Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Ecco il commento alle letture e testi biblici della Solennità dell’Immacolata Concezione [Domenica 8 Dicembre 2024]
*Prima Lettura Genesi 3.9-15.20
L’albero della vita fu piantato da Dio al centro dell’Eden e da qualche parte, nello stesso giardino, l’albero della conoscenza del bene e del male, cioè l’albero di ciò che ci rende felici o infelici. La consegna fu semplice: «Potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire” Gn 2,16-17). Dio ordina di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, ma non è specificato dove quest’albero si trova perché il racconto ha un alto significato allegorico e simbolico e invita a concentrarsi piuttosto che sulla sua localizzazione geografica, sul messaggio etico e teologico. Per molti teologi e santi quest’albero simboleggia la consapevolezza morale, la maturità e la responsabilità umana. Sant’Agostino l’interpreta come un test di obbedienza e libero arbitrio: “Il frutto dell’albero era buono non per sua natura, ma come segno di un bene più grande: la sottomissione dell’uomo a Dio “(dal De Genesi ad litteram, sulla Genesi alla lettera). Il serpente chiede alla donna se è vero che Dio ha ordinato di non mangiare di alcuno albero del giardino e lei, molto onesta, lo corregge rispondendo che si possono mangiare i frutti degli alberi del giardino, eccetto del frutto dell’albero che è in mezzo al giardino perché Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete” (Gn3,1-3). Pensa di rettificare, ma, senza saperlo, ha già deformato la verità: il semplice fatto di essere entrata in conversazione con il serpente ha falsato il suo sguardo e si potrebbe dire che ora è l’albero a nascondere la foresta perché vede al centro del giardino l’albero proibito e non invece l’albero della vita. Ormai il tranello è fatto e il serpente prosegue l’opera di seduzione dicendo che non moriranno affatto, e Dio sa che il giorno in cui ne mangereranno gli occhi si apriranno e saranno come Dio, conoscendo ciò che rende felici o infelici. Diventare come Dio con un semplice gesto magico è irresistibile e la donna si lascia tentare. Lapidaria la conclusione: “Prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anche egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutte e due entrambi e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”(6-7). Fino a quel momento la loro nudità (cioè la loro fragilità) non sembra li ponesse a grande disagio, mentre ora si vergognano l’uno “di fronte” all’altra. E’ qui che è entrata in crisi anche la relazione – l’uno di fronte all’altra - con tutte le conseguenze che segnano le difficoltà dei rapporti tra noi esseri umani. Prima si fidavano di Dio, ma il serpente ha sussurrato che non solo Dio era per loro un antagonista ma aveva persino paura perché voi – dice loro - “sareste come Dio”. In realtà, i loro occhi si sono aperti, ma il loro sguardo è completamente falsato: d’ora in poi vivranno nella paura di Dio e per questo si nascondono. Ma Dio non li abbandona, anzi li cerca nonostante che il progetto originario è stato contraddetto: ormai l’uomo ha rotto la sua relazione di creatura felice con Dio ed è soggetto alla paura, al disagio nella ricerca d’una propria autonomia. Alle domande del Creatore, l’uomo e la donna rispondono la pura verità senza aggiungere né togliere nulla: entrambi si sono lasciati sedurre e hanno disobbedito. L’uomo dice che la donna gli ha dato il frutto e la donna aggiunge di essere stata ingannata dal serpente: tutto insomma viene dal serpente. A questo punto il Signore aggredisce il serpente: “poiché hai fatto questo, maledetto fra tutti gli animali selvatici. La conclusione che da questo racconto fortemente simbolico possiamo trarre è che il male non è nell’uomo e questa è un’affermazione fondamentale della Bibbia. Di fronte a civiltà pessimiste, che considerano l’umanità intrinsecamente cattiva, la rivelazione biblica afferma che il male è esterno all’uomo: quando ci si lascia attrarre su strade sbagliate, è perché siamo ingannati e sedotti e la lotta di tutti profeti nel corso dei secoli ha teso a contrastare le innumerevoli seduzioni che minacciano l’uomo, in primo luogo l’idolatria. Il male è completamente estraneo a Dio e la sua collera è sempre contro ciò che distrugge l’uomo. Da dove viene il male se non è Dio a volerlo? Come già detto, nella Bibbia è chiaro che il male non fa parte della natura dell’uomo e non viene nemmeno da Dio. Legittimo era il desiderio dei progenitori di essere come dèi e Dio non li rimprovera per questo avendoli creati a sua somiglianza e proprio il suo respiro (ruah) è il respiro dell’uomo. Il problema è che essi hanno ceduto alla menzogna di satana, certi di poter soddisfare quest’aspirazione da soli, con una sorta di gesto magico e il risultato è che si scoprono nudi, infelici. Tutto però non è perso ed è qui la notizia più bella che leggiamo in questa pagina biblica: Dio intima al serpente “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa, e tu le insidierai (in ebraico shuph significa schiacciare, ferire, insidiare, tendere un agguato) il calcagno”. Si annuncia un duro combattimento tra il serpente e la stirpe della donna, ma di cui è già certo l’esito finale: il serpente sarà colpito alla testa, che è la sua parte più vulnerabile e il punto da cui provengono il morso e il veleno. A schiacciarlo sarà la stirpe della donna e il serpente ne insidierà e ferirà il calcagno. La ferita al calcagno è simbolo delle sofferenze d’ogni tipo dell’umanità e dei patimenti volontari di Cristo crocifisso, una ferita questa non definitiva perché il Risorto uscendo dal sepolcro sconfigge per sempre satana. In definitiva queste parole di Dio al serpente costituiscono una promessa di speranza di redenzione realizzata pienamente in Cristo. La tradizione cristiana ha intravisto in questo racconto della Genesi un lontano annuncio della vittoria della Nuova Eva, Maria, al punto da definirlo “protoevangelo”, cioè un “pre-evangelo”. Maria è considerata elemento chiave nel piano di redenzione di Dio, in quanto madre di Cristo, il Salvatore che ha sconfitto il peccato e la morte. La sua partecipazione al divino progetto di salvezza è illuminata dai testi biblici, mentre la riflessione teologica successiva ne ha arricchito la comprensione e ha meglio focalizzato il ruolo di Maria in tutta la storia. Uno dei titoli a lei attribuiti nella tradizione cristiana è proprio quello di Nuova Eva perché se Eva fu la donna che, con la sua disobbedienza, introdusse il peccato nel mondo, Maria è colei che, con la sua docile e totale obbedienza a Dio, ha reso possibile l’incarnazione di Cristo. Così come il peccato è entrato nel mondo attraverso una donna, la salvezza entra attraverso un’altra donna, Maria, per mezzo della quale Dio ha dato al mondo il Salvatore. La Madre di Cristo è vista come cooperatrice nella vittoria di Dio sul peccato e sulla morte e la sua obbedienza, il suo sacrificio e la sua intercessione fanno di lei una figura centrale dell’intero piano salvifico. Infine tre annotazioni per meglio comprendere questo testo:
1.Secondo il testo ebraico (Gen 2,9), si dovrebbe parlare di “albero della conoscenza del bene e del male”, ma tale traduzione, pur corretta dal punto di vista grammaticale e spesso ripresa nelle nostre traduzioni, potrebbe portare a un serio fraintendimento: i termini “bene” e “male” in italiano, come in altre lingue, hanno un senso astratto che non corrisponde alla sensibilità concreta ed esistenziale del pensiero ebraico. Per questo è preferibile l’espressione “albero della conoscenza di ciò che rende felici o infelici”.
2. La conoscenza del bene e del male fa pensare al re Salomone tradizionalmente considerato il simbolo della sapienza e del giudizio illuminato. Egli chiese a Dio non ricchezze o potere, ma un cuore saggio e intelligente per governare il popolo con giustizia (1 Re 3,9). Dio lo esaudì rendendolo il re più saggio della sua epoca. Secondo la visione biblica, la saggezza non è pura intelligenza umana, ma dono di Dio per discernere il bene dal male; è capacità di governare con giustizia e prendere decisioni giuste; è ricerca di conoscenza universale, della natura, delle leggi del cosmo e della vita umana, come testimoniano i libri attribuiti a Salomone, tra cui i Proverbi, il Qoelet e il Cantico dei Cantici. E’ infine saggezza pratica e morale che integra conoscenza intellettuale, giustizia morale e prudenza nelle relazioni umane. La fama di saggio attirò a Salomone sovrani e studiosi da terre lontane, come la regina di Saba, che lo visitò per verificare la sua saggezza (1 Re 10,1-13). Alla sua corte si ricercava la saggezza perché è il vero modo di vivere.
3.Il racconto biblico del peccato dei progenitori invita all’umiltà perché solo a Dio appartiene il possesso dell’albero della conoscenza del bene e del male, di ciò che rende felici o infelici: esso è pertanto inaccessibile all’uomo. Che fare allora? La Bibbia invita a nutrirsi ogni giorno dell’albero della vita, che è la Legge di Dio, la Torah. Purtroppo a tentare l’uomo è sempre la sete di una conoscenza sedotta dalla sete di potere in ogni sua forma. Dio c’introduce in un’altra conoscenza in senso biblico, l’unica che valga davvero, cioè l’amore.
*Salmo responsoriale 97/98:
“Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio” (v.3).
A parlare è Israele, che definisce Dio “il nostro Dio”, mettendo in evidenza la relazione privilegiata che esiste tra questo piccolo popolo e il Dio dell’universo. Un popolo che ha compreso a poco a poco che la sua missione nel mondo è quella di non custodire gelosamente per sé questa intima relazione, ma di annunciare che l’amore di Dio è per tutti gli uomini integrando gradualmente nell’Alleanza l’intera umanità. In questo salmo percepiamo i “due amori di Dio”: Dio ama il popolo che si è scelto e ama tutti gli altri popoli della terra che il salmista definisce con il termine: “le genti”. “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” (v.2). E subito dopo, al versetto 3, troviamo: «si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele». La casa d’Israele richiama ciò che definiamo “l’elezione d’Israele”. Dietro questa breve frase si percepisce tutto il peso della storia e del passato: le semplici parole « il suo amore » e « la sua fedeltà » evocano con forza l’Alleanza. Se l’elezione di Israele è centrale, Israele non deve dimenticare che la sua testimonianza deve risplendere davanti a tutta l’umanità. In effetti, anche ora nei giorni della festa delle Capanne o dei Tabernacoli (sukkot o “festa del raccolto” Chag HaAsif), che commemora i 40 anni vissuti nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto, a Gerusalemme il popolo acclama Dio già come re a nome di tutta l’umanità. Questo salmo dunque anticipa il giorno in cui Dio sarà riconosciuto come re di tutta la terra. Una delle grandi certezze che gli uomini della Bibbia hanno acquisito progressivamente è che Dio ama tutta l’umanità, non solo Israele e in questo salmo, questa certezza si riflette anche nella stessa struttura del testo. Quando si canta la vittoria di Dio, si celebra la sua vittoria definitiva pure contro tutte le forze del male. Come cristiani possiamo acclamano Dio con ancora più forza, perché i nostri occhi hanno conosciuto Cristo, il Re del mondo: con la sua Incarnazione, il Regno di Dio, che è Regno dell’amore, è già cominciato.
*Seconda Lettura Ef. 1,3-6.11-12
In soli dodici versetti san Paolo presenta il progetto di Dio e ci invita a unirci alla sua contemplazione, progetto che consiste nel radunare l’umanità per formare un solo Uomo in Gesù Cristo, capo di tutta la creazione: “facendoci conoscere il mistero della sua volontà secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre a Cristo, unico capo, tutte le cose quelle nei cieli e quelle sulla terra” (vv. 9-10). Fermiamoci a sottolineare semplicemente qualche bella buona notizia.
Prima notizia: Dio ha un progetto su ciascuno di noi e su tutta la creazione. La storia ha un senso, una direzione e un significato. Per i credenti, gli anni non si susseguono in modo uniforme e la storia avanza verso il suo compimento avvicinandoci, come scrive san Paolo“alla pienezza dei tempi” (v. 10). Mai avremmo potuto scoprire tale disegno da soli perché è un mistero che ci supera infinitamente e nel linguaggio di Paolo, mistero non è un segreto che Dio custodisce gelosamente, bensì la sua intimità alla quale ci invita.
Seconda notizia: la volontà di Dio è tutto e solo amore. Le parole “benedizione, amore, grazia, benevolenza” costellano il testo che poi prorompe “a lode dello splendore della sua grazia ( della sua gloria v.12,14) di cui ci ha gratificati nel Figlio amato” (v. 6). A lode della sua grazia perché Dio va riconosciuto come il Dio della grazia, cioè il Dio il cui amore è gratuito. Gesù ci ha rivelato che il Padre celeste è amore, vuole farci entrare nella sua intimità e desidera che in ogni circostanza si compia la sua volontà, perché è sempre buona.
Terza sottolineatura: il progetto di Dio si realizza attraverso Cristo, citato molte volte in questi versetti: tutto avviene “per lui, con lui e in lui”, come dice la liturgia. Dio ci ha predestinati “a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo” (v. 5). Cristo è il centro del mondo e della storia umana (l’alfa e l’omega); Figlio diletto nel quale ci ha “gratificati” il Padre (v. 6) e in lui saremo tutti riuniti al compimento dei tempi. Il “mistero” della volontà di Dio è infatti ricapitolare in Cristo l’universo intero.
*Vangelo Luca 1, 26-38
A Nazareth, villaggio in quel momento sconosciuto e insignificante, in una provincia poco considerata dalle autorità di Gerusalemme, l’angelo Gabriele ha parlato a una ragazza di nome Maria, facendole il complimento più sublime mai ricevuto da una donna: “piena di grazia” (Kecharitomene) che significa immersa totalmente nella grazia di Dio, colma del favore divino senza alcuna ombra. Questa vergine, Maria, poco più che adolescente, al termine dell’incontro e in perfetta sintonia, risponde al progetto di Dio con piena adesione: ”Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Tra le parole dell’angelo e la risposta della Vergine, la storia ha conosciuto la svolta decisiva che è l’ora dell’Incarnazione del Verbo. Da quel momento in poi nulla sarà più come prima perché tutte le promesse dell’Antico Testamento trovano ora il loro compimento. Anzi ogni parola dell’angelo le evoca e svela il “compimento” dell’attesa del Messia che ha segnato per sempre il corso dei secoli. Si attendeva un re discendente di Davide e qui riecheggia la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (2 Sam 7) dalla quale si è sviluppata tutta l’attesa messianica e costituisce proprio il cuore dell’annuncio dell’angelo Gabriele: «Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (vv. 32-33). Un altro titolo attribuito al Messia è “sarà chiamato Figlio di Dio (dell’Altissimo)” che nel linguaggio biblico significa «re», in riferimento alla promessa fatta da Dio a Davide: ogni nuovo re, nel giorno della sua consacrazione, riceveva il titolo di Figlio di Dio. Maria comprende e ricorda all’angelo di essere vergine e quindi non può concepire un figlio in modo naturale. Ben nota è la risposta dell’angelo che richiama altre promesse messianiche, superandole infinitamente: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Si attendeva il Messia investito della potenza dello Spirito Santo per compiere la sua missione di salvezza come Isaia aveva predetto: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore» (Is 11, 1-2), tuttavia l’annuncio dell’angelo Gabriele va ben oltre perché il bambino concepito sarà realmente Figlio di Dio. Evidente è l’insistenza di Luca su questo punto: il bambino non ha un padre umano, ma è «Figlio di Dio». Il testo offre due prove/segni: innanzitutto Maria dichiara: “Non conosco uomo” (nel testo originale: non ho relazioni con uomo). Inoltre l’angelo affida il compito di dare il nome al bambino alla madre e questo risulta una procedura del tutto insolita, che si spiega solo in assenza di un padre umano perché era sempre il padre a decidere il nome del figlio come si vede nella nascita di Giovanni Battista. I parenti si rivolsero a Zaccaria, anche se muto, e non a Elisabetta, per decidere come chiamare il bambino. Inoltre, quando l’angelo rassicura Maria: “la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” è naturale pensare a una nuova creazione richiamando alla mente quanto leggiamo nel libro della Genesi: «In principio Dio creò il cielo e la terra… Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1, 2). Questa stessa immagine è presente nel salmo 104: “Manda il tuo spirito, sono creati” (v. 30). La “nuvola”, “l’ombra” del Dio Altissimo evoca la presenza divina sulla Tenda del Convegno durante l’Esodo, e nel giorno della Trasfigurazione designa Gesù come Figlio di Dio: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”(Lc 9,35).
Commuove e sorprende, anzi diventa scuola di fede, la risposta di Maria a così grandi rivelazioni. E’ d’una disarmante semplicità, esempio perfetto di “obbedienza della fede” come dice Paolo (Rm1,5; 16,26), abbandono con fiducia totale alla volontà divina. Rispondendo “sì, eccomi”, Maria si unisce ai veri credenti della storia. Samuele rispose: “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” (1 Sam 3, 10) e Maria semplicemente: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Il termine “serva” proclama la piena disponibilità al progetto di Dio e mostra che per le opere di Dio basta un semplice “sì” perché “nulla è impossibile a Dio”. Grazie al sì di Maria sconosciuta ragazza in Nazaret, “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi “(Gv1,14). Torna in mente la promessa del profeta Sofonia al popolo di Dio che si era macchiato di tanti crimini e infedeltà per cui era ridotto a un piccolo resto: “Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme… Il re d’Israele, il Signore, è in mezzo a te” (Sof 3, 14-15). L’odierna solennità esalta un evento che supera ogni possibile umana immaginazione e anche Maria avrà bisogno di tutta la vita per “custodire tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2.19; 51). L’attitudine di meditazione e di totale apertura alla volontà di Dio è un aspetto centrale della vita di Maria, e diventa il modello di ogni vero credente, di ogni autentico discepolo di Cristo.
*L’albero della conoscenza del bene e del male. Mi permetto aggiungere qualche riflessione sul valore simbolico di quest’albero spesso confuso con quello della vita. Non è specificato dove si trovi esattamente e già questo ci dice che la sua posizione è irrilevante rispetto al suo ruolo simbolico e allegorico. Il racconto si concentra sulla relazione tra Dio e Adamo ed Eva e tra loro per cui quest’albero funge da test per verificare l’obbedienza degli esseri umani a Dio e invita a capire il perché delle difficoltà esistenti di relazione tra noi esseri umani “uno di fronte all’altro”. Specificare la posizione geografica avrebbe spostato l’attenzione dal tema principale, che è la caduta e il peccato. Molti studiosi e teologi ritengono che l’albero della conoscenza del bene e del male simboleggia la consapevolezza morale, la maturità e la responsabilità umana. L’assenza di una descrizione geografica suggerisce anche che l’albero non è un oggetto fisico, ma un simbolo di una conoscenza che è riservata a Dio e non accessibile direttamente all’uomo. In molte tradizioni ebraiche e cristiane, l’albero è visto come un simbolo di un confine tra il divino e l’umano. Dio non vieta all’uomo l’albero per crudeltà, ma perché il tipo di conoscenza rappresentato da quell’albero — una conoscenza assoluta del bene e del male — prerogativa divina e la sua collocazione indefinita potrebbe suggerire che non si tratta di un luogo fisico raggiungibile dall’essere umano, ma rappresenta una dimensione spirituale che può essere compresa solo attraverso l’esperienza del rapporto con Dio. Ogni persona, in un certo senso, deve affrontare nella propria vita la scelta rappresentata simbolicamente dall’albero della conoscenza del bene e del male. Nella Genesi, accanto all’albero della conoscenza del bene e del male, c’è anche l’albero della vita, anch’esso non descritto geograficamente. Questo suggerisce che entrambi gli alberi rappresentano aspetti della vita spirituale che trascendono la realtà materiale. La loro localizzazione non è importante perché sono archetipi di esperienze spirituali, non oggetti fisici. Tutto qui invita a riflettere non su dove si trovi l’albero, ma su cosa rappresenti nel cammino di crescita spirituale e di confronto con la libertà e la responsabilità umana.
Le interpretazioni che vedono l’albero della conoscenza come simbolo di una realtà trascendente o di un confine tra il divino e l’umano hanno radici profonde nella tradizione esegetica sia antica che moderna. Ecco alcuni esempi di autori e teologi, sia tra i Padri della Chiesa che tra i teologi moderni, che hanno esplorato questo tema:
1. Sant’Agostino di Ippona (354-430 d.C.) interpreta l’albero della conoscenza del bene e del male in modo simbolico, vedendolo non come un semplice albero fisico, ma come un test di obbedienza e libero arbitrio. Nel suo capolavoro “La Città di Dio”, sottolinea che l’albero non aveva un potere intrinseco, ma rappresentava il limite morale imposto da Dio per educare l’uomo alla dipendenza da Lui. Egli vede l’albero come simbolo di una conoscenza che solo Dio può possedere pienamente, in quanto l’uomo non è creato per decidere autonomamente il bene e il male. Opera: De Genesi ad Litteram (Sulla Genesi alla lettera)
“Il frutto dell’albero era buono, non per sua natura, ma come segno di un bene più grande: la sottomissione dell’uomo a Dio.”
2. Tommaso d’Aquino (1225-1274) nella Summa Theologiae, affronta il tema dell’albero della conoscenza e lo interpreta come il simbolo della capacità di discernimento morale che Dio voleva riservare all’uomo nel momento opportuno, dopo aver raggiunto una piena maturità. Secondo Tommaso mangiare il frutto rappresenta una ribellione contro l’ordine divino, cercando di appropriarsi di una conoscenza che l’uomo, da solo, non era pronto a gestire.
Opera: Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 2 “L’albero non era proibito per il suo frutto, ma per il significato morale: l’uomo doveva attendere il tempo di Dio per partecipare alla piena conoscenza.”
3. Gregorio di Nissa (IV secolo d.C.) Padre della Chiesa orientale, interpreta l’albero come simbolo della crescita spirituale e del progresso dell’anima verso la perfezione. Egli vede l’albero della conoscenza come una tappa che l’uomo doveva raggiungere solo in un secondo momento, attraverso un cammino di purificazione e conoscenza progressiva di Dio. Opera: De Hominis Opificio (Sulla creazione dell’uomo) “L’albero della conoscenza non è male di per sé, ma diventa tale quando l’uomo lo approccia con arroganza e disobbedienza, fuori dal tempo stabilito da Dio.”
4. Tra i teologi moderni, l’interpretazione simbolica e trascendente dell’albero è ripresa da autori come: Claus Westermann (1909-2000), esegeta tedesco, nel suo commentario sulla Genesi, sottolinea che l’albero rappresenta l’autonomia morale che l’uomo cerca di conquistare senza Dio. Opera: Genesis (Commentary) “L’albero non è un semplice albero fisico, ma una realtà che rappresenta la scelta fondamentale dell’uomo tra fidarsi di Dio o cercare la propria indipendenza morale.” Henri Blocher (1942), teologo evangelico francese, interpreta l’albero come il simbolo del mistero della sovranità di Dio, una conoscenza che appartiene esclusivamente al Creatore. Opera: In the Beginning: The Opening Chapters of Genesis: “L’albero rappresenta ciò che appartiene esclusivamente a Dio: il diritto di definire ciò che è bene e ciò che è male.”
*Nella tradizione ebraica, l’albero della conoscenza del bene e del male (Etz HaDa’at Tov va-Ra’) ha un significato complesso e ricco di interpretazioni, che spesso differiscono da quelle cristiane. Mentre il cristianesimo si concentra sulla caduta e sul peccato originale, l’ebraismo non considera il peccato di Adamo ed Eva come una colpa ereditaria, ma piuttosto come un evento che offre importanti insegnamenti sull’essere umano, la libertà e la responsabilità morale. Ecco alcune delle principali interpretazioni ebraiche dell’albero della conoscenza:
1. L’Albero come simbolo di maturità e discernimento. Molti rabbini e studiosi ebrei vedono l’albero come simbolo della capacità di discernere tra bene e male, una qualità che Adamo ed Eva acquisiscono mangiandone il frutto. Prima di mangiare dall’albero, essi vivevano in una condizione di innocenza, priva di consapevolezza morale e responsabilità.
Rabbi Samson Raphael Hirsch (1808-1888), uno dei fondatori del moderno ebraismo ortodosso, interpreta l’albero come la capacità di fare scelte morali autonome, una tappa necessaria per l’umanità affinché potesse evolversi da una condizione infantile a una vita di responsabilità. “Il frutto proibito rappresenta la transizione dall’obbedienza infantile a una consapevolezza etica autonoma.”
2. Non il peccato, ma la consapevolezza della mortalità. Alcuni rabbini, tra cui il filosofo Maimonide (Rambam, 1138-1204), sostengono che mangiare dall’albero non ha portato il peccato nel mondo, ma ha dato agli esseri umani la consapevolezza della loro mortalità e della loro condizione imperfetta. Per Maimonide, l’albero rappresenta la conoscenza sensibile e materiale, che contrasta con la conoscenza intellettuale e divina. Opera: Guida dei Perplessi (Moreh Nevukhim): “Prima di mangiare dall’albero, Adamo ed Eva vivevano secondo la verità pura e intellettuale; dopo, iniziarono a percepire il mondo attraverso la lente del desiderio e del piacere sensibile.” In questa visione, l’albero non è necessariamente negativo: rappresenta l’ingresso dell’umanità in una condizione complessa, in cui si mescolano bene e male, vita e morte, piacere e dolore.
3. La conoscenza come responsabilità morale. Nel Midrash (racconti esegetici rabbinici), l’albero è spesso interpretato come una prova attraverso la quale Dio voleva insegnare all’uomo la responsabilità morale. Adamo ed Eva non erano destinati a rimanere per sempre nel Giardino dell’Eden, ma dovevano dimostrare la loro capacità di rispettare i confini stabiliti da Dio. Secondo il Midrash Rabbah sulla Genesi, Dio voleva che l’uomo imparasse a rispettare i limiti e che comprendesse che non tutto gli è accessibile o utile. Il divieto di mangiare dall’albero simboleggia il fatto che la libertà umana è sempre accompagnata da limiti etici. “Non tutto ciò che è desiderabile è buono, e non tutto ciò che è permesso è necessario.”
4. Il frutto dell’albero: simbolismo e interpretazioni. La tradizione ebraica non identifica esplicitamente quale fosse il frutto dell’albero. Tuttavia, esistono diverse interpretazioni rabbiniche sul tipo di frutto: Fico: Alcuni commentatori suggeriscono che fosse un fico, poiché Adamo ed Eva si coprono immediatamente con foglie di fico dopo aver mangiato il frutto (Genesi 3:7). Uva: Secondo un’altra tradizione midrashica, il frutto potrebbe essere stato l’uva, simbolo del desiderio e del vino, che porta sia gioia che sventura. Grano: Alcuni rabbini interpretano il frutto come chicchi di grano, simbolo della conoscenza e della capacità di distinguere tra bene e male, poiché nella cultura ebraica il grano è legato alla saggezza.
5. Il ruolo di Dio e la libertà umana. Nella tradizione ebraica, l’albero della conoscenza è spesso interpretato come un dono che Dio concede agli esseri umani per permettere loro di diventare co-creatori del loro destino. A differenza della tradizione cristiana, che sottolinea il concetto di caduta e peccato, l’ebraismo mette in evidenza l’importanza della libertà di scelta e la possibilità di rettificare le proprie azioni attraverso il pentimento (teshuvah); è quindi considerato come una sfida educativa che porta l’essere umano a crescere in consapevolezza e responsabilità. Autori come Maimonide, Hirsch e il Midrash Rabbah sottolineano che l’essenza del racconto è il tema della libertà morale, della necessità di accettare i limiti imposti da Dio e della possibilità di evoluzione spirituale.
+ Giovanni D’Ercole