Mt 21,28-32
Matteo 21:28 «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna.
Matteo 21:29 Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò.
Matteo 21:30 Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò.
Matteo 21:31 Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L'ultimo». E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.
Matteo 21:32 È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli.
La figura del padre dà fastidio, è dovere, è norma, è obbligo, ti fa ombra, in fondo vorresti essere tu come tuo padre, vorresti essere il padre di te stesso. C'è qualcosa nell'uomo che si chiama peccato originale che fa sì che egli non accetta questo principio. Vuole lui mettere le mani sul suo principio, essere lui padrone di sé, il che vuol dire uccidere il padre, vuol dire rimuovere il fatto di avere una origine, un principio - e accettare che è un principio. Noi vogliamo essere il principio di noi stessi, quindi ci dà fastidio il padre e lo intendiamo come uno che esige, e ci ribelliamo.
La parabola vuole demolire quel muro di perbenismo e di separazione che divideva la società giudaica in giusti e peccatori, e che faceva sì che i primi si sentissero già salvati, pertanto non bisognosi di salvezza; un atteggiamento questo che rende impossibile ogni apertura alla proposta salvifica di Gesù. Il racconto, infatti, è incentrato su due figli che hanno un unico padre, quindi entrambi sono posti sullo stesso piano. Questi due figli si distingueranno tra loro non per l'appartenenza al padre, che è comune, ma per la diversa risposta che daranno.
Il padre dice a un figlio: «Figlio», lo chiama figlio, è un vocativo, la nostra vocazione fondamentale è l’essere chiamati figli, cioè l’accettare che lui ci è padre. Se non accetto di essere figlio non accetto me, non accetto lui, non accetto di essere fratello. Quindi è importante questa parola: Figlio! È in quanto figlio che esisto! Ciò che sono è il mio essere figlio. Ho ricevuto tutto. Se non accetto di essere figlio, voglio mettere le mani su tutto e distruggo tutto.
La proposta di salvezza è la stessa per tutti i figli, ma diversa è la risposta; ed è proprio qui, che la parabola smaschera l'ipocrisia religiosa. Il primo figlio dà un netto rifiuto, ma poi pentitosi accoglie l'invito del padre, e va nella vigna. L'iniziale atteggiamento negativo (rifiuto), passando attraverso un processo di conversione («pentitosi»), che comporta un rimettere in discussione le proprie scelte, le proprie sicurezze e la propria vita, si trasforma in apertura esistenziale a Dio, che viene accolto nella propria esistenza («va nella vigna»).
Il primo figlio proclama con enfasi la sua adesione. “Sì, signore” (egō, kyrie). Significativa è la costruzione della frase di Matteo fa: “Sì, signore E non andò” (v. 30b). Ci saremmo aspettati che Matteo dicesse: “Sì, signore, MA non andò”. La differenza sembra di poco conto, ma non lo è. Il “ma”, infatti, crea una contrapposizione tra il dire e il fare: il dire è positivo, ma poi c'è stato un cambiamento nella sua decisione: ci potrebbe essere stato qualcosa che ha impedito di mettere in pratica la sua promessa, che in qualche modo lo avrebbe potuto giustificare. Però, il “ma” non c'è. Al suo posto Matteo mette una congiunzione “kai” (“e”), che esprime continuità tra quel “Sì, signore” e il non andare. In altre parole, in quella immediata e pronta adesione alla richiesa del padre, è racchiusa una menzogna, un rifiuto; non perché poi non l'ha fatto, ma perché non ha mai avuto intenzione di farlo.
Nella figura del primo figlio si vede l’atteggiamento delle autorità religiose. Il loro tanto ostentato zelo, la loro ostentata devozione, in realtà serve solo a mascherare il niente. Non serve riempirsi la bocca di cose buone, se poi la vita viaggia in senso opposto. È sul piano del fare, dunque, che il vero credente viene misurato e solo in questo modo il suo culto acquista un vero significato.
Il secondo figlio, spiega Gesù, sono i pubblicani e le prostitute (v. 31), cioè due categorie di persone considerate impure, tagliate fuori dalla salvezza e, per questo, messe al bando della società civile e religiosa. Ebbene, questo secondo figlio è ora messo in concorrenza con il primo, che si riteneva santo e prediletto da Dio, cui è dovuta la salvezza. Tuttavia per Gesù ciò che fa la differenza non è la condizione sociale di vita, ma l'accettazione della sua proposta di salvezza.
La parabola, quindi, denuncia un comportamento ipocrita e menzognero, poiché fa consistere la salvezza nell'apparire e non nell'essere, quasi che Dio si possa comperare con qualche preghiera o con qualche sacrificio.
«Vi passano avanti nel regno di Dio». Gesù non parla di precedenza. Il verbo non significa vi prendono il posto e voi rimanete indietro. L'espressione indica esclusione: quelli che voi credete essere gli esclusi dal regno di Dio sono entrati e voi siete rimasti fuori. Infatti, mentre i pubblicani e le prostitute avevano prestato fede alla parola del Battista e si erano convertiti, essi, al contrario, ne avevano contrastato l'attività, come del resto continuavano a fare con Gesù. È implicito che chi non ha accolto il Battista, non accoglie neppure Gesù come Messia. In questa maniera essi si opponevano al disegno di Dio, estromettendosi dalla via della salvezza, chiudendosi la via per l'accesso nel regno dei cieli.
Perché i pubblicani e le prostitute «passano avanti» nel regno di Dio? Perché sanno di sbagliare. Sapere di sbagliare è la dignità dell’uomo. L’uomo che dice di aver sbagliato mostra la più grande dignità, che è riconoscere la colpa. Uno che non riconosce l’errore o è disonesto o è stolto. L’uomo va avanti solo se riconosce gli errori precedenti, in questo modo la sua storia passata è recuperata. Allora può dire: Kyrie eleison! Chi si sente giusto, invece, non chiederà mai pietà. Di che cosa deve domandare perdono?
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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