogni contatto con le nazioni a rischio di contagio idolatrico. Questa visione positiva è già con Abramo: «In te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gn 12,3). Con fede più salda, Israele scoprirà l’universalismo del progetto di Dio comprendendo progressivamente di essere il fratello maggiore, non il figlio unico con il ruolo di aprire a tutta l’umanità la via verso il suo Dio: se Dio è l’unico vero Dio, è il Dio di tutti.
Salmo responsoriale 116/117
Questo salmo è più breve del salterio che potrebbe riassumersi in una sola parola: Alleluia, ultima parola del salmo, ma anche la prima, poiché, Lodate il Signore (v. 1) equivale a Alleluia: “Allelu” è imperativo: Lodate e “Ia” è la prima sillaba del nome di Dio. L’obiettivo dell’intero salterio, che significa “Lodi” (in ebraico Tehillim), deriva dalla stessa radice di Alleluia. Ecco il commento che i rabbini fanno dell’Alleluia: “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre allo splendore, dalla schiavitù alla redenzione. Per questo, cantiamo davanti a lui l’Alleluia». “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà”: è ciò che Dio ha fatto per il suo popolo, ma è anche il progetto di Dio per tutta l’umanità. La salvezza del suo popolo è l’inizio e promessa di ciò che Dio farà per tutta l’umanità quando annunciò ad Abramo: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3). E già Salomone lo aveva sognato: «Tutti i popoli della terra, come il tuo popolo Israele, riconosceranno il tuo Nome e ti adoreranno» (1Re 8,41-43; cfr. la prima lettura). Da qui la struttura di questo salmo, molto semplice ma suggestiva: “Lodate Dio”(v.1); “Poiché ha dimostrato il suo amore (v.2)”. Guardando più da vicino, leggiamo: “Lodate Dio, voi tutte le nazioni”(v.1); Per la sua opera a favore del suo popolo: “Poiché ha dimostrato il suo amore per noi”. Qui il «poiché» è molto importante: quando le nazioni vedranno ciò che Dio ha fatto per noi, crederanno. In altre parole: poiché Dio ha dato prova di sé salvando il suo popolo, le altre nazioni potranno credere in lui. Lo stesso ragionamento si trova nel Salmo 39/40 (XX domenica dell’anno C) dove il salmista dice: “Dio mi ha tratto dalla fossa della morte… vedendo questo, molti saranno presi da timore e confideranno nel Signore” (Sal 39/40,4). Allo stesso modo, il Salmo 125/126 canta, a proposito dell’esilio a Babilonia: «Allora si diceva fra le nazioni: Grandi cose ha fatto il Signore per loro!» (Sal 125/126,2). Questa idea si incontra più volte nei profeti: quando il popolo è nella disgrazia, le altre nazioni possono dubitare della potenza di Dio. È in questo senso che Ezechiele osa dire che l’esilio a Babilonia è una vergogna per Dio e arriva perfino ad affermare che l’esilio del popolo di Dio “profanava” il nome di Dio, mentre la liberazione, al contrario, sarà davanti a tutti la prova della sua potenza liberatrice. Questo lo porta a proclamare, in pieno esilio babilonese: “Mostrerò la santità del mio grande nome, profanato fra le nazioni, che voi avete profanato in mezzo a loro; allora le nazioni sapranno che io sono il Signore…quando avrò mostrato la mia santità in voi sotto i loro occhi” (Ez 36,23; 36,36). Riconoscere il Nome di Dio nel linguaggio biblico significa scoprire il Dio di tenerezza e fedeltà rivelato a Mosè (Es 34,6): tenerezza e fedeltà che Israele ha sperimentato lungo tutta la sua storia. Questo è il senso del secondo versetto del salmo: ” forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura per sempre”. Ultima osservazione: questo salmo fa parte dell’Hallel (dal salmo 112/113 a 117/118) e occupa un posto particolare nella liturgia di Israele perché la sua recitazione segue il pasto pasquale. Gesù stesso lo ha cantato la sera del Giovedì Santo e i vangeli di Matteo e Marco ne fanno eco (cf. Mt 26,30; Mc 14,26). Possiamo ripetere anche noi: “Ha dimostrato il suo amore per noi” ascoltando Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13) e “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).
Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (12, 5-7.11-13)
I destinatari della Lettera agli Ebrei, cristiani che attraversano un periodo di forte persecuzione, hanno già molto sofferto per la loro fede, come appare chiaramente nel capitolo 10,32-34. L’autore per consolarli e infondere coraggio, dice loro di non dimenticare l’esortazione a loro rivolta e si immerge nell’Antico Testamento riprendendo ciò che il profeta Isaia diceva ai suoi compatrioti esiliati in Babilonia: “Rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche” (v12). Parla loro come se anche essi vivessero un esilio e affronta il problema della sofferenza non per giustificarla o spiegarla, ma per darle un senso. Invita alla perseveranza, virtù indispensabile nei tempi della prova quando Dio come un Padre mostra il suo amore anche con modi apparentemente assurdi. L’immagine dominante è dunque quella paterno pedagogica di Dio presente nella letteratura sapienziale della Bibbia, dove la sofferenza può diventare un cammino, una prova per la fede del credente, il quale sa che, qualunque cosa accada, Dio tace, ma non è né sordo né indifferente. Al contrario, come un padre, ci accompagna su questo difficile sentiero e da ogni male ci aiuta a uscire rafforzati. Quello che sopportate è dunque una “correzione” con richiami al libro dei Proverbi:”Non disprezzare, figlio mio, la correzione del Signore, e non stancarti delle sue riprensioni. Perché il Signore corregge colui che ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3,11-12). Per i primi cristiani, questo tema era familiare, poiché conoscevano bene il libro del Deuteronomio, che paragonava Dio a un pedagogo che accompagna la crescita di coloro che educa (cf Dt 8,2-5). Vissuta nella fiducia in Dio, la sofferenza può diventare un’occasione di testimonianza della speranza e della pace interiore che dona lo Spirito. La sofferenza può dunque diventare una scuola, in cui impariamo a vivere nello Spirito tutto ciò che accade perché, come scrive san Paolo, la tribolazione produce perseveranza, la perseveranza una virtù provata, la virtù provata la speranza che non delude grazie all’amore riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfRm 5,3-4). La sofferenza dunque fa parte della condizione umana: anche in una tale situazione Dio ci affida l’onore e la responsabilità di testimoniare la fede e, se la persecuzione fa parte del cammino della vita, non è perché Dio la voglia, ma per cause legate a comportamenti umani. Quando Gesù diceva che è necessario che il Figlio dell’uomo soffra, non parlava di una richiesta di Dio, ma della triste realtà dell’opposizione umana e san Paolo, rivolgendosi alle prime comunità dell’Asia Minore, anch’esse perseguitate ricordava che dobbiamo entrare nel Regno di Dio attraverso molte tribolazioni (cf. At 14,22).
Dal vangelo secondo Luca (13,22-30)
Gesù è in cammino verso Gerusalemme e, visibilmente, non perde occasione di insegnare, ma ciò che dice non è sempre quello che ci si aspetta. Qui, per esempio, qualcuno fa una domanda concernente la salvezza e lui non risponde direttamente: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” (v.23). La risposta non riguarda chi si salva, come se ci fossero in anticipo degli eletti e degli esclusi, ma quale è la condizione per entrare nel regno: passare per porta! “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrare e non ci riusciranno” (v.24). L’immagine della porta stretta è suggestiva ed eloquente: un tale eccessivamente obeso o chi si carica di pacchi ingombranti non riesce a passare per una porta stretta, a meno che non compia una forte cura dimagrante o decida di abbandonare ogni ingombro. Il testo che segue permette di capire quale sia l’obesità spirituale e quali i bagagli con cui non si riesce a transitare. Bussando alla porta questi diranno: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza, e tu hai insegnato nelle nostre piazze” (vv25-26). Qui Gesù denuncia la sicurezza dei suoi interlocutori, convinti che, per il solo fatto di essere nati nel popolo eletto, abbiano diritto alla salvezza e che per loro la porta si aprirà. Gesù però precisa che la porta è la stessa per tutti e allora perché non riusciranno a passarla? Anzi il padrone preciserà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia” (v.27). È vero che Gesù è uno di loro, che ha mangiato e bevuto con loro e ha insegnato in mezzo a loro; è vero che i loro antenati Abramo, Isacco, Giacobbe e tutti i profeti sono nel Regno di Dio, ma tutto ciò non dà loro diritti. L’obesità spirituale e i pesi ingombranti sono le loro certezze: non accolgono il regno di Dio come un dono, convinti di avere dei diritti. Allora appare chiara l’ultima frase: “vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi” (v30). I primi nel disegno di Dio, come afferma san Paolo, sono i figli d’Israele, ai quali appartengono l’adozione, la gloria, le alleanze, la Legge, il culto, le promesse, i patriarchi, ed è da loro che è nato il Cristo. (cf.Rm 9,4-5). Il popolo ebraico è il popolo dell’Alleanza per scelta sovrana di Dio come leggiamo nel Deuteronomio: «Solo ai tuoi padri il Signore si è attaccato per amarli; e dopo di loro, è la loro discendenza, cioè voi, che ha scelto fra tutti i popoli.» (Dt 10,15). E con giusto motivo, il popolo d’Israele era felice e fiero di essere scelto da Dio come è detto nel salmo 32/33: “Beata la nazione che ha il Signore per Dio. Beato il popolo che si è scelto come patrimonio… Noi aspettiamo il Signore. Egli è il nostro aiuto e il nostro scudo. La gioia del nostro cuore viene da lui e la nostra fiducia è nel suo santo nome.» (Sal 32/33,12.20-21). Ma, come ogni vocazione, la scelta di Dio è una missione: i primi invitati al regno avevano il compito di farvi entrare tutta l’umanità come Isaia ricordava più volte (cf Is 42,6; 49,5-6) perché la salvezza la raggiungesse tutta. Quando Gesù parla, loro rifiutano il suo insegnamento perché disturba le loro certezze e il loro compiacimento di sé e quando Gesù dice loro di allontanarsi perché compiono il male non intende azioni malvagie, ma si riferisce a questa chiusura del cuore. Poco prima egli aveva guarito una donna inferma in una sinagoga di sabato e invece di gioire per la guarigione, avevano criticato il luogo e il momento. Questa stessa ottusità spirituale e visione egoistica della fede può segnare la nostra vita di cristiani. Chiudendo il cuore alla Grazia diventiamo ciechi e obesi spiritualmente perché, come alcuni contemporanei di Gesù chiusi nelle loro certezze, non riuscirono a riconoscerlo e seguirlo come il Messia. Papa Francesco ripeteva che un cuore chiuso non ascolta la voce di Dio né riconosce il volto dei fratelli. Accogliamo allora l’invito del Signore a togliere dal nostro cuore la durezza, per ricevere in dono un cuore di carne: solo così potremo comprendere la sua volontà e annunciare il suo vangelo con gioia.
+ Giovanni D’Ercole
XX Domenica Tempo Ordinario (anno C) [17 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Ecco il commento ai testi biblici di domenica prossima.
*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (38,4-6.8-10)
Il nome di Geremia ha dato origine al termine “geremiade”. Ma sarebbe un errore pensare che questo profeta abbia passato il suo tempo a lamentarsi e a piangersi addosso. È vero, invece, che fu spesso portato a gridare misericordia sotto il peso delle prove. E Dio sa quante ne ha vissute! Al punto che il proverbio “Nessuno è profeta in patria” si applica particolarmente a lui. A volte, dalla sua penna emergono espressioni di scoraggiamento assoluto (cf.Ger 15,10.18; 20,14). Di fronte ai ripetuti fallimenti della sua missione e ai mali di cui è vittima, Geremia si pone domande inquietanti, arrivando persino a chiedere conto a Dio, la cui condotta gli appare sorprendente, se non addirittura ingiusta: “Tu sei giusto, Signore! Ma io voglio discutere con te. Perché riescono i malvagi? Perché sono tranquilli tutti i traditori?” (Ger 12,1-2). Leggendo il libro di Geremia ci si rende conto che aveva buone ragioni per porsi queste domande e lamentarsi:capitolo dopo capitolo, emergono i complotti dei suoi avversari, gli inganni, le minacce poi messe crudelmente in atto (cf. Ger 20,10; 18,18; 11,21;12,6). Nel brano che la liturgia propone questa domenica, ci troviamo davanti a una delle tante sue sventure, un episodio tipico della sua vita in cui compaiono tutti gli argomenti e la cattiveria dei suoi avversari: “Si metta a morte Geremia, appunto perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia il popolo dicendo loro simili parole, perché quest’uomo non cerca il benessere del popol, ma il male” (v.4). Lo prendono e lo gettano nella cisterna del principe Melchia, dove non c’era acqua ma fango e affondò nel fango per cui più realistica di così non si potrebbe descrivere la persecuzione che subì. Dio però non abbandona il suo profeta, mantiene la promessa fatta il giorno della sua vocazione, quella di sostenerlo contro ogni avversità e fu davvero un’alleanza tra Dio e lui (Ger 1,4-5.17-19); infatti, in un giorno in cui era particolarmente scoraggiato, Dio gli aveva rinnovato la missione e la promessa (Ger 15,21) e ora lo strumento della liberazione sarà uno straniero, un etiope chiamato Ebed-Melech. Non è la prima volta che la Bibbia ci presenta degli stranieri rispettosi di Dio e dei suoi profeti più del popolo eletto. Quest’etiope ha il coraggio di intervenire presso e il re, che concede il permesso di salvare Geremia. Quando più tardi Gesù racconterà la parabola del Buon Samaritano, forse pensava anche a questo etiope che salvò il profeta perché molti sono i punti in comune tra il buon samaritano e l’etiope. Nel seguito del racconto, versetti non riportati nel testo liturgico, emergono molti dettagli della delicatezza del pagano che salva il profeta, con mille precauzioni per non ferirlo durante la risalita (28, 11-13). Perché nessuno è profeta nella propria patria? Domanda ricorrente: probabilmente ciò avviene perché l’annuncio dell’amore di Dio per gli uomini comporta l’esigenza di amarci, a nostra volta e quando si vive insieme si è più facili a vedere il negativo che il positivo: “Nessuno è grande agli occhi del proprio vicino”. Le lamentele di Giobbe (al capitolo 3) sono simili a quelle di Geremia e si pensa che l’autore del libro di Giobbe si sia ispirato ai lamenti di Geremia, considerato esempio per eccellenza del giusto perseguitato.
Salmo responsoriale (39/40,2,3,4,18)
“Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato”. Il salmo parla in prima persona singolare, ma in realtà è il popolo d’Israele che canta la sua riconoscenza perché ha attraversato terribili prove e Dio lo ha liberato. Questo salmo è dunque un salmo di ringraziamento, composto per essere cantato nel Tempio al momento dell’offerta di un sacrificio di ringraziamento, sacrifici di animali celebrati fino alla distruzione definitiva del Tempio, nel 70 d.C. Il popolo intero esplode di gioia al ritorno dall’esilio babilonese come dopo il passaggio del Mar Rosso. L’esilio è stato come una caduta mortale in un pozzo senza fondo, un abisso da cui sembrava impossibile rialzarsi e il salmo parla del “terrore dell’abisso”. Durante quel lungo periodo di prova, il popolo, sostenuto da sacerdoti e profeti, ha mantenuto la speranza e la forza di invocare aiuto: “Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare!” (v. 18) e Dio lo ha salvato: “Il Signore…ha dato ascolto al mio grido”(v.2). Al suo rientro il popolo sembra resuscitato e ringrazia: “Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo…Molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore…Ma io sono povero e bisognoso: di me ha cura il Signore” (vv4, 18). Prima dell’esilio Israele viveva nella sicurezza ma i profeti non erano riusciti a svegliarlo dalla sua indifferenza. Durante l’esilio ha meditato sulle cause del disastro chiedendosi se la causa non fosse questa sua superficialità. Questo salmo suona come un avvertimento per il futuro, o meglio come una risoluzione perché, per non ricadere nello stesso errore, Israele deve vivere fedelmente l’Alleanza. In questo spirito, il salmo sviluppa una riflessione su ciò che piace veramente a Dio: “sacrifici e offerta non gradisci… non hai chiesto olocausto né sacrificio per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo”.(vv 7,8,9). Per esprimere l’esperienza del ritorno alla terra promessa, come un ritorno alla vita, il salmista utilizza la parabola di un uomo gettato in un pozzo dai nemici, ispirandosi forse all’esperienza del profeta Geremia, di cui la prima lettura racconta le disavventure: gettato in un pozzo è liberato da Ebed-Melek, uno straniero. Geremia sapeva che, dietro alla generosità sorprendente di quell’uomo, c’era Dio stesso:”Mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi.”(v.3). Liberato, esplode di gioia: Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, una lode al nostro Dio. Molti vedranno e confideranno nel Signore.”(v.4). Chi è stato salvato canta la lode di Dio ed altri, vedendo che Dio salva, desidereranno rivolgersi a Lui. Il salmo non si ferma qui perché il versetto finale proclama: Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare!” (v.18). Poiché l’umanità non ha ancora raggiunto il pieno compimento del disegno di Dio, il salmista suggerisce due atteggiamenti di preghiera: La lode per le salvezze già avvenute, perché altri si aprano al Dio salvatore; la supplica per la salvezza che ancora attendiamo, perché lo Spirito ci ispiri le azioni da compiere. Non siamo noi a salvare il mondo come il salmo dice: ”Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, una lode al nostro Dio.Molti vedranno e confideranno nel Signore.”(v.4) Dio troverà sempre un piccolo resto da salvare. Amos dice: ”Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe” (5,15); Anche Isaia ripete cose simili come poi approfondiranno Michea, Sofonia, Zaccaria i quali annunciano che il “Resto” d’Israele non sarà solo salvato, ma diventerà strumento di salvezza per tutti gli altri. Dio si servirà di loro per salvare l’umanità intera come afferma Michea: “Il resto di Giacobbe sarà, in mezzo a molti popoli, come una rugiada venuta dal Signore” (5,6).
Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (12,1-4)
Ai cristiani perseguitati, l’autore della Lettera rivolge parole di incoraggiamento. Ha dedicato il capitolo 11 a presentare i grandi modelli di fede dell’Antico Testamento e domenica scorsa si parlava di Abramo e Sara. Qui, all’inizio del capitolo 12, afferma che tutti icredenti dell’Antico Testamento sono come una “nube di testimoni” che ci circonda: una nube di protettori. L’autore non si accontenta di raccomandare ai cristiani di imitare la fiducia e la costanza dei grandi personaggi del passato, ma li invita a «tenere fisso lo sguardo su Gesù», il testimone sempre presente, colui che ha detto: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), origine alla fede e suo compimento. Una traduzione più letterale sarebbe: Gesù è il “pioniere della fede” e il termine greco utilizzato ἀρχηγός archēgós tradotto con “pioniere” indica capo, condottiero, pioniere, iniziatore, fondatore, colui che apre la via e guida in avanti, una guida perfetta di cui ci si può fidare perché conduce al pieno compimento. Infatti, egli stesso ha attraversato la prova della perseveranza, nella quale anche i cristiani sono ora impegnati. Molto più dura la sua prova: venuto come lo Sposo, per la gioia di una festa di nozze, aveva detto parlando di sé che non si può far digiunare gli invitati finché lo sposo è con loro (cf. Mc 2,19), ma lo Sposo non fu riconosciuto ed anzi, rinunciando alla gioia che gli era posta innanzi, sopportò la croce disprezzando l’infamia di quel supplizio. San Paolo lo dice in altro modo scrivendo ai Filippesi: “Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo… umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce” (Fil 2,6-8). Un tale contrasto è persino inimmaginabile: venuto a salvare l’umanità dal peccato, il Cristo ha ricevuto un drammatico rifiuto, ucciso a causa del peccato degli uomini: “Pensate attentamente colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori”(v.3) . Sia la Lettera agli Ebrei sia quella ai Filippesi sottolineano che Gesù è nostro modello e sostegno non per la quantità delle sue sofferenze, ma per la sua “obbedienza” fino alla morte, e a una morte di croce, come scrive Paolo mentre nella Lettera agli Ebrei si legge che pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì (cf. 5,8). Obbedire – dal latino ob-audire – significa letteralmente “porre l’orecchio davanti alla Parola” che è l’attitudine della fiducia assoluta. Gesù nella situazione più estrema mantiene totale fiducia nel Padre, che sempre presente e attento al suo Figlio amato, condivide la sua sofferenza e le sue angosce: “rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tm 2,13). Segue il trionfo dell’Amore di Dio e Cristo siede alla destra di Dio, regna con lui. Questo stesso trionfo viene promesso a coloro che sopportano la persecuzione come Cristo. L’autore non esita a usare la parola “lotta” per descrivere questo coraggio: i cristiani a cui scrive rischiano visibilmente la vita per restare fedeli a Gesù che così aveva avvertito: “Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi… Ma con la vostra perseveranza salverete la vostra vita” (Lc 21,12 - 19). In tutto il mondo, alcuni cristiani sono direttamente coinvolti da questa sorte perché stanno vivendo persecuzioni aperte o nascoste. A noi, che almeno per il momento non conosciamo la persecuzione diretta, è chiesto di essere testimoni parlando con coraggio di Dio e difendendo la sua verità.
Dal Vangelo secondo Luca (12,49-53)
Gesù paragona la sua missione a un fuoco: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!” Fin dal fuoco della Pentecoste, questo annuncio fu come una fiamma diffusasi rapidamente: nel popolo ebraico appariva come distruttore di tutto l’edificio religioso, nel mondo pagano era considerato come una contagiosa follia. San Paolo scrive ai Corinzi: “Noi predichiamo un Messia crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani.” (1 Cor 1,23). Questo fuoco lascia tracce indelebili: coloro che si lasciano ardere dal Vangelo e coloro che lo rifiutano diventano irrimediabilmente antagonisti, anche se uniti da legami familiari per cui si realizza ciò che descriveva con desolazione il profeta Michea nel suo tempo di angoscia: “Il figlio insulta il padre, la figlia si ribella contro la madre, la nuora contro la suocera; i nemici di ciascuno sono i suoi familiari.” (Mi 7,6). Quando Gesù annuncia queste lacerazioni, non si tratta di un semplice presentimento: parla per esperienza come avvenne a Nazaret dove, dopo un primo entusiasmo, i suoi amici d’infanzia e i suoi familiari si rivoltano contro di lui, perché aveva appena detto che la sua missione superava i confini d’Israele (Lc 4,28-29). E non è l’unica volta in cui Gesù si scontra con l’incomprensione, persino l’opposizione dei suoi: san Giovanni scrive che nemmeno i suoi fratelli credevano in lui (cf. Gv 7,5). Del resto, Gesù non esita a dire ai suoi discepoli che una delle condizioni per annunciare il Regno di Dio è accettare possibili separazioni dolorose. Se infatti lo si vuole seguire, ma non lo si ama più delle persone più care e perfino più della propria vita, mai si diventa suoi discepoli. (cf. Lc 14,26) per cui il fuoco che egli ha acceso conduce a scelte radicali. Israele attendeva un Messia che portasse la pace al mondo, essendo ben note le profezie di Isaia (Is 2;11), Gesù invece annuncia divisioni: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione.” La pace di Gesù esige la conversione radicale del cuore, ma a questa conversione molti si opporranno con tutte le forze. Il suo annuncio di pace incontrerà il favore di alcuni, ma l’opposizione di molti: venuto tra noi per annunciare l’amore e la salvezza, ha subìto sofferenza e morte, come egli stesso aveva predetto: “È necessario che il Figlio dell’uomo soffra molto, sia rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venga ucciso e il terzo giorno risorga.” (Lc 9,22). E ancora: sarà consegnato ai pagani, deriso, insultato, sputato, flagellato e ucciso, ma risorgerà il terzo giorno (cf Lc 18,32). La sua risurrezione ci infonde coraggio: vivificati dal suo Spirito effuso su di noi, non abbiamo paura di incendiare il mondo con il fuoco della sua carità.
+ Giovanni D’Ercole
Assunzione della Beata Vergine Maria [15 Agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Per la Festa dell’Assunzione ho elaborato diversi testi perché sono passaggi biblici che tornano spesso nelle feste mariane e quindi possono spero risultare utili per incontri, catechesi e meditazioni. Auguro di cuore una santa e serena festa dell’Assunzione di Maria a voi tutti.
*Prima Lettura dal Libro dell’Apocalisse (11, 19a; 12, 1-6a. 10ab)
La prima frase che leggiamo è la conclusione del capitolo 11 dell’Apocalisse, che preannuncia la fine dei tempi e la vittoria di Dio su tutte le forze del male, come già detto al v.15: “Nel cielo si alzarono voci potenti che dicevano: Il regno del mondo appartiene ormai al nostro Signore e al suo Cristo, ed egli regnerà nei secoli dei secoli”. Per esprimere questo messaggio di vittoria, come sempre nell’Apocalisse, san Giovanni usa numerose immagini: abbiamo visto, in successione, l’Arca dell’Alleanza e tre personaggi: la donna, il drago, poi il neonato..L’Arca dell’Alleanza richiama la famosa arca, lo scrigno di legno dorato che accompagnava il popolo durante l’Esodo sul Sinai e che ricordava costantemente al popolo d’Israele l’Alleanza con Dio. In verità l’arca era scomparsa al tempo dell’esilio a Babilonia; si raccontava che Geremia l’avesse nascosta da qualche parte sul monte Nebo (2 Mac 2,8) e si credeva che sarebbe riapparsa al momento della venuta del Messia. Giovanni la vede riapparire: “Si aprì il tempio di Dio, che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua Alleanza” (11,19). Questo è il segno che la fine dei tempi è giunta: l’alleanza eterna di Dio con l’umanità è finalmente compiuta in modo definitivo. Poi appare “una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta, gridava per le doglie e il travaglio del parto”. Chi rappresenti questa donna? L’Antico Testamento ci dà la chiave, perché spesso il rapporto tra Dio e Israele è descritto in termini nuziali come in Osea (2,21-22), mentre Isaia sviluppa il tema delle nozze fino a presentare la venuta del Messia come un parto, poiché è da Israele che deve nascere il Messia (66,7-8). La donna qui descritta rappresenta il popolo eletto che genera il Messia: un parto doloroso per i discepoli di Cristo perseguitati ai quali Giovanni dice: state partorendo l’umanità nuova. Il secondo personaggio è il drago, posto davanti alla donna per divorare il figlio appena nato, che indica la lotta delle forze del male contro il progetto di Dio. Per i cristiani perseguitati ai quali l’Apocalisse si rivolge, la parola “drago” non è esagerata e la descrizione impressionante rivela la violenza che li colpisce: il drago è enorme, rosso fuoco, con sette teste e dieci corna, e sulle teste sette diademi. Teste e corna rappresentano intelligenza e potenza, i diademi indicano il potere imperiale che mostra una reale capacità di nuocere trascinando un terzo delle stelle del cielo e le scaglia sulla terra. Solo un terzo però per cui non è una vera vittoria, e il resto del testo dirà che il potere del male è solo provvisorio. Ed ecco l’infante: “La donna partorì un figlio, un maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro”: si tratta chiaramente del Messia e allude a una frase del Salmo 2: “Il Signore mi ha detto: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti, in possesso le estremità della terra. Le spezzerai con scettro di ferro” (Sal 2,7-9). “Il figlio fu rapito verso Dio e verso il trono” simbolo della risurrezione di Cristo, che i cristiani consideravano il Primogenito, ormai seduto alla destra di Dio. I cristiani vivono in un mondo difficile, ma sono certi della protezione di Dio: questo è il significato del deserto, che richiama ancora una volta l’esodo, durante il quale Dio non ha mai cessato di prendersi cura del suo popolo e per questo possono stare tranquilli: se il drago ha fallito nel cielo, non potrà vincere nemmeno sulla terra. Ai primi cristiani duramente perseguitati l’Apocalisse annuncia la vittoria: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo” (Ap 12,10).
Complementi 1.La lettura liturgica non propone la fine di Ap 11,19, ma vale la pena leggerla: la scena descritta (lampi, voci, tuoni, terremoto) richiama il momento della conclusione dell’Alleanza sul Sinai. «Allora ci furono lampi, voci, tuoni, un terremoto e una forte grandine» (Ap 11,19), da confrontare con: «Il terzo giorno, al mattino, ci furono tuoni, lampi, una nube densa sulla montagna e un suono fortissimo di tromba» (Es 19,16).
2. l’Apocalisse si rivolge a cristiani perseguitati per sostenerli nella prova: il suo contenuto, dall’inizio alla fine, è messaggio di vittoria; ma tutto è codificato per cui va decifrato e in effetti, fin dalle prime parole, l’autore afferma che il drago non potrà ostacolare la salvezza di Dio. Riguardo allo scettro di ferro del Messia, ci aiuta a capire la profezia di Balaam (Nm 24,17). Una rilettura cristiana successiva ha applicato la visione della donna alla Vergine Maria e per questo la liturgia ci propone questo testo nella festa dell’Assunzione di Maria perché lei è la prima a beneficiare del trionfo di Cristo. Questa lotta del drago contro la donna richiama il racconto della Genesi: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” (Gn 3,15). Testo che offre una bellissima definizione della salvezza: la forza e la regalità del nostro Dio (Ap 12,10).
*Salmo responsoriale (44 /45, 11-16)
Oggi leggiamo solo la seconda parte del Salmo 44/45, che si rivolge alla sposa del re di Gerusalemme, nel giorno delle sue nozze. La prima parte del salmo parla del re stesso, coperto di elogi per le sue virtù a cui viene promesso un regno glorioso e che Dio stesso ha scelto. La seconda parte, nella festa dell’Assunzione, si rivolge alla giovane principessa che sta per diventare la sposa del re. A un primo livello, dunque, questo salmo sembra descrivere nozze regali: il re d’Israele si unisce a una principessa straniera per suggellare l’alleanza tra due popoli, caso frequente in Israele come altrove. Nella storia dell’umanità, si sono viste molte alleanze politiche sancite da matrimoni. Ma, poiché la religione di Israele è un’Alleanza esclusiva con l’unico Dio, ogni giovane straniera che diventava regina a Gerusalemme doveva accettare una condizione particolare: sposare anche la religione del re. Concretamente, in questo salmo, la principessa che viene da Tiro — come ci viene detto — e che viene introdotta alla corte del re d’Israele, dovrà rinunciare alle pratiche idolatriche per essere degna del suo nuovo popolo e del suo sposo: “Ascolta, figlia, guarda, porgi l’orecchio: dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre”. Questo fu un problema cruciale al tempo del re Salomone, che aveva sposato donne straniere, e quindi pagane e più tardi, al tempo del re Acab e della regina Gezabele: ricordiamo il grande scontro del profeta Elia contro i numerosi sacerdoti e profeti di Baal che Gezabele aveva portato con sé alla corte di Samaria. Ma, per chi sa leggere tra le righe, questi consigli dati alla principessa di Tiro in realtà sono rivolti a Israele: lo sposo regale descritto nel salmo non è altri che Dio stesso, e questa “figlia di re, condotta tutta adorna verso il suo sposo” è il popolo d’Israele ammesso all’intimità con il suo Dio. Ancora una volta, colpisce l’audacia degli autori dell’Antico Testamento nel descrivere la relazione tra Dio e il suo popolo, e, attraverso di esso, con tutta l’umanità. Il profeta Osea, per primo, paragonò Israele a una sposa (Os 2,16…18). Dopo di lui, Geremia, Ezechiele, il secondo e il terzo Isaia hanno sviluppato il tema delle nozze tra Dio e il suo popolo;e nei loro testi ritroviamo tutto il vocabolario nuziale: i nomi affettuosi, l’abito da sposa, la corona nuziale, la fedeltà (cf Ger 2,2; Is 62,5). Purtroppo, questa sposa, troppo umana, fu spesso infedele, cioè idolatra e gli stessi profeti definiranno le infedeltà del popolo come adultèri, cioè come ritorni all’idolatria. Il linguaggio allora si precisa: gelosia, adulterio, prostituzione, ma anche riconciliazione e perdono, perché Dio resta sempre fedele. Isaia, per esempio, parla delle deviazioni di Israele come una delusione amorosa nel celebre canto della vigna (Is 5,1-7; 54,4-10). L’idolatria occupa tanto spazio nei discorsi dei profeti perché l’alleanza tra Dio e l’umanità, questo progetto salvifico, passa attraverso la fedeltà d’Israele. Israele lo sa: la sua elezione non è esclusiva, ma solo restando fedele al Dio unico potrà compiere la sua vocazione di testimone presso tutte le nazioni. In Maria la Bibbia osa affermare che Dio ha chiesto in sposa l’umanità intera. Celebrando l’Assunzione di Maria e la sua introduzione nella gloria di Dio, intuiamo in anticipo l’ingresso dell’intera umanità, sulle sue orme, nell’intimità con il suo Dio.
Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinti (1 Cor 15, 20 - 27a)
La liturgia ci propone oggi una meditazione di Paolo sulla risurrezione di Cristo, in contrasto con la morte di Adamo. Abbiamo dunque una pista di riflessione: che cosa hanno in comune Cristo e Maria? E che cosa invece non ha Adamo? Il vangelo della Visitazione ci fa contemplare in Maria colei che ha creduto e ha accettato di entrare nel progetto di Dio, senza capire tutto. La sua risposta all’Angelo è il modello dei credenti: “Avvenga di me secondo la tua parola (Lc 1,38), sono la serva del Signore pronta a mettere la vita al servizio dell’opera di Dio. Nel Magnificat Maria rivela le sue preoccupazioni più profonde rileggendo la propria vita alla luce del grande progetto di Dio per il suo popolo, a favore di Abramo e della sua discendenza per sempre, come aveva promesso ai padri. Fin dall’inizio, nella Bibbia, si era compreso che questa è l’unica cosa che Dio ci chiede: essere pronti a dire: Eccomi. Abramo, Mosè, Samuele – chiamati da Dio – seppero rispondere così. E grazie a loro, l’opera di Dio ha potuto compiere ogni volta un passo avanti. Il Nuovo Testamento propone come esempio Gesù Cristo che nel racconto delle Tentazioni, risponde alle seduzioni del tentatore con le sole parole della fede. E se ci insegna a dire, nel Padre Nostro, sia fatta la tua volontà, è perché questo è il suo pensiero centrale come dice ai discepoli nell’episodio della Samaritana: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34). Nel Getsemani, non si smentisce: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39). E l’autore della Lettera agli Ebrei riassume così tutta la vita di Gesù: «Entrando nel mondo, Cristo dice: Ecco, io vengo per fare la tua volontà» (Eb 10,5…10). Se in ogni tempo e in ogni circostanza Gesù si sottomette alla volontà del Padre, è perché si fida. Anche di lui si potrebbe dire:«Beato colui che ha creduto…».La sua risurrezione dimostra che la via della fede è davvero la via della vita, anche se passa attraverso la morte fisica. Nella Lettera ai Romani e in quella ai Corinzi, Paolo contrappone il comportamento di Cristo a quello di Adamo: Adamo è colui al quale tutto è stato offerto – l’albero della vita, il dominio sul creato – ma non ha creduto alla benevolenza di Dio rifiutando di sottomettersi ai sui comandamenti. L’apostolo non vuole raccontare cosa sarebbe successo se Adamo non avesse peccato, ma intende ricordarci che esiste una sola via che conduce alla vita e c’introduce nella gioia di Dio. Adamo volta le spalle all’albero della vita quando comincia a dubitare di Dio e Paolo lo dice al presente, perché per lui Adamo non è un uomo del passato, ma un un modo di essere uomini. Come osservano i rabbini: Ognuno è Adamo per sé stesso. Si comprende allora meglio l’affermazione di Paolo che in Adamo tutti muoiono cioè, comportandoci come Adamo, ci allontaniamo da Dio e ci separiamo dalla vita vera che Egli vuole donarci in abbondanza. Al contrario, scegliere la via della fiducia, come ha fatto Cristo, a qualsiasi costo, è entrare la vera vita: “La vita eterna è che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3). Conoscere, nel linguaggio biblico, significa credere, amare, fidarsi. Paolo asserisce che in Cristo tutti torneranno alla vita innestandosi in lui, adottando cioè il suo stesso modo di vivere. L’odierna festa dell’Assunzione di Maria ci aiuta a contemplare la realizzazione del progetto di Dio sull’uomo, quando non viene ostacolato. Maria pienamente umana non ha agito come Adamo ed esprime il destino che ogni uomo avrebbe avuto se non ci fosse stata la caduta dei progenitori. Come ogni essere umano, ha conosciuto l’invecchiamento e un giorno ha lasciato questa vita addormentandosi nel Signore: è la “Dormizione” della Vergine. Possiamo dunque affermare due semplici verità: Il nostro corpo non è programmato per durare eternamente così com’è sulla terra e Maria, tutta pura e piena di grazia, si è addormentata. Adamo però ha ostacolato il progetto di Dio e la trasformazione del corpo che avremmo potuto conoscere, cioè la dormizione, è diventata morte con il suo seguito di sofferenze e fragilità perché la morte che tanto ci fa soffrire, è entrata nel mondo a causa del peccato. Ma là dove è entrata la forza della morte Dio ridà la vita: Gesù è ucciso dall’odio degli uomini, ma il Padre lo risuscita, il primo dei risorti che ci fa entrare nella vera vita, in cui regna l’amore. Elisabetta dice a Maria: “Beata colei che ha creduto…”;Gesù applica questa beatitudine a tutti coloro che credono: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21).
NOTA Quando il Risorto apparve a Saulo di Tarso sulla via di Damasco, la regalità di Cristo si impose a lui come una evidenza e questa certezza abiterà tutte le sue parole, tutti i suoi pensieri perché per lui Cristo, vincitore della morte, è anche il vincitore di tutte le forze del male, il Messia atteso da secoli. Per questo, in tutte le sue lettere si riconoscono le espressioni dell’attesa messianica del tempo: “Tutto sarà compiuto quando Cristo consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver distrutto tutte le potenze del male”;oppur “Egli deve regnare finché non avrà posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi”, come leggiamo nel Salmo 110 (109).
Dal vangelo secondo Luca (1, 39 – 56)
Dopo i racconti dell’Annunciazione a Zaccaria per la nascita di Giovanni Battista, a Maria per la nascita di Gesù segue l’episodio della “Visitazione” che ha l’aspetto di un racconto familiare, ma non bisogna lasciarsi ingannare: in realtà, Luca sta scrivendo un’opera profondamente teologica. Bisogna dare tutto il peso alla frase centrale: “Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce”: E’ lo Spirito Santo a parlare per annunciare, fin dall’inizio del vangelo, quella che sarà la grande notizia di tutto il racconto di Luca: colui che è stato appena concepito è il Signore. Elisabetta proclama: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo”: Dio agisce in te e per mezzo di te, agisce nel Figlio che porti in grembo e per mezzo di lui. Come sempre, lo Spirito Santo permette di scoprire, nella nostra vita e in quella degli altri — di tutti gli altri — la traccia dell’opera di Dio. Luca certamente non ignora che la frase di Elisabetta, «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo», riprende almeno in parte una frase dell’Antico Testamento che si trova nel libro di Giuditta (Gdt 13,18-19): quando Giuditta torna dall’accampamento nemico, dove ha decapitato il generale Oloferne, viene accolta nel suo campo da Ozia che le dice: «Tu sei benedetta fra tutte le donne e benedetto è il Signore Dio». Maria viene quindi paragonata a Giuditta. E il parallelo tra le due frasi suggerisce due cose: il riprendere l’espressione benedetta fra tutte le donne fa intendere che Maria è la donna vittoriosa che garantisce all’umanità la vittoria definitiva sul male; quanto alla parte finale (per Giuditta: benedetto è il Signore Dio, per Maria: benedetto il frutto del tuo grembo), annuncia che il frutto del grembo di Maria è il Signore stesso. Dunque, questo racconto di Luca non è un semplice aneddoto e si può confrontare la forza delle parole di Elisabetta con il mutismo di Zaccaria. Piena di Spirito Santo, Elisabetta ha la forza di parlare; Zaccaria resta muto perché aveva dubitato delle parole dell’angelo che gli annunciavano la nascita di Giovanni Battista. Anche Giovanni Battista manifesta la sua gioia: Elisabetta dice che egli “ha sussultato di gioia” appena ha udito la voce di Maria e anche lui è pieno di Spirito Santo, come aveva annunciato l’angelo a Zaccaria: “Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita. Tua moglie Elisabetta ti darà un figlio e tu lo chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno per la sua nascita… egli sarà pieno di Spirito Santo fin dal grembo materno”. Elisabetta si domanda: “A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?”. Anche qui c’è un richiamo a un episodio dell’Antico Testamento: l’arrivo dell’Arca dell’Alleanza a Gerusalemme (2 Sam 6, 2-11). Dopo essersi stabilito come re a Gerusalemme e aver costruito un palazzo degno del re d’Israele, Davide decide di far salire l’Arca dell’Alleanza nella nuova capitale. Ma è diviso tra fervore e timore. All’inizio c’è una tappa vissuta con gioia: “Davide radunò tutta l’élite d’Israele, trentamila uomini. Si mise in cammino con tutto il popolo… per far salire l’arca di Dio sul quale è invocato il Nome, il Nome del Signore degli eserciti che siede sui cherubini…”. Ma accade un incidente: un uomo che tocca l’arca senza esserne autorizzato muore all’istante.Allora la paura ha il sopravvento su Davide, che esclama: “Come potrà venire da me l’arca del Signore?”. Il viaggio si interrompe: Davide preferisce lasciare l’arca nella casa di un certo Obed-Edom, dove rimane tre mesi, portando benedizioni su quella casa. Davide si rassicura: “Fu detto al re Davide: il Signore ha benedetto la casa di Obed-Edom e tutto ciò che gli appartiene, a causa dell’arca di Dio” e fa salire l’arca a Gerusalemme con grande gioia, danzando con tutte le sue forze davanti al Signore. È evidente che Luca ha voluto accumulare nel racconto della Visitazione molti dettagli che richiamano questa salita dell’arca: i due viaggi, quello dell’arca e quello di Maria, avvengono nella stessa regione, i monti di Giudea; l’arca entra nella casa di Obed-Edom e porta benedizione (2 Sam 6,12), Maria entra nella casa di Zaccaria ed Elisabetta e porta benedizione; l’arca resta tre mesi da Obed-Edom, Maria rimane tre mesi da Elisabetta; Davide danza davanti all’arca e Giovanni Battista salta di gioia davanti a Maria. Tutto ciò non è casuale. Luca ci invita a contemplare in Maria la nuova Arca dell’Alleanza. E l’arca era il luogo della Presenza di Dio. Maria porta in sé, misteriosamente, questa Presenza di Dio: d’ora in poi Dio abita la nostra umanità. “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.” Tutto questo, grazie alla fede di Maria: Alle parole di Elisabetta Maria intona il Magnificat.
NOTA SUL MAGNIFICAT. In questa pagina di Luca, troviamo tantissimi riferimenti ad altri testi biblici e si possono riconoscere frammenti di molti salmi in quasi tutte le frasi. Questo significa che Maria non ha inventato le parole della sua preghiera: per esprimere il suo stupore davanti all’azione di Dio, riprende semplicemente espressioni già pronunciate dai suoi antenati nella fede.C’è già qui una doppia lezione: una lezione di umiltà, innanzitutto. Messa davanti a una situazione eccezionale, Maria utilizza semplicemente le parole della preghiera del suo popolo. C’è poi una lezione di senso comunitario, potremmo dire di senso ecclesiale sinodale. Nessuna delle citazioni bibliche contenute nel Magnificat ha un carattere individualista ma tutte riguardano il popolo intero. Questa è una delle grandi caratteristiche della preghiera biblica, e quindi della preghiera cristiana: il credente non dimentica mai di appartenere a un popolo e che ogni vocazione, lungi dal separarlo, lo mette al servizio di quel popolo. Quanto alle radici bibliche del Magnificat si può dire che è una rilettura dell’intera storia della salvezza: Dio ha compiuto meraviglie nei secoli, e continua ad agire nel presente. A.Nel passato: Ha guardato l’umiltà della sua serva; Ha compiuto grandi cose per Maria; Ha spiegato la potenza del suo braccio; Ha disperso i superbi; Ha rovesciato i potenti dai troni; Ha innalzato gli umili; Ha ricolmato di beni gli affamati; Ha rimandato i ricchi a mani vuote; Ha soccorso Israele, suo servo. B. Nel presente: Maria può proclamare: “Tutte le generazioni mi chiameranno beata” ed è vero ancora oggi. Il Signore fa misericordia di generazione in generazione. La misericordia di Dio è una realtà sempre presente per coloro che lo temono, cioè per coloro che si aprono alla sua grandezza. Il Magnificat ci insegna quindi a contemplare l’opera di Dio in tutta la storia, nella vita del popolo e nella nostra vita.Infine, il Magnificat si inserisce nel cuore della teologia di Luca: Dio capovolge le sorti: i potenti sono abbassati, gli umili innalzati; i ricchi vengono svuotati, i poveri riempiti. Questo “capovolgimento” è già presente nei profeti (soprattutto in Isaia e nel Primo Libro di Samuele), ma Luca lo pone al centro del suo Vangelo, che è pieno di parabole e di racconti in cui Dio dà la preferenza agli ultimi, ai piccoli, ai peccatori, ai poveri. Questa preghiera è dunque profondamente rivoluzionaria: non nel senso di una rivoluzione violenta, ma di una rivoluzione spirituale e sociale che passa per la misericordia, la giustizia, l’umiltà, e la fede.
+ Giovanni D’Ercole
19a Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [10 Agosto 2025]
*Prima lettura dal Libro della Sapienza (18, 6-9)
Il primo versetto ci introduce immediatamente nell’atmosfera: l’autore si abbandona a una meditazione sulla “notte della liberazione pasquale”, la notte dell’uscita d’Israele dall’Egitto, guidato da Mosè. Di anno in anno Israele celebra il pasto pasquale per rivivere il mistero della liberazione operata da Dio in quella notte memorabile (Es 12,42). Celebrare per rivivere: il verbo “celebrare” non significa semplicemente commemorare, ma “fare memoria” lasciare cioè che Dio agisca nuovamente, il che implica lasciarsi trasformare in profondità. Ancora oggi, quando il padre di famiglia, durante il pasto pasquale, inizia il proprio figlio al significato della festa, non gli dice: “Il Signore ha agito a favore dei nostri padri”, ma: “Il Signore ha agito a mio favore, quando sono uscito dall’Egitto» (Es 13,8). E i commenti dei rabbini confermano: “In ogni generazione, ciascuno deve considerarsi come se fosse uscito dall’Egitto”. La celebrazione della notte pasquale racchiude tutte le dimensioni dell’Alleanza sia l’azione di grazie per la liberazione compiuta da Dio come pure l’impegno di fedeltà ai comandamenti. Liberazione, dono della Legge e alleanza sono un unico evento come Dio comunicò a Mosè, e tramite lui al popolo, ai piedi del Sinai (Es 19,4-6). Nelle poche righe del Libro della Sapienza ci vengono qui proposte le due dimensioni: anzitutto l’azione di grazie: “La notte (della liberazione) fu preannunciata ai nostri padri perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà” (v.6). Si parla qui dei giuramenti, che sono le promesse di Dio al suo popolo: una discendenza, una terra, una vita felice in quella terra (Gen 15,13-14; 46,3-4). “Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi chiamandoci a te” (v.7). Questa è la lezione: scegliendo l’oppressione e la violenza, gli Egiziani hanno provocato da sé la propria rovina. Il popolo oppresso, invece, ha ricevuto la protezione di Dio. La seconda dimensione della celebrazione della notte pasquale è l’impegno personale e comunitario: “I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacri lodi dei padri” (v.9). L’autore metta in parallelo: la pratica del culto “offrivano sacrifici in segreto”, e l’impegno di solidarietà fraterna “si imposero concordi di condividere successi e pericoli”. La Legge d’Israele ha sempre unito la celebrazione dei doni di Dio e la solidarietà tra i membri del popolo dell’Alleanza. Anche Gesù opererà lo stesso legame: “fare memoria di lui” significa, con un solo gesto, celebrare l’Eucaristia e mettersi al servizio dei fratelli, come lui stesso fece la sera del Giovedì Santo, lavando i piedi ai discepoli.
*Salmo responsoriale (32/33, 1.12, 18-19, 20.22)
“Esultate, o giusti, nel Signore; per gli uomini retti è bella la lode”. Fin dal primo versetto sappiamo di essere nel Tempio di Gerusalemme, nel contesto di una liturgia di rendimento di grazie. Attenzione: “giusti” e “uomini retti” non indicano atteggiamenti di orgoglio o autocompiacimento, ma l’atteggiamento umile di chi si inserisce nel progetto di Dio perché nella Bibbia la giustizia (per noi sarebbe santità) non è una qualità morale bensì un dono. “Beata la nazione che ha il Signore come Dio, il popolo che egli ha scelto come sua eredità” (v.12. L’Alleanza è il progetto di Dio cioè la scelta libera con cui ha voluto affidare a un popolo il suo mistero. È naturale, quindi, rendere grazie per questo dono. Non si tratta di un orgoglio arrogante, ma di una legittima fierezza, la consapevolezza dell’onore che Dio gli ha fatto scegliendolo per una missione ed è la fierezza nostra di essere incorporati col battesimo al suo popolo in missione nel mondo. La fiducia nasce dalla fede e il versetto seguente esprime in un altro modo questa esperienza della fede:”L’occhio del Signore è chi su lo teme, su chi spera nel suo amore”(v.18) Splendida definizione del “timore di Dio” in senso biblico: non paura, ma fiducia totale e interessante è l’accostamento delle due parti del versetto: “chi lo teme” e “chi spera nel suo amore”. Il timore di Dio è, in realtà, fiducia nell’amore di Dio, non timore servile, ma risposta d’amore come dice il Salmo 102/103: “Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono”. L’unico vero modo per rispettare Dio è amarlo come appare chiaramente nella professione di fede d’Israele: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza” (Dt 6,4). Torno sul versetto centrale: “L’occhio del Signore è chi su lo teme, su chi spera nel suo amore”. Dio ha vegliato su Israele come un padre durante il cammino nel deserto. Liberati dall’Egitto gli ebrei, senza l’ntervento divino, non sarebbero sopravvissuti né al passaggio del Mare, né alle prove del deserto. Al roveto ardente,il Signore aveva promesso a Mosè di accompagnare il suo popolo verso la libertà e ha mantenuto la promessa. Quando leggiamo “il Signore” si tratta sempre del famoso tetragramma YHWH, che gli ebrei non pronunciano per rispetto e che significa: “Io sono, io sarò con voi, in ogni istante della vostra vita.”, in fondo si tratta del respiro dell’essere umano. Il salmista continua: “Per liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame” (v.19) che richiama il Libro del Deuteronomio dove si dice che il Signore ha vegliato sul suo popolo “come sulla pupilla del suo occhio”. Il salmo prosegue: “il Signore è nostro aiuto e nostro scudo. Su di noi sia il tuo amore, Signore come date noi speriamo” (vv20. 22) Una fiducia non sempre facile e Israele ha oscillato tra fiducia e ribellione, attratto costantemente da idoli. Questo salmo è in fondo una chiamata alla fede salda. Chi l’ ha composto conosce bene le incertezze del suo popolo. Per questo invita a ritrovare la certezza della fede, l’unica in grado di generare felicità duratura. E ha composto questo salmo di ventidue versetti come le lettere dell’alfabeto ebraico, per indicare che la Legge è un tesoro che guida la vita dall’A alla Z.
*Seconda lettura dalle Lettera agli Ebrei (11,1-2.8-19)
“Per fede”: questa espressione ritorna come un ritornello nel capitolo 11 della Lettera agli Ebrei e l’autore arriva perfino a dire che il tempo gli manca per elencare tutti i credenti dell’Antico Testamento, la cui fede ha permesso al progetto di Dio di compiersi. Il testo che ci viene proposto questa domenica si concentra solo su Abramo e Sara, modelli di vera fede. Tutto è cominciato per loro con la prima chiamata di Dio (Gn 12): “Esci dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, e va’ verso il paese che io ti indicherò”. E Abramo obbedì, ci dice il testo, nel senso più bello del termine: obbedire nella Bibbia significa libera sottomissione di chi accetta di fidarsi perché sa che quando Dio ordina è per il suo bene e per la sua liberazione sapendo che Dio vuole soltanto il nostro bene, la nostra felicità. Abramo partì verso un paese che doveva ricevere in eredità: credere, significa vivere tutto ciò che possediamo come un dono di Dio. Partì senza sapere dove andava: se si sapesse dove si va, non ci sarebbe più bisogno di credere. Credere è fidarsi senza capire e senza sapere tutto; accettare che la strada non è quella da noi prevista o desiderata perché sia Dio a deciderla. Sia fatta la tua volontà, non la mia , disse molto tempo dopo Gesù, che a sua volta si fece obbediente, come dice san Paolo, fino alla morte di croce (Fil 2). “Per fede anche Sara, sebbene fuori dell’età (90 anni), potè diventare madre”. E’ vero che all’inizio rise a un annuncio così incredibile, ma poi lo accolse come una promessa e si fidò ascoltando la risposta del Signore al suo riso: “C’è forse qualcosa di troppo difficile per il Signore? – disse Dio – Al tempo stabilito ritornerò da te, e Sara avrà un figlio” (Gn 18,14). E ciò che era impossibile umanamente si realizzò. Un’altra donna, Maria, secoli più tardi, ascoltò l’annuncio della nascita del figlio della promessa, e accettò credendo che nulla è impossibile a Dio (Lc 1). Per fede Abramo affrontò la prova incredibile di offrire in sacrificio Isacco, ma anche lì, benché non comprendesse, sapeva che l’ordine di Dio era dato per amore: era il cammino della promessa, un cammino oscuro, ma sicuro. Dal punto di vista umano, la promessa di una discendenza e la richiesta del sacrificio di Isacco sono in netta contraddizione, ma Abramo, il credente, proprio perché aveva ricevuto la promessa di una discendenza per mezzo di Isacco, può arrivare fino al punto di offrirlo in sacrificio perché crede che Dio non può rinnegare la sua promessa. Alla domanda di Isacco: Padre, vedo il fuoco e la legna… ma dov’è l’agnello per l’olocausto?, Abramo risponde con tutta sicurezza: Dio provvederà, figlio mio. Il cammino della fede è oscuro, ma è sicuro. E non mentiva neppure quando disse ai suoi servi, lungo la strada: Rimanete qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin là per adorare e poi torneremo da voi. Non sapeva quale lezione Dio volesse dargli sull’interdizione dei sacrifici umani, non conosceva l’esito della prova, ma si fidava. Secoli dopo, Gesù, il nuovo Isacco, credette che poteva risuscitare dai morti, e fu esaudito, come dice la Lettera agli Ebrei. Abbiamo qui una straordinaria lezione di speranza! E’ la fede a salvarci e l’autore della Lettera agli Ebrei commenta che il progetto salvifico si compie grazie a chi crede e lascia che la promessa possa compiersi attraverso di lui.
NOTA In ebraico, il verbo credere è aman (da cui deriva il nostro «amen»),termine che implica solidità, fermezza; credere significa “tenersi saldi”, avere fiducia fino in fondo, anche nel dubbio, nello scoraggiamento o nell’angoscia.
*Dal Vangelo secondo Luca (12, 32 – 48)
Questo testo inizia con una parola di speranza che dovrebbe darci tutto il coraggio possibile:
“Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto darvi il Regno.” In altre parole: questo Regno, è certo, vi è stato donato; credetelo anche se le apparenze sembrano dire il contrario. Ma Gesù non si ferma qui: descrive subito le esigenze che derivano da questa promessa. Perché “a chi fu dato molto, molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”. L’unico pensiero dominante nel cuore del credente è la realizzazione della promessa di Dio che libera da ogni altra preoccupazione:
“Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.” Gesù spiega ciò che si aspetta da noi con tre brevi parabole: la prima è quella dei servi che attendono il ritorno del loro padrone; la seconda, più breve, paragona il suo ritorno all’arrivo inaspettato di un ladro; la terza descrive l’arrivo del padrone e il giudizio che pronuncia sui suoi servi. La parola chiave è “servizio”: Dio ci fa l’onore di prenderci al suo servizio, di renderci suoi collaboratori. Più tardi, san Pietro — che ha ben compreso il messaggio di Gesù — dirà ai cristiani dell’Asia Minore: “Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certi credono, ma usa pazienza verso di voi, non volendo che qualcuno si perda, ma che tutti giungano alla conversione” (2 Pt 3,9). E arriva persino a dire: “Voi che attendete affrettate la venuta del giorno di Dio» (2 Pt 3,12). Sta a noi la responsabilità di “affrettare” l’avvento del Regno di Dio, come diciamo nel Padre nostro: “Venga il tuo Regno!” Verrà tanto più rapidamente quanto più crederemo e ci impegneremo. Così, ogni nostro sforzo, anche il più modesto, in modo misterioso, è collaborazione all’avvento del Giorno di Dio: “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tuti i suoi averi”. “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.”A ben vedere questo si realizza ogni domenica a Messa: il Signore ci invita alla sua mensa ed è lui stesso a nutrirci rinnovandoci l’energia necessaria per continuare il nostro servizio.
+ Giovanni D’Ercole
The Church invites believers to regard the mystery of death not as the "last word" of human destiny but rather as a passage to eternal life (Pope John Paul II)
La Chiesa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna (Papa Giovanni Paolo II)
The saints: they are our precursors, they are our brothers, they are our friends, they are our examples, they are our lawyers. Let us honour them, let us invoke them and try to imitate them a little (Pope Paul VI)
I santi: sono i precursori nostri, sono i fratelli, sono gli amici, sono gli esempi, sono gli avvocati nostri. Onoriamoli, invochiamoli e cerchiamo di imitarli un po’ (Papa Paolo VI)
Man rightly fears falling victim to an oppression that will deprive him of his interior freedom, of the possibility of expressing the truth of which he is convinced, of the faith that he professes, of the ability to obey the voice of conscience that tells him the right path to follow [Dives in Misericordia, n.11]
L'uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire [Dives in Misericordia, n.11]
We find ourselves, so to speak, roped to Jesus Christ together with him on the ascent towards God's heights (Pope Benedict)
Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio (Papa Benedetto)
Church is a «sign». That is, those who looks at it with a clear eye, those who observes it, those who studies it realise that it represents a fact, a singular phenomenon; they see that it has a «meaning» (Pope Paul VI)
La Chiesa è un «segno». Cioè chi la guarda con occhio limpido, chi la osserva, chi la studia si accorge ch’essa rappresenta un fatto, un fenomeno singolare; vede ch’essa ha un «significato» (Papa Paolo VI)
Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]
Li consideriamo insieme, non solo perché nelle liste dei Dodici sono sempre riportati l'uno accanto all'altro (cfr Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13), ma anche perché le notizie che li riguardano non sono molte, a parte il fatto che il Canone neotestamentario conserva una lettera attribuita a Giuda Taddeo [Papa Benedetto]
Bernard of Clairvaux coined the marvellous expression: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis - God cannot suffer, but he can suffer with (Spe Salvi, n.39)
Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire (Spe Salvi, n.39)
However, the equality brought by justice is limited to the realm of objective and extrinsic goods, while love and mercy bring it about that people meet one another in that value which is man himself, with the dignity that is proper to him (Dives in Misericordia n.14)
L'eguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita però all’ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno si che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria (Dives in Misericordia n.14)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
Disclaimer
Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.