don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Nov 18, 2025

Cristo Re

Pubblicato in Angolo della Pia donna

Solennità di Cristo Re dell’Universo [23 Novembre 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Chiudiamo con animo grato al l’Anno liturgico C preparandoci a riprendere il cammino con l’Avvento.

 

*Prima Lettura dal secondo libro di Samuele (5,1-3)

Questi sono i primi passi della monarchia in Israele. Tutto comincia a Ebron, antica città delle montagne di Giudea, dove riposano i patriarchi d’Israele: Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Lea, e persino Giuseppe, le cui ossa furono riportate dall’Egitto. È un luogo carico di memoria e di fede, e proprio qui Davide diventa re di tutte le dodici tribù d’Israele. Dopo la morte di Mosè, verso il 1200 a.C., il popolo d’Israele si stabilì in Palestina. Le tribù vivevano in modo autonomo, unite soltanto dal ricordo della liberazione dall’Egitto e dalla fede nel loro unico Dio. Nei momenti di pericolo, Dio suscitava dei capi temporanei, i Giudici, che guidavano il popolo e spesso agivano anche come profeti. Uno di questi fu Samuele, grande uomo di Dio. Col tempo, però, gli Israeliti vollero essere “come gli altri popoli” e chiesero a Samuele di avere un re. Il profeta ne fu turbato, perché Israele doveva riconoscere solo Dio come Re, ma alla fine, su comando divino, consacrò Saul, il primo re d’Israele. Dopo un inizio promettente, Saul cadde nella disobbedienza e nella follia e Dio scelse un altro uomo: Davide, il giovane pastore di Betlemme, al quale Samuele versò l’olio dell’unzione. Davide non prese subito il potere: servì Saul con fedeltà, divenne suo musicista e valoroso guerriero, amato dal popolo e legato da profonda amicizia a Gionata, il figlio di Saul. Ma la gelosia del re si trasformò in odio, e Davide fu costretto a fuggire, pur rifiutandosi sempre di alzare la mano contro “l’unto del Signore”. Dopo la morte di Saul, Israele si divise: Davide regnava a Ebron sulla tribù di Giuda, mentre al Nord un figlio di Saul regnava per breve tempo. Quando quest’ultimo fu ucciso, le tribù del Nord si radunarono a Ebron e riconobbero Davide come loro re. Quel giorno nacque il regno unito d’Israele: dodici tribù sotto un solo pastore, scelto da Dio e riconosciuto dai fratelli. L’unzione con l’olio sacro fece di Davide il “Messia”, cioè l’“unto del Signore”. Egli doveva essere un re secondo il cuore di Dio, un pastore che guida il suo popolo verso l’unità e la pace. Ma la storia mostrò quanto fosse difficile realizzare questo ideale. Tuttavia, la speranza non morì: Israele attese sempre il vero Messia, il discendente di Davide che avrebbe instaurato un regno eterno. E mille anni dopo, Gesù Cristo, chiamato “Figlio di Davide”, si presentò come il Buon Pastore, colui che offre la vita per il suo gregge. Ogni domenica, nell’Eucaristia, Egli rinnova la sua alleanza e ci dice: “Voi siete del mio stesso sangue.”

 

*Salmo responsoriale (121/122,1-2,3-4,5-6a.7a)

“Quale gioia quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore” . Un pellegrino racconta la sua emozione: dopo un lungo viaggio, finalmente i suoi piedi si fermano alle porte di Gerusalemme. Siamo nel tempo del ritorno dall’esilio babilonese: la città è stata ricostruita, il Tempio restaurato (attorno al 515 a.C.), e il popolo ritrova nella casa del Signore il segno vivo dell’Alleanza. Davanti alla città risorta, il pellegrino esclama: Gerusalemme, eccoti dentro le tue mura, città ben compatta, dove tutto insieme forma un solo corpo! Gerusalemme non è solo un luogo geografico: è il cuore del popolo di Dio, simbolo della unità e della comunione. Ogni pietra, ogni muro ricorda che Israele è un popolo radunato da un’unica promessa e da un destino comune. Dio stesso ha voluto che Israele salisse ogni anno in pellegrinaggio a Gerusalemme, perché il cammino comune e la fatica condivisa mantenessero vivo il legame dell’Alleanza. Per questo il Salmo proclama:”E’ là che salgono le tribù, le tribù del Signore…per lodare il nome del Signore”. Il verbo “salire” indica sia la posizione elevata della città, sia la salita spirituale del popolo verso il suo Dio liberatore, lo stesso che li fece salire  cioè uscire dall’Egitto. La formula “le tribù del Signore” richiama l’appartenenza reciproca dell’Alleanza: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio.” Il pellegrinaggio, fatto a piedi, tra fatica, sete e canti, è un cammino di fede e di fraternità. Quando il pellegrino esclama: Ora il nostro cammino ha fine!, esprime la gioia di chi ha raggiunto non solo una meta geografica, ma anche spirituale: l’incontro con Dio nella città della sua presenza. Rendere grazie al Signore è la vocazione di Israele. Finché il mondo intero non riconoscerà Dio, Israele è chiamato a essere nel mondo il popolo dell’azione di grazie, testimone della fedeltà divina. Così ogni pellegrinaggio a Gerusalemme rinnova la missione di Israele: ringraziare, lodare e mostrare la via alle altre nazioni. Il profeta Isaia aveva preannunciato questo disegno universale:”Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti,e tutte le nazioni affluiranno ad esso…Da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore.” (Is 2,2-3) Gerusalemme diventa allora segno profetico del mondo rinnovato, dove tutti i popoli saranno uniti nella stessa lode e nella stessa pace. Il Salmo ricorda ancora:”Là sono posti i troni del giudizio, i troni della casa di Davide.” Con queste parole, Israele rievoca la promessa fatta da Dio a Davide per mezzo del profeta Natan: “Susciterò dalla tua discendenza un re, e renderò stabile il suo regno.” (2 Sam 7,12). Dopo l’esilio, non c’è più un re sul trono, ma la promessa resta viva: Dio non si smentisce. Nelle celebrazioni al Tempio, questo ricordo diventa preghiera e speranza: verrà il giorno in cui Dio susciterà un re secondo il suo cuore, giusto e fedele, che ristabilirà la pace e la giustizia. Il nome stesso di Gerusalemme significa “città della pace”. Quando si prega: «Domandate pace per Gerusalemme, vivano sicuri quelli che ti amano!» (Sal 122,6) non si pronuncia un semplice augurio, ma una professione di fede: solo Dio può dare la pace vera, e Israele è chiamato a esserne testimone nel mondo. Con il passare dei secoli, la speranza di un re giusto trova compimento in Gesù Cristo, il Figlio di Davide. È Lui che inaugura il Regno di vita e di verità, di grazia e di santità, di giustizia, d’amore e di pace, come proclama la liturgia della festa di Cristo Re. In Lui la Gerusalemme terrena diventa Gerusalemme nuova, la città dell’incontro definitivo tra Dio e l’uomo. Ogni Eucaristia è una salita verso quella città, un pellegrinaggio dell’anima che termina nel cuore di Dio. Il pellegrinaggio di Israele verso Gerusalemme diventa allora simbolo del cammino di tutta l’umanità verso la comunione con Dio. E come i pellegrini del Salmo, anche noi, Chiesa del Nuovo Testamento, possiamo dire con gioia: “Quale gioia quando mi dissero: andremo alla casa del Signore”

 

*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (1,12-20)

Il volto invisibile di Dio.  C’era una volta un mondo che cercava Dio, ma non sapeva come vederlo. Gli uomini alzavano gli occhi al cielo, costruivano templi, offrivano sacrifici, ma Dio restava invisibile, lontano. Poi, un giorno, il Verbo si fece carne: il Dio che nessuno aveva mai visto prese un volto umano, e quel volto fu quello di Gesù di Nazareth. Da allora, ogni volta che un uomo guarda Gesù, guarda Dio.San Paolo lo ha detto con parole che sembrano un canto: ”Egli è immagine del Dio invisibile, il primogenito di tutta la creazione”. In Lui, tutto ciò che esiste trova origine e senso. Non è solo il principio del mondo, ma anche il suo cuore: in Lui tutto è stato creato, e in Lui tutto è stato riconciliato. Questo piano di Dio non è nato ieri e Paolo parla di un disegno pensato da sempre: “Egli ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel Regno del Figlio del suo amore.” Da sempre Dio ha sognato l’uomo libero, luminoso, capace di comunione. Ma ciò che Dio aveva preparato nell’eternità si è realizzato nel tempo, nel presente del Cristo. Per questo Paolo scrive: “In Lui abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati.” Il mistero di Gesù non è un ricordo, è una realtà viva che ogni giorno continua a operare nel cuore dei credenti. Dio aveva fatto l’uomo “a sua immagine e somiglianza”. Ma quell’immagine, nel peccato, si era come appannata. Allora Dio stesso è venuto a mostrarci che cosa significa essere uomo. In Gesù, l’uomo è restituito alla sua bellezza originaria. Quando Pilato lo mostra alla folla e dice: “Ecco l’uomo!” non sa di pronunciare una profezia: in quel volto ferito, in quel silenzio umile, si manifesta l’uomo vero, come Dio lo aveva voluto. Ma in quel volto c’è anche il volto di Dio. Gesù è la visibilità dell’invisibile. È Dio che si lascia guardare, toccare, ascoltare. “Chi ha visto me, ha visto il Padre”, dirà a Filippo. E Paolo aggiungerà: “In Lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità.” In Gesù, Dio e l’uomo si incontrano per sempre. L’infinito ha preso corpo, il cielo si è fatto carne. E’ il mistero della Croce.  Ma come può la Croce essere segno di pace e di riconciliazione? Paolo lo spiega così: “Dio ha voluto riconciliare a sé tutte le cose, facendo la pace per mezzo del sangue della sua croce.” Non è Dio a volere la sofferenza del Figlio. È l’odio degli uomini che lo uccide. Eppure, Dio trasforma quell’odio in amore redentore. È il grande rovesciamento della storia: la violenza si fa perdono, la morte diventa vita, la croce diventa albero di pace. Abbiamo visto nella storia uomini che hanno testimoniato la pace e sono stati uccisi per questo — Gandhi, Martin Luther King, Itzhak Rabin, Sadat… — ma solo Cristo, essendo uomo e Dio insieme, ha potuto trasformare il male in grazia per tutto il mondo. Nel suo perdono ai crocifissori — “Padre, perdonali” — si rivela il perdono stesso di Dio. Da quel giorno, sappiamo che nessun peccato è più grande dell’amore di Dio. Sulla croce, tutto è compiuto. Paolo scrive: “Dio ha voluto che in Lui abitasse tutta la pienezza, e che tutto, per mezzo di Lui, fosse riconciliato.” La creazione trova finalmente la sua unità, la sua pace. Il primo a entrare in questo Regno è il ladrone pentito: “Oggi sarai con me in paradiso”. E da allora, ogni uomo che si apre al perdono entra in quella stessa luce. L’Ecaristia è cuore del mistero Di fronte a un tale dono, la risposta possibile è una sola: rendere grazie. Per questo Paolo invita: “Rendete grazie a Dio Padre, che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce.” L’Eucaristia — in greco eucharistia significa proprio “rendimento di grazie” — è il luogo dove la Chiesa rivive questo mistero. Ogni Messa è memoria viva di questa riconciliazione: Dio si dona, il mondo viene rinnovato, l’uomo ritrova se stesso. È lì che tutto si ricompone: il visibile e l’invisibile, la terra e il cielo, l’uomo e Dio. E così, nella storia del mondo, un volto ha rivelato l’invisibile. Un cuore trafitto ha portato la pace. Un pane spezzato continua a rendere presente la pienezza dell’amore. E ogni volta che la Chiesa si raduna per l’Eucaristia, il canto di Paolo si rinnova come una lode cosmica: Cristo è l’immagine del Dio invisibile, il primo e l’ultimo, colui che riconcilia il mondo con il Padre, colui nel quale tutto sussiste. In Lui, tutto trova senso. In Lui, tutto è grazia. In Lui, il Dio invisibile ha finalmente un volto: Gesù Cristo, Signore del cielo e della terra.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (23, 35-43)

La logica degli uomini e la logica di Dio. Tre volte, ai piedi della croce, risuona la stessa provocazione a Gesù:”Se tu sei…” — “Se tu sei il Messia”, deridono i capi religiosi; “Se tu sei il re dei Giudei”, sogghignano i soldati romani;” Se tu sei il Messia”, lo insulta uno dei malfattori crocifissi con lui. Ognuno parla a partire dal proprio punto di vista: i capi d’Israele aspettano un Messia potente, ma davanti a loro c’è un uomo vinto e crocifisso; i soldati, uomini del potere terreno, ridono di un “re” senza difese; il malfattore, invece, attende un salvatore che lo liberi dalla morte. Queste tre voci ricordano le tre tentazioni nel deserto (Lc 4): anche allora il tentatore ripeteva: «Se tu sei Figlio di Dio…». Tentazioni di potere, di dominio e di miracolo. Gesù aveva risposto ogni volta con la Parola: “Sta scritto: l’uomo non vive di solo pane…” “Adorerai il Signore Dio tuo e a lui solo renderai culto…” “Non tenterai il Signore tuo Dio”. La Scrittura era stata la sua forza per rimanere fedele alla missione del Messia povero e obbediente. Sulla croce, invece, Gesù tace. Non risponde più alle provocazioni. Eppure sa bene chi è: il Messia, il Salvatore. Ma non secondo la logica degli uomini, che vorrebbero un Dio capace di salvarsi da solo, di dominare, di vincere con la forza. Gesù muore proprio perché non corrisponde a questa logica umana. La sua logica è quella di Dio: salvare donandosi, senza imporsi. Il suo silenzio non è vuoto, ma pieno di fiducia. Il suo stesso nome, Gesù, significa: «Dio salva». Attende il suo riscatto da Dio solo, non da sé stesso. Le tentazioni sono vinte per sempre: egli rimane fedele, consegnato totalmente nelle mani degli uomini, ma confidando nel Padre. In mezzo alle offese, due parole racchiudono il mistero della Croce. La prima: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. La seconda, rivolta al “buon ladrone”: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Il perdono e la salvezza: due gesti divini e umani insieme. In Gesù, Dio stesso perdona e riconcilia l’umanità. Il ladrone pentito — che si rivolge a lui dicendo: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno” — è il primo a comprendere chi è veramente Cristo. Non chiede di scendere dalla croce, ma di essere accolto. In quella supplica di umiltà e fiducia, il “ricordati” diventa la preghiera che apre il Paradiso. Là dove Adamo, nel giardino dell’Eden, aveva ceduto alla tentazione di “essere come Dio”, Gesù, il nuovo Adamo, vince attendendo tutto da Dio. Adamo aveva voluto decidere da solo la propria grandezza ed era stato cacciato dal Paradiso; Gesù, invece, accettando di essere Figlio nel totale abbandono, riapre il Paradiso all’umanità. Nel racconto della Passione, si incrociano due logiche: quella degli uomini, che cercano un Dio potente, e quella di Dio, che salva attraverso l’amore e la debolezza. Gesù rifiuta la tentazione di dimostrare la propria forza; sceglie invece di fidarsi del Padre fino alla fine. Nel suo silenzio e nel suo perdono, la potenza divina si manifesta come misericordia. Accanto a lui, il ladrone pentito diventa il primo testimone del Regno: riconosce in Cristo il vero Re, non dei potenti, ma dei salvati. Dove Adamo aveva chiuso le porte del Paradiso, Gesù le riapre: “Oggi sarai con me in Paradiso” è la risposta definitiva di Dio alla logica del mondo.

+ Giovanni D’Ercole

XXXIII Domenica Tempo Ordinario C [16 Novembre 2025]

 

Prima Lettura dal libro del profeta Malachia (3,19-20 a)

Quando Malachia scrive queste parole, verso il 450 a.C., il popolo è scoraggiato: la fede sembra spegnersi, persino tra i sacerdoti di Gerusalemme, che ormai celebrano il culto in modo superficiale. Tutti si chiedono: “Che cosa fa Dio? Ci ha dimenticati? La vita è ingiusta! Ai malvagi tutto riesce, a che serve essere il popolo eletto e osservare i comandamenti? Dov’è la giustizia di Dio?”. Il profeta allora compie il suo compito: risvegliare la fede e le energie interiori. Rimprovera sacerdoti e laici, ma soprattutto proclama che Dio è giusto e che il suo progetto di giustizia sta avanzando irresistibilmente. “Ecco, sta per venire il giorno del Signore”: la storia non è un ciclo che si ripete, ma cammina verso un compimento. Per chi crede, questa è una verità di fede: il giorno del Signore viene. Secondo l’immagine che ciascuno ha di Dio, questa venuta può far paura o suscitare attesa ardente. Ma per chi riconosce che Dio è Padre, il giorno del Signore è una buona notizia, un giorno di amore e di luce. Malachia usa l’immagine del sole: “Ecco, viene il giorno del Signore, ardente come un forno”. Non è una minaccia! All’inizio del libro Dio dice: “Vi amo” (Ml 1,2) e “Io sono Padre” (Ml 1,6). La “il forno” non è punizione, ma simbolo dell’amore incandescente di Dio. Come i discepoli di Emmaus sentivano il cuore ardere nel petto, così chi incontra Dio è avvolto nel calore del suo amore. Il “sole di giustizia” è dunque fuoco d’amore: nel giorno dell’incontro con Dio saremo immersi in questo oceano ardente di misericordia. Dio non può che amare, soprattutto tutto ciò che è povero, nudo, senza difesa. È il senso stesso della misericordia: un cuore che si piega sulla miseria. Malachia parla anche di giudizio. Il sole, infatti, può bruciare o guarire: è ambivalente. Allo stesso modo, il “Sole di Dio” rivela tutto, illumina senza lasciare zone d’ombra: nessuna menzogna o ipocrisia può nascondersi davanti alla sua luce. Il giudizio di Dio non è distruzione, ma rivelazione e purificazione. Il sole “brucerà” gli arroganti e gli empi, ma “guarirà” coloro che temono il suo nome. L’arroganza, il cuore chiuso, si consumeranno come paglia; l’umiltà e la fede saranno trasfigurate. In ciascuno di noi convivono orgoglio e umiltà, egoismo e amore. Il giudizio di Dio avverrà dentro di noi: ciò che è “paglia” brucerà, ciò che è “buon seme” germoglierà al sole di Dio. Sarà un processo di purificazione interiore, fino a che in noi risplenderà l’immagine e somiglianza di Dio. Malachia usa anche altre due immagini: quella del fonditore, che purifica l’oro non per distruggerlo, ma perché brilli di tutta la sua bellezza; e quella del candeggiatore, che non rovina la veste, ma la rende splendente. Così, il giudizio di Dio è un’opera di luce: tutto ciò che è amore, servizio e misericordia sarà esaltato; tutto ciò che non è amore sparirà. Alla fine resterà solo ciò che riflette il volto di Dio. Il contesto storico: ci aiuta a capire questo testo: Israele vive una crisi di fede e di speranza dopo l’esilio; i sacerdoti sono tiepidi e il popolo è disilluso. Messaggio del profeta: Dio non è assente né ingiusto. Il suo “giorno” verrà: è il momento in cui la sua giustizia e il suo amore si manifesteranno pienamente. Immagine centrale è il Sole di giustizia, simbolo dell’amore purificatore di Dio. Come il sole, l’amore divino brucia e guarisce, consuma il male e fa fiorire il bene. In ognuno di noi Dio non condanna, ma trasforma tutto in salvezza compiendo un discernimento che glorifica l’amore e dissolve l’orgoglio. Il fuoco, il sole, il fonditore e il candeggiatore indicano la purificazione che porta alla bellezza originaria dell’uomo creato a immagine di Dio. Infine: non c’è nulla da temere: per chi crede, il giorno del Signore rivela è l’amore. “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” (Ml 3,20).

 

Salmo Responsoriale (97/98, 5-6, 7-8, 9)

Questo salmo ci trasporta idealmente alla fine dei tempi, quando tutta la creazione rinnovata acclama con gioia l’avvento del Regno di Dio. Il testo parla infatti del mare e delle sue ricchezze, del mondo e dei suoi abitanti, dei fiumi e dei monti: tutta la creazione è coinvolta. San Paolo, nella Lettera agli Efesini (1,9-10), ricorda che questo è il disegno eterno di Dio: «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra». Dio vuole riunire tutto, creare una comunione piena fra il cosmo e le creature, instaurare l’armonia universale. Nel salmo questa armonia è già cantata come realizzata: il mare rimbomba, i fiumi battono le mani, le montagne esultano. È il sogno di Dio, annunciato già dal profeta Isaia (11,6-9): «Il lupo dimorerà con l’agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto… nessuno farà più del male né distruzione su tutto il mio monte santo». Ma la realtà è ben diversa: l’uomo conosce i pericoli del mare, i conflitti con la natura e con i suoi simili. La creazione è segnata da lotta e disarmonia. Tuttavia, la fede biblica sa che verrà il giorno in cui il sogno diventerà realtà, perché è il progetto di Dio stesso. l ruolo dei profeti, come Isaia, è quello di ravvivare la speranza di questo Regno messianico di giustizia e fedeltà. Anche i Salmi ripetono instancabilmente i motivi di questa speranza: nel Salmo 97(98) si canta il Regno di Dio come ristabilimento dell’ordine e della pace universale. Dopo tanti re ingiusti, si attende un Regno di giustizia e rettitudine. Il popolo canta come se tutto fosse già compiuto“Cantate inni al Signore che viene a giudicare la terra…e i popoli con rettitudine” All’inizio del salmo si ricordano le meraviglie del passato — l’esodo dall’Egitto, la fedeltà di Dio nella storia d’Israele — ma ora si proclama che Dio viene: il suo Regno è certo, anche se non ancora pienamente visibile. L’esperienza del passato diventa garanzia dell’avvenire: Dio ha già mostrato la sua fedeltà, e ciò permette al credente di anticipare con gioia l’avvento del Regno.Come dice il Salmo 89(90): “Mille anni ai tuoi occhi sono come il giorno di ieri”. E san Pietro (2 Pt 3,8-9) ricorda che Dio non ritarda la sua promessa, ma attende la conversione di tutti. Questo salmo dunque fa eco alle promesse del profeta Malachia: “Sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” (Ml 3,20). I cantori di questo salmo sono i poveri del Signore, coloro che attendono la venuta del Cristo come luce e calore.Un tempo era Israele solo a cantare: “Acclama al Signore, terra intera, acclama il tuo re!” Ma nei tempi ultimi sarà tutta la creazione a unirsi in questo canto di vittoria, non più soltanto il popolo eletto. In ebraico, il verbo “acclamare” evoca il grido di trionfo del vincitore sul campo di battaglia (“teru‘ah”). Ma nel mondo nuovo, questo grido non sarà più di guerra, bensì di gioia e salvezza, perché — come dice Isaia (51,8): “La mia giustizia durerà per sempre, la mia salvezza di generazione in generazione”.Gesù ci insegna a pregare: “Venga il tuo Regno”, che è il compimento del sogno eterno di Dio: la riconciliazione e la comunione universale, in cui tutta la creazione canterà all’unisono la giustizia e la pace del suo Signore.

 

Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi (3, 7-12)

San Paolo scrive: “Chi non vuole lavorare, neppure mangi” (2 Ts 3,10). Questa frase, oggi, non potrebbe essere ripetuta alla lettera, perché non si riferisce ai disoccupati di buona volontà del nostro tempo, ma a una situazione del tutto diversa. Paolo non parla di chi non può lavorare, ma di chi non vuole lavorare, approfittando dell’attesa della venuta imminente del Signore per vivere nell’inerzia. Nel mondo di Paolo il lavoro non mancava. Egli stesso, arrivato a Corinto, trovò facilmente impiego presso Priscilla e Aquila, che esercitavano il suo stesso mestiere: fabbricanti di tende (At 18,1-3). Il suo lavoro manuale, tessere tele di capra, un’arte imparata a Tarso in Cilicia, era faticoso e poco redditizio, ma gli permetteva di non essere di peso a nessuno: «Nella fatica e nella pena, notte e giorno abbiamo lavorato per non essere di peso a nessuno» (2 Ts 3,8). Questo lavoro continuo, sostenuto anche dall’aiuto economico dei Filippesi, diventa per Paolo una testimonianza viva contro l’ozio di coloro che, convinti dell’imminente ritorno di Cristo, avevano abbandonato ogni impegno. La sua frase «chi non vuole lavorare, non mangi» non è un’invenzione personale, ma un detto rabbinico corrente, espressione di una saggezza antica che univa fede e responsabilità concreta. Il primo motivo che Paolo addduce è il rispetto degli altri: non approfittare della comunità, non vivere a spese altrui.La fede nell’avvento del Regno non deve diventare un pretesto per la passività. Al contrario, l’attesa del Regno si traduce in un impegno operoso e solidale: il cristiano collabora alla costruzione del mondo nuovo con le proprie mani, la propria intelligenza, la propria dedizione. Paolo ricorda implicitamente il mandato della Genesi:«Dominate la terra e sottomettetela» (Gn 1,28), che non significa sfruttare, ma prendere parte al progetto di Dio, trasformando la terra in un luogo di giustizia e di amore, anticipo del suo Regno. Il Regno non nasce fuori dal mondo, ma cresce dentro la storia, attraverso la collaborazione degli uomini. Come canta il padre Aimé Duval: “Il tuo cielo si farà sulla terra con le tue braccia”. E come scrive Khalil Gibran ne Il Profeta: “Quando lavorate, realizzate una parte del sogno della terra… Il lavoro è l’amore reso visibile”. In questa prospettiva, ogni gesto di amore, di cura, di servizio, anche se non retribuito, è una partecipazione alla costruzione del Regno di Dio. Lavorare, creare, servire, è collaborare con il Creatore. San Pietro ricorda: «Per il Signore, un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno… Egli non ritarda nel compiere la sua promessa, ma usa pazienza, volendo che tutti giungano alla conversione» (2 Pt 3,8-9). Questo significa che il tempo dell’attesa non è un vuoto, ma un tempo affidato alla nostra responsabilità. Ogni atto di giustizia, ogni opera buona, ogni gesto d’amore accelera la venuta del Regno. Perciò — conclude il testo — se desideriamo davvero che il Regno di Dio arrivi più presto, non abbiamo un minuto da perdere. Ecco una piccola sintesi spirituale: L’ozio non è semplice mancanza di lavoro, ma rinuncia alla collaborazione con Dio. l lavoro, in qualunque forma, è parte del sogno divino: rendere la terra luogo di comunione e di giustizia. Attendere il Regno non significa evadere dal mondo, ma impegnarsi a trasfigurarlo. Ogni gesto d’amore è una pietra posata per il Regno che viene. Chi lavora con cuore puro accelera l’alba del “Sole di giustizia” promesso dai profeti.

 

Dal Vangelo secondo Luca (21, 5-19)

“Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto” Qui c’è un linguaggio profetico, non letterale. Constatiamo ogni giorno che i capelli si perdono davvero! Ciò dimostra che le parole di Gesù non vanno prese alla lettera, ma come un linguaggio simbolico. Gesù, come i profeti prima di lui, non fa predizioni sul futuro: fa predicazioni. Non annuncia cronache di avvenimenti, ma chiavi di fede per interpretare la storia. Anche il suo discorso sulla fine del Tempio va compreso così: non è un oroscopo dell’apocalisse, ma un insegnamento per vivere con fede il presente, soprattutto quando tutto sembra crollare. Il messaggio è chiaro: “Qualunque cosa accada… non abbiate paura!» Gesù invita a non fondare la vita su ciò che passa. Il Tempio di Gerusalemme, restaurato da Erode e coperto d’oro, era splendido, ma destinato a crollare. Ogni realtà terrena, anche la più sacra o solida, è provvisoria. La vera stabilità non sta nelle pietre, ma in Dio. Gesù non offre dettagli sul “quando” o sul “come” del Regno; egli sposta la questione: “Fate attenzione a non lasciarvi ingannare…” Non ci serve conoscere il calendario del futuro, ma vivere il presente nella fedeltà. Gesù avverte i suoi discepoli: “Prima di tutto questo vi perseguiteranno, vi trascineranno davanti ai re e ai governatori a causa del mio Nome». Luca, che scrive dopo anni di persecuzioni, sa bene quanto questo si sia avverato: da Stefano a Giacomo, da Pietro a Paolo, fino a tanti altri. Ma anche nelle persecuzioni, Gesù promette: «Io vi darò una parola e una sapienza alla quale nessuno potrà resistere». Questo non significa che i cristiani saranno risparmiati dalla morte — «uccideranno alcuni di voi» —, ma che nessuna violenza potrà distruggere ciò che siete in Dio :«Neppure un capello del vostro capo andrà perduto». È un modo per dire: la vostra vita è custodita nelle mani del Padre. Anche attraverso la morte, rimanete vivi della vita di Dio Gesù pronuncia due volte l’espressione «a causa del mio Nome». Nel linguaggio ebraico, “Il Nome” indica Dio stesso: dire “a causa del Nome” è dire “a causa di Dio”. Così Gesù rivela la sua stessa divinità: soffrire per il suo Nome è partecipare al mistero del suo amore. San Luca, negli Atti degli Apostoli, mostra Pietro e Giovanni che, dopo essere stati flagellati, «se ne andarono pieni di gioia, perché si erano sentiti degni di soffrire per il Nome di Gesù» (At 5,41).È la stessa certezza che san Paolo esprimerà nella Lettera ai Romani: «Né la morte né la vita, né alcuna creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù» (Rm 8,38-39). Le catastrofi, le guerre, le epidemie — tutte queste “scosse” del mondo — non devono toglierci la pace. Il vero segno dei credenti è la serenità che viene dalla fiducia. Nell’agitazione del mondo, la calma dei figli di Dio è già una testimonianza. Gesù lo riassume in una parola: Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). Ed ecco una sintesi spirituale: Gesù non promette una vita senza prove, ma una salvezza più forte della morte. Neppure un capello…» significa: nessun frammento di te è dimenticato da Dio. La persecuzione non distrugge, ma purifica la fede. Niente potrà separarci dall’amore di Dio: la nostra sicurezza è il Cristo risorto. Credere è rimanere saldi, anche quando tutto trema.

+ Giovanni D’Ercole

(Lc 20,27-40)

 

La sconfitta della morte è il destino crudele che ha ottenebrato la mente di tutte le civiltà.

Ma se Dio ci crea e chiama incessantemente per entrare in dialogo con noi, poi cosa rimane? La mèta di tutte le nostre agitazioni è una fossa?

I Sadducei vogliono ridicolizzare la dottrina della risurrezione cara ai farisei e - sembra - anche a Gesù.

Tuttavia il Maestro non applica categorie di questo mondo, provvisorie, a dimensioni che vanno oltre.

Anche i legami vanno concepiti nel rilievo della realtà divina.

I membri della classe sacerdotale non credevano a un’altra vita, e nella Torah pareva loro che non ci fosse alcuna nota sulla risurrezione.

Insomma concepivano la relazione con Dio nella dimensione della vita sulla terra.

In effetti i Farisei credevano alla risuscitazione dei morti in senso molto banale: una sorta di miglioramento e sublimazione delle (medesime) condizioni di essere naturale.

Per loro la vita dell’aldilà non era che un prolungamento accentuato, nobilitato e imbellito di questa nostra forma d’esistere.

Invece la vita «nell’era quella» [v.35 testo greco] non è un esistere potenziato, ma una condizione indescrivibile e nuova - come di comunicazione diretta. Paragonabile all’immediatezza dell’amore.

Il corpo decade, si ammala e va incontro alla dissoluzione: è un ciclo naturale.

‘Risurrezione della carne’ designa l’accesso a un’esistenza intima di Relazione pura, nella nostra debolezza e precarietà, assunte.

Gli evangelisti usano due termini per indicare la differenza tra queste forme di vita: (traslitterando) Bìos e Zoe Aiònios [Vita dell’Eterno] che non ha a che vedere con la realtà solo biologica [v.36: «uguali agli angeli»].

La vita «nell’era quella» non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, bensì una condizione indescrivibile e nuova - appunto, come di ‘comunicazione diretta’.

Paragonabile al tu per tu d’Amicizia: un ‘essere-con e per’ gli altri; prontamente, ovunque.

Collimante al modo di esistere degli Angeli: essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma da Dio stesso.

«A proposito del Roveto...» - ribatte Gesù. Egli ammutolisce pure i Sadducei facendoli riflettere; e trae il fondamento della Risurrezione (ma come la intende Lui) proprio da Esodo.

Così mostra che già nella Legge c’è una presentazione di Dio incompatibile con un destino d’umanità votata allo sterminio.

Il Padre non cerca il dialogo coi figli per poi farli cadere sul più bello.

Sin dalla creazione Egli si bea di passeggiare con l’uomo, e sin dai patriarchi cerca empatia con noi. Il suo Amore non abbandona.

 

Nella mentalità religiosa arcaica l’Altissimo prendeva nome dalla regione o dalle alture nei suoi confini [es. Baal di Gad, Baal di Saphon, Baal di Peor, etc.].

Il Dio d’Israele già dal Primo Testamento lega il suo cuore all’uomo - non più a un territorio: è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe.

Il Padre della vita suscita ogni intesa, Alleanze, e se l’alleato potesse essere annientato la stessa identità divina verrebbe sgretolata.

Tutte le Scritture lo attestano: è un Dio di viventi, non della polvere o del nulla.

Questo il motivo per cui chiamiamo «defunti» i nostri cari scomparsi - non “morti”.

 

 

[Sabato 33.a sett. T.O.  22 novembre 2025]

E Dio che lega il suo cuore all’umanità

(Lc 20,27-40)

 

La sconfitta della morte è il destino crudele che ha ottenebrato la mente di tutte le civiltà, infondendo disorientamento e angoscia di pensieri sul senso della vita, sul motivo per cui ciascuno di noi esiste.

Se Dio ci crea e chiama incessantemente, per entrare in dialogo con noi, poi cosa rimane? La mèta di tutte le nostre agitazioni è una fossa?

I Sadducei vogliono ridicolizzare la dottrina della risurrezione cara ai Farisei e - sembra - anche a Gesù.

Egli però riteneva che il Padre era ben altro che un Vivente… il quale infine si metteva a risuscitare cadaveri!

[È il motivo per cui chiamiamo «defunti» i nostri cari scomparsi - non “morti”].

Nella mentalità semitica la norma del ‘levirato’ era specchio di un’idea fiacca dell’esistenza dopo la morte - relegata alla semplice continuità del nome.

I membri della classe sacerdotale non credevano a un’altra vita: predicavano la religione che serviva a ottenere benedizioni per esistere su questa terra in modo agiato - e tanto loro bastava.

Insomma concepivano la relazione con Dio nella dimensione della vita sulla terra.

I sadducei il loro “paradiso” se l’erano già costruito in città e fuori.

Le loro ampie ville con corte interna e piscina privata per le abluzioni erano proprio sulla collina dirimpetto al Tempio di Gerusalemme, dalla parte opposta del Monte degli Ulivi (ossia verso ovest).

Le loro seconde case - dove passavano l’inverno - erano a Gerico.

Anche per interesse diretto nell’attività sacrificale che svolgevano, ritenevano comunque che i testi profetici non avessero dignità di Scrittura sacra: solo la Legge rispecchiava la volontà di Dio.

E nella Torah sembrava loro che non ci fosse alcuna nota sulla risurrezione dei morti.

Così tentano d’incastrare anche Gesù, con un paradosso costruito ad arte, per evidenziare le contraddizioni di questa credenza - apparsa solo dal 2° sec. a.C. nel libro di Daniele e in Maccabei.

Essi la ritenevano assurda - quindi intendevano screditare il «Maestro» [termine con cui lo designano per metterlo in ridicolo: v.28].

In effetti l’appiglio c’era, perché i Farisei credevano alla risuscitazione nel senso banale. Una sorta di accentuazione, miglioramento o sublimazione delle (medesime) condizioni di vita - e legami - naturali.

Quindi non una forma definitiva, senza confini, qualitativamente indistruttibile.

In sostanza, nel ‘mondo di là’ ognuno avrebbe goduto completamente degli affetti famigliari e di clan della precedente forma di vita - e così via.

‘L’aldilà’ non doveva essere che un prolungamento sublimato, nobilitato e imbellito di questo nostro modo di esistere; senza malattie, sofferenze, problemi vari.

[Insomma, vita solo progredita; forse come ci è stata un tempo trasmessa da catechisti volenterosi... ma poco attenti alla Parola di Dio].

Così appunto i sadducei - conservatori - che accettavano unicamente il Pentateuco - ove sostenevano appunto che non si accenna a un’altra vita, ulteriore.

In tal guisa, essi avevano gioco facile a smascherare la fragilità di quella credenza popolare, cui i leaders del fariseismo erano viceversa legati.

Tuttavia il Maestro non applica categorie di questo mondo, provvisorie, a dimensioni che vanno oltre.

Anche i legami vanno concepiti nel rilievo della realtà divina.

 

Nell’ambiente latino, tuttora, il modo d’intendere la Risurrezione risente non poco delle modalità rappresentative della tradizione pittorica.

Leggendo le raffigurazioni cui siamo abituati… notiamo che subito il Risorto mette a terra i gendarmi e spaventa tutti.

Esce dal sepolcro con il vessillo di vittoria, forte e muscoloso. Irrompe come tornando di qua per battere gli avversari.

Pretese descrittive e naturalistiche che non rendono merito alla Fede e quasi ridicolizzano i Vangeli.

Viceversa, nelle icone orientali la Risurrezione è intesa e figurata in modo sostanziale, misterico: la Discesa agli Inferi.

Non è un trionfo di Dio, che s’impone al mondo. Egli non ne ha bisogno alcuno.

Piuttosto l’evento teologico resta a sostegno della vittoria dei suoi figli, i quali ricevono vita direttamente dal Padre.

Ecco il riscatto della donna e dell’uomo qualunque [Adamo ed Eva] che vengono tratti dai sepolcri dalla forza divina - non naturale - del Cristo Risorto.

Il mondo definitivo stravolge l’idea dello Sheôl e lo scardina totalmente, sgombrando il buio - e quel grande dramma dell’umanità.

 

Si entra nel mondo di Dio; non si torna di qua - magari per vivere meglio: ringiovaniti e sani invece che malati, in villa con giardino piuttosto che in monolocale.

 

La vita «nell’era quella» [v.35 testo greco] non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, ma una condizione indescrivibile e nuova - come di comunicazione diretta.

Paragonabile all’immediatezza dell’amore: un essere-con e per gli altri. Collimante al modo di esistere degli Angeli (v.36): essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma da Dio stesso.

 

Il corpo decade, si ammala e va incontro alla dissoluzione: è un ciclo naturale.

“Risurrezione della carne” designa l’accesso a un’esistenza intima di Relazione pura, all’intimità stessa di Dio - nella nostra debolezza e precarietà, assunte.

Ovviamente non si può credere di venire introdotti nella Condizione Divina se durante il corso terreno non abbiamo sperimentato un costante vettore esistenziale morte-risurrezione.

È l’esperienza del guadagno nella sconfitta; in particolare, la scoperta di una vita impensabile, che ci ha fatto trasalire di Felicità. Per lo Stupore: nella provvidenziale trasmutazione dei nostri lati deboli e oscuri, da fiacche parvenze a punti di forza.

Diventati evolutivi, forse il meglio di noi.

 

Gli evangelisti usano due termini per indicare la differenza tra queste due forme di essere: (traslitterando dal greco) Bìos, e Zoè Aiònios.

La Zoe, Vita stessa dell’Eterno, è acutamente relazionale e sperimentabile - ma non ha a che vedere con l’esistenza biologica e la nostra carcassa [«uguali agli angeli» v.36].

Ciò che non muore non è il dna del corpo, bensì il dna celeste, che abbiamo ricevuto in dono dal Padre.

L’Oro divino ci abita e - se vogliamo - può affiorare già, in un’esistenza piena, di realizzazione della propria Vocazione, in clima di Comunione.

La vita «nell’era quella» non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, bensì una condizione indescrivibile e nuova - appunto, come di comunicazione diretta.

Paragonabile al tu per tu d’Amicizia: un essere-con e per gli altri; con prontezza, ovunque.

Collimante al modo di esistere degli Angeli: essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma appunto da Dio stesso.

 

«A proposito del Roveto...» - ribatte Gesù.

Egli ammutolisce pure i sadducei, facendoli riflettere, trattandoli da incompetenti.

Trae infatti il fondamento della “dottrina” della Risurrezione [ma come la intende Lui] proprio dal libro dell’Esodo.

Così mostra che sin dai rotoli della Legge c’è una presentazione dell’Eterno incompatibile col destino di un’umanità votata allo sterminio.

Il Padre non cerca il dialogo coi figli per poi farli cadere sul più bello.

Sin dalla creazione Egli si bea di passeggiare con l’uomo, e sin dai patriarchi cerca empatia con noi.

Il suo Amore non abbandona.

 

Nella mentalità religiosa arcaica ogni santuario prendeva nome dalla divinità, specificata dal suo territorio o dalle alture nei suoi confini [es. Baal di Gad, Baal di Saphon, Baal di Peor, etc.].

Un brutto vizio pagano che purtroppo abbiamo ereditato.

Il Dio d’Israele già dal Primo Testamento lega il suo cuore all’uomo - non più a un territorio: il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».

Ai tre Patriarchi era stato possibile avere discendenza, non per concatenazione naturale.

In quella mentalità, unica possibilità di perpetuare la vita di generazione in generazione era di poter trasmettere il proprio nome al primogenito maschio.

Ciò era accaduto invece per intervento dall’alto, mentre le mogli erano sterili [matriarche infertili: Sara, Rebecca, Rachele, a lungo senza eredi].

 

Il Padre della vita suscita ogni intesa, Alleanze, e se l’alleato potesse essere annientato la stessa identità divina verrebbe sgretolata.

Tutte le Scritture lo attestano: è un Dio di viventi - non di morti (della polvere, dell’inconsistenza, del nulla).

I sadducei riconoscevano dal canone dell’Antico Testamento solo i cinque Libri di Mosè e in questi non appare la risurrezione; perciò la negavano. Il Signore, proprio da questi cinque Libri dimostra la realtà della risurrezione e dice: Voi non sapete che Dio si chiama Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe? (cfr Mt 22,31-32). Quindi, Dio prende questi tre e proprio nel suo nome essi diventano il nome di Dio. Per capire chi è questo Dio si devono vedere queste persone che sono diventate il nome di Dio, un nome di Dio, sono immersi in Dio. E così vediamo che chi sta nel nome di Dio, chi è immerso in Dio, è vivo, perché Dio – dice il Signore – è un Dio non dei morti, ma dei vivi, e se è Dio di questi, è Dio dei vivi; i vivi sono vivi perché stanno nella memoria, nella vita di Dio. E proprio questo succede nel nostro essere battezzati: diventiamo inseriti nel nome di Dio, così che apparteniamo a questo nome e il Suo nome diventa il nostro nome e anche noi potremo, con la nostra testimonianza – come i tre dell’Antico Testamento –, essere testimoni di Dio, segno di chi è questo Dio, nome di questo Dio.

Quindi, essere battezzati vuol dire essere uniti a Dio; in un’unica, nuova esistenza apparteniamo a Dio, siamo immersi in Dio stesso.

[Papa Benedetto, Lectio 11 giugno 2012]

1. Riprendiamo quest’oggi, dopo una pausa piuttosto lunga, le meditazioni tenute già da tempo e che abbiamo definito riflessioni sulla teologia del corpo.

Nel continuare, conviene, questa volta, riportarci alle parole del Vangelo, in cui Cristo fa riferimento alla risurrezione: parole che hanno un’importanza fondamentale per intendere il matrimonio nel senso cristiano e anche "la rinuncia" alla vita coniugale "per il regno dei cieli".

La complessa casistica dell’Antico Testamento nel campo matrimoniale non soltanto spinse i Farisei a recarsi da Cristo per porgli il problema dell’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19,3-9 ; Mc 10,2-12 ) ma anche, un’altra volta, i Sadducei, per interrogarlo sulla legge del cosiddetto levirato (questa legge, contenuta nel Dt 25,7-10 , riguarda i fratelli che abitavano sotto lo stesso tetto. Se uno di essi moriva senza lasciare figli, il fratello del defunto doveva prendere in moglie la vedova del fratello morto. Il bambino nato da questo matrimonio era riconosciuto figlio del defunto, affinché non fosse estinta la sua stirpe e venisse conservata in famiglia l’eredità [cf. Dt 3,9-4,12 ]). Tale colloquio è riportato concordemente dai sinottici (cf. Mt 22,24-30 ; Mc 12,18-27 ; Lc 20,27-40 ). Sebbene tutte e tre le redazioni siano quasi identiche, tuttavia si notano tra loro alcune differenze lievi, ma, nello stesso tempo, significative. Poiché il colloquio è riferito in tre versioni, quelle di Matteo, Marco e Luca, si richiede un’analisi più approfondita, in quanto esso comprende contenuti che hanno un significato essenziale per la teologia del corpo.

Accanto agli altri due importanti colloqui, cioè: quello in cui Cristo fa riferimento al "principio" (cf. Mt 19,3-9 ; Mc 10,2-12 ), e l’altro in cui si richiama all’intimità dell’uomo (al "cuore"), indicando il desiderio e la concupiscenza della carne come sorgente del peccato (cf. Mt 5,27-32 ), il colloquio, che ci proponiamo ora di sottoporre ad analisi, costituisce, direi, la terza componente del trittico delle enunciazioni di Cristo stesso: trittico di parole essenziali e costitutive per la teologia del corpo. In questo colloquio Gesù si richiama alla risurrezione, svelando così una dimensione completamente nuova del mistero dell’uomo.

2.

La rivelazione di questa dimensione del corpo, stupenda nel suo contenuto – e pur collegata col Vangelo riletto nel suo insieme e fino in fondo – emerge nel colloquio con i Sadducei, "i quali affermano che non c’è risurrezione" (1); essi sono venuti da Cristo per esporgli un argomento che – a loro giudizio – convalida la ragionevolezza della loro posizione. Tale argomento doveva contraddire "l’ipotesi della risurrezione". Il ragionamento dei Sadducei è il seguente: "Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che se muore il fratello di uno e lascia la moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie per dare discendenti al fratello" ( Mc 12,19 ). I Sadducei si richiamano qui alla cosiddetta legge del levirato (cf. Dt 25,5-10 ), e riallacciandosi alla prescrizione di questa antica legge, presentano il seguente "caso": "C’erano sette fratelli: il primo prese moglie e morì senza lasciare discendenza; allora la prese il secondo, ma morì senza lasciare discendenza; e il terzo ugualmente, e nessuno dei sette lasciò discendenza. Infine, dopo tutti morì anche la donna. Nella risurrezione, quando risorgeranno, a chi di loro apparterrà la donna? Poiché in sette l’hanno avuta come moglie" ( Mc 12,20-23 . I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio.

3.

La risposta di Cristo è una delle risposte-chiave del Vangelo, in cui viene rivelata – appunto a partire dai ragionamenti puramente umani e in contrasto con essi – un’altra dimensione della questione, cioè quella che corrisponde alla sapienza e alla potenza di Dio stesso. Analogamente, ad esempio, si era presentato il caso della moneta del tributo con l’immagine di Cesare e del rapporto corretto fra ciò che nell’ambito della potestà è divino e ciò che è umano ("di Cesare") (cf. Mt 22,15-22 ). Questa volta Gesù risponde così: "Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio? Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli" ( Mc 12,24-25 ). Questa è la risposta basilare del "caso", cioè al problema che vi è racchiuso. Cristo, conoscendo le concezioni dei Sadducei, ed intuendo le loro autentiche intenzioni, riprende, in seguito, il problema della possibilità della risurrezione, negata dai Sadducei stessi: "A riguardo poi dei morti che devono risorgere, non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti, ma dei viventi" ( Mc 12,26-27 ). Come si vede, Cristo cita lo stesso Mosè a cui hanno fatto riferimento i Sadducei, e termina con l’affermare: "Voi siete in grande errore" ( Mc 12,27 ).

4.

Questa affermazione conclusiva, Cristo la ripete anche una seconda volta. Infatti la prima volta la pronunciò all’inizio della sua esposizione. Disse allora: "Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio": così leggiamo in Matteo ( Mt 22,29 ). E in Marco: "Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio?" ( Mc 12,24 ). Invece, la stessa risposta di Cristo, nella versione di Luca ( Lc 20,27-36 ), è priva di accento polemico, di quel "siete in grande errore". D’altronde egli proclama la stessa cosa in quanto introduce nella risposta alcuni elementi che non si trovano né in Matteo né in Marco. Ecco il testo: "Gesù risponde: i figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito: e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio" ( Lc 20,34-36 ). Riguardo alla possibilità stessa della risurrezione, Luca – come i due altri sinottici – si riferisce a Mosè, ossia al passo del Libro dell’Esodo 3,2-6, in cui infatti si narra che il grande legislatore dell’Antica Alleanza aveva udito dal roveto, che "ardeva nel fuoco e non si consumava", le seguenti parole: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe" ( Es 3,6 ). Nello stesso luogo, quando Mosè aveva chiesto il nome di Dio, aveva udito la risposta: "Io sono colui che sono" ( Es 3,14 ).

 

Così dunque, parlando della futura risurrezione dei corpi, Cristo si richiama alla potenza stessa del Dio vivente.

 

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 11 novembre 1981]

A pochi giorni di distanza dalla solennità di Tutti i Santi e dalla Commemorazione dei fedeli defunti, la Liturgia di questa domenica ci invita ancora a riflettere sul mistero della risurrezione dei morti. Il Vangelo (cfr Lc 20,27-38) presenta Gesù a confronto con alcuni sadducei, i quali non credevano nella risurrezione e concepivano il rapporto con Dio solo nella dimensione della vita terrena. E quindi, per mettere in ridicolo la risurrezione e in difficoltà Gesù, gli sottopongono un caso paradossale e assurdo: una donna che ha avuto sette mariti, tutti fratelli tra loro, i quali uno dopo l’altro sono morti. Ed ecco allora la domanda maliziosa rivolta a Gesù: quella donna, nella risurrezione, di chi sarà moglie (v. 33)?

Gesù non cade nel tranello e ribadisce la verità della risurrezione, spiegando che l’esistenza dopo la morte sarà diversa da quella sulla terra. Egli fa capire ai suoi interlocutori che non è possibile applicare le categorie di questo mondo alle realtà che vanno oltre e sono più grandi di ciò che vediamo in questa vita. Dice infatti: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito» (vv. 34-35). Con queste parole, Gesù intende spiegare che in questo mondo viviamo di realtà provvisorie, che finiscono; invece nell’aldilà, dopo la risurrezione, non avremo più la morte come orizzonte e vivremo tutto, anche i legami umani, nella dimensione di Dio, in maniera trasfigurata. Anche il matrimonio, segno e strumento dell’amore di Dio in questo mondo, risplenderà trasformato in piena luce nella comunione gloriosa dei santi in Paradiso.

I “figli del cielo e della risurrezione” non sono pochi privilegiati, ma sono tutti gli uomini e tutte le donne, perché la salvezza portata da Gesù è per ognuno di noi. E la vita dei risorti sarà simile a quella degli angeli (cfr v. 36), cioè tutta immersa nella luce di Dio, tutta dedicata alla sua lode, in un’eternità piena di gioia e di pace. Ma attenzione! La risurrezione non è solo il fatto di risorgere dopo la morte, ma è un nuovo genere di vita che già sperimentiamo nell’oggi; è la vittoria sul nulla che già possiamo pregustare. La risurrezione è il fondamento della fede e della speranza cristiana! Se non ci fosse il riferimento al Paradiso e alla vita eterna, il cristianesimo si ridurrebbe a un’etica, a una filosofia di vita. Invece il messaggio della fede cristiana viene dal cielo, è rivelato da Dio e va oltre questo mondo. Credere alla risurrezione è essenziale, affinché ogni nostro atto di amore cristiano non sia effimero e fine a sé stesso, ma diventi un seme destinato a sbocciare nel giardino di Dio, e produrre frutti di vita eterna.

La Vergine Maria, regina del cielo e della terra, ci confermi nella speranza della risurrezione e ci aiuti a far fruttificare in opere buone la parola del suo Figlio seminata nei nostri cuori.

[Papa Francesco, Angelus 6 novembre 2016]

Piccola Casa di Dio? Non si mercanteggia più con gli usurai

(Lc 19,45-48)

 

L’insegnamento di Gesù nel luogo sacro viene presentato da Lc come duraturo: «stava insegnando ogni giorno» (v.47). Argomento preponderante: la Grazia.

Così nel tempo impariamo la convivialità: incoraggiati a dialogare con la nostra personale, irripetibile Vocazione, che avvince perché corrisponde davvero.

E l’intima convinzione è sola, incomparabile, preziosa energia di valenza trasformatrice - che porta a non recedere da se stessi, né soprassedere la realtà dei fratelli.

Piuttosto induce a fare Esodo, esplorare nuove condizioni dell’essere, trasfigurare la percezione in azione beata.

 

Cacciando i falsi amici della religiosità, il Signore non si orienta tanto a risarcire la purezza del Luogo, né a rabberciare e riproporre lo smalto del sobrio culto originario - come pur volevano i Profeti.

Rende un servizio santo non al Dio antico, bensì alla gente - da quel sistema [o groviglio] resa totalmente inconsapevole della propria dignità vocazionale: solo incatenata, munta, e tosata.

La prima Tenda di Dio è dunque l’umanità stessa, il suo cuore pulsante - non uno spazio delimitato:

Entrato in Gerusalemme, il Maestro prende possesso della Casa celeste - che non è il Tempio, bensì il Popolo.

Non insegna a entrare in armature abitudinarie e formali accette al contorno, ma distanti dalle persone.

Piuttosto, stimola a non frenare la nostra vera natura con delle cappe di costume, secondo le quali “non è mai abbastanza”.

Il nostro mondo interno non va istericamente considerato alla stregua di un pericoloso estraneo.

Le radici innate e la nostra energia naturale hanno il diritto di fiorire e prevalere sulle maniere o idee comuni: sono traccia sperimentale del Divino.

In esse sussiste un legame Personale, che vince ogni tarlo.

Bisogna dunque cambiare approccio. È Lui stesso il punto essenziale del culto all’Eterno.

In tale luce di Persona nella sua Persona, ciascuno può abbracciare proposte che non sono altrui e intruse; che non risulteranno zavorra.

 

Il fantasmagorico culmine antico sta diventando periferia, sta decadendo. E a ritrovarsi, facciamo difficoltà.

Occasione da non perdere per procedere in modo vivo e singolare, in sintonia con un sempre nuovo insegnamento sull’Amore inedito, che prende il nostro passo.

È l’Appello bruciante de «il Monte», che centra sulla ‘passione’: proprio sul Desiderio.

Non più un severo richiamo ai “no” delle grandi apparenze - ma finalmente Ascolto della Voce nell’anima, che stupisce (v.48).

Autentico sacro del tempio.

Basta con gli usurai al potere.

Con ciò che non corrisponde, anche dal punto di vista culturale, sociale e spirituale, non si mercanteggia più.

 

 

[Venerdì 33.a sett. T.O.  21 novembre 2025]

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The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Ecclesial life is made up of exclusive inclinations, and of tasks that may seem exceptional - or less relevant. What matters is not to be embittered by the titles of others, therefore not to play to the downside, nor to fear the more of the Love that risks (for afraid of making mistakes)
La vita ecclesiale è fatta di inclinazioni esclusive, e di incarichi che possono sembrare eccezionali - o meno rilevanti. Ciò che conta è non amareggiarsi dei titoli altrui, quindi non giocare al ribasso, né temere il di più dell’Amore che rischia (per paura di sbagliare).
Zacchaeus wishes to see Jesus, that is, understand if God is sensitive to his anxieties - but because of shame he hides (in the dense foliage). He wants to see, without being seen by those who judge him. Instead the Lord looks at him from below upwards; Not vice versa
Zaccheo desidera vedere Gesù, ossia capire se Dio è sensibile alle sue ansie - ma per vergogna si nasconde nel fitto fogliame. Vuole vedere, senza essere visto da chi lo giudica. Invece il Signore lo guarda dal basso in alto; non viceversa
The story of the healed blind man wants to help us look up, first planted on the ground due to a life of habit. Prodigy of the priesthood of Jesus
La vicenda del cieco risanato vuole aiutarci a sollevare lo sguardo, prima piantato a terra a causa di una vita abitudinaria. Prodigio del sacerdozio di Gesù.
Firstly, not to let oneself be fooled by false prophets nor to be paralyzed by fear. Secondly, to live this time of expectation as a time of witness and perseverance (Pope Francis)
Primo: non lasciarsi ingannare dai falsi messia e non lasciarsi paralizzare dalla paura. Secondo: vivere il tempo dell’attesa come tempo della testimonianza e della perseveranza (Papa Francesco)
O Signore, fa’ che la mia fede sia piena, senza riserve, e che essa penetri nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare le cose divine e le cose umane (Papa Paolo VI)
O Lord, let my faith be full, without reservations, and let penetrate into my thought, in my way of judging divine things and human things (Pope Paul VI)
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)

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