Dic 17, 2024 Scritto da 

4a Domenica di Avvento (c)

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

 Da oggi, 17 al 23 dicembre hanno inizio “le ferie maggiori d’Avvento”,  ”ferie privilegiate d’Avvento”, caratterizzate da un elemento distintivo che sono le “Antifone O” recitate o cantate durante i Vespri. Iniziano tutte con l’invocazione “O” seguita da un titolo messianico tratto dalle profezie dell’A.T per esprimere l’attesa del Salvatore: Oggi 17 si proclama “O Sapienza”, il 18 “O Adonai” e così via ogni giorno culminando il 23 dicembre con “O Emmanuele”. In questi giorni la liturgia è più solenne con letture e preghiere specifiche che orientano i fedeli verso la nascita di Cristo. Buona preparazione al Santo Natale di. Cristo!

Per questo periodo ho preparato i commenti per la IV Domenica di Avvento 22 dicembre, per le messe di Natale (la notte e quella del giorno), per la Festa della Santa Famiglia domenica 29 dicembre, per la festa della Madre di Dio, 1 gennaio, per l’Epifania, 6 gennaio,  e per  la conclusione del tempo di Natale la domenica del battesimo di Gesù 12 gennaio. Oggi invio i commenti del  22 Dicembre 2024 IV Domenica di Avvento

 

Prima Lettura dal libro del profeta Michea 5, 1-4a

 *In certi momenti diventa difficile sperare 

I profeti nell’Antico Testamento fanno sempre ricorso a due tipi di linguaggio: quello dei rimproveri e degli avvertimenti per coloro che dimenticano l’Alleanza con Dio e le sue esigenze, perché con le loro stesse mani si preparano una rovina; quello del sostegno a coloro che restano fedeli all’Alleanza perché non si perdano d’animo davanti le contrarietà. La prima lettura quest’oggi richiama chiaramente il linguaggio dell’incoraggiamento e si intuisce che il popolo sta attraversando un periodo critico, quasi sul punto di buttare la spugna perché ha l’impressione di essere stato abbandonato da Dio.  Arriva persino a dire che tutte le promesse di felicità rinnovate nei secoli erano solo belle parole, dato che il re ideale preannunciato e promesso non è mai nato e forse mai nascerà. Non si sa bene se autore di questo testo sia il profeta Michea perché non si capisce esattamente in quale periodo storico ci troviamo. Se è Michea, profeta contadino come Amos e discepolo di Isaia, siamo nell’VIII secolo a.C. nella regione di Gerusalemme, in un’epoca in cui l’impero assiro rappresentava una grande minaccia e i re d’Israele non somigliavano per nulla al re-Messia che si stava aspettando: era pertanto facile cadere nella tentazione di sentirsi abbandonati. Per ragioni legate alla lingua, allo stile e al vocabolario, si è propensi a ritenere che si tratti di un testo molto più tardivo e inserito in seguito nel libro di Michea. In tal caso, lo scoraggiamento è motivato dal fatto che, dopo l’esilio babilonese e la dominazione straniera ininterrotta, il trono di Gerusalemme non esisteva più e quindi non c’era più un discendente di Davide. Il profeta riprende la promessa che nascerà dalla discendenza di Davide un re che sarà pastore, regnerà con giustizia e porterà pace; una pace che riguarderà l’intera umanità nel tempo: “Le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” e nello spazio: “Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra”. Quest’accento sull’universalismo (v 3) fa supporre che questa predicazione (inserita nel libro di Michea) non appartiene al profeta Michea, ma a un suo discepolo posteriore dato che l’universalismo del progetto di Dio e il monoteismo rigoroso che lo caratterizza sono stati compresi solo durante l’esilio a Babilonia. A maggior ragione occorreva far memoria delle promesse riguardanti il Messia e il profeta (che sia Michea o un altro non cambia il senso) incoraggia il popolo di Dio dicendo che, pur se vi sentite abbandonati, dovete essere certi che il progetto di Dio si realizzerà; verrà sicuramente “il giorno in cui partorirà colei che deve partorire” perché Dio è fedele alle sue promesse. Parlando di “Colei che deve partorire” insisteva sul fatto che quel momento era solo un tempo di apparente abbandono nel corso della storia umana. Inoltre proclamando: “E tu, Betlemme Efrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà colui che dovrà governare Israele”, il profeta ricordava che il Messia promesso - profezia da Natan a Davide (2Sam,7) - sarebbe stato un vero discendente di Davide, perché a Betlemme il profeta Samuele, su ordine di Dio, andò a scegliere un re tra gli otto figli di Iesse (1Sam,16). Per gli ebrei abituati alle sacre scritture, Betlemme evocava immediatamente la promessa del Messia e il profeta unisce a Betlemme il termine “Efrata” che significa “feconda”, nome di uno dei clan della regione di Betlemme.  In seguito tutta Betlemme viene identificata con Efrata e anche così il profeta tiene a far emergere il contrasto fra la grande e superba Gerusalemme e l’umile borgo di Betlemme, “il più piccolo tra i clan di Giuda” perché è nella piccolezza e nella fragilità, che si manifesta la potenza di Dio, il quale sceglie i piccoli per realizzare grandi progetti. Questa profezia di Michea sulla nascita del Messia a Betlemme era ben nota al popolo ebraico come emerge nell’episodio dei Magi che visitano Gesù (Mt 2,6): l’evangelista Matteo racconta che gli scribi citarono al re Erode il passo di Michea per indirizzarli verso Betlemme.  All’epoca i contemporanei di Gesù sapevano che era il Nazareno ed era inconcepibile che un galileo fosse il Messia. Anche il quarto evangelista osserva che quando si cominciò a discutere sull’identità di Gesù, alcuni dicevano: “Forse è lui il Cristo”, ma altri rispondevano: “il Cristo non può venire dalla Galilea, Michea lo ha detto chiaramente” (Gv 7,40-43). Il breve testo della prima lettura i chiude così: “Egli stesso sarà la pace”: shalom è la pace che solo il Messia può donare all’umanità

 

Salmo responsoriale 79 (80) 2ac. 3bc, 15-16, 18-19

 *Dio si fa premura della sua vigna  

L’accenno ai cherubini, in ebraico Kéroubim (Due cherubini sovrastavano l’arca dell’Alleanza nel Santo dei Santi del Tempio di Gerusalemme), statue di animali alati con testa d’uomo e corpo e zampe di leone, simboleggiano il trono di Dio.  “Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome”: siamo in una celebrazione penitenziale e “mai più” costituisce una risoluzione: “Da te mai più ci allontaneremo” significa che il popolo riconosce le proprie infedeltà e ne considera i propri mali come conseguenza. Il resto del salmo dettaglierà queste disgrazie, ma già qui si dice: “Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci”, il che indica un profondo bisogno di essere salvati. Nelle difficoltà il popolo si rivolge al suo Dio che mai l’ha abbandonato e lo supplica invocandolo con due titoli: il pastore d’Israele e il vignaiolo, immagini che evocano sollecitudine, attenzione costante, ispirate alla vita quotidiana in Palestina, dove pastori e vignaioli erano figure centrali nella vita economica. La prima metafora è quella del Pastore di Israele. Nel linguaggio di corte dei paesi dell’antico medio oriente, il titolo di pastore era attribuito ai re; nella Bibbia, invece è prima di tutto attribuito a Dio e chiamavano i re di Israele “pastori del popolo” solo per delega dato che il vero pastore di Israele è Dio. Nel Salmo 22/23 leggiamo: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Nel libro della Genesi, quando Giacobbe benedice suo figlio Giuseppe, invoca “il Dio alla cui presenza hanno camminato i miei padri, Abramo e Isacco, il Dio che è stato il mio pastore da quando esisto fino a oggi” (Gen 48,15). E quando benedice i suoi dodici figli, lo fa “nel nome del Pastore, la Roccia d’Israele” (Gen 49,24). Anche Isaia usa questa immagine: “Ecco il vostro Dio!… Come un pastore, fa pascolare il suo gregge, con il suo braccio raduna gli agnelli, li porta sul petto, conduce dolcemente le pecore madri” (Is 40,9-11). E il popolo di Israele è il gregge di Dio come leggiamo nel Salmo 94/95: “Sì, egli è il nostro Dio e noi siamo il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce con la sua mano”. Si tratta di un salmo che è una meditazione sull’Esodo dove Israele ha fatto la prima esperienza della sollecitudine di Dio perché, senza di lui, non sarebbe sopravvissuto. Dio infatti ha radunato il suo popolo come un pastore raduna il suo gregge, permettendogli di superare ogni ostacolo. E oggi nel salmo responsoriale quando si dice: “Tu, pastore d’Israele, ascolta”, è all’esperienza fondamentale dell’Esodo e della liberazione dall’Egitto che ci si riferisce.

Nella seconda metafora il salmo chiama Dio vignaiolo: “Dio degli eserciti ritorna! Guarda dal cielo e vedi: visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato”. Il salmo si ispira al Canto della vigna di Isaia: ”Voglio cantare per il mio diletto il cantico del mio amato per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva vangata, sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate. Nel mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino” (Is 5,1-2). Si tratta probabilmente di un canto popolare, che s’intonava durante i matrimoni come simbolo della cura del giovane sposo per la sua amata e questo salmo riprende l’ immagine per descrivere la sollecitudine di Dio come leggiamo nei versetti (9-12) non ripresi nel salmo responsoriale: ”Hai sradicato una vigna dall’Egitto, hai scacciato le nazioni per piantarla. Le hai preparato il terreno, l’hai radicata perché riempisse il paese. La sua ombra copriva le montagne, i suoi rami i cedri più alti; estendeva i suoi tralci fino al mare e i suoi germogli fino al Fiume”.  L’Esodo, l’ingresso nella Terra Promessa, l’Alleanza con Dio, la conquista della terra e l’espansione sotto il regno di Davide, in tutte queste glorie Israele vi riconosce l’opera di Dio, della sua continua presenza e cura. La crescita di Israele fu talmente straordinaria da poter  parlare di un’epoca di gloria: “La sua ombra copriva le montagne, i suoi rami i cedri più alti”, pensando alle conquiste di Davide  che estese i confini del regno a livelli mai raggiunti prima. 

La luna di miele non è durata a lungo perché già in Isaia il canto raccontava un amore felice all’inizio, finito male per l’infedeltà dell’amata ( cf Is 5, 2-4). E alla fine, il vignaiolo abbandona la sua vigna (cfIs 5, 5-6). Nel salmo di oggi troviamo la stessa avventura di un amore tradito: si parla di Israele e le sue infedeltà sono l’idolatria con ogni tipo di trasgressione alla Legge di Dio che porta delle conseguenze come ben si comprende quando si legge tutto il salmo.  Mi limito solo a qualche versetto non presente nel salmo responsoriale. “Perché hai abbattuto la sua siepe? Chiunque passa la saccheggia; il cinghiale della foresta la devasta e gli animali dei campi la brucano” (Sal 80, 13-14). E poco dopo:

“È distrutta, incendiata” (v. 17). E ancora: “Ci hai resi lo scherno dei vicini, i nostri nemici ridono di noi” (v. 7). In altre parole, siamo in un periodo di occupazione straniera e chi siano i nemici, la storia non lo dice; vengono però paragonati agli animali che devastano la vigna — come i cinghiali, ritenuti animali impuri. Israele riconosce la colpa per la quale è stato punito da Dio e il salmo invoca il perdono, dicendo: “Fino a quando resterai adirato contro le preghiere del tuo popolo? Ci hai fatto mangiare un pane di lacrime, ci hai dato da bere lacrime in abbondanza” (v. 5-6). Il salmo riflette lo stato della teologia dell’epoca quando si credeva che tutto, la felicità come la sventura, fossero opera da Dio.  Di certo oggi, grazie alla paziente pedagogia divina, c’è stato un progresso nella comprensione della rivelazione e abbiamo compreso che Dio rispetta la libertà dell’uomo e di certo non controlla ogni dettaglio della storia. Questo salmo offre però una magnifica lezione di fede e umiltà: il popolo riconosce le sue infedeltà e prende la ferma risoluzione di non ripeterle più:

“Da te mai più ci allontaneremo” e si rivolge a Dio implorando la forza della conversione:

“Facci vivere e noi invocheremo il tuo nome”.

 

Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei 10,  5-10

 *La disponibilità vale più di tutti i sacrifici

In queste poche righe per due volte ricorre quest’espressione: “Ecco, io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà”, tratta dal Salmo 39/40, un salmo di rendimento di grazie. Breve commento a questo salmo che inizia con il descrivere il pericolo mortale da cui Israele è stato liberato: “Con pazienza ho sperato nel Signore: si è chinato su di me, ha ascoltato il mio grido. Mi ha tratto dalla fossa della morte, dal fango e dalla melma; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi”. Dopo aver ringraziato per la liberazione dall’Egitto, prosegue: “Sulle mie labbra ha posto un canto nuovo, una lode al nostro Dio”; poi: “Non hai voluto né sacrifici né offerte, ma mi hai dato un corpo. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: ‘Ecco, io vengo, mio Dio, per fare la tua volontà”. Chiaro il messaggio: la maniera migliore per ringraziare è offrire a Dio non sacrifici, ma la disponibilità a compiere la sua volontà. La risposta che Dio attende è: “Eccomi”, tipico dei grandi servitori di Dio. Abramo, chiamato da Dio al momento del sacrificio di Isacco, rispose semplicemente: “Eccomi” e la sua disponibilità è esempio per i figli d’Israele (Gen 22): nonostante Isacco non sia stato immolato, la disponibilità vale più di tutti i sacrifici. Mosè risponde “Eccomi” di fronte al roveto ardente e la sua disponibilità trasformò un semplice pastore persino impacciato nel parlare nel grande condottiero d‘Israele. Samuele, secoli dopo, al tempo dei Giudici, con il suo “Eccomi” divenne grande profeta di Israele (1 Sam 3, 1-9) che da adulto ebbe il coraggio di dire al re Saul: “Il Signore gradisce forse gli olocausti e i sacrifici quanto l’obbedienza alla sua parola? No! L’obbedienza vale più del sacrificio, l’ascolto più del grasso degli arieti” (1 Sam 15, 22).

Nella Bibbia, il titolo di «servitore» di Dio è il più grande complimento per un credente, come pure nei primi secoli dell’era cristiana, nei paesi di lingua greca, era comune dare ai figli il nome «Christodule» (Christodoulos), che significa servitore di Cristo. L’insistenza sulla disponibilità diventa per ognuno anzitutto incoraggiante perché Dio chiede solo la nostra disponibilità e tutti, nonostante i limiti umani, possiamo diventare utili per il Regno di Dio. Al tempo stesso quest’insistenza è esigente poiché se Dio ci chiama a servirlo non possiamo accampare scuse come l’incompetenza, l’ignoranza, l’indegnità, la stanchezza, etc…

L’autore della Lettera agli Ebrei applica il Salmo 39/40 a Gesù Cristo, il quale dice: “Non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: ‘Ecco, io vengo per fare,o Dio la tua volontà”.  Disponibilità totale che non iniziò la sera del Giovedì Santo, ma abbraccia tutta la vita, giorno dopo giorno, fin dall’inizio perché “entrando nel mondo, Cristo dice… un corpo mi hai preparato …ecco, io vengo” (vv5-7). 

Dire che la disponibilità vale più di tutti i sacrifici non significa che i sacrifici vengano aboliti, ma perdono il loro valore quando non sono accompagnati da totale disponibilità al servizio di Dio e degli uomini. Inoltre in Israele, nel contesto della lotta contro le idolatrie, i profeti insistono, sul “sacrificio delle labbra”, preghiera e lode da rivolgere aesclusivamente al Dio d’Israele poiché avveniva che, pur offrendo  sacrifici costosi nel tempio di Gerusalemme, alcuni continuavano a rivolgersi  anche ad altri dèi. Offrire a Dio il “sacrificio delle labbra” indica la decisione di appartenere a Lui senza riserve e questo, come leggiamo in Osea,  valeva più di tutti i sacrifici animali: “Al posto di tori, ti offriremo in sacrificio le parole delle nostre labbra” (Os 14,3). Anche il salmo 49/50 lo ribadisce: “Offri a Dio come sacrificio la lode e sciogli i tuoi voti all’Altissimo… Chi offre la lode come sacrificio, mi glorifica (Sal 49/50,14.23).

Giacobbe è considerato un esempio di disponibilità assoluta a Dio, nonostante le sue malefatte, perché la sua vita testimonia una profonda trasformazione interiore e un’intensa ricerca di Dio. Il percorso di Giacobbe rappresenta il viaggio spirituale di ogni credente: da una vita caratterizzata da inganni e lotte a una vita di fede, di incontro con Dio e di adesione al suo progetto. Queste le malefatte di Giacobbe: fin dalla giovinezza, commette diverse azioni discutibili: inganna il fratello Esaù per ottenere la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie (Gen 25,29-34); truffa suo padre Isacco per ricevere la benedizione che spettava al primogenito, con l’aiuto della madre Rebecca (Gen 27), manipola lo zio Labano per arricchirsi durante il periodo in cui lavora per lui (Gen 30,25-43). Questa la sua disponibilità a Dio: nonostante questi comportamenti, Giacobbe è aperto all’incontro con Dio e mostra una crescente disponibilità a lasciarsi trasformare. La sua storia è scandita da episodi che dimostrano il cambiamento del suo cuore: il sogno di Betel (Gen 28,10-22): dopo aver ingannato il fratello ed essere fuggito, Giacobbe ha una visione di una scala che collega la terra al cielo. In questo sogno, Dio gli rinnova le promesse fatte ad Abramo e Isacco. Qui egli promette: “Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio… allora il Signore sarà il mio Dio” (Gen 28,20-21).

Poi a Peniel (Gen 32,23-32) lotta tutta la notte con un uomo misterioso, che si rivela essere Dio stesso o un suo messaggero e riceve un nuovo nome, Israele, che significa “Colui che lotta con Dio”. È il simbolo di una trasformazione profonda: “Non ti lascerò andare, se non mi avrai benedetto!” (Gen 32,27). Qui emerge la sua disponibilità totale a dipendere da Dio, a riconoscere la sua necessità di essere benedetto e guidato. Segue la riconciliazione con Esaù (Gen 33) e questo dimostra che il cambiamento interiore produce frutti concreti nelle relazioni umane. La sete di Dio: ciò che distingue Giacobbe non è la perfezione morale, ma la sua sete di Dio: lo ha sempre cercato anche quando le sue azioni erano dettate dall’ambizione personale e questa ricerca costante di Dio lo rende un esempio di disponibilità perché appare un uomo che, nonostante le sue debolezze e i suoi errori, ha sempre desiderato la benedizione e la presenza di Dio nella sua vita. La sua storia insegna che: Dio non sceglie i perfetti, ma coloro che sono disposti a lasciarsi trasformare; le nostre imperfezioni non sono un ostacolo alla chiamata di Dio, purché siamo disponibili a camminare con Lui; la disponibilità a Dio è più importante dei sacrifici o delle opere esteriori, perché Dio guarda il cuore e il desiderio di conversione. In sintesi, Giacobbe è un esempio di disponibilità assoluta a Dio perché, nonostante le sue malefatte, ha accolto la chiamata divina, ha lottato per la benedizione di Dio e si è lasciato trasformare da quell’incontro, diventando uno dei patriarchi fondamentali della fede di Israele.

 

Vangelo secondo Luca 1,39-45

*Tu sei benedetta fra tutte le donne  

Nel vangelo di Luca, dopo i due racconti dell’Annunciazione: a Zaccaria per la nascita di Giovanni Battista, e a Maria per la nascita di Gesù, segue il racconto della “Visitazione” che a prima vista appare una semplice scena di famiglia, ma non dobbiamo farci ingannare: Luca scrive un’opera profondamente teologica e per meglio capire occorre dare giusto valore alla frase centrale: “Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce” (Lc 1,41-42). E’ quindi lo Spirito Santo che parla e annuncia fin dall’inizio la grande notizia di tutto il Vangelo di Luca: colui che è stato appena concepito è il “Signore”. Lo Spirito ispira a Elisabetta: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo”: ciò significa che Dio agisce in te e attraverso di te, Dio agisce in tuo Figlio e attraverso tuo Figlio. Come sempre, lo Spirito Santo è colui che ci permette di scoprire, nelle nostre vite e in quelle degli altri, i segni dell’opera di Dio. Luca non ignora che questa frase di Elisabetta  ne riprende in parte, una che troviamo nel libro di Giuditta (Gdt 13,18-19): quando dopo aver decapitato il generale Oloferne, Giuditta ritorna dall’accampamento nemico, viene accolta da Ozia che le dice: “Tu sei benedetta fra tutte le donne, e benedetto è il Signore Dio”. Maria è qui paragonata a Giuditta, un parallelismo che suggerisce due cose: l’espressione “Benedetta  tu fra tutte le donne” fa capire che Maria è la donna che garantisce all’umanità la vittoria definitiva sul male. Quanto invece alla conclusione della frase (per Giuditta “benedetto è il Signore Dio” mentre per Maria “benedetto il frutto del tuo grembo”), annuncia che il Signore stesso è il frutto del suo grembo: ecco perché il racconto di Luca non è solo un quadretto di gioia familiare, ma qualcosa di ben più profondo. Di fronte al mutismo di Zaccaria, diventato muto perché aveva dubitato delle parole dell’angelo annunciatrici della nascita di Giovanni Battista, appare tutto il contrasto della potenza della parola di Elisabetta piena di Spirito Santo. Giovanni Battista, ancora nel grembo materno, già pieno di Spirito Santo manifesta la sua gioia: Elisabetta dice che “ha sussultato di gioia nel mio grembo” quando ha udito la voce di Maria. Lo aveva preannunciato l’angelo a Zaccaria: “Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita. Tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e lo chiamerai Giovanni. Sarai nella gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita… sarà pieno di Spirito Santo fin dal grembo di sua madre” (Lc 1,13-15).

Riprendiamo le parole di Elisabetta: “A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?” (Lc 1,43). Anche questa frase richiama un episodio dell’Antico Testamento, cioè l’arrivo dell’Arca dell’Alleanza a Gerusalemme (2 Sam 6,2-11). Quando Davide diventato re a Gerusalemme costruì un degno palazzo, decise di trasferire l’Arca dell’Alleanza nella nuova capitale. Pieno di fervore e di timore organizzò una processione festosa con tutti gli uomini migliori d’Israele, circa trentamila, e con tutto il popolo partì per far salire l’Arca di Dio… La trasportarono su un carro nuovo… Davide e tutta la casa d’Israele danzavano davanti al Signore al suono di cetre, arpe, tamburelli, sistri e cembali (cf 2 Sam 6,5). Durante il tragitto, però, un uomo che aveva toccato l’Arca senza esserne autorizzato morì immediatamente e, preso dal timore, Davide esclamò: “Come potrà l’Arca del Signore venire da me?” (2 Sam 6,9). Decise quindi di lasciare l’Arca nella casa di Obed-Edom, dove rimase per tre mesi e poi, poiché si diffuse la voce che la presenza dell’Arca portava benedizione a quella casa, Davide decise di completare il viaggio e così Davide e tutta la casa d’Israele fecero salire l’Arca del Signore tra canti di gioia e al suono del corno (cf 2 Sam 6,15) e pieno di gioia, Davide pure danzava davanti all’Arca “con tutte le sue forze” (cf 2 Sam 6,14).

Molti dettagli  accomunano il racconto della Visitazione  con il viaggio dell’Arca dell’Alleanza: Entrambi i viaggi, quello dell’Arca e quello di Maria, si svolgono nella stessa regione, le colline di Giudea; l’Arca entra nella casa di Obed-Edom e porta benedizione; Maria entra nella casa di Zaccaria ed Elisabetta e porta gioia; l’Arca rimane tre mesi nella casa di Obed-Edom; Maria resta tre mesi presso Elisabetta; Davide danza davanti all’Arca; Giovanni Battista “esulta di gioia” davanti a Maria che porta in sé il Signore. Poiché tutto questo non è casuale, l’evangelista invita a contemplare Maria come la nuova Arca dell’Alleanza. L’Arca era il luogo della Presenza di Dio, e Maria porta in sé, in modo misterioso, la Presenza divina e da quel momento Dio abita per sempre la nostra umanità: “Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare fra noi” (Gv 1,14).

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don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

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“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
People have a dream: to guess identity and mission. The feast is a sign that the Lord has come to the family
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione. La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia
“By the Holy Spirit was incarnate of the Virgin Mary”. At this sentence we kneel, for the veil that concealed God is lifted, as it were, and his unfathomable and inaccessible mystery touches us: God becomes the Emmanuel, “God-with-us” (Pope Benedict)
«Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». A questa frase ci inginocchiamo perché il velo che nascondeva Dio, viene, per così dire, aperto e il suo mistero insondabile e inaccessibile ci tocca: Dio diventa l’Emmanuele, “Dio con noi” (Papa Benedetto)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situationsi
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses. He also teaches us that amid the tempests of life, we must never be afraid to let the Lord steer our course. At times, we want to be in complete control, yet God always sees the bigger picture» (Patris Corde, n.2).
«Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande» (Patris Corde, n.2).
Man is the surname of God: the Lord in fact takes his name from each of us - whether we are saints or sinners - to make him our surname (Pope Francis). God's fidelity to the Promise is realized not only through men, but with them (Pope Benedict).

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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