don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Giovedì, 01 Maggio 2025 03:52

Carne e sangue: l’umanità concreta

Il brano evangelico […] ci introduce nella seconda parte del discorso che fece Gesù nella sinagoga di Cafarnao, dopo aver sfamato una grande folla con cinque pani e due pesci: la moltiplicazione dei pani. Egli si presenta come «il pane vivo disceso dal cielo», il pane che dà la vita eterna, e aggiunge: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51). Questo passaggio è decisivo, e infatti provoca la reazione degli ascoltatori, che si mettono a discutere tra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (v. 52). Quando il segno del pane condiviso porta al suo significato vero, cioè il dono di sé fino al sacrificio, emerge l’incomprensione, emerge addirittura il rifiuto di Colui che poco prima si voleva portare in trionfo. Ricordiamoci che Gesù ha dovuto nascondersi perché volevano farlo re.

Gesù prosegue: «Se non mangiate la carne del figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita» (v. 53). Qui insieme alla carne compare anche il sangue. Carne e sangue nel linguaggio biblico esprimono l’umanità concreta. La gente e gli stessi discepoli intuiscono che Gesù li invita ad entrare in comunione con Lui, a “mangiare” Lui, la sua umanità, per condividere con Lui il dono della vita per il mondo. Altro che trionfi e miraggi di successo! E’ proprio il sacrificio di Gesù che dona se stesso per noi.

Questo pane di vita, sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo, viene a noi donato gratuitamente nella mensa dell’Eucaristia. Attorno all’altare troviamo ciò che ci sfama e ci disseta spiritualmente oggi e per l’eternità. Ogni volta che partecipiamo alla Santa Messa, in un certo senso, anticipiamo il cielo sulla terra, perché dal cibo eucaristico, il Corpo e il Sangue di Gesù, impariamo cos’è la vita eterna. Essa è vivere per il Signore: «colui che mangia me vivrà per me» (v. 57), dice il Signore. L’Eucaristia ci plasma perché non viviamo solo per noi stessi, ma per il Signore e per i fratelli. La felicità e l’eternità della vita dipendono dalla nostra capacità di rendere fecondo l’amore evangelico che riceviamo nell’Eucaristia.

Gesù, come a quel tempo, anche oggi ripete a ciascuno di noi: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita» (v. 53). Fratelli e sorelle, non si tratta di un cibo materiale, ma di un pane vivo e vivificante, che comunica la vita stessa di Dio. Quando facciamo la comunione riceviamo la vita stessa di Dio. Per avere questa vita è necessario nutrirsi del Vangelo e dell’amore dei fratelli. Dinanzi all’invito di Gesù a nutrirci del suo Corpo e del suo Sangue, potremmo avvertire la necessità di discutere e di resistere, come hanno fatto gli ascoltatori di cui ha parlato il Vangelo di oggi. Questo avviene quando facciamo fatica a modellare la nostra esistenza su quella di Gesù, ad agire secondo i suoi criteri e non secondo i criteri del mondo. Nutrendoci di questo cibo possiamo entrare in piena sintonia con Cristo, con i suoi sentimenti, con i suoi comportamenti. Questo è tanto importate: andare a Messa e comunicarsi, perché ricevere la comunione è ricevere questo Cristo vivo, che ci trasforma dentro e ci prepara per il cielo.

La Vergine Maria sostenga il nostro proposito di fare comunione con Gesù Cristo, nutrendoci della sua Eucaristia, per diventare a nostra volta pane spezzato per i fratelli.

[Papa Francesco, Angelus 19 agosto 2018]

Mercoledì, 30 Aprile 2025 09:52

3a Domenica di Pasqua (anno C)

Terza Domenica di Pasqua [4 maggio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! In questi giorni, essendo intensa la preghiera della Chiesa in attesa della scelta del successore di Pietro, assume grande valore la proclamazione del Vangelo (Gv 21, 1-19) che riguarda proprio Pietro.

*Prima Lettura, dagli Atti degli Apostoli (5, 27b-32. 40b-41)

 Dopo che gli apostoli sono stati flagellati per la loro predicazione, san Luca scrive che usciti dal sinedrio se ne andarono lieti di essere stati ritenuti degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. Del resto il Signore aveva loro predetto che sarebbero stati odiati, messi al bando, insultati e infamati a causa del Figlio dell’uomo e che proprio quello sarebbe stato il momento di rallegrarsi e addirittura esultare perché grande è la ricompensa nei cieli dato che così capitava anche ai profeti (cf Lc 6,22-23). Del resto, se hanno perseguitato il Maestro, faranno lo stesso con voi (cf. Gv 15,20). Pietro e Giovanni, dopo la guarigione dello storpio alla Porta Bella, miracolo che fece molto rumore in città, erano stati processati davanti al Sinedrio, il tribunale di Gerusalemme, il medesimo che qualche settimana prima aveva condannato Gesù. Appena liberati, avevano ripreso a predicare e a fare miracoli. Arrestati nuovamente e messi in prigione, durante la notte furono scarcerati da un angelo e si capisce che quest’intervento miracoloso li rese ancor più forti; ripresero infatti a predicare. Il brano di oggi ci situa proprio in questo momento: arrestati ancora una volta e portati in tribunale, al sommo sacerdote che li interroga Pietro risponde che “bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”. Parla poi della differenza tra la logica di Dio e quella degli uomini: quella degli uomini, cioè quella del tribunale giudaico, ritiene che a un malfattore ucciso non bisogna certo far pubblicità. E argomenta così: Gesù, agli occhi delle autorità religiose, è un impostore crocifisso perché si doveva impedirgli di ingannare il popolino incline a dar credito a ogni presunto messia. Un condannato appeso alla croce, secondo la Torah, diventa maledetto persino da Dio. Esiste però anche la logica di Dio: voi avete crocifisso Gesù eppure, contro ogni previsione, non solo non è maledetto da Dio ma innalzato alla destra di Dio che l’ha fatto Principe e Salvatore per concedere a Israele la conversione e il perdono dei peccati. Parole che suonano scandalose per i giudici esasperati dalla sicurezza degli apostoli per cui molti decidono di eliminarli come fecero con Gesù. Interviene però Gamaliele, che invita il Sinedrio alla prudenza perché se quest’opera è di origine umana si distruggerà da sola, ma se viene da Dio questo non avverrà mai; anzi li mette in guardia perché “non vi accada di combattere contro Dio “(At 5,34-39). L’odierna lettura liturgica salta l’episodio di Gamaliele e narra direttamente la risposta di Pietro al tribunale deciso a flagellare gli apostoli e poi a liberarli. La storia mostra che nella Chiesa da sempre ci sono persecuzioni, scandali e attacchi di ogni tipo, eppure continua a camminare nei secoli. Scrive sant’Agostino: ““La città di Dio avanza nel tempo, pellegrinando tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio.” (De Civitate Dei, XIX, 26).

*Salmo responsoriale  29 (30), 3-4, 5-6ab, 6cd.12, 13

Il Salmo 29 (30) è molto breve, solo tredici versetti (di cui otto soltanto proposti nell’odierna liturgia). Leggendo l’intero salmo si percepisce la situazione di un disperato che ha fatto di tutto per essere salvato, gridando, supplicando, chiedendo aiuto. Ci sono persone che addirittura godono nel vederlo soffrire e lo deridono, ma lui continua a invocare soccorso finché qualcuno finalmente ascolta e lo libera. A intervenire è Dio stesso e, liberato dall’oppressione, il disperato esplode di gioia. L’incipit del salmo dà il tono a tutto il resto: “Ti esalto, Signore perché mi hai risollevato e non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me”. In ogni salmo ci sono due livelli di lettura: e anche qui l’avventura d’un tale che, pur avendo subito un inatteso crollo nella sua vita, continua a essere certo che alla fine sarà liberato, è immagine d’Israele che dopo l’esilio babilonese esplode di gioia, come aveva esultato dopo il passaggio del Mar Rosso. Nei momenti tragici Israele confida in Dio: “Nella mia sicurezza dicevo: mai potrò vacillare”; grida al Signore: “Ascolta, Signore, abbi pietà di me, Signore vieni in mio aiuto!” e utilizza ogni argomento possibile arrivando a provocare Dio: “a che ti servirebbe se io morissi, A che ti servirebbe il mio sangue se scendessi nella tomba?”  E quando il salmista dice: “La polvere può forse lodarti, annunciare la tua fedeltà?” ci fa capire che allora si credeva che dopo la morte c’era il nulla per cui inutili davanti alla morte erano preghiere, sacrifici, canti. Dio però ascolta e compie il miracolo: “Ho gridato verso di te, mio Dio, e mi hai guarito; Signore mi hai fatto risalire dall’abisso e rivivere quando stavo per morire”. Questo salmo trova il suo compimento nel grido pasquale dell’Alleluia perché il Signore ci ha liberati dalla schiavitù del male. Tra i commenti rabbinici ho trovato questo: “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto al giorno di festa, dalle tenebre alla luce splendente, dalla schiavitù alla Redenzione. Per questo cantiamo davanti a lui l’Alleluia!”

*Seconda Lettura: Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (5, 11-14)

Il libro dell’Apocalisse è un inno alla vittoria narrato con molte visioni. Nell’odierno testo milioni e milioni di angeli gridano a squarciagola in cielo: “lunga vita al Re!” mentre in terra, mare e sotto terra, ogni creatura che respira inneggia al nuovo Re, Gesù Cristo: l’Agnello immolato, acclamato mentre riceve “potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”. Per descrivere la regalità di Cristo, la visione utilizza un linguaggio di immagini e di numeri; un testo quindi ricco perché solo il linguaggio simbolico può introdurci nel mondo di Dio ineffabile e lindicibile. Si tratta, al tempo stesso, di un testo difficile perché si serve di immagini, colori e numeri ricorrenti, non facili da interpretare. Difficile è voler afferrare il senso nascosto di un passaggio come l’espressione “i quattro esseri viventi” che nel capitolo precedente sono quattro esseri alati: il primo con volto d’uomo, gli altri tre di animali – un leone, un’aquila, un toro – e siamo abituati a vederli in molti dipinti, sculture e mosaici, credendo di sapere senza esitazione a chi si riferiscano. Sant’Ireneo, nel II secolo, propose una lettura simbolica: per lui i quattro viventi sono i quattro evangelisti; sant’Agostino riprese la stessa idea, modificandola leggermente e la sua interpretazione è rimasta nella tradizione: secondo lui Matteo è il vivente dal volto d’uomo, Marco il leone, Luca il toro e Giovanni l’aquila. Biblisti moderni non sembrano d’accordo perché per loro l’autore dell’Apocalisse ha ripreso un’immagine di Ezechiele, dove i quattro esseri sostengono il trono di Dio e rappresentano semplicemente il mondo creato. Pure per i numeri è difficile l’interpretazione. Secondo molti il numero 3 simboleggia Dio; il 4 il mondo il creato in ragione dei quattro punti cardinali; il 7 (3+4) evoca sia Dio e il mondo creato nella sua pienezza e perfezione, mentre il 6 (7–1) sta per incompletezza, imperfezione. Singolare interesse riveste quest’acclamazione: ”L’Agnello che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e lode”:  potenza e ricchezza, sapienza e forza rimandano al successo terreno, onore, gloria e lode sono riservati a Dio. Si tratta in totale di sette parole: questo per dire che l’Agnello immolato, cioè Gesù è pienamente Dio e pienamente uomo, il tutto espresso con la forza suggestiva del linguaggio simbolico. Tutte le creature che sono in cielo, sulla terra, sotto la terra e sul mare proclamano così la loro sottomissione a Dio che siede sul Trono e all’Agnello: “A colui che siede sul Trono e all’Agnello, lode, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli”. L’insistenza di Giovanni mira a esaltare la vittoria dell’Agnello immolato: sconfitto agli occhi degli uomini, è il grande vincitore. Contempliamo qui il mistero che sta nel cuore del Nuovo Testamento, che è al tempo stesso il suo paradosso: il Signore del mondo si fa il più piccolo, il Giudice dei vivi e dei morti viene giudicato come un malfattore; colui che è Dio viene accusato di bestemmia e rifiutato proprio in nome di Dio. Tutto questo avviene perché Dio lo ha permesso. Utilizzando questo linguaggio san Giovanni ha un duplice obbiettivo: da una parte offre alla comunità una risposta allo scandalo della croce fornendo argomenti ai cristiani che discutevano aspramente con gli ebrei a proposito della morte di Cristo. Per gli ebrei era chiaro che non era il Messia perché nel Deuteronomio è scritto che “chiunque sia stato condannato a morte in base alla legge, giustiziato e appeso a un legno, è un maledetto di Dio” (Dt 21,22). Per i cristiani, invece, alla luce della risurrezione la sua morte è l’opera di Dio e la croce costituisce  il luogo dell’esaltazione del Figlio, come Gesù stesso aveva annunciato: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, voi conoscerete che “Io Sono”» (Gv 8,28). Cioè riconoscerete la mia divinità: “Io Sono” è esattamente il nome di Dio (Es, 3,14). In un misero condannato brilla la gloria di Dio e nella visione di Giovanni l’Agnello riceve gli stessi onori e le stesse acclamazioni di colui che siede sul Trono. In secondo luogo, con l’Apocalisse Giovanni voleva sostenere i cristiani nell’ora della prova perché sulla croce l’Amore ha vinto l’odio e, in fondo è proprio questo il messaggio dell’Apocalisse a sostegno dei cristiani perseguitati

*Dal Vangelo secondo Giovanni (21, 1-19)

Giovanni precisa in questo testo la presenza di sette apostoli (21,2). Poiché le sette Chiese dell’Apocalisse rappresentano tutta la Chiesa, si può ritenere che i sette apostoli indicano i discepoli di ogni tempo, cioè l’intero mondo cristiano. Questo capitolo, come spesso succede nel IV vangelo, è tutto simbolico. Vediamo solo qualche esempio. 

1. Quando la barca tocca la riva, nonostante che i discepoli trovano un fuoco di brace con del pesce e del pane, Gesù chiede loro di portare il pesce pescato da loro. Probabilmente questo il messaggio: nell’opera di evangelizzazione, da quando ha chiamato Pietro «pescatore d’uomini», Gesù ci precede (ecco il  pesce già posto sul fuoco prima dell’arrivo dei discepoli), ma chiede sempre la nostra collaborazione.

2. Altro punto è il dialogo tra Gesù e Pietro di cui la traduzione italiana ha cercato di rendere in qualche modo la sottigliezza del verbo greco utilizzato per amare. Commentando i versetti 15-17 nella catechesi del 24 maggio 2006, Benedetto XVI osserva l’uso dei due verbi agapaō e phileō.  In greco phileō esprime l’amore d’amicizia, affettuoso ma non totalizzante; agapaō l’amore senza riserve. La prima volta Gesù chiede a Pietro: “Simone… mi «agapā̄s me»?” (21,15), cioè “Mi ami di quell’amore totale e incondizionato?”, Pietro però non risponde con agapaō ma con phileō, dicendo: “Signore, ti amo (phileō) come so amare”. Gesù ripete il verbo agapaō nella seconda domanda, ma Pietro insiste con phileō. Infine, la terza volta, Gesù chiede solo “phileîs me?”e Simone comprende che il suo povero amore basta a Gesù. Si può dire che Gesù si è adattato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù ed è quest’adattarsi di Dio che dà speranza al discepolo, che ha provato la sofferenza dell’infedeltà. Come nella notte tra giovedì e venerdì, Pietro negò tre volte di conoscere quell’uomo, ora Gesù lo interroga tre volte: infinita delicatezza per permettergli di cancellare il suo triplice rinnegamento. Da qui nasce la fiducia che lo renderà capace di seguire il Cristo fino alla fine. 

3. Ogni volta Gesù fonda la sua domanda su quest’adesione di Pietro per affidargli il ministero di pastore della comunità: “Pasci le mie pecore”. La nostra relazione con il Cristo ha senso e verità se realizza una missione al servizio degli altri. Gesù infatti precisa “mie” pecore: Pietro è invitato a condividere il “peso” di Cristo. Non è proprietario del gregge, ma la cura che dedicherà al gregge di Cristo costituirà la verifica del suo amore per lo stesso Cristo. Quando Gesù gli chiede se mi ami più di costoro non è da intendere “poiché mi ami più degli altri, ti affido il gregge”, ma al contrario. Proprio perché ti affido questo compito, dovrai amarmi di più e ricorda che in qualunque ambito ecclesiale accettare un incarico pastorale comporta molto amore gratuito. Sant’Agostino commenta: «Se mi ami, non pensare che tu sia il pastore; ma pasci le mie pecore come mie, non come tue.»

4. Abbiamo anche qui un racconto di apparizione del Risorto, ma il termine apparizione non deve ingannarci perché Gesù non viene da altrove per poi scomparire; anzi è presente in permanenza presso i suoi discepoli, presso di noi come aveva promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Per questo è meglio che apparizione usare il termine manifestazione. Cristo è Invisibile, ma non assente e nelle apparizioni di allora e di ogni tempo si rende visibile (in greco: “si dà a, si fa vedere”). Queste manifestazioni della presenza di Cristo sono un sostegno per rafforzare la nostra fede: ricche di dettagli concreti, talvolta sorprendenti, ma con alto valore simbolico. 

5. Quale significato hanno i 153 pesci? Pare che allora si conoscevano esattamente centocinquantatre specie di pesci. Per sant’Eusebio di Cesarea è un modo simbolico per indicare una pesca al massimo rendimento. E in seguito diventa il simbolo teologico della pienezza della salvezza operata da Cristo tramite la Chiesa nei secoli che raccoglie tutti, giudei e pagani, in un’unica fede.

 

NOTA. Il cap.20 del IV vangelo si conclude dicendo che Gesù fece molti altri segni in presenza dei discepoli, che non sono scritti in questo libro perché noi crediamo  che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e credendo abbiamo la vita nel suo nome (20, 30-31). E’ dunque un bel finale e perché il capitolo 21? Per molti è stato aggiunto in un secondo tempo, quasi come un post-scriptum per chiarire la questione della preminenza di Pietro, già avvertita nelle prime comunità cristiane. Detto altrimenti, può sorprendere il ruolo di Pietro in un racconto di apparizione di Cristo sotto la penna di san Giovanni e questo fa pensare a uno dei problemi delle prime comunità cristiane. Per questo sembrò utile ricordare alla comunità legata alla memoria di Giovanni che, per volontà di Cristo, il pastore della Chiesa universale è Pietro e non Giovanni. “Quando sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi” (v.18), frase che segue immediatamente la consegna a Pietro: “pasci le mie pecore” e sembra indicare con chiarezza che la missione affidata a Pietro è di servizio e non di dominio. All’epoca, la cintura era indossata dai viaggiatori e dai servitori: ecco un doppio segno per i servitori itineranti del Vangelo. Pietro morirà fedele al servizio del vangelo; ecco perché Giovanni spiega: Gesù “questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio”(v.19) e ciò fa supporre che questo capitolo sia posteriore alla morte di Pietro (durante la persecuzione di Nerone, nel 66 o 67). In genere si pensa che il vangelo di Giovanni sia stato scritto molto tardi e alcuni persino ipotizzano (a partire da Gv 21,23-24) che la stesura finale sia posteriore alla sua stessa morte.

+Giovanni D’Ercole

(Gv 6,44-51)

 

Dio non attira con forza perentoria o ricatti, bensì con l’invito (v.44).

E il credere sincero si attiva a partire da una prima testimonianza in se stessi (v.44).

Il Padre non ci lascia cronicizzare. Agisce nell’intimo di ciascuno per rimodulare convinzioni, adesioni, progetti.

Tutto opera in direzione di noi stessi, non in modo innaturale.

Egli agisce presente in ogni persona nel modo più spontaneo e insieme affine a principi individuanti; più rispettoso delle inclinazioni, delle caratteristiche reali, delle energie.

Tale insegnamento (v.45) è interiore: impersonato da Cristo nella Parola che non snatura nulla - implicito nella sua Persona e vicenda.

In tal guisa il dono della vita è legato all’assimilare e farsi Uno con quell’Alimento.

Cibo che non incrina la persona, ma la convince, sostiene, fermenta e orienta - in modo irripetibile, per Nome.

Quel Pane manducato uccide il conformismo e l’estinzione.

Possiede la virtù di riannodare i fili che contraddistinguono il carattere di Persona, la qualità innata, l’essenza vocazionale, la capacità propulsiva [Vita dell’Eterno].

 

Il pane della terra conserva la vita ma non aggiorna, non ci rigenera incessantemente, né apre una strada attraverso la morte.

Il Pane che riattualizza per noi il dono estremo del Figlio, nutre l’esistere d’una qualità indistruttibile che non sfuma, perché Oro divino del nostro essere sorgivo.

I profeti avevano annunciato: negli ultimi tempi non si sarebbe conosciuto Dio per sentito dire ma per esperienza personale.

Dopo il fallimento dei re e della classe sacerdotale gli uomini sarebbero stati ammaestrati direttamente dal Signore.

L’espressione «Pane disceso dal Cielo» designa Gesù stesso in relazione con il Padre e [appunto] nella sua missione di recare agli uomini Sapienza, e Vita esuberante.

Vita divina, priva di limiti, che si riversa immediatamente in ciascuno - senza le incertezze o interpretazioni velate dai difetti di vista dei “mediatori”, i quali viceversa porterebbero al crollo.

Presenza che nel tempo della complessità accende anche in noi il desiderio di essere istruiti da Dio-in-Persona, guidati dall’Amico interiore. Percorsi da intuizioni rigeneranti, nel suo Spirito.

Egli c’inclina a non dare ascolto a una natura che ricerca e «mormora» solo per il corrivo “sapore” del sostentamento: «manna nel deserto» (v.49); ovvero interesse, reputazione, titoli, banalità di soddisfazioni.

 

«Io Sono il Pane il Vivente, quello disceso dal cielo. Se uno mangia da questo Pane vivrà la Vita dell’Eterno, e il pane che io darò è la mia carne per la vita piena del mondo» (v.51).

Lo Spirito che interiorizza e attualizza è principale Soggetto della storia anche domestica, sommaria, quotidiana, della salvezza. Facendosi nostro.

Evangelizzandoci e crescendo nell’Amicizia - «istruiti da Dio» (v.45) - l’azione nutriente del Maestro immette la nostra carne fermentata nella Vita nuova.

Il Figlio affianco cambia il nostro ‘gusto’ e familiarizza di Sé la stessa ‘Natura’.

Così anche noi assimilati e identificati al Pane-Persona fattosi intimo, sveliamo totalità in atto, eternità vivente, la Fonte originaria.

 

 

[Giovedì 3.a sett. di Pasqua, 8 maggio 2025]

Mercoledì, 30 Aprile 2025 05:48

Mistica della Carne dal Cielo

Anche in stile domestico

Gv 6,44-51 (41-51)

 

Gesù vuol far voltare pagina. Non intende puntellare il farraginoso, non più vitale.

Egli è fedele alla legge di mutamento della Vita piena, che senza posa cerca nuovi assetti - invece di ristagnare nella situazione.

Ciò (in ogni tempo) mentre le autorità religiose e gli habitué desiderano restare aggrappati al passato, a ciò che sanno, al senso di “giustizia” ordinario, alla morale di riferimento attorno...

Insomma, quando è il momento di Cristo, tutti se ne vanno. Ma il dissidio è cosa già scritta.

Dio non attira con forza perentoria o ricatti, bensì con l’invito (v.44).

E il credere sincero si attiva a partire da una prima testimonianza in se stessi (v.44).

Per la sua condizione sociale di piccolo artigiano [un senza terra] la «mormorazione» (vv.41.43) era ovvia, e rimandava alla medesima contrarietà espressa dal popolo di Dio vagante nel deserto.

Non solo la pretesa divina di essere autentica Manna, ma l’origine stessa di Gesù è incomprensibile per una mentalità devotamente quieta, normalizzata - che si lascia trascinar via priva di enigmi.

 

La contestazione è indispettita e radicale; predilige e ricalca ciò che dà immediatamente sicurezza - non l’originale. Ma il Signore non allenta, altrimenti ci lascerebbe cronicizzare.

Il dover sembrare, il dover essere, il dover fare, non danno spazio all’ascolto, alla percezione, al cambiamento che ci attende: paralizzano.

Il Padre agisce nell’intimo di ciascuno per rimodulare convinzioni, adesioni, progetti.

Tutto opera in direzione di noi stessi, non in modo innaturale o di altri - e neppure di Lui.

Egli agisce presente in ogni persona nel modo più spontaneo.

In tal guisa e insieme, affine a principi individuanti; più rispettoso delle inclinazioni, delle caratteristiche reali, delle energie anche del periodo.

Tale insegnamento (v.45) è interiore: impersonato da Cristo nella Parola che non snatura nulla - implicito nella sua Persona e vicenda.

Così il dono della vita è legato all’assimilare e farsi Uno con quell’Alimento. Cibo che non incrina la persona, bensì la convince, sostiene, fermenta, e orienta - in modo irripetibile, per Nome.

Quel Pane manducato coglie il sapore di un vuoto dall’esteriorità in fondo al quale non sussiste l’annientamento: siamo introdotti nella redenzione, immessi nella vita nuova.

Nel conformismo, la vita non uccide l’estinzione. Non possiede la virtù di riannodare i fili che contraddistinguono il carattere di Persona, né la qualità innata, l’essenza vocazionale, la capacità propulsiva [Vita dell’Eterno].

È l’implicito “culturale”, rituale e banale, senza ispirazione, poco genuino, che non diviene vivente - e non garantisce pienezza bensì assuefazione.

Come per noi, se ci abbiamo fatto il callo.

 

Il pane della terra conserva la vita ma non aggiorna, non ci rigenera incessantemente, né apre una strada attraverso la morte.

Il Pane che riattualizza per noi il dono estremo del Figlio, nutre l’esistere d’una qualità indistruttibile che non sfuma, perché Oro divino del nostro essere sorgivo.

I profeti avevano annunciato: negli ultimi tempi non si sarebbe conosciuto Dio per sentito dire ma per esperienza personale.

Dopo il fallimento dei re e della classe sacerdotale gli uomini sarebbero stati ammaestrati direttamente dal Signore.

L’espressione «Pane disceso dal Cielo» designa Gesù stesso in relazione con il Padre e [appunto] nella sua missione di recare agli uomini Sapienza e Vita esuberante.

Vita divina, priva di limiti, che si riversa immediatamente, a ciascuno. Senza incertezze o interpretazioni velate dai difetti di vista dei “mediatori”, i quali viceversa porterebbero al crollo.

Presenza che nel tempo della complessità accende anche in noi il desiderio di essere istruiti da Dio-in-Persona, guidati dall’Amico interiore. Percorsi da intuizioni rigeneranti, nel suo Spirito.

Egli c’inclina a non dare ascolto a una natura che ricerca e «mormora» solo per il corrivo “sapore” del sostentamento: «manna nel deserto» (v.49); ovvero interesse, reputazione, titoli, banalità di soddisfazioni.

 

Piuttosto ritroviamo Vita autentica nel dono d’una buona intuizione e interiore Visione.

Nella grazia che ci fa capaci di accogliere la Chiamata.

Nella virtù che permane in ascolto - per fedeltà attiva alla Vocazione, mediante un’abnegazione e rettitudine d’intenzioni che si appropriano di virtù e meriti di Cristo.

 

«Io Sono il Pane il Vivente, quello disceso dal cielo. Se uno mangia da questo Pane vivrà la Vita dell’Eterno, e il pane che io darò è la mia carne per la vita piena del mondo» (v.51).

Lo Spirito che interiorizza e attualizza è principale Soggetto della storia anche sommaria, quotidiana, della salvezza. Facendosi nostro.

Evangelizzandoci e crescendo nell’Amicizia [«istruiti da Dio» (v.45)] l’azione nutriente del Maestro immette la nostra carne fermentata nella Vita nuova.

The Son beside us changes our 'taste' and familiarises of Himself the same 'Nature'.

In tal guisa, anche noi assimilati e identificati al Pane-Persona fattosi intimo, sveliamo totalità in atto, eternità vivente, la Fonte originaria.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come entri nel dono di redenzione mediante l’Eucaristia?

Quali propositi “contrari” alla morale di riferimento attorno, il Pane della Vita cerca di trasmetterti?

Ti sei mai sentito un ‘reciso dalla terra’ a motivo del tuo diverso Alimento dal Cielo?

Quali sono state le occasioni per fare il salto, che forse hai trascurato?

Mercoledì, 30 Aprile 2025 05:42

Il pane disceso dal cielo

7. La prima realtà della fede eucaristica è il mistero stesso di Dio, amore trinitario. Nel dialogo di Gesù con Nicodemo, troviamo un'espressione illuminante a questo proposito: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui » (Gv 3,16-17). Queste parole mostrano la radice ultima del dono di Dio. Gesù nell'Eucaristia dà non « qualche cosa » ma se stesso; egli offre il suo corpo e versa il suo sangue. In tal modo dona la totalità della propria esistenza, rivelando la fonte originaria di questo amore. Egli è l'eterno Figlio dato per noi dal Padre. Nel Vangelo ascoltiamo ancora Gesù che, dopo aver sfamato la moltitudine con la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ai suoi interlocutori che lo avevano seguito fino alla sinagoga di Cafarnao, dice: « Il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo » (Gv 6,32-33), ed arriva ad identificare se stesso, la propria carne e il proprio sangue, con quel pane: « Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo » (Gv 6,51). Gesù si manifesta così come il pane della vita, che l'eterno Padre dona agli uomini.

[Papa Benedetto, Sacramentum Caritatis]

Mercoledì, 30 Aprile 2025 05:36

Ma esiste anche la fame dell’anima

1. “Io sono il pane vivo” (Gv 6, 51). Nel deserto gli Apostoli dicono a Gesù: “Congeda la folla” (cf. Lc 9, 12). Questa folla seguiva il Maestro, ascoltando le sue parole sul Regno di Dio; ma si avvicinava ormai la notte e l’ora della cena. La folla rimaneva lì nel silenzio e nell’attesa. Già un tempo nel deserto, quando era venuto a mancare il pane, i figli d’Israele si erano ribellati contro Mosè. Avevano ricevuto allora il cibo, che cadeva ogni mattina sull’accampamento, e lo avevano chiamato “manna”. Così il popolo, proveniente dalla terra di Egitto, aveva potuto continuare il cammino dalla regione della schiavitù verso la terra promessa. Ora Gesù dice agli Apostoli: “Dategli voi stessi da mangiare” (Lc 9, 13), e poiché essi non riescono a trovare alcuna soluzione, Cristo moltiplica i pani: benedice quel poco che hanno, lo spezza e lo dà ai discepoli; e questi, a loro volta, al popolo. “Tutti mangiarono e furono saziati”.

2. La moltiplicazione dei pani nel deserto è un annunzio, così come lo fu la manna Le folle seguono Gesù, quando sperimentano il suo potere sul cibo e sulla fame umana. Sono pronte perfino a proclamarlo re. Il Salmo di Davide non parla forse del dominio del Messia e del giorno del suo trionfo? “A te il principato - esso dice - nel giorno della tua potenza” (cf. Sal 110, 3). Contemporaneamente, il medesimo Salmo chiama Sacerdote il Messia regale: Egli è Sacerdote per sempre al modo di Melchisedek (cf. Sal 110,4). Melchisedek fu re e al tempo stesso Sacerdote del Dio Altissimo. A differenza dei Sacerdoti dell’Antica Alleanza, egli offerse a Dio non il sangue di animali immolati, ma pane e vino.

3. La moltiplicazione dei pani nel deserto è, per questo, un messaggio profetico: Cristo sa che Egli stesso realizzerà un giorno la profezia contenuta nel sacrificio di Melchisedek. Quale Sacerdote della Nuova Alleanza - dell’Eterna Alleanza - Gesù entrerà nel santuario eterno, dopo aver compiuto l’opera della Redenzione del mondo grazie al proprio sangue. Agli Apostoli nel cenacolo darà in sostanza, ancora una volta, lo stesso comando: “Dategli voi stessi da mangiare! - Fate questo in memoria di me!”. Esistono diverse categorie di fame, che tormentano la grande famiglia umana. C’è stata la fame che ha trasformato in cimiteri intere città e paesi. C’è stata la fame dei campi di sterminio, prodotti dai sistemi totalitari. In diverse parti del globo c’è ancor oggi la fame del terzo e del “quarto” mondo: là muoiono di fame gli uomini, le madri e i bambini, gli adulti e gli anziani. È terribile la fame dell’organismo umano, la fame che stermina. Ma esiste anche la fame dell’anima, dello spirito. L’anima umana non muore sui sentieri della storia presente. La morte dell’anima umana ha un altro carattere: essa assume la dimensione dell’eternità. È la “seconda morte” (Ap 20, 14). Moltiplicando i pani per gli affamati, Cristo ha posto il segno profetico dell’esistenza di un altro Pane: “Io sono il pane vivo, disceso dal Cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6, 51).

4. Ecco il grande mistero della fede. Le stesse persone per le quali il Cristo ha moltiplicato i pani, quelle che “mangiarono e si saziarono” (Lc 9, 17), non sono state, però, in grado di credere alle sue parole, quando egli ha parlato del cibo che è la sua Carne, e della bevanda che è il suo Sangue. Per questo, le medesime persone hanno chiesto in seguito la sua morte sulla Croce. Così è avvenuto. E quando tutto si è compiuto, si è svelato proprio allora il mistero dell’ultima Cena: “Questo è il mio corpo, che è per voi . . . Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue” (1 Cor 11, 24-25). Dal cenacolo è uscito il Sacerdote “al modo di Melchisedek”. Egli cammina ora con il suo popolo attraverso la storia.

5. Tale è il contenuto che la Solennità del Corpus Domini intende esprimere, e che noi vogliamo proclamare con questa processione eucaristica per le vie di Roma, dalla Basilica del Santissimo Salvatore in Laterano alla Basilica Mariana sull’Esquilino. “Ave verum Corpus natum de Maria Virgine”. La via che percorriamo diventi un’immagine concreta delle tante altre vie della Chiesa nel mondo di oggi. Il Vescovo di Roma, servo di tutti i servi dell’Eucaristia, segue con il pensiero e con il cuore tutti coloro che oggi danno testimonianza a questo Mistero, dal nord al sud, dal sorgere del sole al suo tramonto. Dappertutto dove si trova il Popolo di Dio della Nuova Alleanza, si trova anche Lui, “il pane vivo, disceso dal cielo”.

Dappertutto. “Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno”.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia Corpus Domini 18 giugno 1992]

Mercoledì, 30 Aprile 2025 05:23

Non relegandolo a contorno, non vivacchiamo

Nel Vangelo della Liturgia odierna, Gesù continua a predicare alla gente che ha visto il prodigio della moltiplicazione dei pani. E invita quelle persone a fare un salto di qualità: dopo aver rievocato la manna, con cui Dio aveva sfamato i padri nel lungo cammino attraverso il deserto, ora applica il simbolo del pane a sé stesso. Dice chiaramente: «Io sono il pane della vita» (Gv 6,48).

Che cosa significa pane della vita? Per vivere c’è bisogno di pane. Chi ha fame non chiede cibi raffinati e costosi, chiede pane. Chi è senza lavoro non chiede stipendi enormi, ma il “pane” di un impiego. Gesù si rivela come il pane, cioè l’essenziale, il necessario per la vita di ogni giorno, senza di Lui la cosa non funziona. Non un pane tra tanti altri, ma il pane della vita. In altre parole, noi, senza di Lui, più che vivere, vivacchiamo: perché solo Lui ci nutre l’anima, solo Lui ci perdona da quel male che da soli non riusciamo a superare, solo Lui ci fa sentire amati anche se tutti ci deludono, solo Lui ci dà la forza di amare, solo Lui ci dà la forza di perdonare nelle difficoltà, solo Lui dà al cuore quella pace di cui va in cerca, solo Lui dà la vita per sempre quando la vita quaggiù finisce. E’ il pane essenziale della vita.

“Io sono il pane della vita”, dice. Restiamo su questa bella immagine di Gesù. Avrebbe potuto fare un ragionamento, una dimostrazione, ma – lo sappiamo – Gesù parla in parabole, e in questa espressione: “Io sono il pane della vita”, riassume veramente tutto il suo essere e tutta la sua missione. Lo si vedrà pienamente alla fine, nell’Ultima Cena. Gesù sa che il Padre gli chiede non solo di dare da mangiare alla gente, ma di dare sé stesso, di spezzare sé stesso, la propria vita, la propria carne, il proprio cuore perché noi possiamo avere la vita. Queste parole del Signore risvegliano in noi lo stupore per il dono dell’Eucaristia. Nessuno in questo mondo, per quanto ami un’altra persona, può farsi cibo per lei. Dio lo ha fatto, e lo fa, per noi. Rinnoviamo questo stupore. Facciamolo adorando il Pane di vita, perché l’adorazione riempie la vita di stupore.

Nel Vangelo, però, anziché stupirsi, la gente si scandalizza, si strappa le vesti. Pensano: “Questo Gesù noi lo conosciamo, conosciamo la sua famiglia, come può dire: Sono il pane disceso dal cielo?” (cfr vv. 41-42). Anche noi forse ci scandalizziamo: ci farebbe più comodo un Dio che sta in Cielo senza immischiarsi nella nostra vita, mentre noi possiamo gestire le faccende di quaggiù. Invece Dio si è fatto uomo per entrare nella concretezza del mondo, per entrare nella nostra concretezza, Dio si è fatto uomo per me, per te, per tutti noi, per entrare nella nostra vita. E tutto della nostra vita gli interessa. Gli possiamo raccontare gli affetti, il lavoro, la giornata, i dolori, le angosce, tante cose. Gli possiamo dire tutto perché Gesù desidera questa intimità con noi. Che cosa non desidera? Essere relegato a contorno – Lui che è il pane –, essere trascurato e messo da parte, o chiamato in causa solo quando ne abbiamo bisogno.

Io sono il pane della vita. Almeno una volta al giorno ci troviamo a prendere cibo insieme; magari la sera, in famiglia, dopo una giornata di lavoro o di studio. Sarebbe bello, prima di spezzare il pane, invitare Gesù, pane di vita, chiedergli con semplicità di benedire quello che abbiamo fatto e quello che non siamo riusciti a fare. Invitiamolo a casa, preghiamo in stile “domestico”. Gesù sarà a mensa con noi e saremo sfamati da un amore più grande.

La Vergine Maria, nella quale il Verbo si è fatto carne, ci aiuti a crescere giorno dopo giorno nell’amicizia di Gesù, pane di vita.

[Papa Francesco, Angelus 8 agosto 2021]

Martedì, 29 Aprile 2025 21:48

Ciò che conferisce valore ad ogni momento

Pane della Vita. Mistica della Visione e Fede

(Gv 6,35-40)

 

A fine primo secolo le chiese sentono il rischio del crollo. Lo sguardo ottuso dintorno alle prime fraternità sigillava già il Mistero.

Ma contrariamente al Primo Testamento (Es 33,22-23) per Fede ora si ‘vede’ Dio ‘e’ si vive, senza più paura (Es 3,6).

Chi «vede» il Figlio «ha» la stessa Vita dell’Eterno (v.40).

La Visione di Fede, la Visione del Figlio, la Visione dell’esito glorioso di colui che è stato rigettato dalle autorità religiose e considerato maledetto da Dio, fa divenire Uno con Lui.

È Risurrezione attuale, pur nell’esperienza rapida e greve dell’esistenza dispersiva.

L’Immagine considerata impossibile e che non si poteva reggere, cede il passo a un processo d’interpretazione, azione, riassetto, che attira futuro.

Cede il passo alla completezza del mondo umanizzante e diverso di Dio.

Lo spostamento di sguardo rompe la trama delle apparenze, delle convinzioni banali, ereditate o à la page.

Insomma: ‘coglierlo’ diventa motore di salvezza, fondamento che supera il pre-umano.

Percepirlo si fa Incontro; nella dimensione propria e perenne. Principio di eternità beata.

 

Secondo i credenti in Gesù la Sorgente della vita piena e indistruttibile [«Vita dell’Eterno»: v.40 testo greco] non è il pane materiale.

Già su questa terra l’Alimento totalizzante non sta in alcuna certezza banale.

Bisogna piuttosto «Vedere il Figlio» (v.40): cogliere nel Maestro una vicenda che non finisce nel fallimento.

Nonostante il rifiuto dei capi, l’esito della sua-nostra storia è la Gloria indistruttibile.

E «Credere in Lui» (v.40) non dipende dall’estrazione culturale o dalla posizione sociale concorde, ma da una elaborazione irripetibile.

Vedere’ e avere Fede è affidarsi alla luminosa [sembra assurda] Visione che si comunica nelle fibre più intime e fin dalla prima ‘Nascita’. Certi della piena sintonia e realizzazione in quella Figura sovreminente.

Si tratta di una Fede-Visione che legge il senso e abilita a un’appropriazione diretta: sorvola gli ostacoli insormontabili.

Una Fede-Gesto che zampilla, una Fede-Azione che diviene fermento di dilatazione, perché ha già suscitato acume, attenzione globale, intimo consenso.

 

Non aderiamo per entusiasmo o iniziative [la “Chiesa degli eventi”].

La vita dell’Eterno in noi inizia nell’occhio dell’anima; eco del Sogno primordiale.

Essa s’introduce nel cogliere la traiettoria del Padre. Egli vuole per i suoi minimi una pienezza d’impronta e carattere, senza conformismi.

Solo grazie al Dono nel quale ci riconosciamo fin dalle nostre radici e in essenza, intuiamo consonanze liete che identificano desideri, parole, azioni e tipo di cammino del Risorto stesso, che pulsa in noi.

La Persona del Cristo è l’unico Cibo senza omologazione.

Sostentati dal Pane-Persona possiamo evitare sia la ricerca di finte sicurezze che la smania di appoggi, preferendo il Pane Spezzato.

L’alimento della terra conserva la vita fisica, ma non può far rivivere attraverso Genesi personali uniche, né aprirci una strada valicando la morte.

Ciò conferisce valore ad ogni momento.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa significa per te ‘vedere’ il Figlio e ‘credere’ in Lui?

 

 

[Mercoledì 3.a sett. di Pasqua, 7 maggio 2025]

Ciò che conferisce valore ad ogni momento

(Gv 6,35-40)

 

Le parole di Gesù sottendono la netta dissimilitudine fra alimento ordinario e Pane che non perisce.

La distinzione è tratta da Dt 8,3 - in riferimento alla Manna-Parola del Signore (cibo sapienziale che libera e trasmette vita).

Sap 16,20-21.26 riconosce la manna del deserto essere cibo preparato da angeli, ma ciò che tiene davvero in vita è la Parola.

Quei frutti celesti, pur deliziosi e in grado di soddisfare ogni gusto, non saziano - non nutrono completamente.

Nel linguaggio simbolico usato da Cristo entrano anche paradigmi culturali che identificavano la manna con la sapienza.

Egli si autorivela così nel discorso sul Pane della Vita.

 

Venire al Signore non è alla nostra portata. Compiere le opere di legge, forse sì - con sforzo - ma compiere l’Opera di Dio non è innaturale.

Non dipende da un pensiero, da una scelta o da una pratica disciplinare.

Insomma, il Soggetto del cammino nello Spirito è Dio stesso, che opera in noi. 

L’azione umana è in ogni frangente una risposta al suo autosvelamento e al suo stesso agire [cosmico e nell’anima di ciascuno; convergente o non].

La Venuta dall’alto è critica: suscita la relazione di Fede. Relazione personale, la quale non è semplice assenso e adempimento, bensì lettura e visione.

Azione in avanti e scoperta di risuscitazione - in particolare, dei lati in penombra che diventano risorse.

Così la Fede-amore dilata la vita, perché ha il suo input dalla generosità divina, dalla Grazia.

Essa diventa in tal guisa decisione, occupazione, responsabilità; dovere ineludibile e dirimente - malgrado ciò, personale.

 

Cristo è un Cibo che dev’essere mangiato, sminuzzato, per mezzo della Fede.

L’evocazione si fa eucaristica, realizzazione della «Vita dell’Eterno» (v.40 testo greco) anche difforme da maniere ricercate; qui e ora.

Morendo, senza ritardo alcuno Gesù consegna lo Spirito (Gv 19,30) che repentinamente suscita l’esperienza sacramentale (Gv 19,34).

La Vita dell’Eterno non è una pia speranza nell’aldilà: il termine designa la stessa vita intima di Dio, la quale si dispiega e irrompe nella storia [talora senza troppi complimenti] in modo poliedrico.

Energia, Alimento, Lucidità nuova: raggiunge donne e uomini che vedono e credono nel Figlio.

Si tratta di una Fede-Visione che legge il senso, e abilita a un’appropriazione diretta: sorvola gli ostacoli insormontabili.

Una Fede-Gesto che zampilla; una Fede-Azione che diviene fermento di dilatazione, perché ha già suscitato acume, attenzione globale, e intimo consenso.

Essa acutizza ed espande le risorse trasformative delle anime e degli stessi accadimenti.

Dona in prima persona abilità generanti complessive - esteriori e interiori, indistruttibili; che non perdono nulla [non più votate alla morte: v.39].

 

Lo sguardo ottuso dintorno alle prime fraternità sigillava già il Mistero.

Ma contrariamente al Primo Testamento (Es 33,22-23), per Fede ora si vede Dio e si vive, senza più paura (Es 3,6).

Chi «vede» il Figlio «ha» la stessa Vita dell’Eterno (v.40).

La Visione di Fede, la Visione del Figlio, la Visione dell’esito glorioso di colui che è stato rigettato dalle autorità religiose e considerato maledetto da Dio, fa divenire Uno con Lui.

È Risurrezione attuale, pur nell’esperienza rapida e greve dell’esistenza dispersiva.

L’Immagine considerata impossibile e che non si poteva reggere, cede il passo a un processo d’interpretazione, azione, riassetto, che attira futuro.

Cede il passo alla completezza del mondo umanizzante e diverso di Dio.

Lo spostamento di sguardo rompe la trama delle apparenze, delle convinzioni banali, ereditate o à la page.

Insomma: coglierlo diventa motore di salvezza, fondamento che supera il pre-umano.

Percepirlo si fa Incontro; nella dimensione propria e perenne. Principio di eternità beata.

 

A fine primo secolo le chiese sentono il rischio del crollo.

La progressiva divaricazione dalla religione pagana in genere e la devozione giudaizzante in particolare, comportava un ampio dibattito con risvolti di costume e interni, persino liturgici.

La battaglia con il purismo farisaico scatenava polemiche di ogni tipo, anche circa la segregazione o meno degli stranieri.

Sorgevano difformità di vedute addirittura sul canone stesso delle Scritture (per i cristiani, già da tempo in greco ellenistico).

Secondo i credenti in Gesù la Sorgente della vita piena e indistruttibile [«Vita dell’Eterno»: v.40 testo greco] non è il pane materiale.

Già su questa terra l’Alimento totalizzante non sta in alcuna certezza banale.

Bisogna piuttosto «Vedere il Figlio» (v.40).

Significa cogliere nel Maestro una vicenda che non finisce nel fallimento, perché nonostante il rifiuto dei capi, l’esito della sua-nostra storia è la condizione divina. Gloria indistruttibile.

E «Credere in Lui» (v.40) non dipende dall’estrazione culturale o dalla posizione sociale concorde, ma da un’elaborazione irripetibile.

Vedere e avere Fede è affidarsi alla luminosa [sembra assurda] Visione che si comunica nelle fibre più intime e fin dalla prima ‘Nascita’. Certi della piena sintonia e realizzazione in quella Figura sovreminente.

 

Non aderiamo per entusiasmo o iniziative [la “Chiesa degli eventi”, come dice Papa Francesco].

La vita dell’Eterno in noi inizia nell’occhio dell’anima; eco del Sogno primordiale.

Essa s’introduce nel cogliere la traiettoria del Padre. Egli vuole per i suoi minimi una pienezza d’impronta e carattere, senza conformismi.

Solo grazie al Dono nel quale ci riconosciamo fin dalle nostre radici e in essenza, intuiamo consonanze liete che identificano desideri, parole, azioni e tipo di cammino del Risorto stesso, che pulsa in noi.

La Persona del Cristo è l’unico Cibo senza omologazione.

Sostentati dal Pane-Persona possiamo evitare sia la ricerca di finte sicurezze che la smania di appoggi. Ad es. conoscenze, finanziatori, istituzioni ragguardevoli che garantiscano privilegi; così via.

Preferendo il Pane Spezzato.

 

L’alimento della terra conserva la vita fisica, ma non può far rivivere attraverso Genesi personali uniche, né aprirci una strada valicando la morte.

Ciò conferisce valore ad ogni momento.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa significa per te vedere il Figlio e credere in Lui?

 

 

Non proiettare su Dio l’immagine del rapporto servi-padrone

 

La moltiplicazione dei pani e dei pesci è segno del grande dono che il Padre ha fatto all’umanità e che è Gesù stesso!

Egli, vero «pane della vita» (v. 35), vuole saziare non soltanto i corpi ma anche le anime, dando il cibo spirituale che può soddisfare la fame profonda. Per questo invita la folla a procurarsi non il cibo che non dura, ma quello che rimane per la vita eterna (cfr v. 27). Si tratta di un cibo che Gesù ci dona ogni giorno: la sua Parola, il suo Corpo, il suo Sangue. La folla ascolta l’invito del Signore, ma non ne comprende il senso – come capita tante volte anche a noi – e gli chiede: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?» (v. 28). Gli ascoltatori di Gesù pensano che Egli chieda loro l’osservanza dei precetti per ottenere altri miracoli come quello della moltiplicazione dei pani. E’ una tentazione comune, questa, di ridurre la religione solo alla pratica delle leggi, proiettando sul nostro rapporto con Dio l’immagine del rapporto tra i servi e il loro padrone: i servi devono eseguire i compiti che il padrone ha assegnato, per avere la sua benevolenza. Questo lo sappiamo tutti. Perciò la folla vuole sapere da Gesù quali azioni deve fare per accontentare Dio. Ma Gesù dà una risposta inattesa: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (v. 29). Queste parole sono rivolte, oggi, anche a noi: l’opera di Dio non consiste tanto nel “fare” delle cose, ma nel “credere” in Colui che Egli ha mandato. Ciò significa che la fede in Gesù ci permette di compiere le opere di Dio. Se ci lasceremo coinvolgere in questo rapporto d’amore e di fiducia con Gesù, saremo capaci di compiere opere buone che profumano di Vangelo, per il bene e le necessità dei fratelli.

Il Signore ci invita a non dimenticare che, se è necessario preoccuparci per il pane, ancora più importante è coltivare il rapporto con Lui, rafforzare la nostra fede in Lui che è il «pane della vita», venuto per saziare la nostra fame di verità, la nostra fame di giustizia, la nostra fame di amore.

(Papa Francesco, Angelus 5 agosto 2018)

Martedì, 29 Aprile 2025 21:37

Non siamo trattenuti dalla morte

Il Vangelo che è stato proclamato in questa celebrazione ci aiuta a vivere più intensamente il triste momento del distacco dalla vita terrena del nostro compianto Fratello. Il dolore per la perdita della sua persona viene mitigato dalla speranza nella risurrezione, fondata sulla parola stessa di Gesù: "Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno" (Gv 6, 40). Dinanzi al mistero della morte, per l'uomo che non ha fede tutto sembrerebbe andare irrimediabilmente perduto. È la parola di Cristo, allora, a rischiarare il cammino della vita e a conferire valore ad ogni suo momento. Gesù Cristo è il Signore della vita, ed è venuto per risuscitare nell'ultimo giorno tutto quello che il Padre gli ha affidato (cfr. Gv 6, 39). Questo è anche il messaggio che Pietro annuncia con grande forza nel giorno di Pentecoste (cfr. At 2, 14.22b-28). Egli mostra che Gesù non poteva essere trattenuto dalla morte. Dio lo ha sciolto dalle sue angosce, perché non era possibile che essa lo tenesse in suo potere. Sulla croce Cristo ha riportato la vittoria, che si doveva manifestare con un superamento della morte, cioè con la sua risurrezione.

[Papa Benedetto, omelia esequie card. Poggi 7 maggio 2010]

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This is to say that Jesus has put himself on the level of Peter, rather than Peter on Jesus' level! It is exactly this divine conformity that gives hope to the Disciple, who experienced the pain of infidelity. From here is born the trust that makes him able to follow [Christ] to the end: «This he said to show by what death he was to glorify God. And after this he said to him, "Follow me"» (Pope Benedict)
Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Papa Benedetto)
Unity is not made with glue [...] The great prayer of Jesus is to «resemble» the Father (Pope Francis)
L’Unità non si fa con la colla […] La grande preghiera di Gesù» è quella di «assomigliare» al Padre (Papa Francesco)
Divisions among Christians, while they wound the Church, wound Christ; and divided, we cause a wound to Christ: the Church is indeed the body of which Christ is the Head (Pope Francis)
Le divisioni tra i cristiani, mentre feriscono la Chiesa, feriscono Cristo, e noi divisi provochiamo una ferita a Cristo: la Chiesa infatti è il corpo di cui Cristo è capo (Papa Francesco)
The glorification that Jesus asks for himself as High Priest, is the entry into full obedience to the Father, an obedience that leads to his fullest filial condition [Pope Benedict]
La glorificazione che Gesù chiede per se stesso, quale Sommo Sacerdote, è l'ingresso nella piena obbedienza al Padre, un'obbedienza che lo conduce alla sua più piena condizione filiale [Papa Benedetto]
All this helps us not to let our guard down before the depths of iniquity, before the mockery of the wicked. In these situations of weariness, the Lord says to us: “Have courage! I have overcome the world!” (Jn 16:33). The word of God gives us strength [Pope Francis]
Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza [Papa Francesco]
The Ascension does not point to Jesus’ absence, but tells us that he is alive in our midst in a new way. He is no longer in a specific place in the world as he was before the Ascension. He is now in the lordship of God, present in every space and time, close to each one of us. In our life we are never alone (Pope Francis)
L’Ascensione non indica l’assenza di Gesù, ma ci dice che Egli è vivo in mezzo a noi in modo nuovo; non è più in un preciso posto del mondo come lo era prima dell’Ascensione; ora è nella signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, vicino ad ognuno di noi. Nella nostra vita non siamo mai soli (Papa Francesco)
The Magnificat is the hymn of praise which rises from humanity redeemed by divine mercy, it rises from all the People of God; at the same time, it is a hymn that denounces the illusion of those who think they are lords of history and masters of their own destiny (Pope Benedict)
Il Magnificat è il canto di lode che sale dall’umanità redenta dalla divina misericordia, sale da tutto il popolo di Dio; in pari tempo è l’inno che denuncia l’illusione di coloro che si credono signori della storia e arbitri del loro destino (Papa Benedetto)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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