don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

(Gv 21,1-14)

 

Il medesimo segno della pesca sovrabbondante, in Lc 5,1-11 si colloca addirittura nel giorno in cui Gesù invita i primi discepoli a seguirlo per diventare “pescatori” di uomini.

Il prodigio della Vocazione espande il cammino del fedele in Cristo e interessa ogni esperienza che possiamo fare del Risorto nel lavoro ordinario - e quale Missione ci è affidata per sperimentarlo Vivente.

La Chiesa non è composta da fenomeni, ma da un cocciuto e smanioso a capo (Pietro). Qualcuno sta dentro e fuori (Tommaso), altri restano legati al passato (Natanaele), e non mancano i fanatici (i figli di Zebedeo); quindi gli anonimi, ossia tutti noi.

Pietro si rende conto che prima di dare ordini deve fare ed esporsi lui: se così, gli altri decideranno spontaneamente (v.3).

Ma senza la fiaccola della Parola, nessun risultato. Seguire Pietro non basta.

Ecco Gesù: sulla Riva della condizione definitiva ci chiama e ci fa strada, fa da guida all’attività, ed è finalmente Luce - l’Alba.

 

La rete va gettata dalla «parte destra» (v.6), ossia dalla parte buona!

Per tirar su persone da abissi d’acque inquinate e flutti di morte bisogna iniziare e puntare al meglio di ciascuno, far emergere il bene che sempre c’è.

Richiamo per noi.

Quindi Pietro - ciascun responsabile di comunità - non deve avere preconcetti, ma svestirsi della talare di capogruppo e cingersi il grembiule da servo [v.7: il verbo greco è quello della lavanda dei piedi].

Per un lavoro che doni risultato secondo Dio (l’amore) bisogna indossare la stessa veste di Cristo - unico distintivo: l’abito di chi non dà ordini, ma li riceve.

È il tratto della Chiesa autentica - nulla di grande: non arriva su un transatlantico, ma su una «barchetta» [v.8 testo greco].

E resta di bassa misura: come un poco di lievito, per abbracciare chiunque.

 

Tutto ciò plasma una coscienza d’inadeguatezza differente: quella nella Fede - solo positiva, perché capisce i fratelli. Li riconosce nell’intimo di sé, e sa giustificare le resistenze all’Annuncio.

Siamo collaboratori del grembiule, per dialogare con chi ha bisogno di recupero, in qualsiasi condizione di vortice o periferia si trovi.

Pertanto, «pascere» (vv.15-17) significa precedere e nutrire, non comandare.

Coloro che guidano devono essere segno di un Dio che non si stufa né ripicca.

Volto amabile e invitante di Colui che è capace di stupire e rimettere in piedi pure Simone. L’apostolo capo, che era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9; con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].

Dunque “nemico” di Dio è la ricerca della ‘vita media’. Pantano ove non ci si getta.

 

[Una riflessione per il capo scout recita: «Ricorda, capo scout: se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle»].

Adesso il Messaggio fa corpo con noi stessi.

 

 

[Venerdì fra l’Ottava di Pasqua, 25 aprile 2025]

Seconda Domenica di Pasqua [27 Aprile 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. In questi giorni mentre preghiamo per il nostro papa Francesco partito per la casa del Padre, invochiamo insistentemente la luce dello Spirito Santo sulla Chiesa e in particolare sui cardinali che dovranno eleggere colui che il Signore ha scelto a guida della sua Chiesa dopo papa Francesco. 

 

*Prima Lettura Dagli Atti degli Apostoli (5,12-16) 

Ecco una presentazione della prima comunità cristiana che sembra quasi troppo bella per essere vera (Negli Atti degli Apostoli ci sono quattro riassunti della vita ai primordi della Chiesa At 2,42-47 il più noto e dettagliato; At 4,32-35 sottolinea la comunione dei beni; At 5,12-16 mette in luce i miracoli e la crescita; At 6, 7 sommario breve della diffusione del vangelo). Non dobbiamo però dedurne che tutto era perfetto perché nelle prossime domeniche vedremo ogni sorta di difficoltà: i primi cristiani erano uomini, non superuomini. Perché allora san Luca presenta questo quadro ideale? Perché intende incoraggiare anche noi a camminare nella stessa direzione: una comunità fraterna è condizione indispensabile per l’annuncio e la testimonianza del vangelo. Poiché gli apostoli seguivano il comando di Cristo, Il contagio del vangelo è stato irresistibile: “Sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8) e niente è riuscito a impedire alla Chiesa nascente di svilupparsi. Nota san Luca che “tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone”. Siamo ancora a Gerusalemme, dato che la risurrezione di Cristo è vicina nel tempo, esattamente nel Tempio di Gerusalemme sotto il portico di Salomone (tutto il muro orientale del Tempio era in realtà un colonnato che costeggiava un largo corridoio coperto, luogo di passaggio e di incontro, accessibile a tutti non facendo parte della zona riservata ai soli Giudei). Dopo la morte e risurrezione di Gesù, gli apostoli, essendo e restando giudei, continuavano a frequentare il Tempio. Anzi, la loro fede giudaica si era  rafforzata avendo visto negli eventi pasquali realizzate le promesse dell’Antico Testamento. Solamente dopo e progressivamente avverrà la divisione tra cristiani e i giudei che non riconoscevano Gesù come il Messia, anche se già in questo testo se ne avverte un primo segnale: “nessuno degli altri osava associarsi a loro”, il che ci dice che i cristiani già formavano un gruppo distinto all’interno del popolo giudeo. Luca traccia qui un parallelo con gli inizi della predicazione di Gesù: “Anche la folla dalle città vicine a Gerusalemme accorreva portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti” ; nel vangelo aveva scritto la stessa cosa di Gesù: “Al calar del sole, tutti quelli che avevano malati affetti da varie infermità li conducevano a lui…. anche i demoni uscivano da molti” (Lc 4,40-41). Se insiste sulle guarigioni di Pietro e degli apostoli chiaro è il messaggio: continua l’opera del Messia attraverso gli apostoli e dice alla sua comunità: tocca a voi prendere il testimone degli apostoli perché il Cristo conta su di voi. Ed è interessante costatare che, grazie alla testimonianza degli apostoli, le folle non si univano agli apostoli, ma attraverso gli apostoli, al Signore: “Sempre più, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di di uomini e donne”. Si tratta di un dettaglio importante perché le conversioni non sono opera degli apostoli, ma di Cristo che agisce quando la comunità è formata di persone con “un cuore solo” e “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). San Pietro e gli altri apostoli non si presentavano come superuomini, anzi Pietro dirà a Cornelio, che si era inginocchiato davanti a lui: “Alzati. Anche io sono un uomo.” (At 10,26). Se nelle nostre comunità mancano segni e miracoli non sarà forse un invito a vivere sinceramente nell’amore di Cristo? 

 

*Salmo responsoriale (117 (118), 2-4, 22-24, 25-27a)

Torna il salmo 117 (118) cantato già nella Veglia pasquale e il giorno di Pasqua, e lo troviamo ogni domenica del tempo ordinario nell’Ufficio delle Lodi (Liturgia delle Ore). Per gli ebrei, questo salmo riguarda il Messia; noi cristiani vi riconosciamo il Messia atteso da tutto l’Antico Testamento, il vero re, il vincitore della morte. Come altri salmi anche questo va meditato in un duplice livello: nella prospettiva dell’attesa ebraica del Messia, e alla luce della fede dei convertiti in Cristo risorto. Per gli Ebrei è un salmo di lode che comincia con Alleluia, il cui significato è “lodate Dio” e che dà il tono all’insieme. Si tratta di ventinove versetti dove torna più di trenta volte la parola Signore (le famose quattro lettere del Nome di Dio in ebraico YHWH), o almeno Yah, che ne è la prima sillaba e sono tutte frasi, una vera litania, di lode per la grandezza, l’amore e l’opera di Dio verso il suo popolo. il salmo cantato accompagna un sacrificio di ringraziamento durante la festa delle Capanne, che dura otto giorni in autunno. Il rito più visibile per gli stranieri di questa festa avviene fuori dal Tempio. Durante l’intera settimana tutti abitano in capanne di frasche, le Capanne o Tabernacoli (Sukkot è il nome della festa), facendo memoria delle tende del deserto e dell’ombra protettrice di Dio nell’Esodo. Dentro il Tempio ci sono celebrazioni il cui punto comune è il rinnovamento dell’Alleanza (e durante le quali i pellegrini agitano dei rami anzi un mazzetto, il lulav, composto da una palma, un ramo di mirto, un ramo di salice e un cedro. Si svolge infine una grande processione attorno all’altare con in mano questi mazzi di lulav cantando salmi intervallati da Hosanna, che significa sia «Dio salva» o «Dio, salvaci». Ci sono riti di libagione d’acqua versata presso l’altare (cf Gv 7,37) e nelle sere precedenti l’ultimo giorno una grande illuminazione del cortile delle Donne nel Tempio con quattro candelabri dorati, alimentati con olio e stoppini ricavati da abiti sacerdotali dismessi e la luce così prodotta era così intensa che illuminava tutta Gerusalemme. E’ dunque una festa di fervore e gioia, che anticipa la venuta del Messia: si rende grazie per la salvezza già compiuta e si accoglie la salvezza che porterà il Messia che non tarderà a venire: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”). Quando Gesù si proclama  vera “luce del mondo” (Gv8,2) lo fa probabilmente dopo la conclusione della festa con la memoria viva di quel rito luminoso. Nei versetti scelti per l’odierna liturgia mancano tutti gli elementi della festa delle Capanne, ma non la gioia nei cuori dei credenti: “Questo è il giorno che ha fatto il Signore:, rallegriamoci in esso ed esultiamo …Dica Israele: Il suo amore è per sempre” . Per narrare la bontà del Signore lungo tutta la storia d’Israele, il salmo narra di un re che dopo una guerra spietata ha vinto e ringrazia Dio per averlo sostenuto: “Mi hanno spinto, mi hanno urtato per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto” (v.13), “Tutte le nazioni mi hanno circondato: nel nome del Signorele ho distrutte” (v.10), e ancora: “Non morirò, ma vivrò e annuncerò le opere del Signore” (v.17). In realtà, nella storia di questo re è narrata quella Israele che lungo la sua storia ha sfiorato l’annientamento ma il Signore l’ha risollevato, e ora canta nella festa delle Capanne: “Non morirò, ma vivrò e annuncerò le opere del Signore”. Israele sa di dover testimoniare le opere del Signore e da questa consapevolezza ha attinto la forza per sopravvivere a tutte le sue prove. La festa ebraica delle Capanne per noi cristiani trova un’eco nell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, la domenica delle Palme, ma soprattutto l’esultanza di questo salmo si addice al Risorto che gli evangelisti, ciascuno a suo modo, hanno presentato come il vero re (Matteo nella visita dei Magi, Giovanni, nel racconto della Passione). Meditando il mistero del Messia rifiutato e crocifisso, gli apostoli hanno scoperto un nuovo senso in questo salmo: Gesù è veramente “colui che viene nel nome del Signore”, pietra scartata dai costruttori, rifiutato dal suo popolo, Cristo è la pietra angolare di fondazione del nuovo Israele. Questo salmo era cantato a Gerusalemme in occasione di un sacrificio di ringraziamento e Gesù ha appena compiuto il sacrificio di ringraziamento per eccellenza: Egli è il nuovo Israele che rende grazie al Padre in un’eterna azione di grazie, iinaugurando tra Dio e l’umanità la nuova Alleanza in cui l’umanità è risposta d’amore all’amore del Padre.

Nota  La pietra angolare: su questa espressione, vedi il commento al salmo 117 (118) per la domenica di Pasqua.

 

*Seconda Lettura Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (1, 9-11a.12-13.17-19)

Per sei domeniche consecutive leggeremo come seconda lettura brani dell’Apocalisse, una grande opportunità per familiarizzare con uno dei libri più affascinanti del Nuovo Testamento, apparentemente difficile e bisognoso d’un certo sforzo. “Apocalisse” significa rivelazione, svelamento nel senso di togliere un velo e Giovanni rivela il mistero della storia nascosto ai nostri occhi e poiché deve mostrarci ciò che non vediamo, il libro ci parla con delle visioni («vedere» o «guardare» è usato cinque volte solo nel brano di oggi). Nel comune sentire Apocalisse è sinonimo di catastrofe, pessimo fraintendimento, perché l’Apocalisse come l’intera Bibbia è una Buona Notizia. Nel loro genere letterario, le apocalissi, come l’intera Bibbia, comunicano l’amore di Dio e la vittoria definitiva dell’amore su ogni male. Per noi, che viviamo in un contesto culturale diverso, ci resta quasi impossibile percepire perché questo linguaggio simbolico e capire a chi l’autore si rivolge. In realtà egli usa il linguaggio delle visioni perché tutti i libri dello stesso genere sono nati in un periodo di forte persecuzione dei cristiani (tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C. sono state scritte diverse apocalisse da autori diversi). Lo fa capire san Giovanni: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù”. A Patmos era in esilio, non in vacanza ed essendo in piena persecuzione, questo testo circolava di nascosto per confortare le comunità. Tema principale è la vittoria finale di coloro che erano oppressi: vi perseguitano e i vostri persecutori prosperano, ma non perdete coraggio perché Cristo ha vinto il mondo. Le forze del male non possono nulla contro di voi essendo già sconfitte e il vero re è Cristo. Giovanni l’afferma all’inizio: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù”. Per evitare che i persecutori capiscano si raccontano storie di altri tempi usando visioni fantasiose in modo da scoraggiare la lettura da parte dei non iniziati. Ad esempio, san Giovanni presenta malissimo Babilonia, che definisce la grande prostituta, ma si capisce che parla di Roma. Insomma, il messaggio di ogni Apocalisse è che le forze del male non prevarranno mai. Nell’odierna lettura la vittoria di Cristo è mostrata in questa visione grandiosa: è domenica, giorno del Signore,  rapito dallo Spirito Giovanni sente una voce potente come una tromba, e fra sette candelabri d’oro gli appare un essere di luce, un “figlio d’uomo”. Figlio dell’uomo è nel Nuovo Testamento un’espressione usata per indicare il Messia, il Cristo. Lui cade ai suoi piedi mentre lo ascolta: “Non temere! Io sono (cioè il nome stesso di Dio YHWH) il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo… e ho le chiavi della morte e degli inferi.”.  Si tratta di una visione che è per il servizio dei fratelli: “Scrivi le cose che hai visto”, cioè incoraggiali e sappi che passato, presente e futuro mi appartengono. Percepiamo qui la promessa di Cristo: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà (Gv 11,25).

 

Nota: Gli esegeti concordano nel ritenere Giovanni l’autore dell’Apocalisse scritta sotto il regno dell’imperatore Domiziano (81-96) anche se quest’imperatore non ha organizzato una persecuzione sistematica dei cristiani. La comunità di Giovanni vive però in un clima di insicurezza: egli stesso è esiliato e, nel corso del libro, si fa menzione di martiri. I cristiani si confrontano con le esigenze del culto imperiale promosso da Domiziano, e sembra che alcuni governatori locali abbiano mostrato particolare zelo. Inoltre, i cristiani incontrano l’opposizione dei Giudei rimasti ostili al cristianesimo. Questo sembra emergere anche dalle lettere alle sette Chiese. Ci sono inoltre altri esempi di Apocalissi. Nell’Antico Testamento, il libro di Daniele contiene un messaggio apocalittico scritto intorno al 165 a.C. da Daniele per incoraggiare i suoi fratelli perseguitati dal re greco Antioco Epifane. Anche lui non attacca direttamente il problema, ma narra le gesta eroiche di alcuni ebrei fedeli durante la persecuzione di Nabucodonosor, quattro secoli prima (VI secolo a.C.). Solo in apparenza è una lezione di storia ma per chi sa leggere tra le righe il messaggio è chiaro. Ecco infine un esempio di Apocalisse nella storia recente: al tempo del dominio russo sulla Cecoslovacchia, una giovane attrice ceca compose e rappresentò più volte nel suo Paese un dramma su Giovanna d’Arco: evidentemente, la storia di Giovanna che caccia gli Inglesi dalla Francia nel XV secolo non era la prima preoccupazione dei Cechi; e se lo scenario fosse finito nelle mani del potere occupante, non avrebbe compromesso nessuno. Ma per chi sapeva leggere tra le righe, il messaggio era evidente: quello che ha saputo fare una giovane ragazza di diciannove anni, con l’aiuto di Dio, possiamo farlo anche noi.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (20,19-31)  

“Shalom, pace a voi!” Questa è la prima parola che pronuncia Gesù risorto. I discepoli ricordavano l’ultima sua frase sulla croce: “Tutto è compiuto”, che chiude il racconto della Passione nel quarto vangelo (Gv 19,30). L’evangelista in quel momento comprese che il progetto di Dio era del tutto compiuto e con questa evidenza ci narra ora questa prima apparizione. Gerusalemme, nel nome stesso Yerushalaïm, porta la parola ebraica shalom e proprio qui Gesù annuncia e dona, cioè rende efficace, la sua pace: Shalom! Li saluta così per ben due volte e, ormai riconosciuto con Dio, questa parola non è un augurio, ma dono già realizzato: dicendo pace la dona e la compie.  È sempre urgente credere che Cristo risorgendo ci ha portato la pace anche se le situazioni concrete mostrano un mondo segnato da odio, violenza e guerre. Questo perché la pace c’è già ma non arriva con un colpo di bacchetta magica: deve nascere anzitutto nel cuore dei credenti e poi diffondersi attraverso la gioia che ebbero i discepoli “al vedere il Signore”. Gesù risorto appare sempre “il primo giorno della settimana” tanto che per i cristiani, questo giorno è diventato il primo giorno dei tempi nuovi. La settimana di sette giorni ricordava ai Giudei i sette giorni della creazione, mentre la nuova settimana legata alla risurrezione di Cristo è l’inizio della nuova creazione. Per questo, quando l’evangelista parla del primo giorno della settimana non fornisce solo una precisione cronologica, ma invita a capire che la domenica, dal latino dies dominicus, è giorno consacrato a Dio, giorno della nuova creazione nel quale il progetto della salvezza è compiuto. Proprio nel primo giorno della settimana, come aveva annunciato il profeta Ezechiele: “Metterò in voi il mio stesso Spirito”, Gesù “soffiò” sui discepoli e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”. Giovanni riprende volutamente il termine che troviamo in Genesi ( 2,7): (Dio insufflò nelle narici dell’uomo  plasmato con polvere  “un alito di vita”(nėšāmāh legato a rûah; in greco pnoē) e divenne essere vivente) e inaugura la nuova creazione insufflando sugli apostoli il suo Spirito (pneûma hágion), “il primo dono fatto ai credenti”, come ricorda la quarta preghiera eucaristica. Nella Bibbia lo Spirito è sempre dato per una missione e anche Gesù manda i discepoli ad annunciare al mondo l’unica indispensabile verità: Dio è Misericordia. Missione urgente perché l’uomo muore se non conosce la verità, come dice Gesù: “chi commette il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8,34) perché non conosce l’amore di Dio. Non c’è altra missione che riconciliare gli uomini con Dio: tutto il resto deriva da questo. “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati”, potremmo tradurlo così: annunciate che i peccati sono perdonati e siate ambasciatori della riconciliazione universale. La missione che il Padre vi affida è urgente e indispensabile e se non andate, la novità della riconciliazione non sarà annunciata. In questo contesto la frase: “a coloro a cui non perdonerete non saranno perdonati”, potrebbe comprendersi in questo senso: se voi non portate i vostri fratelli a conoscere l’amore di Dio (se non perdonerete) loro vivranno fuori del suo amore (non saranno perdonati).   Quanta fiducia e quale responsabilità! Il progetto di Dio sarà definitivamente compiuto solo quando noi, a nostra volta, avremo compiuto la nostra missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Il primo peccato, che è alla radice di tutti gli altri, è non credere all’amore di Dio: perciò, vi mando, muovetevi senza indugio per annunciare a tutti  l’amore di Dio’.

Nota “Quel giorno, il primo giorno della settimana”: nella lettura ebraica del racconto della Creazione, questo primo giorno era chiamato «Giorno UNO» nel senso di «primo giorno» ma anche «giorno unico», perché in un certo senso racchiudeva tutti gli altri, come la prima spiga del raccolto annuncia tutta la mietitura… E il popolo ebraico attende ancora il Giorno Nuovo che sarà il giorno di Dio, quando rinnoverà la prima Creazione.

 

Oggi, Domenica della Divina Misericordia, vi propongo una preghiera che prendo dal libro del Santuario Santissima Trinità Misericordia di Maccio (Como). La Santissima Trinità è Misericordia infinita

“Santissima Trinità, Misericordia infinita, Misericordia, Luce imperscrutabile del Padre che crea; Misericordia, Volto e Parola del Figlio che si dona; Misericordia, Fuoco penetrante nello Spirito che dà vita; Santissima Trinità, Misericordia che salva nel dono unico del Trino suo essere, io confido e spero in te! Tu, che ti sei donata a noi, fa’ che noi ci doniamo tutti a te! Rendici testimoni del tuo Amore in Cristo nostro Redentore, fratello e nostro Re! Santissima Trinità, io confido in te!”

+Giovanni D’Ercole

Gv 21,1-14 (1-19)

 

Il medesimo segno della pesca sovrabbondante, in Lc 5,1-11 non riguarda la vicenda della Chiesa dopo la Pasqua, ma si colloca addirittura nel giorno in cui Gesù invita i primi discepoli a seguirlo per diventare “pescatori” di uomini.

Il prodigio della Vocazione espande il cammino del fedele in Cristo e interessa ogni esperienza che possiamo fare del Risorto nel lavoro ordinario - e quale Missione ci è affidata per sperimentarlo Vivente.

La Chiesa non è composta da fenomeni, ma da un cocciuto e smanioso a capo [Pietro]. Qualcuno sta dentro e fuori [Tommaso], altri restano legati al passato [Natanaele], e non mancano i fanatici [i figli di Zebedeo]; quindi gli anonimi, ossia tutti noi.

Pietro si rende conto che prima di dare ordini deve fare ed esporsi lui: se così, gli altri pur insubordinati decideranno spontaneamente (v.3), dilatando la loro vita.

Ma senza la fiaccola della Parola, nessun risultato. Seguire Pietro non basta e non salva nessuno.

Ecco Gesù: sulla Riva della condizione definitiva ci chiama e ci fa strada, fa da guida all’attività, ed è finalmente Luce - l’Alba.

 

La rete va gettata dalla «parte destra» (v.6), ossia dalla parte buona!

Per tirar su persone da abissi d’acque inquinate e flutti di morte verso una possibilità di respiro o stima di sé e vita piena, bisogna iniziare e puntare al meglio di ciascuno, far emergere il bene che sempre c’è.

Richiamo per noi. Ogni cultura possiede molte qualità: si faccia leva su di esse, invece di approcciare donne e uomini, etnie o situazioni, evidenziando limiti e problemi.

Quindi il Pietro - ciascun responsabile di comunità - non deve avere preconcetti, ma svestirsi della talare di capogruppo e cingersi il grembiule da servo [v.7: il verbo greco è quello della lavanda dei piedi].

Per un lavoro che doni risultato secondo Dio (l’amore) bisogna indossare la stessa veste di Cristo - unico distintivo: l’abito di chi non dà ordini, ma li riceve.

È il tratto della Chiesa autentica - nulla di grande: non arriva su un transatlantico, ma su una «barchetta» [v.8 testo greco].

E resta di bassa misura: come un poco di lievito, per abbracciare tutti.

 

Malgrado le difficoltà a credere, i discepoli vengono costituiti araldi della notizia di Dio favorevole all’umanità che intende viaggiare verso se stessa - senza più il bagaglio dei soverchianti accumuli di maniera.

Per la comunione con Dio e i fratelli, nel cammino della vita e nel senso di rinascita che vi si annida [ad es. dopo un dolore, i travagli, esperienze di rifiuto, pensieri di fallimento e morte...] Gesù aveva fatto emergere il portato delle capacità trasmutative già in dote a ciascuno.

La sua proposta aveva soppiantato il giogo oppressivo delle perfezioni esterne predicate dalla religione, sostituite appunto con le nostre semplici virtù famigliari, colte dal di dentro. Non: combattere, bensì accogliere. Non: obbedire, ma somigliare. E così via.

La chiesa non avrebbe dovuto diventare una comunione etica di santi, ma di peccatori e indecisi. La vicenda degli apostoli increduli ci conforta: siamo già abilitati, e con attitudine alla pienezza. Ma nel suo capovolgimento.

È la risurrezione che ci manda fra gli uomini, appunto da rigenerare; proprio come noi. Quindi la condizione di apostolo non è sottoposta alla solita trafila dottrinale, moralistica, di costume, e religiosa; non tarda più ad essere assunta.

Malgrado il credere in sé rimanga fragile, facciamo di continuo esperienza di risuscitazione dalle nostre macerie - risollevando o nel migliore dei casi rigenerando l’intero organismo dello spirito, e l’universo interiore.

Tutto ciò plasma una coscienza d’inadeguatezza differente: quella nella Fede - solo positiva, perché capisce i fratelli. Li riconosce nell’intimo di sé, e in tal guisa sa giustificare le resistenze all’Annuncio.

Infatti è nel recupero dei lati opposti e nella sinergia delle contraddizioni che siamo diventati - nel proprio - esperti della difficoltà. Più in grado di cogliere i disagi; perfino il sentimento di sentirsi svuotati, che presto o tardi darà spazio al capovolgimento; inedito felice.

Poi abbiamo imparato l’ascolto delle emozioni: l’intuirsi travolti - persino nelle idee. E la necessità di cogliere e perderci nei dolori, assurdi o insopportabili. Lati dignitosi; volti di noi stessi.

Insomma, al fine di una realizzazione vocazionale, ciascuno è già “perfetto”.

Nel suo portato di energie difformi, deve solo imparare a incontrare i rilievi di sé cui ancora non ha fatto largo.

Come se dentro di noi avessimo una molteplicità di aspetti, spesso tutti da scoprire, dietro un qualche guscio che resiste - i quali ci completano e guidano infallibilmente alla fioritura personale e sociale.

 

Così nell’esodo passiamo dall’esperienza di morte-risurrezione alla vera testimonianza - nella spontanea franchezza di venire abilitati come evangelizzatori.

Cosa che ci sorprende. Ma adesso il Messaggio fa corpo con noi stessi.

Diventa Richiamo di pace, però esplosivo - incredibile, e lo si vede più dai limiti (ora nulla da temere) che dall’abilità, o dallo stile esterno, dalla capacità di allestire cattedre sentenziose, nonché vetrine.

Dopo Cristo non bisogna più “migliorare” secondo accezione comune - né attesa, o proposito, che guardino e si abbeverino alla fonte del già detto da altri [in passato, o per la moda] che poi ricolloca nella medesima situazione prevedibile di sempre.

Per i malfermi apostoli, il consenso, la religione antica o glamour, l’identificazione, erano la negazione di se stessi nel cuore.

Viceversa la Chiamata per Nome diveniva lo sviluppo di ciò che ognuno era nel profondo e che non si era dato, manipolandosi.

Strada della realizzazione di sé, anche nel contributo ai fratelli. Anch’essi non intimamente dissociati.

Unica arma convincente, la genuinità - che arde dentro per farci santuari, inconsapevoli e incompleti ma viventi.

Contemplativi e in azione. Sola via per incontrare le anime.

 

Siamo collaboratori del grembiule, per dialogare con chi ha bisogno di recupero, in qualsiasi condizione di vortice o periferia si trovi.

Pertanto, «pascere» (vv.15-17) significa precedere e nutrire, non comandare.

Coloro che guidano devono essere segno di un Dio che non si stufa né ripicca.

Volto amabile e invitante di Colui che è capace di stupire e rimettere in piedi pure Simone. L’apostolo a capo, che era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9; con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].

 

Al termine d’un gioco di riproposte, nel dialogo con lo stesso Simone - «di Giovanni» perché ancora spiritualmente allievo del Battista (!) - è Gesù che si “accontenta” d’un amore di amicizia [cf. testo greco] modificando la doppia domanda «mi ami?» con la terza: «mi vuoi bene?».

L’amore umano attende un minimo di soddisfazione, non riesce a configurarsi in pura perdita - aspetta qualcosina, almeno un cenno di approvazione e gratitudine.

Nessun riconoscimento? Allora è il più Forte che cede.

‘Attendere’ è l’infinito del verbo ‘amare’, perché consente di nascere ancora.

Il sentimento umano ha fretta: regola la sua condotta sulla base del successo o delle perfezioni dell’amato.

L’Amore divino recupera; aiuta a diventare un’altra ‘persona’, a tutto tondo - non rompe l’intesa.

La sua Chiamata non è legata a meriti e prestazioni: anche attraverso le opere, dire «ti amo» è (purtroppo non di rado) una dichiarazione fatua.

O un’espressione sincera, ma spesso animata dall’entusiasmo senza radice profonda, che ad una successiva prova dei fatti trasforma il giuramento di fedeltà in sentimento fragile e incerto.

È la consapevolezza della propria impresentabilità gratuitamente redenta e trasformata in terreno di assurda fiducia, che tramuta la presunzione di sé in apostolato!

Per questo Gesù chiede a Pietro d’iniziare cominciando dai piccoli del gregge (v.15).

E «pascere» (vv.15.17) o «pasturiare» (v.16) significa «alimentare»: nutrire, aver cura, proteggere, favorire; avviare, rischiare in prima persona, difendere e metterci la faccia - non “comandare”.

Pascere è farsi presente, in un continuo di rimandi. È questo clima che convince, educa, sfama e sostiene, lasciando crescere e fiorire.

 

«Pascere» non è [appunto] dominare, ma alimentare l’ideale. E cominciare dal gregge minuto (v.15).

Insomma, onde assicurarsi l’esito “felice”, il credente vero, l’amico del Signore, il figlio di Dio, non si allea con gente che conta, poi si vedrà.

Neppure deve “pescare” proseliti, bensì dilatare e rallegrare la vita.

La pienezza del ‘risultato’ è la Felicità di ogni singola persona reale - così com’è - non come “dovrebbe essere” secondo opinione acclarata.

Infatti Gesù non chiede a Pietro: sei un buon amministratore? sei un bravo organizzatore? sei un abile animatore? sei abbastanza attrezzato, intelligente, furbo e introdotto per tener testa agli avversari?

 

Dunque “nemico” di Dio non è l’incertezza o il peccato - ossessione che genera squilibrati - bensì la ricerca della “vita media”. Pantano ove non ci si getta.

 

[Una riflessione per il capo scout recita: «Ricorda, capo scout: se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle»].

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Sei un inviato o un semplice ammiratore?

Qual è la tua personale Sorgente?

Qual è la Fonte delle tue relazioni?

E la radice della fedeltà e di ogni generosità che ti trascina, e mostri?

La chiamata di Pietro ad essere pastore, che abbiamo udito nel Vangelo, fa seguito alla narrazione di una pesca abbondante: dopo una notte, nella quale avevano gettato le reti senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore Risorto. Egli comanda loro di tornare a pescare ancora una volta ed ecco che la rete diviene così piena che essi non riescono a tirarla su; 153 grossi pesci: “E sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò” (Gv 21, 11). Questo racconto, al termine del cammino terreno di Gesù con i suoi discepoli, corrisponde ad un racconto dell’inizio: anche allora i discepoli non avevano pescato nulla durante tutta la notte; anche allora Gesù aveva invitato Simone ad andare al largo ancora una volta. E Simone, che ancora non era chiamato Pietro, diede la mirabile risposta: Maestro, sulla tua parola getterò le reti! Ed ecco il conferimento della missione: “Non temere! D’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5, 1–11). Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo – a Dio, a Cristo, alla vera vita. I Padri hanno dedicato un commento molto particolare anche a questo singolare compito. Essi dicono così: per il pesce, creato per l’acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all’uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita. E’ proprio così – nella missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio. E’ proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita.

[Papa Benedetto, omelia inizio Ministero Petrino 24 aprile 2005]

Apr 16, 2025

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Pubblicato in Angolo dell'ottimista

1. "Quando già era l'alba Gesù si presentò sulla riva" (Gv 21,4). Sul far del mattino, il Risorto apparve agli Apostoli, reduci da una nottata di vano lavoro sul Lago di Tiberiade. L'evangelista precisa che in quella notte "non presero nulla" (Gv 21,3), e aggiunge che niente avevano da mangiare. All'invito di Gesù: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete" (Gv 21,6) essi ubbidirono senza esitare. Pronta fu la loro risposta e grande la ricompensa, perché quella rete, rimasta vuota la notte, poi "non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci" (Gv 21,6).

Come non vedere in questo episodio, che san Giovanni riferisce nell'epilogo del suo Vangelo, un segno eloquente di ciò che il Signore continua a compiere nella Chiesa e nel cuore dei credenti, che confidano senza riserve in Lui?

2. "Quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro:  "È il Signore!"" (Gv 21, 7). Nel Vangelo abbiamo ascoltato, dinanzi al miracolo compiuto, un discepolo riconoscere Gesù. Anche gli altri lo faranno in seguito. Il passaggio evangelico, nel presentarci Gesù che "si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro" (Gv 21, 13), ci indica come e quando possiamo incontrare Cristo risorto:  nell'Eucaristia, dove Gesù è realmente presente sotto le specie del pane e del vino. Sarebbe triste se questa presenza amorosa del Salvatore, dopo tanto tempo, fosse ancora disconosciuta dall'umanità.

3. "E nessuno dei discepoli osava domandargli:  "Chi sei?", poiché sapevano bene che era il Signore" (Gv 21, 12). Quando i discepoli lo riconoscono sulle rive del lago di Tiberiade, si rafforza la loro fede nel fatto che Cristo è risorto ed è presente in mezzo ai suoi. La Chiesa, da millenni, non si stanca di annunciare e di ripetere questa verità fondamentale della fede.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia 29 aprile 2001]

Il Vangelo di oggi narra la terza apparizione di Gesù risorto ai discepoli, sulla riva del lago di Galilea, con la descrizione della pesca miracolosa (cfr Gv 21,1-19). Il racconto è collocato nella cornice della vita quotidiana dei discepoli, tornati alla loro terra e al loro lavoro di pescatori, dopo i giorni sconvolgenti della passione, morte e risurrezione del Signore. Era difficile per loro comprendere ciò che era avvenuto. Ma, mentre tutto sembrava finito, è ancora Gesù a “cercare” nuovamente i suoi discepoli. E’ Lui che va a cercarli. Questa volta li incontra presso il lago, dove loro hanno passato la notte sulle barche senza pescare nulla. Le reti vuote appaiono, in un certo senso, come il bilancio della loro esperienza con Gesù: lo avevano conosciuto, avevano lasciato tutto per seguirlo, pieni di speranza… e adesso? Sì, lo avevano visto risorto, ma poi pensavano: “Se n’è andato e ci ha lasciati… E’ stato come un sogno…”.

Ma ecco che all’alba Gesù si presenta sulla riva del lago; essi però non lo riconoscono (cfr v. 4). A quei pescatori, stanchi e delusi, il Signore dice: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (v. 6). I discepoli si fidarono di Gesù e il risultato fu una pesca incredibilmente abbondante. A questo punto Giovanni si rivolge a Pietro e dice: «È il Signore!» (v. 7). E subito Pietro si tuffa in acqua e nuota verso la riva, verso Gesù. In quella esclamazione: “E’ il Signore!”, c’è tutto l’entusiasmo della fede pasquale, piena di gioia e di stupore, che contrasta fortemente con lo smarrimento, lo sconforto, il senso di impotenza che si erano accumulati nell’animo dei discepoli. La presenza di Gesù risorto trasforma ogni cosa: il buio è vinto dalla luce, il lavoro inutile diventa nuovamente fruttuoso e promettente, il senso di stanchezza e di abbandono lascia il posto a un nuovo slancio e alla certezza che Lui è con noi.

Da allora, questi stessi sentimenti animano la Chiesa, la Comunità del Risorto. Tutti noi siamo la comunità del Risorto! Se a uno sguardo superficiale può sembrare a volte che le tenebre del male e la fatica del vivere quotidiano abbiano il sopravvento, la Chiesa sa con certezza che su quanti seguono il Signore Gesù risplende ormai intramontabile la luce della Pasqua. Il grande annuncio della Risurrezione infonde nei cuori dei credenti un’intima gioia e una speranza invincibile. Cristo è veramente risorto! Anche oggi la Chiesa continua a far risuonare questo annuncio festoso: la gioia e la speranza continuano a scorrere nei cuori, nei volti, nei gesti, nelle parole. Tutti noi cristiani siamo chiamati a comunicare questo messaggio di risurrezione a quanti incontriamo, specialmente a chi soffre, a chi è solo, a chi si trova in condizioni precarie, agli ammalati, ai rifugiati, agli emarginati. A tutti facciamo arrivare un raggio della luce di Cristo risorto, un segno della sua misericordiosa potenza.

Egli, il Signore, rinnovi anche in noi la fede pasquale. Ci renda sempre più consapevoli della nostra missione al servizio del Vangelo e dei fratelli; ci riempia del suo Santo Spirito perché, sostenuti dall’intercessione di Maria, con tutta la Chiesa possiamo proclamare la grandezza del suo amore e la ricchezza della sua misericordia.

[Papa Francesco, Regina Coeli 10 aprile 2016]

(Lc 24,35-48)

 

Non riconosciamo una persona da mani e piedi (v.39).

Il Risorto ha una vita che sfugge alla percezione dei sensi, tuttavia la Risurrezione non annulla la ‘persona’, bensì la dilata.

L’identità e l’essere che lo contraddistingue è di altra natura, ma il cuore è quello, caratterizzante. Amore sino in fondo: azione [mani] e cammino [piedi] senza risparmio, che la non-fede emargina, umilia, uccide.

Non si coglie Cristo fuori dall’esperienza di condivisione, testimonianza, Missione - punta del testo - che si estende fra tutti gli uomini.

Un’evangelizzazione a partire da araldi diretti e banditori entusiasti. Centrati nel nucleo dell’Annuncio, che smuove tutto e dà accesso (vv.35ss).

E finalmente, grazie all’intelligenza delle Scritture - che fa uscire da luoghi comuni e automatismi interpretativi vaghi.

Tutto ciò, nell’ascolto specifico e nel perdono che ci rende partecipi; nell’impegno che rischia, cammina, e parla.

 

Il progetto umano del Creatore ha assunto una configurazione pedagogica nella Legge; è stato ripreso, attualizzato e purificato dai profeti, e cantato nei salmi (v.44).

Ma coloro che «vedono e toccano» sono discepoli che si coinvolgono fino a far coincidere i loro moti dell’anima, i loro esodi verso le periferie, e i loro gesti appassionati, con le stesse piaghe d’amore del Maestro: «Palpatemi e vedete» (v.39).

Nei primi tempi, i credenti - qua e là - ce la facevano grazie all’aiuto di fraternità nelle quali la Persona del Signore si ‘manifestava’ persuasivo, perché «in mezzo» (v.36).

Non “sopra” o “davanti”, bensì da fratello a fratello: testimonianza del divino (v.48).

Egli ‘si svelava’ Vivente nella convivialità - Parola chiave, apice della Bibbia intera.

Condivisione che trovava anche le vie dell’intimità e confidenza sensibile, personale: «Essi gli porsero una porzione» (v.42).

Per questo motivo l’Annuncio doveva iniziare da Gerusalemme, primo dei «popoli pagani» [v.47 testo greco] da evangelizzare!

E in tal guisa non rendere Cristo un fantasma (v.37).

 

Nelle comunità dei primi tempi l’ascolto del mondo interiore personale e comune era particolarmente accentuato, perché il senso di marcia proposto dal Maestro sembrava tutto contromano.

Malgrado il caos delle sicurezze esterne, la traversata dal timore alla Libertà proveniva da una percezione tollerante - a partire da nuclei di esperienza viscerali.

Proprio le strettoie accentuavano il cambiamento e l’interiorizzazione, e strappavano i discepoli dall’abitudine ad allestire armonie conformiste.

Ci si affidava allora più volentieri ai tracciati dell’anima, incontrando così la propria natura profonda; nuovo asse della vita, a partire dalle ‘radici’.

La ricerca di una nuova bussola per i propri percorsi, la perdita dei riferimenti prevedibili, il disagio sociale, mettevano in contatto con se stessi e gli altri, in modo autentico.

 

Sentire l’ansia, il malessere e le piaghe, lasciava conoscere la propria Chiamata… anche se il modo esterno in cui si vedeva e affrontava l’esistenza normale o spirituale, “faceva per loro”.

Dovendosi spostare dalle abitudini, non ci si sottraeva più alla rivelazione preziosissima: dell’intimità primordiale e umanizzante depositata nella fraternità della nuova Via crocifissa.

Educati dal paradosso delle strettezze, gl’incerti apostoli diventavano così passo dopo passo i cercatori di una traccia, di una rotta più pertinente.

Pellegrini di codici inattesi. «Testimoni» (v.48): padri e madri di un’umanità nuova.

 

 

[Giovedì fra l’Ottava di Pasqua, 24 aprile 2025]

Non crea una gerarchia

(Lc 24,35-48)

 

Non riconosciamo una persona da mani e piedi (v.39).

Il Risorto ha una vita che sfugge alla percezione dei sensi, tuttavia la Risurrezione non annulla la persona, bensì la dilata.

L’identità e l’essere che lo contraddistingue è di altra natura, ma il cuore è quello, caratterizzante. Amore sino in fondo: azione [mani] e cammino [piedi] senza risparmio, che la non-fede emargina, umilia, uccide.

Non si coglie Cristo fuori dall’esperienza di condivisione, testimonianza, Missione - punta del testo - che si estende fra tutti gli uomini.

Un’evangelizzazione a partire da araldi diretti e banditori entusiasti. Centrati nel nucleo dell’Annuncio, che smuove tutto e dà accesso (vv.35-).

Finalmente grazie all’intelligenza delle Scritture, che fa uscire da luoghi comuni e automatismi interpretativi vaghi.

Nell’ascolto specifico e nel perdono che ci rende partecipi; nell’impegno che rischia, cammina, e parla.

 

Il progetto umano del Creatore ha assunto una configurazione pedagogica nella Legge. È stato ripreso, attualizzato e purificato dai profeti, e cantato nei salmi (v.44).

Ma la Conversione proposta da Cristo non è un ritorno alla religiosità, ma «cambiamento [di testa] in remissione» (v.47).

Il mutamento di convinzioni e mentalità è «per il perdono dei peccati»: ossia in superamento del senso d’inadeguatezza predicato dal centro religioso manipolatorio.

Le sue direzioni formali e vuote impediscono a donne e uomini di corrispondere alle proprie radici, al carattere, alla vocazione - alla gioia, alla pienezza di realizzazione personale, al Desiderio grande che pulsa dentro ciascuno.

 

In Gesù la storia della salvezza assume e riscatta la globalità dell’umano: essa diventa luogo privilegiato del vero suggello dell’Alleanza eterna tra il Padre e i figli. Solo in Lui la nostra vita va per il verso giusto.

Tale consapevolezza costituiva il nucleo di tutti i primi segni liturgici, i quali in parole e gesti esprimevano l’attitudine alla gratuità e accoglienza che animavano il credere.

In tal guisa, anche l’incontrare poliedrico; e il rischio della missione di Pace-Shalôm (v.36): Presenza del Messia stesso, attualizzato nello Spirito.

 

La Pasqua del Signore dava senso al passato del popolo ed era fondamento della libertà nell’amore, nella coesistenza - per l’opera personale ed ecclesiale.

Principio di nuove configurazioni. “Fatto” per eccellenza [in questo senso Lc ai vv.41-43 insiste sulla realtà della risurrezione].

Ecco l’inizio, fonte e culmine della storia autentica - nella stessa figura dell’Eucaristia come Mensa del «Pesce» [sigla acrostico, in greco, della condizione divina del Figlio dell’uomo].

Insomma, siamo testimoni oculari, non creduloni o vittime di allucinazioni collettive.

Nel Risorto non vediamo convergere proiezioni di angosce e frustrazioni; non lo cerchiamo per una compensazione.

 

Nei primi anni dopo la morte del Maestro, alcuni discepoli si difendevano effettivamente dagli scettici narrando di apparizioni.

La più convincente e genuina Manifestazione del Vivente era in realtà la saggezza e la qualità di vita espresse dalle prime comunità.

Coloro che «vedono e toccano» sono quei discepoli che si coinvolgono fino a far coincidere finalmente i loro moti dell’anima, i loro esodi verso le periferie, e i loro gesti appassionati, con le stesse piaghe d’amore del Maestro: «Palpatemi e vedete» (v.39).

Ciò additando un evento e vicenda di ammirabile luce per tutti, che si fa storia estesa, da fratello a fratello.

Testimonianza di peso, del divino (v.48) - nel Sì dell’essere, anche intaccato o distrutto dall’arcaica società sacrale dell’esterno.

 

Nei primi tempi i credenti - qua e là - ce la facevano grazie all’aiuto di fraternità nelle quali la Persona del Messia autentico si manifestava persuasivo, perché «in mezzo» (v.36).

Non “sopra” o “davanti” - né con un’etica e i dogmi.

Quindi nelle assemblee non avrebbe mai dovuto esistere nessun piazzato (a vita) che pretendesse di rappresentarLo e avesse titolo e posto di spicco, mentre altri destinati alle retrovie o sottoposti (altrettanto fissi).

Tutti avrebbero dovuto essere equidistanti da Dio: nessun privilegiato, nessun installato.

Nessuno che guidasse le fila - o più vicino al Signore, mentre altri lontani.

 

Il Signore si svelava Vivente nella convivialità - Parola chiave, apice della Bibbia intera.

Condivisione anche nel sommario, che trovava le vie dell’intimità e confidenza sensibile, personale: «Essi gli porsero una porzione» (v.42).

La prospettiva concreta e globale della Croce fonte di Vita era una trasmutazione del senso di “gloria” altezzosa e distante.

Talenti naturali o meno, chi rappresentava il Risorto era sempre a portata di mano: nessun eletto - zero gli spediti nelle retrovie.

Anche i primi compiti comunitari riflettevano il carattere d’un Gesù condivisibile, spontaneo, accessibile da chiunque - al centro e in posizione di reciprocità.

 

Nessun integro-nato, predestinato, al vertice.

Per questo motivo l’Annuncio doveva iniziare dalla Città Santa (v.47),  configurata al vitalizio contrario - compromessa, inerte, omertosa; piramidale, cooptata, e assassina dei profeti.

Quello della Città Eterna... restava il primo dei ‘popoli pagani’ [v.47 testo greco] da evangelizzare!

Solo una forte identità di Fede stringente, di Speranza d’Altrove e Comunione reale poteva convertirla dal peccato e costituire un codice per la comprensione delle Scritture.

E non rendere Cristo un fantasma (v.37).

 

Nelle comunità dei primi tempi l’ascolto del mondo interiore personale e comune era particolarmente accentuato, perché il senso di marcia proposto dal Maestro sembrava tutto contromano.

Malgrado il caos delle sicurezze esterne, la traversata dal timore alla Libertà proveniva da una percezione tollerante - a partire da nuclei di esperienza viscerali.

Proprio le strettoie accentuavano il cambiamento, l’interiorizzazione, e strappavano i discepoli dall’abitudine ad allestire armonie conformiste.

Ci si affidava allora più volentieri ai tracciati dell’anima. Incontrando così la propria natura profonda - nuovo asse della vita, a partire dalle radici.

La ricerca di una bussola inedita per i propri percorsi, la perdita dei riferimenti prevedibili, e il disagio sociale, mettevano in contatto con se stessi e gli altri, in modo autentico.

Sentire l’ansia, il malessere, e le piaghe, lasciava conoscere la propria Chiamata - sebbene il modo esterno in cui si vedeva e affrontava l’esistenza normale o spirituale, faceva per loro.

Dovendosi spostare dalle abitudini, non ci si sottraeva più alla rivelazione preziosissima: dell’intimità primordiale e umanizzante depositata nella comunione fraterna della nuova Via crocifissa.

Educati dal paradosso delle strettezze, gl’incerti apostoli diventavano passo dopo passo i cercatori di una traccia, di una rotta più pertinente; i pellegrini di codici inattesi.

 

«Testimoni» (v.48): padri e madri di un’umanità nuova.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come sperimenti l’identità del Crocifisso Risorto? E la sua Gloria? Di cosa arde il tuo cuore, e Chi irraggi?

Sei uno che si mette alla testa del gruppo? Oppure “con Gesù in mezzo” concorri alla felicità di tutti?

 

 

Presenza Reale

Mutato, non cancella i segni della crocifissione

 

Quest’oggi […] incontriamo – nel Vangelo secondo Luca – Gesù risorto che si presenta in mezzo ai discepoli (cfr Lc 24,36), i quali, increduli e impauriti, pensano di vedere un fantasma (cfr Lc 24,37). Scrive Romano Guardini: «Il Signore è mutato. Non vive più come prima. La sua esistenza…non è comprensibile. Eppure è corporea, comprende…tutta quanta la sua vita vissuta, il destino attraversato, la sua passione e la sua morte. Tutto è realtà. Sia pure mutata, ma sempre tangibile realtà» (Il Signore. Meditazioni sulla persona e la vita di N.S. Gesù Cristo, Milano 1949, 433). Poiché la risurrezione non cancella i segni della crocifissione, Gesù mostra agli Apostoli le mani e i piedi. E per convincerli, chiede persino qualcosa da mangiare. Così i discepoli «gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro» (Lc 24,42-43). San Gregorio Magno commenta che «il pesce arrostito al fuoco non significa altro che la passione di Gesù Mediatore tra Dio e gli uomini. Egli, infatti, si degnò di nascondersi nelle acque del genere umano, accettò di essere stretto nel laccio della nostra morte e fu come posto al fuoco per i dolori subiti al tempo della passione» (Hom. in Evang. XXIV, 5: CCL 141, Turnhout 1999, 201).

Grazie a questi segni molto realistici, i discepoli superano il dubbio iniziale e si aprono al dono della fede; e questa fede permette loro di capire le cose scritte sul Cristo «nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24,44). Leggiamo, infatti, che Gesù «aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati… Di questo voi siete testimoni”» (Lc 24,45-48). Il Salvatore ci assicura della sua presenza reale tra noi, per mezzo della Parola e dell’Eucaristia. Come, perciò, i discepoli di Emmaus riconobbero Gesù nello spezzare il pane (cfr Lc 24,35), così anche noi incontriamo il Signore nella Celebrazione eucaristica. Spiega, a tale proposito, san Tommaso d’Aquino che «è necessario riconoscere secondo la fede cattolica, che tutto il Cristo è presente in questo Sacramento… perché mai la divinità ha lasciato il corpo che ha assunto» (S.Th. III, q. 76, a. 1).

[Papa Benedetto, Regina Coeli 22 aprile 2012]

 

 

Come con un vivo

 

1. Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto! (cf. Sal 4,7)

Con tali parole prega la Chiesa nell’odierna liturgia. Chiede la luce divina. Chiede il dono di conoscere la Verità. Chiede la fede.

La fede è la conoscenza della Verità, che nasce dalla testimonianza di Dio stesso.

Al centro della nostra fede si trova la risurrezione di Cristo, mediante la quale Dio stesso ha reso testimonianza al Crocifisso. La testimonianza del Dio Vivo ha confermato nella risurrezione la verità del Vangelo, che Gesù di Nazaret proclamava. Ha confermato la verità di tutte le sue opere e di tutte le sue parole. Ha confermato la verità della sua missione. La risurrezione ha dato la definitiva e più completa espressione di quella potenza messianica, che era in Gesù Cristo. Veramente egli è l’inviato da Dio. E divina è la parola che proviene dalle sue labbra.

Quando, oggi, terza domenica di Pasqua, invochiamo: “risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto” (cf. Sal 4,7), chiediamo che mediante la risurrezione di Cristo si rinnovi in noi la fede, che illumina le vie della nostra vita e le indirizza verso il Dio Vivo.

2. Contemporaneamente, la liturgia dell’odierna domenica ci indica come si costruiva – e continua a costruirsi – questa fede, la quale, essendo un vero dono di Dio, ha al tempo stesso la sua umana dimensione e forma.

La risurrezione di Gesù di Nazaret è la principale sorgente di irradiazione di questa luce, dalla quale si sviluppa in noi la conoscenza della Verità rivelata da Dio. La conoscenza e l’accettazione di essa come verità divina.

Per formare l’umana dimensione di fede, Cristo stesso ha scelto tra gli uomini i testimoni della risurrezione. Questi testimoni dovevano diventare coloro che, sin dall’inizio erano a lui legati come discepoli, tra i quali lui solo aveva scelto i Dodici facendoli suoi apostoli.

Anche a loro Gesù di Nazaret, a loro che erano testimoni della sua morte in croce, appariva vivo dopo la sua risurrezione. Con loro parlava e in diversi modi li convinceva dell’identità della sua persona, della realtà del suo corpo umano.

“Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho” (Lc 24,38-39).

Così parlava loro quando “stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma” (Lc 24,37).

“Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: "Avete qui qualche cosa da mangiare?". Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro” (Lc 24,41-43).

Così si formava la schiera dei testimoni della risurrezione. Furono gli uomini che personalmente conobbero Cristo, ascoltarono le sue parole, videro le sue opere, vissero la sua morte in croce e, in seguito, lo videro vivo e si intrattennero con lui come con un vivo, dopo la risurrezione.

3. Quando questi uomini, gli apostoli e i discepoli del Signore, dopo aver ricevuto lo Spirito Santo cominciarono a parlare pubblicamente di Cristo, quando cominciarono ad annunziarlo agli uomini (prima a Gerusalemme) innanzitutto si richiamarono ai fatti comunemente conosciuti.

Lo “avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo – così diceva Pietro agli abitanti di Gerusalemme – voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino” (cioè Barabba)! (At 3,13-14).

Dagli eventi riguardanti la morte di Cristo l’oratore passa alla Risurrezione: “... avete ucciso l’autore della vita. Ma Dio l’ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni” (At 3,15).

Pietro prende la parola da solo – ma al tempo stesso parla a nome di tutto il collegio apostolico: “siamo testimoni” (At 3,15). Ed aggiunge: “Ora fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi” (At 3,17).

4. Dalla descrizione degli eventi, dalla testimonianza della risurrezione, l’apostolo passa all’esegesi profetica.

A tale esegesi della morte e della risurrezione i suoi discepoli erano stati preparati da Cristo stesso.

Ne abbiamo la prova nell’incontro descritto dall’odierno Vangelo (secondo Luca). Il Risorto dice ai discepoli: “Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (Lc 24,44).

“... E disse: Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni” (Lc 24,46-48).

E l’evangelista aggiunge: “Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45).

Dal discorso di Pietro desunto dagli Atti degli Apostoli, che leggiamo nell’odierna liturgia, si vede quanto efficace sia stata questa “apertura della loro mente”.

Pietro, dopo aver presentato gli avvenimenti collegati con la morte e la risurrezione di Cristo continua: “Dio però ha adempiuto così ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sarebbe morto. Pentitevi dunque e cambiate vita perché siano cancellati i vostri peccati...” (At 3,18-20).

Troviamo in queste parole dell’apostolo la chiara eco delle parole di Cristo: dell’illuminazione, che i discepoli hanno sperimentato nell’incontro con il Signore Risorto.

Così dunque si edificava la fede della prima generazione dei confessori di Cristo: della generazione dei discepoli degli apostoli. Germogliava direttamente dalla dichiarazione dei testimoni oculari della Croce e della Risurrezione.

5. Che cosa vuol dire essere cristiano?

Vuol dire: continuare ad accettare la testimonianza degli Apostoli, testimoni oculari. Vuol dire: credere con la stessa fede, che è nata in loro dalle opere e dalle parole del Signore Risorto.

Scrive l’apostolo Giovanni (è questa la seconda lettura dell’odierna liturgia):
“Da questo sappiamo d’averlo conosciuto (cioè Cristo) se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: "Lo conosco" e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto” (1Gv 2,3-5).

L’apostolo parla di fede viva. La fede è viva mediante le opere che sono ad essa conformi. Sono queste le opere di carità. La fede è viva mediante l’amore di Dio. L’amore si esprime nell’osservanza dei comandamenti. Non ci può essere contraddizione tra la conoscenza (“lo conosco”) e l’azione di un confessore di Cristo. Solo colui che completa la sua fede con le opere rimane nella verità.

Così dunque l’apostolo Giovanni si rivolge ai destinatari della sua prima lettera con l’affettuosa parola “figlioli”, e li invita “a non peccare” (cf. 1Gv 2,1). Contemporaneamente però scrive: “Ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati: non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2,1s).

Giovanni, apostolo ed evangelista, proclama nelle parole della sua lettera, scritta verso la fine del I secolo, la stessa verità, che Pietro proclamava poco dopo l’ascensione del Signore. È questa la verità sulla conversione e sulla remissione dei peccati con la forza della morte e della risurrezione di Cristo.

6. Che cosa vuol dire essere cristiano?

Essere cristiano – oggi allo stesso modo come allora, nella prima generazione dei confessori di Cristo – vuol dire continuare ad accettare la testimonianza degli apostoli, testimoni oculari. Vuol dire credere con la stessa fede, che è nata in loro dalle opere e dalle parole di Cristo, confermate con la sua morte e la risurrezione.

Anche noi, appartenenti alla presente generazione di confessori di Cristo, dobbiamo chiedere di avere la stessa esperienza dei due discepoli di Emmaus: “Signore Gesù, facci comprendere le Scritture; che ci arda il cuore nel petto quando ci parli” (cf. Lc 24,32).

Che “arda il cuore”!: perché la fede non può essere solo un freddo calcolo dell’intelletto. Essa deve essere vivificata dall’amore. Viva mediante le opere in cui si esprime la verità rivelata da Dio come verità interiore dell’uomo.

Allora anche noi – anche se non siamo stati testimoni oculari delle opere e delle parole, della morte e della risurrezione – ereditiamo dagli Apostoli la loro testimonianza. E noi stessi diventiamo anche testimoni di Cristo.

Essere cristiano è essere anche testimone di Cristo.

7. Allora anche la fede – la fede viva – si forma come un dialogo tra il Dio Vivo e l’uomo vivo; di tale dialogo troviamo alcune espressioni nel Salmo dell’odierna liturgia:
“Quando ti invoco, rispondimi, Dio, / mia giustizia: / dalle angosce mi hai liberato; / pietà di me, ascolta la mia preghiera” (Sal 4,2). “... il Signore mi ascolta quando lo invoco. / Tremate e non peccate, / sul vostro giaciglio riflettete e placatevi. / Offrite sacrifici di giustizia / e confidate nel Signore. / Molti dicono: "Chi ci farà vedere il bene?" / Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto. / Hai messo più gioia nel mio cuore / di quando abbondano vino e frumento. / In pace mi corico e subito mi addormento: / tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare” (Sal 4,4-9).

E lo stesso salmista aggiunge:
“Sappiate che il Signore fa prodigi per il suo fedele” (Sal 4,4).

[Papa Giovanni Paolo II, omelia ai ss. Marcellino e Pietro 25 aprile 1982]

Quest’oggi […] incontriamo – nel Vangelo secondo Luca – Gesù risorto che si presenta in mezzo ai discepoli (cfr Lc 24,36), i quali, increduli e impauriti, pensano di vedere un fantasma (cfr Lc 24,37). Scrive Romano Guardini: «Il Signore è mutato. Non vive più come prima. La sua esistenza…non è comprensibile. Eppure è corporea, comprende…tutta quanta la sua vita vissuta, il destino attraversato, la sua passione e la sua morte. Tutto è realtà. Sia pure mutata, ma sempre tangibile realtà» (Il Signore. Meditazioni sulla persona e la vita di N.S. Gesù Cristo, Milano 1949, 433). Poiché la risurrezione non cancella i segni della crocifissione, Gesù mostra agli Apostoli le mani e i piedi. E per convincerli, chiede persino qualcosa da mangiare. Così i discepoli «gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro» (Lc 24,42-43). San Gregorio Magno commenta che «il pesce arrostito al fuoco non significa altro che la passione di Gesù Mediatore tra Dio e gli uomini. Egli, infatti, si degnò di nascondersi nelle acque del genere umano, accettò di essere stretto nel laccio della nostra morte e fu come posto al fuoco per i dolori subiti al tempo della passione» (Hom. in Evang. XXIV, 5: CCL 141, Turnhout 1999, 201).

Grazie a questi segni molto realistici, i discepoli superano il dubbio iniziale e si aprono al dono della fede; e questa fede permette loro di capire le cose scritte sul Cristo «nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi» (Lc 24,44). Leggiamo, infatti, che Gesù «aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: “Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati… Di questo voi siete testimoni”» (Lc 24,45-48). Il Salvatore ci assicura della sua presenza reale tra noi, per mezzo della Parola e dell’Eucaristia. Come, perciò, i discepoli di Emmaus riconobbero Gesù nello spezzare il pane (cfr Lc 24,35), così anche noi incontriamo il Signore nella Celebrazione eucaristica. Spiega, a tale proposito, san Tommaso d’Aquino che «è necessario riconoscere secondo la fede cattolica, che tutto il Cristo è presente in questo Sacramento… perché mai la divinità ha lasciato il corpo che ha assunto» (S.Th. III, q. 76, a. 1).

[Papa Benedetto, Regina Coeli 22 aprile 2012]

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The Fathers made a very significant commentary on this singular task. This is what they say: for a fish, created for water, it is fatal to be taken out of the sea, to be removed from its vital element to serve as human food. But in the mission of a fisher of men, the reverse is true. We are living in alienation, in the salt waters of suffering and death; in a sea of darkness without light. The net of the Gospel pulls us out of the waters of death and brings us into the splendour of God’s light, into true life (Pope Benedict)
I Padri […] dicono così: per il pesce, creato per l’acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all’uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita (Papa Benedetto)
We may ask ourselves: who is a witness? A witness is a person who has seen, who recalls and tells. See, recall and tell: these are three verbs which describe the identity and mission (Pope Francis, Regina Coeli April 19, 2015)
Possiamo domandarci: ma chi è il testimone? Il testimone è uno che ha visto, che ricorda e racconta. Vedere, ricordare e raccontare sono i tre verbi che ne descrivono l’identità e la missione (Papa Francesco, Regina Coeli 19 aprile 2015)
There is the path of those who, like those two on the outbound journey, allow themselves to be paralysed by life’s disappointments and proceed sadly; and there is the path of those who do not put themselves and their problems first, but rather Jesus who visits us, and the brothers who await his visit (Pope Francis)
C’è la via di chi, come quei due all’andata, si lascia paralizzare dalle delusioni della vita e va avanti triste; e c’è la via di chi non mette al primo posto se stesso e i suoi problemi, ma Gesù che ci visita, e i fratelli che attendono la sua visita (Papa Francesco)
So that Christians may properly carry out this mandate entrusted to them, it is indispensable that they have a personal encounter with Christ, crucified and risen, and let the power of his love transform them. When this happens, sadness changes to joy and fear gives way to missionary enthusiasm (John Paul II)
Perché i cristiani possano compiere appieno questo mandato loro affidato, è indispensabile che incontrino personalmente il Crocifisso risorto, e si lascino trasformare dalla potenza del suo amore. Quando questo avviene, la tristezza si muta in gioia, il timore cede il passo all’ardore missionario (Giovanni Paolo II)
This is the message that Christians are called to spread to the very ends of the earth. The Christian faith, as we know, is not born from the acceptance of a doctrine but from an encounter with a Person (Pope Benedict))
È questo il messaggio che i cristiani sono chiamati a diffondere sino agli estremi confini del mondo. La fede cristiana come sappiamo nasce non dall'accoglienza di una dottrina, ma dall'incontro con una Persona (Papa Benedetto)
From ancient times the liturgy of Easter day has begun with the words: Resurrexi et adhuc tecum sum – I arose, and am still with you; you have set your hand upon me. The liturgy sees these as the first words spoken by the Son to the Father after his resurrection, after his return from the night of death into the world of the living. The hand of the Father upheld him even on that night, and thus he could rise again (Pope Benedict)

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