Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Uno sguardo nel «buio».
Come ho già detto in precedenza molti poeti e scrittori hanno descritto il fluire dell’animo umano.
Eugenio Montale lo esprime in una sua poesia del 1925, sul male di vivere, fornendoci l’immagine di un ruscello che non riesce a far scorrere le sue acque, di una foglia accartocciata dal troppo calore, di un cavallo sfinito a terra.
Immagini che nella nostra mente non passano senza lasciare una riflessione e qualche interrogativo.
Momenti di “buio” nella nostra vita ce ne sono stati e forse ci saranno ancora.
Sensazioni di scoraggiamento e di non sapere quale strada prendere - ognuno di noi lo ha sperimentato sulla propria pelle.
L’intensità e la durata del “buio” variano a seconda delle circostanze e dalle capacità di reagire personali.
Di fronte a sconfitte o delusioni reagiamo in modo differente; ciò che disturba un soggetto, può lasciare un altro individuo del tutto indifferente.
Un incontro col “ buio” può essere usuale di fronte a gravi difficoltà come un lutto, la perdita del lavoro, l’insorgere di una malattia, la fine di relazioni affettive, e altro.
Tale stato d’animo è provvisorio e finisce spontaneamente, senza portare cambiamenti nella vita di una persona.
In casi diversi è bene non sottovalutare lo stato d’animo, perché potrebbe essere un segno di una sofferenza psicosomatica o psichica.
In questi casi spesso si provano delle sensazioni inspiegabili di preoccupazione, di apatia; e ci sentiamo più affaticati.
Ricordiamoci che la reazione al “buio” segue sovente un’esperienza traumatica, la quale in circostanze ordinarie della vita non avrebbe causato nessuna sensazione temporanea di cattivo umore.
Una reazione maggiore e più protratta nel tempo, una reazione che l’individuo non riesce a superare da solo, è una condizione non usuale.
Nelle persone anziane le scosse emotive possono far insorgere momenti di “buio” più facilmente che nei giovani.
Talora gli anziani vengono messi da parte, hanno meno relazioni sociali, e spesso ne viene a soffrire il loro prestigio; principalmente quando viene meno la speranza.
Ma anche gli adolescenti [con la loro precarietà] non sono immuni a questi momenti di inquietudine.
Non è vero che l’adolescenza è un periodo felice della vita; anzi, forse è uno dei più travagliati.
In questi momenti di “buio” che la clinica chiama «depressione», notiamo: le persone che attraversano questa fase riducono di molto le loro attività, hanno meno fiducia in se stessi, si intesseranno a poche cose.
Sono capaci di conservare il lavoro anche se devono intensificare gli sforzi. Di solito la memoria e il rapporto con la realtà non sono alterati - a meno che non è insorto uno stato grave («psicosi»).
Arieti parla della depressione che qui abbiamo chiamato “buio” come una combinazione di tristezza e pessimismo.
Quest’ultimo costituisce l’elemento essenziale della combinazione; l’idea non sana sta nel credere che ciò che è accaduto a una persona gli succederà sempre, o che lo stato d’animo in cui si trova non muterà mai.
Il disfattismo, l’illusione di saper cosa ci succederà in futuro, consolida la tristezza in “buio”.
Spesso il “buio” dell’anima viene scaricato sul corpo.
Possiamo subire perdita di peso, sensazioni di oppressione a livello cardiaco; diminuzione delle secrezioni corporee; insonnia; e sovente mal di testa.
Nel comportamento con gli altri il “buio” ci fa tendere a sfruttare e condizionare il prossimo; ci fa essere poco inclini a essere persuasi. Difficilmente diamo soddisfazione al prossimo, e spesso l’ostilità ci invade.
Faber Andrew ha scritto una poesia intitolata ‘A chi sta attraversando il suo buio’…
Il poeta invita il lettore a «credere nella poesia. Negli occhi di chi quella strada l’ha già ritrovata».
Poi ancora: «C’è un cielo di qua che vi aspetta, con un panorama di sogni da togliere il fiato».
Per un poeta la poesia è la strada maestra, ma noi che non siamo poeti abbiamo qualcosa in cui Credere, e che costituisce il pilastro della nostra realtà.
Ricordiamoci sempre che quando la notte raggiunge il suo punto più oscuro, lì inizia l’alba di un nuovo giorno.
Francesco Giovannozzi psicologo psicoterapeuta.
XXII Domenica Tempo Ordinario (anno C) [31 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Sta per chiudersi per molti il tempo delle ferie e ci si prepara a riprendere il ritmo abituale della vita. La Parola di Dio ci viene incontro con appropriati consigli.
*Prima Lettura dal libro del Siracide (3, 17-18. 20. 28-29 NV 3,19-21.30.31)
Questo testo si illumina se si comincia a leggerlo dalla fine: “Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio” (v.29). Quando la Bibbia parla di saggezza intende l’arte di vivere felici. Essere un “un uomo saggio” è l’ideale di tutti in Israele: un popolo così piccolo, nato come “popolo” solo al momento dell’uscita dall’Egitto, ha il privilegio, grazie alla Rivelazione, di sapere che “ogni sapienza viene dal Signore” (Sir 1,1), nel senso che solo Dio conosce i misteri della vita e il segreto della felicità. È dunque al Signore che bisogna chiedere la sapienza perché, nella sua libertà sovrana, Egli ha scelto Israele per essere il depositario della sua sapienza. Yeshua Ben Sira (Gesù figlio di Sira), l’autore del libro, fa parlare la sapienza stessa come se fosse una persona (cf. Sir 24,8); Israele ricerca ogni giorno la sapienza (cf. Sir 51,14) e, secondo il Salmo 1, in essa trova la sua felicità: “Beato l’uomo che medita la legge del Signore giorno e notte (1,2). “Giorno e notte” significa sempre. Chi cerca trova, dirà più tardi Gesù: ma bisogna cercare, cioè riconoscere di non possedere tutto e bisognosi sempre di qualcosa. Ben Sira aveva aperto a Gerusalemme verso il 180 a.C. una scuola di teologia (beth midrash) e per promuoverla diceva: “Avvicinatevi a me, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola” (Sir 51,23). Un vero figlio d’Israele sa che la sapienza viene da Dio, si lascia istruire da Lui, medita le massime della sapienza e il suo ideale è un orecchio che ascolta. Israele ha talmente fatto tesoro di questa lezione che recita più volte al giorno lo “Shema‘ Israel, Ascolta, Israele” (Dt 6,4). Un’“orecchio aperto” significa ascoltare consigli, indicazioni, comandamenti; il superbo invece crede di sapere tutto e chiude le orecchie, ma dimentica che, se la casa ha le imposte chiuse, il sole non potrà entrarvi. Leggiamo al v. 28: ”Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male”. In altre parole, il superbo è un malato incurabile perché, essendo pieno di sé, chiude il cuore. Interessante al riguardo la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18): il pubblicano si è limitato ad essere vero perché l’umile ha i piedi per terra e per questo si riconosce povero e conta solo su Dio. Il fariseo, autosufficiente in tutto, tornò a casa come era venuto mentre il pubblicano trasformato. Isaia descrive la gioia di questi umili: “Gli umili si rallegreranno sempre di più nel Signore, e i poveri esulteranno a causa del Santo d’Israele” (Is 29,19) e Gesù esclamerà: “Ti rendo lode, Padre…perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.” (Mt 11,25 // Lc 10,21). Dio può realizzare grandi cose con gli umili, facendoli servitori del suo progetto, come con Mosè, grande e instancabile suo servitore, il cui segreto, come leggiamo nel libro dei Numeri, è che era uomo molto umile, più di ogni altro sulla terra” (12,3) e Gesù, il Servo di Dio, dice di sé:” Io sono mite e umile di cuore.» (Mt 11,29), mentre Paolo scrive: “Se bisogna vantarsi, mi vanterò della mia debolezza… Il Signore mi ha detto…la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza.» (2Cor 11,30; 12,9). In definitiva, l’umiltà è più che una virtù: è un minimo vitale e condizione preliminare.
*Salmo responsoriale (67/68)
”Signore è il suo nome” (v.5), questa frase piccolissima fa capire il tono dell’insieme: “Signore” è il nome tetragramma (YHWH) rivelato a Mosè che esprime la presenza permanente di Dio in mezzo ai suoi “Ehyeh-Asher-Ehyeh”(Io sono colui che sono). E poiché Egli ci circonda in ogni tempo della sua sollecitudine, ciascuno dei versetti può essere letto a più livelli e la ricchezza e complessità di questo salmo sta nel poterlo cantare in ogni epoca sentendosi coinvolti. “I giusti si rallegrano, esultano davanti a Dio e cantano di gioia. Cantate a Dio, inneggiate al suo nome. Signore è il suo nome” (vv4-5). Anche Davide danza davanti all’Arca, ma qui si parla della gioia del popolo liberato dall’Egitto: il canto di Mosè dopo il passaggio del mare; Miriam, sorella di Aronne (e di Mosè), prese in mano il tamburello e tutte le donne uscirono dietro a lei, danzando e suonando il tamburello. In seguito durante l’Esodo molteplici furono i motivi per cantare e danzare. Questo emerge nei seguenti versetti: “fa uscire con gioia i prigionieri” (7). “Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero, o Dio” (10-11). Qui si sovrappongono diversi livelli di lettura, ma ogni allusione alla liberazione riguarda sempre sia l’uscita dall’Egitto, sia il ritorno dall’esilio babilonese e anche le altre liberazioni, cioè ogni volta che persone o interi popoli avanzano verso più giustizia e libertà e infine la liberazione definitiva, che ancora attendiamo. “Fa uscire con gioia i prigionieri”: per noi cristiani è il richiamo alla Risurrezione di Cristo pensando alla nostra. “Pioggia abbondante hai riversato” questo richiamo all’Esodo offre più letture: la manna nel deserto (cf. Es 16, 4.13-15) e molto probabilmente pure la pioggia benefica da cui dipende ogni vita perché senza “l’abbondante pioggia” la terra promessa non stilla «latte e miele». Nel passato ci sono state siccità (e quindi carestie) memorabili: i sette anni di carestia che portarono i figli di Giacobbe con il padre a scendere in Egitto da Giuseppe; la siccità al tempo di Elia (1Re 17-18) con il duro confronto tra Elia e la regina Gezabele, adoratrice di Baal, il dio della fecondità, della tempesta e della pioggia; la carestia sotto l’imperatore Claudio quando le comunità cristiane del bacino del Mediterraneo, regioni non colpite, furono invitate a soccorrere economicamente i sinistrati e san Paolo fece un richiamo alla comunità di Corinto per la lentezza a dare il loro contributo (cf. 2Cor 8-9). Infine anche noi abbiamo motivo di rendere grazie per la nuova manna, nostro pane quotidiano: Gesù Cristo, pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,48-51).
*Seconda Lettura dalla lettera agli Ebrei (12, 18-19. 22-24a)
Essendo indirizzata a cristiani di origine ebraica, la Lettera agli Ebrei ha come obiettivo di collocare correttamente la Nuova Alleanza rispetto all’Antica. Con la vita terrena, passione, morte e risurrezione di Cristo, l’intero passato è considerato dai cristiani come una tappa necessaria nella storia della salvezza, ma ormai superata anche se non annullata per cui tra la Prima e la Nuova Alleanza c’è sia continuità ma anche radicale novità. A favore della continuità ci sono elementi familiari a Israele: Sinai, fuoco, oscurità, tenebre, uragano, trombe, Sion, Gerusalemme, i nomi scritti nei cieli, giudice e giustizia, alleanza con un linguaggio che evoca tutta l’esperienza spirituale del popolo dell’Alleanza e di certo ben familiare agli ascoltatori di allora. (cf. Es 19,16-19;20,18.21; Dt 4,11). Israele si nutre di questi racconti essendo titoli di gloria del popolo dell’Alleanza. La Lettera agli Ebrei sembra però sminuire questa esperienza memorabile perché quell’Alleanza è ora completamente rinnovata. Mosè si avvicinava a Dio, ma il popolo restava a distanza; nella Nuova Alleanza i battezzati sono introdotti in una vera intimità con Dio e l’autore descrive questa nuova esperienza spirituale come ingresso in un mondo nuovo di bellezza e di festa (cf. vv. 22-24). La “paura di Dio” nell’AT era timore dinanzi a manifestazioni di potenza, tanto che il popolo arrivò a chiedere di non udire più la voce di Dio ma in seguito, a poco a poco, il rapporto con Dio si è trasformato e il timore è diventato fiducia filiale. Coloro che hanno conosciuto Gesù hanno scoperto in Lui il vero volto del Padre: “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,15-16). Gesù, dunque, svolge pienamente il ruolo di mediatore della Nuova Alleanza e permette a tutti i battezzati di accostarsi a Dio e di diventare “primogeniti” (nel senso di “consacrati”). Così, l’antica promessa a Mosè sul Sinai: “Se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli… sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,4) si realizza finalmente in Cristo e per questo anche noi “accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia” (Eb 4,16).
*Dal vangelo secondo Luca (14, 1a. 7 – 14)
Nel Vangelo di Luca si trovano spesso scene di pasti: a casa di Simone il fariseo (7,36); da Marta e Maria (10,38); di nuovo a casa di un fariseo (11,37); da Zaccheo (19); il pasto pasquale (22). L’importanza che Gesù attribuiva ai pasti faceva perfino dire ai malintenzionati: “Ecco un mangione e un beone” (Lc 7,34). Tre di questi pasti si svolgono in casa di farisei e diventano occasione di disaccordo. Durante il primo, a casa di Simone (Lc 7,36), una donna di cattiva reputazione si era gettata ai piedi di Gesù e, contro ogni aspettativa, Egli l’aveva presa come esempio. Il secondo (Lc 11,37) fu ugualmente occasione di un grave malinteso, questa volta perché Gesù non si era lavato le mani prima di mettersi a tavola: la discussione degenera e Gesù ne approfitta per intavolare una severa diatriba tanto che l’episodio si chiude con gli scribi e i farisei che cominciano ad accanirsi contro di lui tendendogli insidie per sorprenderlo in fallo (cf. Lc 11,53). Oggi il terzo pasto in casa di un fariseo avviene di sabato, giorno di riposo (“shabbat” in ebraico significa cessare ogni attività) e di festa: memoria della creazione del mondo, della liberazione del popolo dall’Egitto e attesa della grande festa del Giorno in cui Dio rinnoverà l’intera creazione. Il sabato prevedeva un pasto solenne, spesso occasione per invitare correligionari, anche se i divieti rituali della Legge erano così numerosi che il rispetto delle prescrizioni aveva, per alcuni, oscurato l’essenziale: la carità fraterna. Quel sabato Gesù aveva guarito un malato di idropisia (scena che non figura nella nostra lettura liturgica: cf.Lc14, 2-6) e si aprono vive discussioni perché si accusa Gesù di aver infranto il sabato. Qui mi fermo e pongo una domanda: i rapporti tra Gesù e i farisei sono sempre uno scontro? In verità sono un misto di simpatia e di severità: simpatia perché il loro movimento religioso, nato verso il 135 a.C. da un desiderio di conversione, era stimato e il nome “fariseo”, che significa “separato”, esprimeva il rifiuto di ogni compromesso politico, di ogni lassismo nella pratica religiosa, due problemi allora assai presenti. Al tempo di Cristo se ne apprezzava la fervente fede e il coraggio per il rispetto della tradizione, da non intendere in senso peggiorativo, ma come la ricchezza ricevuta dai padri e trasmessa sotto forma di precetti concernenti i minimi dettagli della vita quotidiana. Queste norme, messe per iscritto dopo il 70 d.C., somigliano a quelle di Gesù stesso e per questo erano rispettabili tanto che Gesù non rifiutava di parlare con loro come dimostrano questi pasti e l’incontro con Nicodemo (cf. Gv 3). Sotto Erode il Grande (39-4 a.C.), seimila di loro, per restare ligi alla Legge, rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà a Roma e a Erode e furono puniti con pesanti ammende. Tuttavia il rigore nell’osservanza generava talora eccessiva sicurezza di sé e disprezzo per gli altri e Gesù a questo reagiva perché creava alcune ambiguità e deviazioni ben simboleggiate nella parabola della pagliuzza e della trave (Mt 7,3-5; Lc 6,41-42). Nel testo odierno Gesù invita a non occupare i primi posti non per richiamare una norma di buona educazione e di filantropia, ma, alla maniera dei profeti, cerca di aprire i loro occhi prima che sia troppo tardi perché un eccessivo compiacimento di sé può condurre alla cecità. E quindi, proprio perché persone di valore e fedeli praticanti della religione giudaica, Gesù smaschera il rischio del loro disprezzo verso gli altri ricordando che per entrare nel Regno bisogna farsi come bambini (cf Lc 9,46-48; Mt 18,4), accogliendoli e rispettandoli senza attendere nulla in cambio e anzi aprendo il cuore a poveri, storpi, zoppi, ciechi (v.13). Una lezione per i farisei di ieri e di oggi tenendo ben presente quel che san Giacomo scrive: non mescolare mai favoritismi personali con la fede nel Cristo (cf. Gc 2,1).
+ Giovanni D’Ercole
La Potenza della Parola
(Lc 4,38-44)
«Anche alle altre città io devo annunziare la buona notizia del Regno di Dio, poiché sono stato mandato per questo» (Lc 4,43).
Usciti dal luogo di culto, i discepoli autentici si mettono a servizio della vita, recuperando le persone.
Le rimettono in piedi non per paternalismo d’elemosina, ma con dignità e rispettandone le inclinazioni; così esse diventano desiderose di trasmettere gioia agli altri.
È l’esperienza nuova che siamo chiamati a porgere anche a donne e uomini di estrazione culturale e mentalità differente dalla nostra.
La suocera di Pietro è probabilmente emblema di una coordinatrice di comunità - della Casa di Pietro [forse tratta da un retaggio antico] - che grazie all’Incontro decisivo ha fatto esperienza di guarigione e rinascita piena, sino al servizio altrui.
Nella cultura semitica, al calar del sole e con lo spuntare della prima stella nel cielo, nasce un nuovo giorno: qui c’è una nuova Creazione.
Si rigenera l’umanità emarginata - prima costretta solo ad abbassarsi, inerte - che riprende ad alzare la testa e fare bene.
Tutti i considerati impuri, indegni e inadeguati, che non sapevano a chi far ricorso e alla mercé della pubblica benevolenza, sono ora toccati da Dio.
Egli non si arresta di fronte alle speranze di riscatto dei senza peso.
Un tocco, quello del Signore e di chi nella Chiesa (o fuori) lo reca - che assorbe le presunte indegnità e mancanze.
Una carezza che fa sentire accolti e adeguati, e reintegra nella convivenza sociale persino le persone considerate repellenti.
Nel corso d’un primo approccio alla Via nello Spirito può capitare che si confonda il Figlio di Dio [chi somiglia a Dio] con «il» Cristo (v.41) atteso: «quel» Messia che tutti sapevano; vendicatore glorioso, che avrebbe recato vittoria, salute, opulenza immediate.
Il condottiero che avrebbe abilmente rimesso le cose a posto con atti di forza perentori - e sottomessi i popoli, repentinamente garantito alla stirpe eletta una facile età dell’oro a scapito altrui.
Niente male: sarebbe uno da trattenere senz’altro (v.42). Prevale invece nel Maestro l’insistenza sulla Missione di Annuncio, senza la quale le idee stereotipe si fissano, umiliando la vita.
Dio ha cura di tutti, anche lontani e slegati da interessi di Casa - non è qualcuno di cui ci si può impossessare.
Occuparsi personalmente dei fratelli è faticoso; spostarsi di continuo oltre le frontiere del proprio sodalizio o ambiente, anche.
Ma ciò rivela la stupenda presenza dell’Amico: si creano situazioni, e tutti scoprono Perle inespresse che ricreano l’esistenza del mondo.
Quando invece pensiamo e ci fermiamo ai risultati a portata di mano, e non manteniamo vivo il senso dell’Evangelizzazione, la realtà diventa paludosa; lo Spirito non si scatena - si sceglie il limite, e tutto vien trascinato nell’indolenza.
Ci si accontenterebbe (lusingando) di grandi gesti normalizzati e confinati: luci, esaltazioni, formule rassicuranti... ma non vi sarebbe più un chicco nuovo che possa nascere ogni giorno.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Ti senti eclissato nell’Annuncio e nell’itineranza, o viceversa potenziato?
Cosa ti dona forza e rimette in piedi, o ti seduce, ammalia, e blocca?
[Mercoledì 22.a sett. T.O. 3 settembre 2025]
(Creatività al femminile)
(Lc 4,38-44)
«L’essenziale è stare nell’ascolto di ciò che sale da dentro.
Le nostre azioni spesso non sono altro che imitazione, dovere ipotetico
o rappresentazione erronea di che cosa deve essere un essere umano.
Ma la sola vera certezza che tocca la nostra vita e le nostre azioni
può venire solo dalle sorgenti che zampillano nel profondo di noi stessi.
Si è a casa sotto il cielo si è a casa dovunque su questa terra se si porta tutto in noi stessi.
Spesso mi sono sentita, e ancora mi sento, come una nave che ha preso a bordo un carico prezioso:
le funi vengono recise e ora la nave va, libera di navigare dappertutto».
(Etty Hillesum, Diario)
«Anche alle altre città io devo annunziare la buona notizia del Regno di Dio, poiché sono stato mandato per questo» (Lc 4,43).
Usciti dal luogo di culto, i discepoli autentici si mettono a servizio della vita, recuperando le persone.
Le rimettono in piedi non per paternalismo d’elemosina, ma con dignità e rispettandone le inclinazioni; così esse diventano desiderose di trasmettere gioia agli altri.
È l’esperienza nuova che siamo chiamati a porgere anche a donne e uomini di estrazione culturale e mentalità differente dalla nostra.
La suocera di Pietro è probabilmente emblema di una coordinatrice di comunità - della Casa di Pietro [forse tratta da un retaggio antico] - che grazie all’Incontro decisivo ha fatto esperienza di guarigione e rinascita piena, sino al servizio altrui.
Nella cultura semitica, al calar del sole e con lo spuntare della prima stella nel cielo, nasce un nuovo giorno: qui c’è una nuova Creazione.
Si rigenera l’umanità emarginata - prima costretta solo ad abbassarsi, inerte - che riprende ad alzare la testa e fare bene.
Tutti i considerati impuri, indegni e inadeguati, che non sapevano a chi far ricorso e alla mercé della pubblica benevolenza, sono ora toccati da Dio.
Egli non si arresta di fronte alle speranze di riscatto dei senza peso.
Un tocco, quello del Signore e di chi nella Chiesa (o fuori) lo reca - che assorbe le presunte indegnità e mancanze.
Una carezza che fa sentire accolti e adeguati, e reintegra nella convivenza sociale persino le persone considerate repellenti.
Nel corso d’un primo approccio alla Via nello Spirito può capitare che si confonda il Figlio di Dio [chi somiglia a Dio] con «il» Cristo (v.41) atteso: «quel» Messia che tutti sapevano; vendicatore glorioso, che avrebbe recato vittoria, salute, opulenza immediate.
Il condottiero che avrebbe abilmente rimesso le cose a posto con atti di forza perentori - e sottomessi i popoli, repentinamente garantito alla stirpe eletta una facile età dell’oro a scapito altrui.
Niente male: sarebbe uno da trattenere senz’altro (v.42). Prevale invece nel Maestro l’insistenza sulla Missione di Annuncio, senza la quale le idee stereotipe si fissano, umiliando la vita.
Dio ha cura di tutti, anche lontani e slegati da interessi di Casa - non è qualcuno di cui ci si può impossessare.
Occuparsi personalmente dei fratelli è faticoso; spostarsi di continuo oltre le frontiere del proprio sodalizio o ambiente, anche.
Ma ciò rivela la stupenda presenza dell’Amico: si creano situazioni, e tutti scoprono Perle inespresse che ricreano l’esistenza del mondo.
Quando invece pensiamo e ci fermiamo ai risultati a portata di mano, e non manteniamo vivo il senso dell’Evangelizzazione, la realtà diventa paludosa; lo Spirito non si scatena - si sceglie il limite, e tutto vien trascinato nell’indolenza.
Ci si accontenterebbe (lusingando) di grandi gesti normalizzati e confinati: luci, esaltazioni, formule rassicuranti... ma non vi sarebbe più un chicco nuovo che possa nascere ogni giorno.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Ti senti eclissato nell’Annuncio e nell’itineranza, o viceversa potenziato?
Cosa ti dona forza e rimette in piedi, o ti seduce, ammalia, e blocca?
La suocera liberata e il suo cammino (al femminile)
Una ultima nota sulla pennellata di Mt circa la vicenda della suocera di Pietro, “donna” che ritrova le sue capacità inespresse grazie al contatto con la persona del Signore.
Icona d’un modello mentale ancora ristretto, che soffoca la gioventù di essere e fare.
Figura antica, d’una tradizione (di religiosità ereditata) che trattiene le intime risorse del popolo [in ebraico Israèl è di genere femminile].
Mondo di ristrettezze che mettono a disagio, a motivo delle energie soffocate, compresse - prima di Cristo scomparse. Sino al punto da non rendersi conto di averle dentro, ancora.
Immagino appunto che tale vecchietta la quale letteralmente «risorge»possa essere reinterpretata con frutto spirituale, per il cammino di tutti noi.
Il Signore libera; cura le “infiammazioni”. Dona maggiore gioia di vivere.
Egli trasmette un elisir di giovinezza - in specie quando ci sentiamo tenuti come dipendenti o schiavi, senza spazio.
Fermi e resi muti dalla cultura trasmessa o dalla situazione, non solo di salute.
«Ora levatosi dalla sinagoga entrò nella Casa di Simone. Ora la suocera di Simone era oppressa da una grande febbre, e lo pregarono per lei, e chinatosi sopra di lei minacciò la febbre e la lasciò. Ora levatasi sull’istante li serviva» (vv.38-39).
Ci sono sintomi rivelatori del disagio: ad es una vita - anche spirituale - che non calza... perché nega le capacità, le costringe, le tiene in un angolo; non consente si utilizzino.
Fino a non sapere più cosa siano.
Ecco subentrare sintomatologie che ci sdraiano: ansiogene, mortificanti, e sensi di costrizione e dipendenza.
Si vorrebbe forse fare qualcosa di diverso, ma vi sono poi timori, strette al petto che chiudono l’orizzonte e rendono tesi, (anche a quel tempo) messi a disagio, stressati, bloccati.
Nell’anima del popolo antico, i talenti disattesi, negati, non utilizzati erano diventati stenti.
Ora in Cristo Presente il ritorno alla vita fluida, nonché la cura di sé e degli altri, diviene facile, anche con gesti minimi.
Le capacità che facevano intimo appello, affiorano, dilatano anche in favore altrui.
Sollevata, la “suocera” respira e vince l’invecchiamento.
Prima si affacciava forse la tristezza, perché il desiderio di una nuova nascita era soffocato dalle molte faccende da svolgere o altre brame (febbri) che ci piantano lì e non riavviano i sentimenti.
Sappiamo però che la vita riparte nel momento in cui qualcuno aiuta a curare le azioni nitide [«mano» costretta: Mt 8,15; Mc 1,31] e divaricare lo sguardo verso ciò che in noi sta viceversa fiorendo.
Spostando la percezione da quanto ci assilla (tormenta ed è di ostacolo) a ciò che sorge più spontaneamente ed è finalmente e inaspettatamente valutato, ecco sparire i blocchi dell’energia tenera e fresca.
Allora si depone l’abito del ruolo antico e non si rinuncia più ad esprimersi.
Anche - per noi - senza troppo chiudersi nel solito ambiente e modo di fare, che intimamente non ci appartengono.
Chi dona all’altro un giusto spazio attinge dalle virtù dei nostri stati primordiali interni, sempreverdi - e apre quelle di tutti.
Tutto per una crescita che non corrisponde solo a un innalzamento precipitoso, quanto piuttosto a un migliore radicamento nell’essere di persone.
Mandando in letargo il fardello dei doveri o modelli che non ci corrispondono, si rinnova la vita.
Ci accorgiamo di essere come abitati dall’Oro divino che vuole affiorare ed esprimersi con larghezza, invece di restare teso e controllato.
Questa l’azione risanatrice di Gesù, tutta alle porte di ciascuno.
Potenza della Parola e Creatività sanante di Gesù, al femminile
(Lc 4,38-39)
Nelle comunità di estrazione pagana di Lc ci si chiedeva: «Beatitudini» e «Ahimé per voi» di «pianura»... creano esclusioni (cf. Lc 6,17.20-26)?
O corrispondono alle speranze e alla sensibilità profonda del cuore umano, di ogni luogo e tempo (es. Lc 7,9.13,28-29)?
I lontani dal giudaismo religioso possedevano una spiccata intuizione per le novità dello Spirito, e scoprivano il vissuto di Fede da altre posizioni [non installate, meno legate a concatenazioni conformi; forse scomode].
Gli ultimi arrivati che possedevano la freschezza dell’intuizione sostanziale, vedevano chiaro. Essi proponevano salutari scossoni di Fiducia schietta, sposata alla Novità di Dio.
A differenza dei provenienti dalla religiosità abituale o marcatamente etnica (persino d’Israele) i nuovi intuivano che non era necessario chiedere esplicitamente l’intervento di Cristo - come si faceva con gli dei antichi, secondo mentalità consueta.
Bastava comunicare a tu per tu col Signore, in un senso d’amicizia sicura (Mt 8,2-7) - non sollecitarlo al miracolo: acquisizione fondamentale, per poter anche oggi attivare un nuovo corso, e finalmente uscir fuori dall’idea di cultura organica ben cesellata ed eletta.
È il Risorto a fare autenticamente il bene opportuno... e tutto il resto: come in Gesù - forti dell’esperienza intima del Padre nello Spirito - anche a noi basta la Fede, ossia la confidenza nuziale e fertile nella Parola, efficace (Lc 4,39) e inventiva.
Non c’è bisogno di chissà quali aggiunte a questo segreto, per rinascere.
Dio è Azione immediata già nella sua Voce che «minaccia» il male (v.39): non ama farsi “pregare e ripregare” - come fosse un sovrano qualsiasi, che si compiace di costringere i sudditi alle deferenze [in vista d’un conseguente paternalismo di rapporti].
La Relazione fra donna-uomo comune e il Padre in Cristo è sobria e istantanea, senza mezzucci di mediazione alcuna: il lavoro della Grazia è affatto condizionato da riconoscimenti e formule, o titoli “interni”, rango da veterani; né inchini mirati, “mazzette” previe, o trafile.
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione del brano parallelo di Mt (8,5-17) comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della vera Fede [che non pretende ”contatti” o elementi materiali e locali: Mt 8,8-9].
Non è come nelle magie: l’intima sensibilità della relazione personale diretta comunica all’occhio dell’anima una Visione di nuova genesi. Non dottrina, disciplina, morale, appuntamenti di rito (Lc 4,38) e così via.
Si tratta di un quadro fortemente esistenziale; coinvolgente non per un risultato egoista: è per la promozione della vita, ovunque. Ciò corrisponde all’anelito più radicato del nostro cuore.
Infatti, altra grande novità della proposta del nuovo Rabbi - che si diffondeva - era l’accettazione delle donne quali diremmo oggi “diaconesse” [v.39 verbo greco] della Chiesa [qui nella figura della «Casa di Simone»: v.38].
Era quanto stava accadendo fin dalla metà del primo secolo (cf. Rm 16,1) e che ha ancora molto da insegnarci. Con Dio non ci si può abituare alle formalità (pluri)secolari svuotate di vita.
Ma le tradizioni religiose resistevano all’arrembaggio dell’esperienza di Fede-Amore: ancora a metà anni 80, persino le comunità di Lc non si sentivano libere di raccogliere i bisognosi di cura se non scoccata la sera (v.40).
Secondo il passo parallelo di Mc 1,21.29-34 [fonte del brano di Mt e Lc] era infatti giorno di sabato (v.38) - e dopo l’uscita dalla sinagoga. Lo stesso impedimento e ritardo descritto nell’episodio della Maddalena al sepolcro, la mattina di Pasqua.
Il retaggio culturale e il sacro conformismo religioso restavano un bel fardello per l’esperienza del Cristo Salvatore personale, e la completa scoperta della potenza di Vita piena contenuta nella nuova proposta totale e creatrice di Felicità «su un luogo pianeggiante» [cf. Lc 6,17] per «una grande folla di suoi discepoli e una grande moltitudine del popolo da tutta la Giudea e Gerusalemme»: il centro osservante.
Scrive il Tao (xxviii):
«Chi sa d’esser maschio, e si mantiene femmina, è la forza del mondo; essendo la forza del mondo, la virtù mai si separa da lui, ed ei ritorna a essere un pargolo. Chi sa d’esser candido, e si mantiene oscuro, è il modello del mondo; essendo il modello del mondo, la virtù mai non si scosta da lui; ed ei ritorna all’infinito. Chi sa d’esser glorioso, e si mantiene nell’ignominia, è la valle del mondo; essendo la valle del mondo, la virtù sempre si ferma in lui; ed ei ritorna ad esser grezzo [genuino, non artefatto]. Quando quel ch’è grezzo vien tagliato, allora se ne fanno strumenti; quando l’uomo santo ne usa, allora ne fa i primi tra i ministri. Per questo il gran governo non danneggia».
E così commenta il maestro Wang Pi:
«Quella del maschio è qui la categoria di chi precede, quella della femmina è la categoria di chi segue. Chi sa d’essere il primo del mondo deve porsi per ultimo: per questo il santo pospone la sua persona e la sua persona vien premessa. Una gola fra i monti non cerca le creature, ma queste da sé si volgono ad essa. Il pargolo non s’avvale della sapienza, ma s’adegua alla sapienza della spontaneità».
Nel Vangelo apocrifo di Tommaso leggiamo ai nn.22-23:
«Gesù vide dei piccoli che prendevano il latte
E disse ai suoi discepoli:
“Questi piccoli lattanti somigliano a coloro
Che entrano nel Regno”.
Loro gli chiesero:
“Se saremo come quei bimbi, entreremo nel Regno?”
Gesù rispose loro:
“Quando farete di due cose una unità e farete
L’interno uguale all’esterno e l’esterno uguale all’interno
E il superiore uguale all’inferiore,
Quando ridurrete il maschio e la femmina a un unico essere
Così che il maschio non sia solo maschio
E la femmina non resti solo femmina,
Quando considerate due occhi come unità di occhio
Ma una mano come unità di mano
E un piede come unità di piede,
Una funzione vitale in luogo di una funzione vitale
Allora troverete l’entrata del Regno”».
«Gesù ha detto:
“Io vi sceglierò uno fra mille e due fra diecimila
E questi si troveranno ad essere un individuo solo”».
Il Vangelo ora ascoltato comincia con un episodio molto simpatico, molto bello ma anche pieno di significato. Il Signore si reca alla casa di Simon Pietro ed Andrea e trova ammalata con febbre la suocera di Pietro; la prende per mano, la solleva e la donna è guarita e si mette a servire. In questo episodio appare simbolicamente tutta la missione di Gesù. Gesù venendo dal Padre si reca nella casa dell'umanità, sulla nostra terra e trova un'umanità ammalata, ammalata di febbre, di quella febbre che sono le ideologie, le idolatrie, la dimenticanza di Dio. Il Signore ci dà la sua mano, ci solleva e ci guarisce. E lo fa in tutti i secoli; ci prende per mano con la sua parola, e così dissipa le nebbie delle ideologie, delle idolatrie. Prende la nostra mano nei sacramenti, ci risana dalla febbre delle nostre passioni e dei nostri peccati mediante l'assoluzione nel sacramento della riconciliazione. Ci dà la capacità di alzarci, di stare in piedi davanti a Dio e davanti agli uomini. E proprio con questo contenuto della liturgia domenicale il Signore si incontra con noi, ci prende per mano, ci solleva e ci sana sempre di nuovo con il dono della sua parola, il dono di se stesso.
Ma anche la seconda parte di questo episodio è importante, questa donna appena guarita si mette a servirli, dice il Vangelo. Subito comincia a lavorare, ad essere a disposizione degli altri, e così diventa rappresentanza di tante buone donne, madri, nonne, donne nelle diverse professioni, che sono disponibili, si alzano e servono, e sono anima della famiglia, anima della parrocchia. E qui vedendo il dipinto sopra l'altare, vediamo che non fanno solo servizi esteriori, sant'Anna introduce la grande figlia, la Madonna, nelle Sacre Scritture, nella speranza di Israele, nella quale lei sarebbe stata proprio il luogo dell'adempimento. Le donne sono anche le prime portatrici della parola di Dio del Vangelo, sono vere evangeliste. E mi sembra che questo Vangelo con questo episodio apparentemente così modesto, proprio qui nella chiesa di sant'Anna ci dà l'occasione di dire un grazie sentito a tutte le donne che animano questa parrocchia, alle donne che servono in tutte le dimensioni, che ci aiutano sempre di nuovo a conoscere la parola di Dio non solo con l'intelletto, ma col cuore.
Ritorniamo al Vangelo: Gesù dorme nella casa di Pietro, ma di prima mattina quando ancora è buio, si alza ed esce e cerca un luogo deserto e prega. E qui appare il vero centro del mistero di Gesù. Gesù sta in colloquio con il Padre ed eleva la sua anima umana nella comunione con la persona del Figlio, così che l'umanità del Figlio, unita a Lui, parla nel dialogo trinitario col Padre; e così rende possibile anche a noi la vera preghiera. Nella liturgia Gesù prega con noi, noi preghiamo con Gesù e così noi entriamo in contatto reale con Dio, entriamo nel mistero dell'eterno amore della Santissima Trinità.
Gesù parla con il Padre, questa è la fonte ed il centro di tutte le attività di Gesù; vediamo la sua predicazione, le guarigioni, i miracoli e infine la passione, escono da questo centro, dal suo essere col Padre. E così questo Vangelo ci insegna il centro della fede e della nostra vita cioè il primato di Dio. Dove Dio non c'è, anche l'uomo non è più rispettato. Solo se lo splendore di Dio rifulge sul volto dell'uomo, l'uomo immagine di Dio è protetto da una dignità che poi da nessuno deve essere violata.
Il primato di Dio. Vediamo nel "Padre nostro" come le tre prime domande si riferiscano proprio a questo primato di Dio: che il nome di Dio sia santificato, che il rispetto del mistero divino sia vivo e animi tutta la nostra vita; che "venga il regno di Dio" e "sia fatta la sua volontà" sono due aspetti diversi della stessa medaglia; dove è fatta la volontà di Dio c'è già il cielo, comincia anche in terra un po' di cielo, e dove viene fatta la volontà di Dio è presente il Regno Dio. Perché il Regno di Dio non è una serie di cose, il Regno di Dio è la presenza di Dio, l'unione dell'uomo con Dio. E verso questo obiettivo Gesù ci vuole guidare.
Centro del suo annuncio è il regno di Dio, cioè Dio come fonte e centro della nostra vita, e ci dice: solo Dio è la redenzione dell'uomo. E possiamo vedere nella storia del secolo scorso, come negli Stati dove Dio era abolito, non solo l'economia è stata distrutta, ma soprattutto le anime. Le distruzioni morali, le distruzioni della dignità dell'uomo sono le distruzioni fondamentali e il rinnovamento può venire solo dal ritorno di Dio, cioè dal riconoscimento della centralità di Dio. In questi giorni un vescovo del Congo in visita ad limina mi ha detto: gli europei ci danno generosamente molte cose per lo sviluppo, ma c'è un'esitazione nell'aiutarci per la pastorale; sembra che considerino inutile la pastorale, che sia importante solo lo sviluppo tecnico-materiale. Ma è vero il contrario - ha detto - dove non c'è parola di Dio lo sviluppo non funziona, e non dà risultati positivi. Solo se c'è la parola di Dio prima, solo se l'uomo è riconciliato con Dio, anche le cose materiali possono andare bene.
Il Vangelo stesso con la sua continuazione conferma questo fortemente. Gli apostoli dicono a Gesù: ritorna, tutti ti cercano. E lui dice: no, devo andare negli altri paesi per annunciare Dio e per scacciare via i demoni, le forze del male; per questo sono venuto. Gesù è venuto - nel testo greco è scritto: "sono uscito dal Padre" - non per portare le comodità della vita, ma per portare la condizione fondamentale della nostra dignità, per portarci l'annuncio di Dio, la presenza di Dio e così vincere le forze del male. Questa priorità egli indica con grande chiarezza: non sono venuto per guarire - anche questo faccio, ma come segno - sono venuto per riconciliarvi con Dio. Dio è il nostro creatore, Dio ci ha dato la vita, la nostra dignità: E a lui dobbiamo soprattutto rivolgerci.
[Papa Benedetto, s. Anna 5 febbraio 2006]
2. L’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi di Paolo VI ricorda che il primo evangelizzatore è Cristo stesso.
Guardiamo alla luce dell’odierna pericope liturgica come si presenta un giorno (e una notte) dell’attività evangelizzatrice di Cristo.
Ci troviamo a Cafarnao.
Cristo esce dalla Sinagoga e, insieme con Giacomo e Giovanni, si reca alla casa di Simone e Andrea. Lì guarisce la suocera di Simone (Pietro), di modo che quella può subito alzarsi e servirli.
Dopo il tramonto del sole, vengono portati a Cristo “tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta” (Mc 1,32-33). Gesù non parla, ma compie la guarigione: “Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni”. Contemporaneamente, una significativa osservazione: “non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano” (Mc 1,34).
Forse tutto ciò si protrasse fino a tarda sera.
Di buon mattino Gesù è già in preghiera.
Viene Simone con i suoi compagni, per dirgli: “Tutti ti cercano” (Mc 1,37).
Ma Gesù risponde: “Andiamocene altrove per i villaggi vicini perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto” (Mc 1,38).
Leggiamo in seguito: “E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni” (Mc 1,39).
3. In sintesi, in base a quella giornata, trascorsa a Cafarnao, si può affermare che l’evangelizzazione condotta da Cristo stesso consiste nell’insegnamento sul regno di Dio e nel servizio ai sofferenti.
Gesù ha compiuto dei segni, e tutti questi si componevano nell’insieme di un Segno. In questo Segno i figli e le figlie del popolo, che avevano conosciuto l’immagine del Messia, descritto dai profeti e soprattutto da Isaia, possono scoprire senza difficoltà che “il regno di Dio è vicino”: ecco colui che “si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Is 53,4).
Gesù non soltanto predica il Vangelo come hanno fatto tutti dopo di lui, ad esempio il meraviglioso Paolo, le cui parole abbiamo meditato poco fa. Gesù è il Vangelo!
Un grande capitolo nel suo servizio messianico è indirizzato a tutte le categorie della sofferenza umana: spirituali e fisiche.
7. Abbiamo letto nel Vangelo odierno che di buon mattino Gesù perseverava nella preghiera e venne a lui Simon Pietro e gli disse: “Tutti ti cercano”.
Come lontano successore di questo Pietro nella Sede romana, desidero ripetere a Cristo in mezzo alla vostra comunità parrocchiale queste parole: Signore, tutti ti cercano!
In queste parole trovi conferma, cari fratelli e sorelle, che voi fate “tutto per il Vangelo, per diventarne partecipi”.
Così sia!
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 7 febbraio 1982]
Il Vangelo di questa domenica prosegue la descrizione di una giornata di Gesù a Cafarnao, un sabato, festa settimanale per gli ebrei (cfr Mc 1,21-39). Questa volta l’evangelista Marco mette in risalto il rapporto tra l’attività taumaturgica di Gesù e il risveglio della fede nelle persone che incontra. Infatti, con i segni di guarigione che compie per i malati di ogni tipo, il Signore vuole suscitare come risposta la fede.
La giornata di Gesù a Cafarnao incomincia con la guarigione della suocera di Pietro e termina con la scena della gente di tutta la cittadina che si accalca davanti alla casa dove Lui alloggiava, per portargli tutti i malati. La folla, segnata da sofferenze fisiche e da miserie spirituali, costituisce, per così dire, “l’ambiente vitale” in cui si attua la missione di Gesù, fatta di parole e di gesti che risanano e consolano. Gesù non è venuto a portare la salvezza in un laboratorio; non fa la predica da laboratorio, staccato dalla gente: è in mezzo alla folla! In mezzo al popolo! Pensate che la maggior parte della vita pubblica di Gesù è passata sulla strada, fra la gente, per predicare il Vangelo, per guarire le ferite fisiche e spirituali. E’ una umanità solcata da sofferenze, questa folla, di cui il Vangelo parla molte volte. È un’umanità solcata da sofferenze, fatiche e problemi: a tale povera umanità è diretta l’azione potente, liberatrice e rinnovatrice di Gesù. Così, in mezzo alla folla fino a tarda sera, si conclude quel sabato. E che cosa fa dopo, Gesù?
Prima dell’alba del giorno seguente, Egli esce non visto dalla porta della città e si ritira in un luogo appartato a pregare. Gesù prega. In questo modo sottrae anche la sua persona e la sua missione ad una visione trionfalistica, che fraintende il senso dei miracoli e del suo potere carismatico. I miracoli infatti sono “segni”, che invitano alla risposta della fede; segni che sempre sono accompagnati dalle parole, che li illuminano; e insieme, segni e parole, provocano la fede e la conversione per la forza divina della grazia di Cristo.
La conclusione del brano odierno (vv. 35-39) indica che l’annuncio del Regno di Dio da parte di Gesù ritrova il suo luogo più proprio nella strada. Ai discepoli che lo cercano per riportarlo in città – i discepoli sono andati a trovarlo dove Lui pregava e volevano riportarlo in città -, che cosa risponde Gesù? «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là» (v. 38). Questo è stato il cammino del Figlio di Dio e questo sarà il cammino dei suoi discepoli. E dovrà essere il cammino di ogni cristiano. La strada, come luogo del lieto annuncio del Vangelo, pone la missione della Chiesa sotto il segno dell’“andare”, del cammino, sotto il segno del “movimento” e mai della staticità.
La Vergine Maria ci aiuti ad essere aperti alla voce dello Spirito Santo, che spinge la Chiesa a porre sempre più la propria tenda in mezzo alla gente per recare a tutti la parola risanatrice di Gesù, medico delle anime e dei corpi.
[Papa Francesco, Angelus 4 febbraio 2018]
Predicare e Guarire
Predicare e guarire: questa è l’attività principale di Gesù nella sua vita pubblica. Con la predicazione Egli annuncia il Regno di Dio e con le guarigioni dimostra che esso è vicino, che il Regno di Dio è in mezzo a noi. Venuto sulla terra per annunciare e realizzare la salvezza di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, Gesù mostra una particolare predilezione per coloro che sono feriti nel corpo e nello spirito: i poveri, i peccatori, gli indemoniati, i malati, gli emarginati. E’ il vero Salvatore: Gesù salva, Gesù cura, Gesù guarisce. L’opera salvifica di Cristo non si esaurisce con la sua persona e nell’arco della sua vita terrena; essa continua mediante la Chiesa, sacramento dell’amore e della tenerezza di Dio per gli uomini. Curare un ammalato, accoglierlo, servirlo, è servire Cristo: il malato è la carne di Cristo. Pertanto, ciascuno di noi è chiamato a portare la luce della Parola di Dio e la forza della grazia a coloro che soffrono e a quanti li assistono. , familiari, medici, infermieri, perché il servizio al malato sia compiuto sempre più con umanità, con dedizione generosa, con amore evangelico, con tenerezza. (Angelus, 8 febbraio 2015)
[https://www.vaticannews.va/it/vangelo-del-giorno-e-parola-del-giorno/2019/09/04.html]
Gesù in sinagoga: la Liberazione dal quietismo
(Lc 4,31-37)
Nel terzo Vangelo i primi ‘segni’ del Signore sono il tranquillo scampare alle minacce di morte [agitate dalla sua gente!] e la guarigione del posseduto.
In tale modo di narrare la vicenda di Gesù, Lc indica le priorità che le sue comunità vivevano: anzitutto, bisognava sospendere le lotte intime, inculcate dalla tradizione giudaizzante e dal suo “saper stare al mondo”.
Nel paesino cocciuto e conformista di Nazaret il Maestro non riesce a comunicare la sua novità, e si vede costretto a cambiare residenza.
Non si rassegna, anzi: Cafarnao era all’incrocio di strade importanti, il che facilitava contatti e divulgazione.
Fra persone di tutti i ceti, il Figlio di Dio desiderava creare una coscienza fortemente critica verso le dottrine omologate dei capi religiosi.
Egli non citava meccanicamente gl’insegnamenti - modesti - delle autorità, ma partiva dalla sua esperienza di vita e dal rapporto vivo col Padre.
Così creava menti sgombre e un fremito inconsueto, non riduttivo; che mirava a far raggiungere un livello superiore alle anime vessate dalla mentalità automatica del quieto vivere.
Il Maestro ancora oggi fronteggia il potere che riduce le persone in una condizione senza originalità, allergica alle differenze.
Nel Vangelo, la persona che d’improvviso fa scintille era da sempre un tranquillo frequentatore di assemblea, che stancamente trascinava la sua vita spirituale in piccoli ambiti senza colore, privi di largo respiro e ritmo.
Ma la Parola del Signore ha in sé una carica reale: la forza della beatitudine del vivere, del creare, dell’amare in verità - che non odia le caratteristiche eccentriche.
Dove giunge tale Appello vengono smascherati e saltano fuori dalle tane tutti i demoni che non t’aspetti.
Chi incontra Cristo è rovesciato; vede le sue certezze buttate all’aria.
Rivolgimento che consente alle sfaccettature celate o represse di fare la loro parte - anche se non sono “come dovrebbero essere”.
Insomma, il Vangelo invita ad accogliere tutto ciò che c’è in noi, così com’è, non attenuato; moltiplicando le energie - perché dentro si annida il meglio della nostra Chiamata alla personale Missione.
In Cristo, i nostri poliedrici volti [pur contraddittori] possono scendere in campo insieme, senza più reprimere i territori preziosi dell’anima, dell’essenza, del carattere; di un’altra persuasione - anche lontana o irripetibilmente singolare.
L’habitué delle assemblee viene sì scomodato e interpellato, ma non permane abulico; anzi, fa un progresso vistoso dall’esistenza assopita e rituale - piegata, ripetitiva, spenta e finta.
È liberato faccia a faccia da tutti i luoghi comuni che prima lo tenevano buono, soggiogato e a guinzaglio.
Persino attraverso una protesta che rompe l’apatia, il Richiamo divino ci costringe a una vita da salvati, di nuova testimonianza che sembrava impossibile.
Ora non più in disparte, ma in mezzo alla gente (v.35), nello stupore d’una Felicità profonda, personale, inattesa.
Differenza tra religiosità comune e Fede viva.
[Martedì 22.a sett. T.O. 2 settembre 2025]
The life of the Church in the Third Millennium will certainly not be lacking in new and surprising manifestations of "the feminine genius" (Pope John Paul II)
Il futuro della Chiesa nel terzo millennio non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del « genio femminile » (Papa Giovanni Paolo II)
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
E non basta che tu appartenga al Figlio di Dio, ma devi essere in lui, come le membra sono nel loro capo. Tutto ciò che è in te deve essere incorporato in lui e da lui ricevere vita e guida (Giovanni Eudes)
This transition from the 'old' to the 'new' characterises the entire teaching of the 'Prophet' of Nazareth [John Paul II]
Questo passaggio dal “vecchio” al “nuovo” caratterizza l’intero insegnamento del “Profeta” di Nazaret [Giovanni Paolo II]
The Lord does not intend to give a lesson on etiquette or on the hierarchy of the different authorities […] A deeper meaning of this parable also makes us think of the position of the human being in relation to God. The "lowest place" can in fact represent the condition of humanity (Pope Benedict)
Il Signore non intende dare una lezione sul galateo, né sulla gerarchia tra le diverse autorità […] Questa parabola, in un significato più profondo, fa anche pensare alla posizione dell’uomo in rapporto a Dio. L’"ultimo posto" può infatti rappresentare la condizione dell’umanità (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio (Papa Benedetto)
These words are full of the disarming power of truth that pulls down the wall of hypocrisy and opens consciences [Pope Benedict]
Queste parole sono piene della forza disarmante della verità, che abbatte il muro dell’ipocrisia e apre le coscienze [Papa Benedetto]
While the various currents of human thought both in the past and at the present have tended and still tend to separate theocentrism and anthropocentrism, and even to set them in opposition to each other, the Church, following Christ, seeks to link them up in human history, in a deep and organic way [Dives in Misericordia n.1]
Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda [Dives in Misericordia n.1]
Jesus, however, reverses the question — which stresses quantity, that is: “are they few?...” — and instead places the question in the context of responsibility, inviting us to make good use of the present (Pope Francis)
Gesù però capovolge la domanda – che punta più sulla quantità, cioè “sono pochi?...” – e invece colloca la risposta sul piano della responsabilità, invitandoci a usare bene il tempo presente (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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