Breve Commento Letture [10.11.24]
*Prima lettura 1 Re 17,10-16
Il profeta Elia si trova lontano dalla sua terra, a Sarepta, città della costa fenicia, che all’epoca faceva parte del regno di Sidone e non del regno d’Israele. Siamo nel IX.mo secolo a. c., il re Acab aveva sposato la regina Gezabele (verso l’870), non dunque una figlia d’Israele, ma figlia del re di Sidone per attuare una politica di alleanza, esponendosi però al grave rischio dell’apostasia, perché Gezabele reca con sé usanze, preghiere, statue e i sacerdoti del culto di Baal, dio della fertilità, della pioggia, del fulmine e del vento. Il re Acab, persona molto debole, finisce così per tradire la sua religione e costruisce persino un tempio di Baal. Elia e gli ebrei fedeli provano vergogna per il tradimento della loro fede conoscendo bene il primo comandamento: “Non avrai altri dei all’infuori di me!”, che è l’a. b. c. della fede ebraica: Dio solo è Dio, tutti gli altri idoli non servono a nulla. Elia si oppone a Gezabele e, per provare la falsità degli idoli, subentrando proprio allora una forte siccità in Israele, lancia la sfida: voi ritenete Baal il dio della pioggia, ma io proverò che solo il Dio d’Israele è l’unico vero Dio, padrone di tutto, della pioggia e della siccità. Lo svolgimento di questa sfida avrà luogo, ma l’odierno testo si ferma a questo punto. Avvertito da Dio, Elia profetizza che ci saranno anni di dura siccità e, seguendo un comando divino, si rifugia presso il torrente Kerith, a est del Giordano (1 Re 17, 3-4). La siccità perdura, il torrente si prosciuga e Dio gli ordina di recarsi nella lontana Sarepta dove incontra una povera vedova alla quale, come povero mendicante, domanda “un pezzo di pane”. La donna gli confessa che non ha più pane, perché le resta solo una manciata di farina in una giara con un po’ d’olio in un orcio; raccoglierà due pezzi di legna per preparare una focaccia per lei e il figlio, la mangeranno e poi si prepareranno a morire. Il profeta le ricorda che Dio tutto può e l’invita a preparare per lui un “piccolo pane” e poi condividerà quanto resta con il figlio. Assicura che il Dio d’Israele interverrà: la giara di farina non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà fino al giorno in cui il Signore farà piovere. E così avvenne:”la giara di farina non si esaurì e l’orcio dell’olio non si svuotò”. La storia della vedova di Sarepta è analoga a quella della vedova che, come leggiamo oggi nel vangelo, nel Tempio di Gerusalemme dona a Dio tutti i suoi spiccioli, chiaro esempio di una fede semplice che si priva di tutto a si fida della parola del Dio d’Israele. Chiaro il messaggio: mentre Israele ricade nell’idolatria, una donna vedova straniera e pagana viene gratificata dal Signore per la sua grande fede. C’è inoltre un dettaglio da evidenziare: la vedova ha sentito Dio ordinarle personalmente di provvedere al profeta e questo mostra che la parola di Dio risuona dove e come vuole, anche fra i pagani. A quest’episodio si riferirà Gesù parlando ai suoi compaesani a Nazaret (Lc 4, 25-26). In verità nei testi tardivi dell’Antico Testamento (e il primo libro dei Re ne fa parte), i pagani vengono citati spesso come esempio per indicare che la salvezza è promessa all’intera umanità non essendo riservata solo a Israele. Insomma, Dio è sollecito verso chi si affida a lui e la grande lezione di questo episodio biblico è che la sollecitudine del Signore non tradisce mai chi si fida di lui.
*Salmo 145 (146), 5-6a, 6c-7ab, 8bc-9a, 9b-10
Israele con questo salmo canta la propria storia rendendo grazie a Dio per la sua protezione costante. “Oppressi, afflitti, affamati”, il popolo ha conosciuto l’oppressione in Egitto dalla quale fu liberato “con mano forte e braccio teso” come più tardi avverrà dalla deportazione a Babilonia e questo salmo fu scritto proprio al ritorno dall’esilio da Babilonia, forse per la dedicazione del Tempio restaurato dopo la sua distruzione del 587 a.C. dalle truppe del re di Babilonia, Nabucodonosor. in effetti, cinquant’anni dopo (nel 538 a.C.), Ciro, re di Persia, sconfisse Babilonia, autorizzò gli ebrei a rientrare in patria e a ricostruire il Tempio la cui dedicazione venne celebrata con gioia e fervore come leggiamo nel libro di Esdra: “I figli di Israele, i sacerdoti, i leviti e il resto dei deportati fecero con gioia la dedicazione di questa Casa di Dio” (Esd 6, 16). Un salmo dunque intriso della gioia del ritorno in patria perché, ancora una volta, Dio ha mostrato fedeltà all’Alleanza con il suo popolo del quale è il padre, il vendicatore, il suo “redentore”. Rileggendo la propria storia, Israele può testimoniare che Dio l’ha sempre accompagnato nella sua lotta per la libertà: “Il SIGNORE fa giustizia agli oppressi, rialza gli afflitti”. Israele ha conosciuto la fame, nel deserto, durante l’Esodo e Dio ha mandato la manna e le quaglie per il suo cibo: “Agli affamati dà il pane” e solo dopo ha compreso che Dio sempre riscatta gli afflitti, guarisce i malati, solleva i piccoli e gli emarginati, apre gli occhi ai ciechi e si rivela progressivamente, tramite i suoi profeti, al suo popolo che lo cerca: “Dio ama i giusti”. In questo canto si noti l’insistenza sul nome “Signore” che qui traduce il famoso NOME di Dio rivelato a Mosè sul Sinai, nel roveto ardente: sono le quattro consonanti YHVH (due inspirate e due ispirate) che indicano la presenza permanente, attiva, liberante di Dio nella vita del suo popolo (Es.3, 13-15). Inoltre nella Bibbia l’espressione “il tuo Dio” è un richiamo all’Alleanza con il popolo eletto: Alleanza alla quale il Signore non è mai venuto meno e la preghiera di Israele è rivolta al futuro per cui quando evoca il passato è per rafforzare la sua attesa e la speranza. Dio comunicò il suo nome a Mosè sul Sinai in due modi. Anzitutto con le impronunciabili quattro consonanti, YHVH, che ritroviamo spesso nella Bibbia, in particolare in questo salmo e che si traduce con “il Signore”. Esiste però una formula più elaborata, “Ehiè asher ehiè” che in italiano si rende sia con “Io sono chi sono”, oppure “Io sarò chi sarò”, un modo di esprimere l’eterna presenza di Dio accanto al suo popolo. L’insistenza sul futuro, “per sempre” rafforza l’impegno del popolo che, con questo salmo, non solo riconosce l’opera di Dio a favore d’Israele, ma vuole darsi una linea di condotta: se Dio ha agito così verso noi, dobbiamo a nostra volta fare altrettanto, diventando i primi testimoni dell’amore che il Signore nutre per i poveri e gli esclusi, amore che, attraverso Israele, intende diffondere al mondo intero. La Legge di Mosè e dei Profeti fu scritta per educare il popolo a conformarsi progressivamente alla misericordia di Dio e, per tale ragione, prevedeva numerose regole di protezione per le vedove, gli orfani, gli stranieri volendo fare di Israele un popolo libero e rispettoso della libertà altrui. Infine, i richiami dei profeti si concentrano su due punti (che forse ci sorprendono): una lotta accanita contro l’idolatria, (come fece Elia) e gli appelli alla giustizia e alla cura per gli altri, fino ad arrivare a far dire a Dio: “È la misericordia che voglio, non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olocausti” (Os 6, 6); o ancora: “Ti è stato detto, o uomo, ciò che è bene, ciò che il Signore esige da te: nient’altro che rispettare il diritto, amare la fedeltà e camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6, 8). Leggiamo infine nel libro di Ben Sira: “Le lacrime della vedova scorrono sulle guance di Dio” (Si 35, 18). Per Israele le lacrime di tutti coloro che soffrono scorrono sulle guance di Dio…e se siamo vicini a Dio, dovrebbero scorrere anche sulle nostre guance!
*Seconda Lettura Ebr. 9, 24-28
L’autore della lettera agli Ebrei, che ci accompagna da qualche domenica, si rivolge a cristiani di origine ebraica che forse provano nostalgia per l’antico culto mentre nella pratica cristiana non ci sono più templi né sacrifici cruenti. L’autore, volendo provare che tutto ormai è superato, riprende una per una le realtà e le pratiche della religione ebraica. Parla soprattutto del Tempio, definito il “santuario” e precisa che una cosa è il vero santuario, nel quale Dio risiede, cioè il cielo stesso, altro è il tempio costruito dagli uomini che del vero santuario è solo pallida copia. Gli ebrei erano particolarmente fieri, a ragione, del magnifico Tempio di Gerusalemme, ma non dimenticavano che ogni costruzione umana resta umana e quindi, debole, imperfetta, peritura. Inoltre, nessuno in Israele pretendeva di racchiudere la presenza di Dio in un tempio, per quanto immenso, come già il primo costruttore del Tempio di Gerusalemme, il re Salomone affermava: “Davvero Dio potrebbe abitare sulla terra? I cieli stessi e i cieli dei cieli non possono contenerti! Quanto meno questa Casa che ho costruito.” (1 Re 8,27). Per i cristiani, il vero Tempio, il luogo dove si incontra Dio, non è un edificio perché l’Incarnazione di Cristo ha cambiato tutto: ora il luogo di incontro tra Dio e l’uomo è Gesù Cristo, il Dio fatto uomo. L’evangelista Giovanni narra che Gesù si è permesso di cacciare dall’area del Tempio i cambiavalute e i mercanti di bestiame per i sacrifici spiegando poi: “Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo risusciterò” e i discepoli capirono, dopo la Risurrezione, che il Il Tempio di cui parlava era il suo corpo. (Cf. Gv 2,13-21). Nel brano odierno della Lettera agli Ebrei si dice la stessa cosa: rimaniamo innestati in Gesù Cristo, nutriamoci del suo corpo, così siamo messi alla presenza di Dio in nostro favore. Con la sua morte Cristo evidenzia il ruolo centrale della croce nel mistero cristiano e poco più avanti (Eb 10), l’autore preciserà che la morte di Cristo è solo il culmine di una vita interamente offerta e che quando si parla del suo sacrificio, bisogna intendere “l’atto sacro che fu tutta la sua vita” e non solo le ore della sua Passione. Per il momento, il testo che abbiamo davanti agli occhi parla della Passione di Cristo e del suo sacrificio, senza ulteriori dettagli. Oppone il sacrificio di Cristo a quello offerto dal sommo sacerdote di Israele, nel giorno di Yom Kippur (“Giorno del Perdono”) quando il sommo sacerdote, entrato da solo nel Santo dei Santi, pronunciava il Nome sacro (YHVH) e spargeva il sangue di un toro (per i propri peccati) e quello di un capro (per i peccati del popolo), rinnovando solennemente l’Alleanza con Dio. All’uscita del sommo sacerdote dal Santo dei Santi, il popolo, raccolto fuori, sapeva che i suoi peccati erano perdonati. Ma questo rinnovamento dell’Alleanza era precario, e si doveva ripetere ogni anno, invece l’Alleanza che Gesù Cristo ha concluso con il Padre in nostro nome è perfetta e definitiva: sul Volto di Cristo in croce, i credenti scoprono il vero Volto di Dio che ama i suoi fino alla fine. Ormai non possiamo più ingannarci; Dio è Padre nostro perché Padre di Gesù e nel Cristo possiamo vivere nell’Alleanza che Dio ci propone: la Nuova Alleanza in Cristo e non c’è più spazio per la paura del giudizio di Dio perché professando “Gesù ritornerà per giudicare i vivi e i morti” (nel nostro Credo), proclamiamo che il termine “giudizio” è sinonimo di salvezza: “il Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, non più per il peccato, ma per la salvezza di coloro che lo attendono” ed è giusto affermare che Gesù Cristo è “il sommo sacerdote della felicità che viene”, come l’autore afferma nel cap. 9,11, testo che si proclama nella festa del Corpo e del Sangue di Cristo, nell’anno B.
*Vangelo Marco 12, 38-44
“Guardatevi dagli scribi…” Siamo alla conclusione del 12mo capitolo e ci avviamo verso la fine del vangelo di Marco, con il racconto della Passione e Resurrezione di Cristo. Gesù dispensa gli ultimi consigli agli apostoli: ha già detto loro di aver fede in Dio e “tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà” (11, 22-24). Aggiungerà poi: “Badate che nessuno vi inganni” (13,5), mentre ora esorta a stare attenti agli scribi (12,38) utilizzando il linguaggio dei profeti per stigmatizzare alcune loro attitudini senza che questo significhi una totale condanna del loro operato. All’epoca gli scribi erano molto considerati perché commentavano e interpretavano la Scrittura e predicavano, sedevano nel Sinedrio, il tribunale permanente di Gerusalemme che si riuniva nei locali del Tempio due volte a settimana; si tratta dunque di laici che avevano frequentato lo studio della Legge di Mosè in scuole specializzate, diventando esperti e alcuni tra loro venivano chiamati “dottori della legge” per cui rispettando loro si rispettava la Legge stessa. Tanto rispetto faceva montare la testa ad alcuni che esigevano i primi posti nelle sinagoghe, dando le spalle alle Tavole della Legge e rivolti verso pubblico. Nell’odierno vangelo Gesù rende omaggio allo scriba che aveva risposto saggiamente: “Non sei lontano dal Regno di Dio.” (12,34), ma aggiunge una critica più generale reagendo all’ostilità che alcuni scribi, fin dall’inizio della sua vita pubblica, gli hanno mostrato invidia e gelosia. Appare chiara nel vangelo di Marco una crescente sfiducia di Cristo nei loro confronti dato che la loro gelosia diventa odio fino a progettare di uccidere Gesù dopo la cacciata dei mercanti dal Tempio. I capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani lo assediano mentre cammina nel Tempio chiedendogli con quale autorità insegni e compia i miracoli (11,27-28) e vedremo durante la passione lo stesso Pilato rendersene conto, come annota san Marco: “Pilato sapeva che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia” (15,10). Gesù però non si lascia impressionare dal loro odio e rimprovera loro qualcosa di molto più grave e cioè che sfruttano la loro posizione esigendo di essere pagati dalle povere vedove quando queste domandano consigli giuridici: “divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa” (12,40). E’ a questo punto che appare una povera vedova (12, 42-43) in totale indigenza (12,44) perché, non avendo diritto all’eredità del marito, dipendeva dalla carità pubblica. Essa si avvicina per deporre due spiccioli e Gesù la indica come esempio ai discepoli: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno offerto del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quanto aveva per vivere” (12, 43-44). L’evangelista non fa commenti, ma si capisce che la fiducia della vedova sarà ricompensata. Naturale il parallelo con la vedova di Sarepta: come lei offrì ad Elia le sue ultime provviste, questa vedova depone tutti i suoi risparmi nel Tempio spogliandosi di tutto. Gesù invita a rifiutare il modello dell’ostentazione di alcuni scribi con la sete di onori e privilegi, ed esorta a imitare la generosità, umile e discreta, della “vedova povera” che lascia tutto ciò che ha nel Tempio. Diversi Padri della Chiesa l’hanno interpretato come un potente simbolo di fede umile e generosa e di carità autentica, non perché dona molto ma perché offre tutto ciò che ha per vivere, fidandosi di Dio. Questo racconto, oltre ad essere una lezione di carità e fiducia, è pure un richiamo all’autentica giustizia sociale, dove l’amore per Dio deve tradursi sempre in attenzione, aiuto e amore ai bisognosi.