Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Cari fratelli e sorelle!
La liturgia […] ci presenta una delle icone più belle che, sin dai primi secoli della Chiesa, hanno raffigurato il Signore Gesù: quella del Buon Pastore. Il Vangelo di san Giovanni, al capitolo decimo, ci descrive i tratti peculiari del rapporto tra Cristo Pastore e il suo gregge, un rapporto talmente stretto che nessuno potrà mai rapire le pecore dalla sua mano. Esse, infatti, sono unite a Lui da un vincolo d’amore e di reciproca conoscenza, che garantisce loro il dono incommensurabile della vita eterna. Nello stesso tempo, l’atteggiamento del gregge verso il Buon Pastore, Cristo, è presentato dall’Evangelista con due verbi specifici: ascoltare e seguire. Questi termini designano le caratteristiche fondamentali di coloro che vivono la sequela del Signore. Innanzitutto l’ascolto della sua Parola, dal quale nasce e si alimenta la fede. Solo chi è attento alla voce del Signore è in grado di valutare nella propria coscienza le giuste decisioni per agire secondo Dio. Dall’ascolto deriva, quindi, il seguire Gesù: si agisce da discepoli dopo aver ascoltato e accolto interiormente gli insegnamenti del Maestro, per viverli quotidianamente.
[Papa Benedetto, Regina Coeli 15 maggio 2011]
1. "Hodie natus est nobis Salvator mundi" (Salmo resp.)
Da venti secoli prorompe dal cuore della Chiesa questo annuncio gioioso. In questa Notte Santa, l'Angelo lo ripete a noi, uomini e donne di fine millennio: "Non temete, ecco, vi annunzio una grande gioia . . . Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore" (Lc 2, 10-11). Ci siamo preparati ad accogliere queste parole consolanti durante il tempo d'Avvento: in esse si attualizza l'"oggi" della nostra redenzione.
In quest'ora, l'"oggi" risuona con un timbro singolare: non è solo il ricordo della nascita del Redentore, è l'inizio solenne del Grande Giubileo. Ci ricolleghiamo spiritualmente a quel singolare momento della storia, nel quale Dio si è fatto uomo, rivestendosi della nostra carne.
Sì, il Figlio di Dio, della stessa sostanza del Padre, Dio da Dio e Luce da Luce, eternamente generato dal Padre, ha preso corpo dalla Vergine ed ha assunto la nostra natura umana. E' nato nel tempo. Dio è entrato nella storia. L'incomparabile "oggi" eterno di Dio si è fatto presenza nelle quotidiane vicende dell'uomo.
2. "Hodie natus est nobis Salvator mundi" (cfr Lc 2, 10-11).
Ci prostriamo dinanzi al Figlio di Dio. Ci uniamo spiritualmente allo stupore di Maria e di Giuseppe. Adorando Cristo, nato in una grotta, facciamo nostra la fede colma di sorpresa dei pastori di allora; sperimentiamo la loro stessa meraviglia e la loro stessa gioia.
E' difficile non arrendersi all'eloquenza di quest'evento: rimaniamo incantati. Siamo testimoni dell'istante dell'amore che unisce l'eterno alla storia: l'"oggi" che apre il tempo del giubilo e della speranza, perché "ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità" (Is 9, 5), come leggiamo nel testo di Isaia.
Ai piedi del Verbo incarnato deponiamo gioie e apprensioni, lacrime e speranze. Solo in Cristo, uomo nuovo, il mistero dell'essere umano trova vera luce.
Con l'apostolo Paolo, meditiamo che a Betlemme "è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini" (Tt 2, 11). Per questa ragione, nella notte di Natale risuonano canti di gioia in ogni angolo della terra ed in tutte le lingue.
3. Questa notte, davanti ai nostri occhi si compie ciò che il Vangelo proclama: "Dio... ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui... abbia la vita" (Gv 3, 16).
Il suo Figlio unigenito!
Tu, o Cristo, sei il Figlio unigenito del Dio vivente, venuto nella grotta di Betlemme! Dopo duemila anni, riviviamo questo mistero come un evento unico e irripetibile. Tra tanti figli di uomini, tra tanti bambini venuti al mondo durante questi secoli, soltanto Tu sei il Figlio di Dio: la tua nascita ha cambiato, in modo ineffabile, il corso degli eventi umani.
Ecco la verità che in questa notte la Chiesa vuole trasmettere al terzo millennio. E voi tutti, che verrete dopo di noi, vogliate accogliere questa verità, che ha mutato totalmente la storia. Dalla notte di Betlemme, l'umanità è consapevole che Dio si è fatto Uomo: si è fatto Uomo per rendere l'uomo partecipe della sua natura divina.
4. Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente! Sulla soglia del terzo millennio, la Chiesa Ti saluta, Figlio di Dio, che sei venuto al mondo per sconfiggere la morte. Sei venuto ad illuminare la vita umana mediante il Vangelo. La Chiesa Ti saluta e insieme con Te vuole entrare nel terzo millennio. Tu sei la nostra speranza. Tu solo hai parole di vita eterna.
Tu, che sei venuto al mondo nella notte di Betlemme, resta con noi!
Tu, che sei la Via, la Verità e la Vita, guidaci!
Tu, che sei venuto dal Padre, portaci a lui nello Spirito Santo, sulla via che soltanto Tu conosci e che ci hai rivelato perché avessimo la vita e l'avessimo in abbondanza.
Tu, Cristo, Figlio del Dio vivente, sii per noi la Porta!
Sii per noi la vera Porta simboleggiata da quella che in questa Notte solennemente abbiamo aperto!
Sii per noi la Porta che ci introduce nel mistero del Padre. Fa' che nessuno resti escluso dal suo abbraccio di misericordia e di pace!
"Hodie natus est nobis Salvator mundi": è Cristo l'unico nostro Salvatore! Questo è il messaggio del Natale 1999: l'"oggi" di questa Notte Santa dà inizio al Grande Giubileo.
Maria, aurora dei tempi nuovi, sii accanto a noi, mentre fiduciosi compiamo i primi passi dell'Anno Giubilare.
Amen!
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 24 dicembre 1999]
L'umile simbolo di una porta che si apre reca in sé una straordinaria ricchezza di significato: proclama a tutti che Gesù Cristo è Via, Verità e Vita (Gv 14,6). Lo è per ogni essere umano. Questo annuncio arriverà con forza tanto maggiore quanto più saremo uniti, facendoci riconoscere come discepoli di Cristo nell'amarci reciprocamente come Lui ci ha amati (cfr Gv 13,35; 15,12). Opportunamente il Concilio Vaticano II, ha ricordato che la divisione contraddice apertamente la volontà di Cristo, è di scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo a ogni creatura (Unitatis redintegratio, n. 1).
3.L'unità voluta da Gesù per i suoi discepoli è partecipazione all'unità che Egli ha col Padre e che il Padre ha con Lui: "Come tu Padre sei in me e io in te", egli ha detto nell'Ultima Cena, "siano anch'essi in noi una cosa sola" (Gv 17,21). Di conseguenza, la Chiesa, "popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (S. Cipriano, De Dom. orat., 23), non può non guardare costantemente a quel supremo modello e principio dell'unità che rifulge nel Mistero trinitario.
Padre e Figlio con lo Spirito Santo sono una cosa sola nella diversità delle persone. La fede ci insegna che, per opera dello Spirito, il Figlio si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo (Credo). Alla porte di Damasco, Paolo sperimenta in modo singolarissimo, in virtù dello Spirito, il Cristo incarnato, crocifisso e risorto e diventa l'apostolo di Colui "che spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e diventando simile agli uomini" (Fil 2,7).
Quando egli scrive: "noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo", intende esprimere la sua fede nell'incarnazione del Figlio di Dio e rivelare la peculiare analogia del corpo di Cristo: l'analogia tra il corpo del Dio-uomo, un corpo fisico, che si è fatto soggetto della nostra redenzione, e il suo corpo mistico e sociale, che è la Chiesa. Cristo vive in essa rendendosi presente, mediante lo Spirito Santo, in quanti formano in Lui un corpo solo.
4.Può un corpo essere diviso? Può la Chiesa, Corpo di Cristo, essere divisa? Sin dai primi Concili, i cristiani hanno professato insieme la Chiesa "una, santa, cattolica e apostolica". Essi sanno con Paolo che uno solo è il corpo, uno solo è lo Spirito, una sola è la speranza alla quale sono stati chiamati: "Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti" (Ef 4,4-5).
Rispetto a questo mistero di unità, che è dono dall'alto, le divisioni presentano un carattere storico che testimonia le debolezze umane dei cristiani. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto che esse sono sorte "talora non senza colpa di uomini di entrambe le parti" (Unitatis redintegratio, n.3). In questo anno di grazia, deve crescere in ciascuno di noi la consapevolezza della propria personale responsabilità nelle fratture che segnano la storia del Corpo mistico di Cristo. Tale consapevolezza è indispensabile per progredire verso quella meta che il Concilio ha qualificato come unitatis redintegratio, la ricomposizione della nostra unità.
Ma il ristabilimento dell'unità non è possibile senza interiore conversione, perché il desiderio dell'unità nasce e matura dal rinnovamento della mente, dall'amore della verità, dall'abnegazione di se stessi e dalla libera effusione della carità. Ecco: la conversione del cuore e la santità della vita, la preghiera personale e comunitaria per l'unità, sono il nucleo da cui il movimento ecumenico trae la sua forza e la sua sostanza.
L'aspirazione all'unità va di pari passo con una profonda capacità di "sacrificio" di ciò che è personale, per disporre l'animo ad una sempre maggiore fedeltà al Vangelo. Predisporci al sacrificio dell'unità significa mutare il nostro sguardo, dilatare il nostro orizzonte, saper riconoscere l'azione dello Spirito Santo che opera nei nostri fratelli, scoprire volti nuovi di santità, aprirci ad aspetti inediti dell'impegno cristiano.
Se, sostenuti dalla preghiera, sapremo rinnovare la nostra mente ed il nostro cuore, il dialogo in atto tra noi finirà per superare i limiti di uno scambio di idee e diventerà scambio di doni, si farà dialogo della carità e della verità, sfidandoci e sollecitandoci ad andare avanti, fino a poter offrire a Dio "il sacrificio più grande" quello della nostra pace e della nostra fraterna concordia (cfr S. Cipriano, De Dom. orat., 23).
[Papa Giovanni Paolo II, omelia a s. Paolo 18 gennaio 2000]
Gesù si presenta con due immagini che si completano a vicenda. L’immagine del pastore e l’immagine della porta dell’ovile. Il gregge, che siamo tutti noi, ha come abitazione un ovile che serve da rifugio, dove le pecore dimorano e riposano dopo le fatiche del cammino. E l’ovile ha un recinto con una porta, dove sta un guardiano. Al gregge si avvicinano diverse persone: c’è chi entra nel recinto passando dalla porta e chi «vi sale da un’altra parte» (v. 1). Il primo è il pastore, il secondo un estraneo, che non ama le pecore, vuole entrare per altri interessi. Gesù si identifica col primo e manifesta un rapporto di familiarità con le pecore, espresso attraverso la voce, con cui le chiama e che esse riconoscono e seguono (cfr v. 3). Lui le chiama per condurle fuori, ai pascoli erbosi dove trovano buon nutrimento.
La seconda immagine con cui Gesù si presenta è quella della «porta delle pecore» (v. 7). Infatti dice: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato» (v. 9), cioè avrà la vita e l’avrà in abbondanza (cfr v. 10). Cristo, Buon Pastore, è diventato la porta della salvezza dell’umanità, perché ha offerto la vita per le sue pecore.
Gesù, pastore buono e porta delle pecore, è un capo la cui autorità si esprime nel servizio, un capo che per comandare dona la vita e non chiede ad altri di sacrificarla. Di un capo così ci si può fidare, come le pecore che ascoltano la voce del loro pastore perché sanno che con lui si va a pascoli buoni e abbondanti. Basta un segnale, un richiamo ed esse seguono, obbediscono, si incamminano guidate dalla voce di colui che sentono come presenza amica, forte e dolce insieme, che indirizza, protegge, consola e medica.
Così è Cristo per noi. C’è una dimensione dell’esperienza cristiana che forse lasciamo un po’ in ombra: la dimensione spirituale e affettiva. Il sentirci legati da un vincolo speciale al Signore come le pecore al loro pastore. A volte razionalizziamo troppo la fede e rischiamo di perdere la percezione del timbro di quella voce, della voce di Gesù buon pastore, che stimola e affascina. Come è capitato ai due discepoli di Emmaus, cui ardeva il cuore mentre il Risorto parlava lungo la via. È la meravigliosa esperienza di sentirsi amati da Gesù. Fatevi la domanda: “Io mi sento amato da Gesù? Io mi sento amata da Gesù?”. Per Lui non siamo mai degli estranei, ma amici e fratelli. Eppure non è sempre facile distinguere la voce del pastore buono. State attenti. C’è sempre il rischio di essere distratti dal frastuono di tante altre voci. Oggi siamo invitati a non lasciarci distogliere dalle false sapienze di questo mondo, ma a seguire Gesù, il Risorto, come unica guida sicura che dà senso alla nostra vita.
[Papa Francesco, Regina Coeli 7 maggio 2017]
Lo vedi nel pastore, quando espone la sua vita
(Gv 10,1-10.11-18.27-30)
Siamo abituati a immaginare Gesù come Pastore attorniato dal gregge con una pecorella sorretta sulle spalle o tra le braccia. Tale la riproduzione della parabola di Lc 15 e Mt 18.
In alternativa ai sinottici, il quarto Vangelo parla del tratto distintivo di Gesù quale Pastore vero, prendendo spunto dal carattere audace di Davide nell’episodio riportato da 1Sam 17,32-36:
«Davide disse a Saul: "Nessuno si perda d’animo a causa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo Filisteo". Saul rispose a Davide: "Tu non puoi andare contro questo Filisteo a combattere con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d’armi fin dalla sua adolescenza". Ma Davide disse a Saul: "Il tuo servo pascolava il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la pecora dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l’afferravo per le mascelle, l’abbattevo e lo uccidevo. Il tuo servo ha abbattuto il leone e l’orso».
Il «Pastore quello Bello» [nel senso orientale di affascinante ma pure autentico, vero e giusto, forte e ardito] di Gv 10 non accarezza il gregge. «Non sta a pettinare le pecore!».
È piuttosto la guida e il protettore che non solo sfida le intemperie, ma soprattutto non teme gli animali feroci, che vogliono profittare anche di una sola pecorella.
Nelle scorse domeniche i Vangeli hanno messo in evidenza come anche oggi possiamo vedere il Risorto.
Nell’episodio di Tommaso, in che modo si manifesta nella comunità riunita per il culto; la settimana scorsa, come percepirlo in giorno feriale e negli ambienti ordinari dove si svolge la vita quotidiana.
Oggi possiamo notare come il Risorto si riveli in un «pastore» in carne e ossa, che decide di non fare il ninnolo da salotto - e di non scodinzolare se arriva qualche prepotente o finto padrone.
S. Agostino scrive: «Tu uomo devi riconoscere che cosa eri, dove eri, a chi eri sottoposto [...] eri affidato a un mercenario che al sopraggiungere del lupo non ti proteggeva [...] Questo pastore non è come il mercenario sotto il quale stavi quando ti travagliava la tua miseria e tu dovevi temere il lupo».
Notizia Lieta del tempo di Pasqua è che la nostra vita da salvati viene assicurata dalla decisa intrepidezza di fratelli che al pari di Gesù (solo qui simile a Davide) non temono di lottare, sino ad esporre se stessi per tutelare i senza-voce del gregge.
Pastore autentico è colui che ha fegato di fronteggiare sia falsari che predoni, per strappare i disorientati e indifesi dai loro artigli.
La sua credibilità si riconosce fin dalla Voce decisa, che non si lascia tacitare dai ricatti. Non si lascia mettere paura dagli smaliziati, né a cuccia per la scarsa presa sociale.
La sua Parola-evento prolunga l’attività creatrice del Padre, che restituisce vita, arricchisce la vita, rallegra la vita dei figli.
Questa la sua Bellezza, ossia la sua pienezza d’Amore che permane, colmandoci di senso - nel tempo della transumanza e nel cambiamento di stagione.
«Il Pastore, quello bello, dà la propria vita per le pecore» (v.11): Egli ha uno stile che capovolge la catena di comando.
In tal guisa, il Maestro non ha mai invitato nessuno [neppure fra gli apostoli] a fare il “pastore”, ossia colui che dirige e comanda il gregge.
I suoi intimi sono chiamati a essere «pescatori di uomini». Interessati alla realtà delle persone.
Non “direttori”, bensì mettersi a servizio della vita e della libertà di coloro che sono purtroppo invischiati in abissi soffocanti, pericolosi gorghi di morte.
Il di più della Fede?
Lo spunto e la freschezza di chi espone la propria vita senza retrocedere, per difendere gli innocenti, ultimi arrivati.
Nessun dirigismo.
[4.a Domenica di Pasqua, del Pastore Bello, 11 maggio 2025]
Ci sono prove che vive: lo vedi nel Pastore
(Gv 10:1-10. 10:11-18 10:27-30)
La regola religiosa sviluppava l’idea che la Torah potesse pulire la mente dagli errori, e l’inclinazione delle persone dalle impurità - onde cesellare un popolo gradito a Dio.
Tutto ciò che turbava l’equilibrio prescritto andava subito condannato e punito, in quanto deleterio per la stabilità fissata, la coesione di massa, la sua stessa efficienza.
La completa configurazione della proposta pia indiscutibile e la stessa magnificenza delle strutture del culto ufficiale garantivano l’eloquenza e l’imperturbabilità dei condizionamenti [sui disadattati].
Insicurezze e dubbi venivano immediatamente bollati come fattori di disturbo del panorama rassicurante, da reprimere sin dall’adolescenza.
Il nuovo Rabbi invece non voleva sterilizzare emozioni o situazioni. Il mondo interiore e le inquietudini non andavano affatto tacitate, bensì incontrate e conosciute.
Del resto, guardandosi attorno si accorgeva (come noi oggi) che proprio nelle persone manierate, osservanti o ‘trasgressive’, portabandiera dell’etica o degli eventi, che reprimevano i moti spontanei o si concedevano alle mode… aumentavano sotterfugi, egoismi celati, grettezza, disturbi.
Proprio coloro che affrontavano la via spirituale moltiplicando dirigismi, eticismi, attivismi, e controllo, diventavano esageratamente conflittuali, e segretamente inaffidabili.
Gravato di norme soffocanti, il popolo pur ingenuo era ridotto all’infelicità; tutti sentivano inquietudine e arsura - proprio perché l’ossessione di peccato o di mancata performance impediva l’integrazione dei desideri.
Tutto ciò che doveva essere ridotto e annientato per ragioni di conformità sociale e votata, finiva per penetrare nelle anime in maniera più intima, riaffiorando qua e là in modo paradossale, con doppiezza e squilibri - questi sì - gravissimi.
Gesù autentica Guida era invece «amico di pubblicani e peccatori» nel senso che insegnava ad allargare l’armonia dell’essere creaturale, e imparare a guardare senza pregiudizio; fare tesoro di varie esperienze, perfino opposte: di tutto quanto emerge anche nell’intimo.
La perfezione che predicava era nell’imperfezione e nella irrazionalità dell’amore - che ovunque raggranella perle di esperienza da ogni dove.
Anzi, secondo il Pastore vero era importante proprio essere turbati, invece che impassibili o sicuri: per imparare nel tempo a dare senso anche ai segni che preoccupano la mentalità conformista o à la page - così completarci.
Il Maestro e Amico autentico sa che - imparando ad accogliere, non a stabilire - solo quanto tocca, coinvolge e turba in prima persona riuscirà a farci spostare lo sguardo, per crescere e fare esodo verso pascoli ubertosi; la terra della libertà, anche di relazione.
In un discorso dell’aprile ‘68 Paolo VI si chiedeva:
«Chi è Gesù? Gesù è il Buon Pastore. Siamo invitati dallo stesso Signore a pensarlo così: una figura estremamente amabile, dolce, vicina. Presentandosi in tale aspetto, egli ripete l’invito del pastore: disegna cioè un rapporto che sa di tenerezza e di prodigio. Conosce le sue pecorelle, e le chiama per nome. Poiché noi siamo del suo gregge Egli ci conosce e ci nomina; si avvicina a ciascuno di noi e desidera farci pervenire a una relazione affettuosa, filiale con lui. La bontà del Signore si palesa qui in maniera sublime, ineffabile».
In una udienza generale del marzo ‘75 il Pontefice stimolava a «dare una tonalità di coraggio alla vita cristiana, privata e pubblica, per non diventare insignificanti sul piano spirituale e persino complici del crollo. La croce è sempre innalzata davanti a noi: essa ci chiama al vigore».
Il Vescovo di Roma intendeva sollecitarci a non vivere di mediazioni e concordismi.
Malgrado le apparenze, è questa seconda citazione la più pertinente a descrivere il carattere della liturgia della Parola nella quarta Domenica di Pasqua; vediamo perché.
Siamo abituati a immaginare Gesù come Pastore attorniato dal gregge con una pecorella sorretta sulle spalle o tra le braccia. Tale la riproduzione della parabola di Lc 15 e Mt 18.
In alternativa ai sinottici, il quarto Vangelo parla del tratto distintivo di Gesù quale Pastore vero, prendendo spunto dal carattere audace di Davide nell’episodio riportato da 1Sam 17,32-36:
«Davide disse a Saul: "Nessuno si perda d’animo a causa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo Filisteo". Saul rispose a Davide: "Tu non puoi andare contro questo Filisteo a combattere con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d’armi fin dalla sua adolescenza". Ma Davide disse a Saul: "Il tuo servo pascolava il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la pecora dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l’afferravo per le mascelle, l’abbattevo e lo uccidevo. Il tuo servo ha abbattuto il leone e l’orso».
Il «Pastore quello Bello» [nel senso orientale di affascinante ma pure autentico, vero e giusto, forte e ardito] di Gv 10 non accarezza il gregge. Come direbbe Papa Francesco: «Non sta a pettinare le pecore!».
È piuttosto la guida e il protettore che non solo sfida le intemperie, ma soprattutto non teme gli animali feroci, che vogliono profittare anche di una sola pecorella.
Non mette la coda fra le gambe davanti alle bestie, e nel caso strappa le prede dalle fauci delle bande di lupi [a volte travestiti da agnellini e uomini di Dio; gente pericolosissima, spacciatori d’illusione].
Nelle scorse domeniche i Vangeli hanno messo in evidenza come anche oggi possiamo vedere il Risorto.
Nell’episodio di Tommaso, in che modo si manifesta nella comunità riunita per il culto; la settimana scorsa, come percepirlo in giorno feriale e negli ambienti ordinari dove si svolge la vita quotidiana.
Oggi possiamo notare come il Risorto si riveli in un «pastore» in carne e ossa, che decide di non fare il ninnolo da salotto - e di non scodinzolare se arriva qualche prepotente o finto padrone.
S. Agostino scrive: «Tu uomo devi riconoscere che cosa eri, dove eri, a chi eri sottoposto [...] eri affidato a un mercenario che al sopraggiungere del lupo non ti proteggeva [...] Questo pastore non è come il mercenario sotto il quale stavi quando ti travagliava la tua miseria e tu dovevi temere il lupo».
Notizia Lieta del tempo di Pasqua è che la nostra vita da salvati viene assicurata dalla decisa intrepidezza di fratelli che al pari di Gesù (solo qui simile a Davide) non temono di lottare, sino ad esporre se stessi per tutelare i senza-voce del gregge.
Pastore autentico è colui che ha fegato di fronteggiare sia falsari che predoni, per strappare i disorientati e indifesi dai loro artigli.
La sua credibilità si riconosce fin dalla Voce decisa, che non si lascia tacitare dai ricatti. Non si lascia mettere paura dagli smaliziati, né a cuccia per la scarsa presa sociale.
La sua Parola-evento prolunga l’attività creatrice del Padre, che restituisce vita, arricchisce la vita, rallegra la vita dei figli.
Questa la sua Bellezza, ossia la sua pienezza d’Amore che permane, colmandoci di senso - nel tempo della transumanza e nel cambiamento di stagione.
«Il Pastore, quello bello, dà la propria vita per le pecore» (v.11): Egli ha uno stile che capovolge la catena di comando.
In tal guisa, il Maestro non ha mai invitato nessuno [neppure fra gli apostoli] a fare il “pastore”, ossia colui che dirige e comanda il gregge.
I suoi intimi sono chiamati a essere «pescatori di uomini». Interessati alla realtà delle persone.
Non “direttori”, bensì mettersi a servizio della vita e della libertà di coloro che sono purtroppo invischiati in abissi soffocanti, pericolosi gorghi di morte.
L’ovile dei pastori di Palestina era un recinto di pietre a secco, sopra le quali venivano lasciati crescere rovi o posti fasci di spine, per impedire lo scavalcamento, sia delle pecore che dei ladri.
Il muretto poteva delimitare uno spazio davanti a una casa, o nel caso di permanenze all’aperto, lungo un pendio. In tale fattispecie poteva essere rifugio notturno di vari greggi e più pastori.
Uno di essi vegliava a turno, ponendosi all’entrata del recinto, sbarrando l’accesso - come fosse una porta. Stava lì armato di bastone reso più efficace da schegge di pietra conficcati.
Al mattino ogni gregge si ricompattava spontaneamente alla sola voce del proprio pastore, che - per il fatto di passare molto tempo insieme in luoghi isolati - veniva immediatamente riconosciuta.
Le pecore lo seguivano, sicure di essere guidate a pascoli e oasi: ogni giorno ne facevano esperienza.
Il ‘pastore’ coraggioso conosce le pecore in modo passionale, «una per una» - ma vi sono tanti banditi che ancora intendono approfittarsi.
Per loro uno vale l’altro - non sono disposti a lottare, se non per il prestigio. Né hanno cognizione alcuna del nostro ‘nome’.
Viceversa, nel pensiero del Signore non esistono masse anonime, bensì persone; anime tutte significative.
Egli tien conto del carattere e delle possibilità di ciascuno. Comprende le nostre difficoltà; non forza i tempi, rispetta i ritmi individuali.
Capi religiosi e politici del tempo - lusingatori e autentici predoni - non avevano a cuore i pregi e le fatiche di ciascuno dei loro sudditi.
Si atteggiavano a sacri benefattori; cercando esclusivamente il proprio tornaconto - anche attraverso l’apparente opera di soccorso.
Malgrado le clamorose parvenze che appunto volevano sottolineare il rango conquistato, il loro obbiettivo e i metodi erano segnati dalla brama di affermazione, da un esclusivo interesse personale e di ceto.
Cristo si distingue dagli impostori, pataccari di contrabbando, che volevano trascinare il popolo allo sfruttamento, alla spersonalizzazione, allo smarrimento, quindi alla completa subordinazione - non solo dell’immaginario.
Colui che in mezzo al frastuono di tante voci si fa ostaggio di convinzioni esterne, viene plagiato e non riesce più a riattivare il proprio Esodo.
Così dovrà sempre prenderlo a prestito.
Ma infilare l'anima e la vita nell’armatura altrui, già confezionata, non realizza l’irripetibile vocazione; non rende felice l’innocente.
Chi segue Gesù non solo entra, ma «esce» (v.9) dal «recinto sacro»: tranello che veniva cesellato per sfruttare ingenui e malfermi.
In Lui veniamo resi autonomi, veri, liberi; in grado di camminare sulle nostre gambe, quindi capaci di attivare percorsi di un’umanità forse ancora distante.
Educati nel ‘Figlio dell’uomo’ a sentirci adeguati, a vivere intensamente e rallegrare l’esistenza anche altrui, non sentiamo più alcun bisogno di umilianti paternalismi.
Ai tempi di Gesù, nel caso che il pastore fosse un salariato, di fronte al pericolo grave [es. banditi, o grandi bestie feroci] gli era consentito fuggire.
E lo faceva ben volentieri, perché il gregge non gli apparteneva.
Insomma, chi si attiene agli obblighi minimi fissati dal “contratto” non è davvero coinvolto - non ha a cuore nulla, né la proposta di Cristo, né le persone.
Di contro, l’amore genuino non si ferma; non ha confini: «un solo gregge, un solo pastore» (v.16).
Ossia: tutti sono chiamati a coinvolgersi; benedetti, e “perfetti” in ordine alla propria missione.
«Unico pastore» nei Vangeli non è il Papa, né un qualche Patriarca. Neppure un piccolo principe-feudatario locale.
Ma l’intero gregge, ministeriale senza eccezioni - in Cristo destinato alla pienezza di vita nella libertà (vv.17-18).
Gesù è Pastore genuino perché non teme di esporre la propria vita in difesa dei suoi fratelli.
Egli è l’uomo forte che non si lascia strappare dalle mani i suoi indifesi (v.28): non concede che ci perdiamo.
Forse per noi non è neppure tanto semplice cedere, farsi salvare, lasciarsi accompagnare, trasportare, guidare dall’Amico interiore.
Eppure, malgrado la nostra mancanza di docilità, la salvezza è garantita: dalla sua iniziativa incondizionata.
Questo il perno affidabile della nostra avventura: donne e uomini che in tale rapporto nuziale e creativo fanno il balzo dal senso religioso alla Fede.
Questa la grande notizia, la buona novella che annunciamo.
La nostra radice vocazionale non è scalfita dalle manchevolezze.
Nemico di Dio non è il peccato, dunque, bensì il cullarsi d’illusioni e il seguire ciarlatani; o il malaffare, l’interesse, l’autocompiacimento, che attecchiscono e si diffondono proprio in zone d’ombra e cordate che non t’aspetti.
Non è facile fidarsi di Cristo e con Lui essere in comunione col Padre (v.30) come unico Popolo di Dio, laici e clero.
Egli non bara: non promette carriere, benemerenze, titoli, ruoli, zucchero filato, vita facile, trionfi, riconoscimenti, e scorciatoie.
A volte arrivano le belve e non si scherza; bisogna decidere e - perché no - talora essere duri.
Ricordo anni fa una strage di pecore nella zona di Accumoli - non troppo distante da me.
Quando le anziane si accorsero dei lupi, si posero a cerchio intorno agli agnelli, e furono sbranate - per salvare i loro piccoli.
Nelle religioni è fondamentale il rispetto dei veterani - non di rado soci in affari con qualche idolo spacciato per “Dio”.
Essi pretendono essere difesi, tutelati, serviti e riveriti; qualsiasi nefandezza abbiano combinato o ancora stiano coltivando in animo.
Per questo motivo - come detto - il Maestro non ha mai invitato nessuno a fare il “pastore” (colui che dirige e comanda il gregge).
I suoi intimi sono chiamati a essere «pescatori di uomini».
Non “direttori”, bensì mettersi a servizio della vita e della libertà di coloro che sono purtroppo invischiati in abissi soffocanti, pericolosi gorghi di morte.
Strano vedere nella storia come tutte le denominazioni cristiane si siano immediatamente riempite di “pastori” (che non mollano).
«Il Pastore, quello bello, dà la propria vita per le pecore» (v.11): Egli ha uno stile che capovolge la catena di comando avida e piramidale.
Popolo buon Pastore
La difesa del gregge minuto, e il Popolo tutto che diventa Pastore
(Gv 10,11-18)
All’inizio del cap.10 Gv mette a nudo la differenza tra pastore vero e ladro [falsi maestri rapaci e profittatori cui non interessa la vita altrui].
L’autentica guida ha a cuore il gregge minuto, si espone per difenderlo e farlo prosperare; lo conduce ad abbeverarsi, e in verdi pascoli.
Così, dalla similitudine iniziale della Porta, Gesù passa al paragone del Pastore che difende il gregge errante e facile preda di prepotenti.
La gente coglie d’istinto chi è la vera guida, nelle variazioni di stagione e nella transumanza: ne ha percezione esistenziale immediata, vibrante.
Donne e uomini del popolo hanno sempre un discernimento pratico assai più affidabile di quello artificioso, sprezzante, delle autorità ufficiali che suppongono di sé.
Nessuno di loro avrebbe dato o rischiato nulla per la vita del gregge affidato, che ritenevano ignorante, segnato a vita; maledetto (Gv 7,49. 9,34).
Forte di tale finezza d’intelligenza concreta, ecco la mèta cui Gesù mira nel Dono di sé: sarà il Popolo stesso a diventare Pastore (v.16b).
Quindi anche il gregge-pastore di Cristo non schiverà i colpi, né sarà passivo e conformista - bensì come Lui: audace e battistrada.
In tale sorpresa si aggiunge un’ulteriore apertura d’orizzonte, che chiameremmo di ecclesiologia universale.
Prospettiva inquietante per opportunisti e installati sazi degli “edifici” allestiti dalla religione - e dal suo indotto - allarmati unicamente per quelli costruiti nella Fede.
Ma il Signore ci strappa dai lupi.
In aggiunta, non si limita alle folle che gli sono vicine.
La chiamata e la cura del Pastore autentico valica qualsiasi confine; non solo quello artefatto e mestierante del Tempio.
La vocazione di Dio riguarda persino le persone ancora lontane da recinti sacri (v.16a testo greco), anch’esse valutate membri necessari e a pieno titolo del suo Popolo.
Il nuovo principio di appartenenza è l’Ascolto (v.3): immediatezza anche delle proprie intime e naturali istanze di vita.
Ciò vale più di un’anima già ripulita dagli errori, o di una folla impeccabile.
Tale il preludio creaturale e spontaneo di mutua Comunione [convivialità delle differenze] che soppianta le appartenenze religiose antiche.
«Il Pastore, quello bello, dà la propria vita per le pecore» (v.11): Egli ha uno stile che capovolge la catena di comando avida e piramidale.
Le fraternità di Fede viva avevano ben compreso che l’esistere nello Spirito del Cristo e la vita dell’anima avevano risvolti inattesi - del tutto incompatibili con l’attaccamento all’effimero che le autorità ufficiali si concedevano.
L’irriverente Luciano di Samosata (120-190) dona uno sprazzo assai significativo di questa originalità - ancora in fieri - che lascia emergere la semplicità, il clima di fiducia reciproca e la qualità di vita dei primi credenti, trascinati dal buon esempio dei responsabili di comunità.
Il noto autore satirico, contrario a superstizioni e credulonerie tra le quali annoverava anche il Cristianesimo, porge una testimonianza indiretta e paradossale del motivo per il quale l’inattesa proposta di Condivisione a partire dai coordinatori di chiesa - così alternativa, incomprensibilmente magnanima e liberale - venisse riconosciuta.
Con linguaggio scanzonato che ancora ci fa pensare alla distanza dall’ideale, malgrado i millenni trascorsi - l’antico scrittore greco-siriano ha acutamente descritto l’impatto concreto della Fede nel vero Dio, la quale notava sempre più diffusa tra la gente.
Gesù voleva che per l’instaurazione di una società alternativa - non verticistica, non esclusiva, anzi capace di felice Convivenza - si facesse leva sul cuore popolare, a partire dalla testimonianza di ‘maestri’ autentici.
In «La morte di Peregrino» [De morte Peregrini, 13] il polemista del II sec. così si esprime:
«Il loro primo Legislatore li persuade che sono tutti fratelli tra loro e, come si convertono, rinnegando gli dei greci, adorano quel sapiente crocifisso, e vivono secondo le sue leggi. Per la qualcosa disprezzano tutti i beni egualmente e li credono comuni e non se ne curano quando li hanno. Perciò se tra loro sorgesse un accorto impostore che sapesse ben maneggiarli, immediatamente diventerebbe ricco, canzonando questa gente credulona e sciocca».
Sembrava una pazzia per l’ideale di uomo ellenista, individualista e facitore di sé, nonché per l’immagine stessa d’un amico di Dio che meritasse gloria e cortigianerie - pertanto suo protetto in “benedizioni” [convinzione che permane purtroppo quasi inalterata].
Ma come si nota fra le righe, le nuove ‘guide’ in Cristo effettivamente stavano iniziando a soppiantare la credibilità degli altri leaders più rinomati in cultura, tuttavia assai meno interessati alla realtà delle persone.
Nella vita dei ‘cristiani’ si rendeva palese un equilibrio, un venirsi incontro, un benessere e una «Via della completezza» affatto diversa da quella dell’antica ‘perfezione’ sterilizzata, unilaterale.
Il di più della Fede?
Non le belle maniere. Piuttosto, lo spunto e la freschezza di chi espone la propria vita senza retrocedere, per difendere gli innocenti, ultimi arrivati.
Nessun dirigismo.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Nella tua comunità ti senti giudicato sulle perfezioni esterne, e braccato da lupi giudicanti, o valorizzato in prima persona, e nella via della completezza a tutto tondo?
Vanno proprio insieme
Il Vangelo che abbiamo ascoltato in questa domenica è soltanto una parte del grande discorso di Gesù sui pastori. In questo brano il Signore ci dice tre cose sul vero pastore: egli dà la propria vita per le pecore; le conosce ed esse lo conoscono; sta a servizio dell'unità. Prima di riflettere su queste tre caratteristiche essenziali dell'essere pastori, sarà forse utile ricordare brevemente la parte precedente del discorso sui pastori nella quale Gesù, prima di designarsi come Pastore, dice con nostra sorpresa: "Io sono la porta" (Gv 10, 7). È attraverso di Lui che si deve entrare nel servizio di pastore. Gesù mette in risalto molto chiaramente questa condizione di fondo affermando: "Chi... sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante" (Gv 10, 1). Questa parola "sale" - "anabainei" in greco - evoca l'immagine di qualcuno che si arrampica sul recinto per giungere, scavalcando, là dove legittimamente non potrebbe arrivare. "Salire" - si può qui vedere anche l'immagine del carrierismo, del tentativo di arrivare "in alto", di procurarsi una posizione mediante la Chiesa: servirsi, non servire. È l'immagine dell'uomo che, attraverso il sacerdozio, vuole farsi importante, diventare un personaggio; l'immagine di colui che ha di mira la propria esaltazione e non l'umile servizio di Gesù Cristo. Ma l'unica ascesa legittima verso il ministero del pastore è la croce. È questa la vera ascesa, è questa la vera porta. Non desiderare di diventare personalmente qualcuno, ma invece esserci per l'altro, per Cristo, e così mediante Lui e con Lui esserci per gli uomini che Egli cerca, che Egli vuole condurre sulla via della vita. Si entra nel sacerdozio attraverso il Sacramento - e ciò significa appunto: attraverso la donazione di se stessi a Cristo, affinché Egli disponga di me; affinché io Lo serva e segua la sua chiamata, anche se questa dovesse essere in contrasto con i miei desideri di autorealizzazione e stima. Entrare per la porta, che è Cristo, vuol dire conoscerlo ed amarlo sempre di più, perché la nostra volontà si unisca alla sua e il nostro agire diventi una cosa sola col suo agire. Cari amici, per questa intenzione vogliamo pregare sempre di nuovo, vogliamo impegnarci proprio per questo, che cioè Cristo cresca in noi, che la nostra unione con Lui diventi sempre più profonda, cosicché per il nostro tramite sia Cristo stesso Colui che pasce.
Guardiamo ora più da vicino le tre affermazioni fondamentali di Gesù sul buon pastore. La prima, che con grande forza pervade tutto il discorso sui pastori, dice: il pastore dà la sua vita per le pecore. Il mistero della Croce sta al centro del servizio di Gesù quale pastore: è il grande servizio che Egli rende a tutti noi. Egli dona se stesso, e non solo in un passato lontano. Nella sacra Eucaristia ogni giorno realizza questo, dona se stesso mediante le nostre mani, dona sé a noi. Per questo, a buona ragione, al centro della vita sacerdotale sta la sacra Eucaristia, nella quale il sacrificio di Gesù sulla croce rimane continuamente presente, realmente tra di noi. E a partire da ciò impariamo anche che cosa significa celebrare l'Eucaristia in modo adeguato: è un incontrare il Signore che per noi si spoglia della sua gloria divina, si lascia umiliare fino alla morte in croce e così si dona a ognuno di noi. È molto importante per il sacerdote l'Eucaristia quotidiana, nella quale si espone sempre di nuovo a questo mistero; sempre di nuovo pone se stesso nelle mani di Dio sperimentando al contempo la gioia di sapere che Egli è presente, mi accoglie, sempre di nuovo mi solleva e mi porta, mi dà la mano, se stesso. L'Eucaristia deve diventare per noi una scuola di vita, nella quale impariamo a donare la nostra vita. La vita non la si dona solo nel momento della morte e non soltanto nel modo del martirio. Noi dobbiamo donarla giorno per giorno. Occorre imparare giorno per giorno che io non possiedo la mia vita per me stesso. Giorno per giorno devo imparare ad abbandonare me stesso; a tenermi a disposizione per quella cosa per la quale Egli, il Signore, sul momento ha bisogno di me, anche se altre cose mi sembrano più belle e più importanti. Donare la vita, non prenderla. È proprio così che facciamo l'esperienza della libertà. La libertà da noi stessi, la vastità dell'essere. Proprio così, nell'essere utile, nell'essere una persona di cui c'è bisogno nel mondo, la nostra vita diventa importante e bella. Solo chi dona la propria vita, la trova.
Come seconda cosa il Signore ci dice: "Io conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre " (Gv 10, 14-15). Sono in questa frase due rapporti apparentemente del tutto diversi che qui si trovano intrecciati l'uno con l'altro: il rapporto tra Gesù e il Padre e il rapporto tra Gesù e gli uomini a Lui affidati. Ma entrambi i rapporti vanno proprio insieme, perché gli uomini, in fin dei conti, appartengono al Padre e sono alla ricerca del Creatore, di Dio. Quando si accorgono che uno parla soltanto nel proprio nome e attingendo solo da sé, allora intuiscono che è troppo poco e che egli non può essere ciò che stanno cercando. Laddove però risuona in una persona un'altra voce, la voce del Creatore, del Padre, si apre la porta della relazione che l'uomo aspetta. Così deve essere quindi nel nostro caso. Innanzitutto nel nostro intimo dobbiamo vivere il rapporto con Cristo e per il suo tramite con il Padre; solo allora possiamo veramente comprendere gli uomini, solo alla luce di Dio si capisce la profondità dell'uomo. Allora chi ci ascolta si rende conto che non parliamo di noi, di qualcosa, ma del vero Pastore. Ovviamente, nelle parole di Gesù è anche racchiuso tutto il compito pastorale pratico, di seguire gli uomini, di andare a trovarli, di essere aperti per le loro necessità e le loro domande. Ovviamente è fondamentale la conoscenza pratica, concreta delle persone a me affidate, e ovviamente è importante capire questo "conoscere" gli altri nel senso biblico: non c'è una vera conoscenza senza amore, senza un rapporto interiore, senza una profonda accettazione dell'altro. Il pastore non può accontentarsi di sapere i nomi e le date. Il suo conoscere le pecore deve essere sempre anche un conoscere con il cuore. Questo però è realizzabile in fondo soltanto se il Signore ha aperto il nostro cuore; se il nostro conoscere non lega le persone al nostro piccolo io privato, al nostro proprio piccolo cuore, ma invece fa sentire loro il cuore di Gesù, il cuore del Signore. Deve essere un conoscere col cuore di Gesù e orientato verso di Lui, un conoscere che non lega l'uomo a me, ma lo guida verso Gesù rendendolo così libero e aperto. E così anche noi tra uomini diveniamo vicini. Affinché questo modo di conoscere con il cuore di Gesù, di non legare a me ma di legare al cuore di Gesù e di creare così vera comunità, che questo ci sia donato, vogliamo sempre di nuovo pregare il Signore.
Infine il Signore ci parla del servizio dell'unità affidato al pastore: "Ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore" (Gv 10, 16). È la stessa cosa che Giovanni ripete dopo la decisione del sinedrio di uccidere Gesù, quando Caifa disse che sarebbe stato meglio se uno solo fosse morto per il popolo piuttosto che la nazione intera perisse. Giovanni riconosce in questa parola di Caifa una parola profetica e aggiunge: "Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (11, 52). Si rivela la relazione tra Croce e unità; l'unità si paga con la Croce. Soprattutto però emerge l'orizzonte universale dell'agire di Gesù. Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani. La missione di Gesù riguarda l'umanità intera, e perciò alla Chiesa è data una responsabilità per tutta l'umanità, affinché essa riconosca Dio, quel Dio che, per noi tutti, in Gesù Cristo si è fatto uomo, ha sofferto, è morto ed è risorto. La Chiesa non deve mai accontentarsi della schiera di coloro che a un certo punto ha raggiunto, e dire che gli altri stiano bene così: i musulmani, gli induisti e via dicendo. La Chiesa non può ritirarsi comodamente nei limiti del proprio ambiente. È incaricata della sollecitudine universale, deve preoccuparsi per tutti e di tutti. Questo grande compito in generale lo dobbiamo "tradurre" nelle nostre rispettive missioni. Ovviamente un sacerdote, un pastore d'anime, deve innanzitutto preoccuparsi di coloro, che credono e vivono con la Chiesa, che cercano in essa la strada della vita e che da parte loro, come pietre vive, costruiscono la Chiesa e così edificano e sostengono insieme anche il sacerdote. Tuttavia, dobbiamo anche sempre di nuovo - come dice il Signore - uscire "per le strade e lungo le siepi" (Lc 14, 23) per portare l'invito di Dio al suo banchetto anche a quegli uomini che finora non ne hanno ancora sentito niente, o non ne sono stati toccati interiormente. Questo servizio universale, servizio per l'unità, ha tante forme. Ne fa parte sempre anche l'impegno per l'unità interiore della Chiesa, perché essa, oltre tutte le diversità e i limiti, sia un segno della presenza di Dio nel mondo che solo può creare una tale unità.
La Chiesa antica ha trovato nella scultura del suo tempo la figura del pastore che porta una pecora sulle sue spalle. Forse queste immagini fanno parte del sogno idillico della vita campestre che aveva affascinato la società di allora. Ma per i cristiani questa figura diventava con tutta naturalezza l'immagine di Colui che si è incamminato per cercare la pecora smarrita: l'umanità; l'immagine di Colui che ci segue fin nei nostri deserti e nelle nostre confusioni; l'immagine di Colui che ha preso sulle sue spalle la pecora smarrita, che è l'umanità, e la porta a casa. È divenuta l'immagine del vero Pastore Gesù Cristo. A Lui ci affidiamo. A Lui affidiamo Voi, cari fratelli, specialmente in quest'ora, affinché Egli Vi conduca e Vi porti tutti i giorni; affinché Vi aiuti a diventare, per mezzo di Lui e con Lui, buoni pastori del suo gregge. Amen!
[Papa Benedetto, omelia ordinazione presbiterale 7 maggio 2006]
Gesù parla di sé come del Buon Pastore che dà la vita eterna alle sue pecore (cfr Gv 10,28). Quella del pastore è un’immagine ben radicata nell'Antico Testamento e cara alla tradizione cristiana. Il titolo di "pastore d’Israele" viene attribuito dai Profeti al futuro discendente di Davide, e pertanto possiede un’indubbia rilevanza messianica (cfr Ez 34,23). Gesù è il vero Pastore d’Israele, in quanto è il Figlio dell’uomo che ha voluto condividere la condizione degli esseri umani per donare loro la vita nuova e condurli alla salvezza. Significativamente al termine "pastore" l’evangelista aggiunge l’aggettivo kalós, bello, che egli utilizza unicamente in riferimento Gesù e alla sua missione. Anche nel racconto delle nozze di Cana l’aggettivo kalós viene impiegato due volte per connotare il vino offerto da Gesù ed è facile vedere in esso il simbolo del vino buono dei tempi messianici (cfr Gv 2,10).
"Io do loro cioè (alle mie pecore) la vita eterna e non andranno mai perdute" (Gv 10,28). Così afferma Gesù, che poco prima aveva detto: "Il buon pastore offre la vita per le pecore" (cfr Gv 10,11). Giovanni utilizza il verbo tithénai - offrire, che ripete nei versetti seguenti (15.17.18); lo stesso verbo troviamo nel racconto dell’Ultima Cena, quando Gesù "depose" le sue vesti per poi "riprenderle" (cfr Gv 13, 4.12). E’ chiaro che si vuole in questo modo affermare che il Redentore dispone con assoluta libertà della propria vita, così da poterla offrire e poi riprendere liberamente. Cristo è il vero Buon Pastore che ha dato la vita per le sue pecore, per noi, immolandosi sulla Croce. Egli conosce le sue pecore e le sue pecore lo conoscono, come il Padre conosce Lui ed Egli conosce il Padre (cfr Gv 10,14-15). Non si tratta di mera conoscenza intellettuale, ma di una relazione personale profonda; una conoscenza del cuore, propria di chi ama e di chi è amato; di chi è fedele e di chi sa di potersi a sua volta fidare; una conoscenza d’amore in virtù della quale il Pastore invita i suoi a seguirlo, e che si manifesta pienamente nel dono che fa loro della vita eterna (cfr Gv 10,27-28).
[Papa Benedetto, omelia per l’ordinazione presbiterale 29 aprile 2007]
L’odierna Domenica è stata dedicata a questa suprema ed essenziale necessità proprio perché la Liturgia ci presenta la figura di Gesù “Buon Pastore”.
Già l’Antico Testamento parla comunemente di Dio come Pastore di Israele, del popolo dell’alleanza, da lui scelto per realizzare il progetto della salvezza. Il Salmo 22 è un inno meraviglioso al Signore, Pastore delle nostre anime: “Il Signore è il mio Pastore; non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce; mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino... Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me...” (Sal 23,1-3).
I profeti Isaia, Geremia ed Ezechiele ritornano sovente sul tema del popolo “gregge del Signore”: “Ecco il vostro Dio!... Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna...” (Is 40,11) e soprattutto annunciano il Messia come Pastore che pascerà veramente le sue pecore e non le lascerà più sbandare: “Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore...” (Ez 34,23).
Nel Vangelo è familiare questa dolce e commovente figura del pastore, la quale anche se i tempi sono cambiati a causa dell’industrializzazione e dell’urbanesimo, mantiene sempre il suo fascino e la sua efficacia; e tutti ricordiamo la parabola tanto toccante e suggestiva del Buon Pastore che va in cerca della pecorella smarrita (Lc 15,3-7).
Nei primi tempi della Chiesa poi l’iconografia cristiana si servì grandemente e sviluppò questo tema del Buon Pastore la cui immagine appare spesso, dipinta o scolpita, nelle Catacombe, nei sarcofagi, nei battisteri. Tale iconografia, così interessante e devota, ci attesta che, fin dai primi tempi della Chiesa, Gesù “Buon Pastore” colpì e commosse gli animi dei credenti e dei non credenti e fu motivo di conversione, di impegno spirituale e di conforto. Ebbene, Gesù “Buon Pastore” è vivo e vero ancora oggi in mezzo a noi, in mezzo all’umanità intera, e a ciascuno vuol far sentire la sua voce e il suo amore.
1. Che cosa significa essere il Buon Pastore?
Gesù ce lo spiega con chiarezza convincente:
– il pastore conosce le sue pecore e le pecore conoscono lui: come è bello e consonante sapere che Gesù ci conosce uno per uno, che non siamo degli anonimi per lui, che il nostro nome (quel nome che è concordato dall’amore dei genitori e degli amici) lui lo conosce! Non siamo “massa”, “moltitudine”, per Gesù! Siamo “persone” singole con un valore eterno, sia come creature sia come persone redente! lui ci conosce! lui mi conosce, e mi ama e ha dato se stesso per me! (Gal 2,20);
– il pastore nutre le sue pecore e le conduce a pascoli freschi e abbondanti: Gesù è venuto per portare la vita alle anime, e darla in misura sovrabbondante. E la vita delle anime consiste essenzialmente in tre supreme realtà: la verità, la grazia, la gloria. Gesù è la verità, perché è il Verbo incarnato, è la “pietra angolare”, come diceva San Pietro ai capi del popolo e agli anziani, sulla quale solamente è possibile costruire l’edificio familiare, sociale, politico: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,11-12). Gesù ci dà la “grazia”, ossia la vita divina per mezzo del Battesimo e degli altri Sacramenti. Mediante la “grazia”, diventiamo partecipi della stessa natura trinitaria di Dio! Mistero immenso, ma di indicibile gioia e consolazione!
Gesù infine ci darà la gloria del paradiso, gloria totale ed eterna, dove saremo amati e ameremo, partecipi della stessa felicità di Dio che è Infinito anche nella gioia! “Ciò che saremo non è stato ancora rivelato – commenta San Giovanni –. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,3);
– il pastore difende le sue pecore; non è come il mercenario che quando arriva il lupo fugge, perché non gli importa nulla delle pecore. Purtroppo sappiamo bene che nel mondo ci sono sempre i mercenari che seminano l’odio, la malizia, il dubbio, il turbamento delle idee e dei sensi. Gesù invece, con la luce della sua parola divina e con la forza della sua presenza sacramentale ed ecclesiale, forma la nostra mente, fortifica la volontà, purifica i sentimenti e così difende e salva da tante dolorose e drammatiche esperienze;
– il pastore offre perfino la vita per le pecore: Gesù ha realizzato il progetto dell’amore divino mediante la sua morte in croce! egli si è offerto in croce per redimere l’uomo, ogni singolo uomo, creato dall’amore per l’eternità dell’Amore;
– il pastore infine sente il desiderio di ampliare il suo gregge: Gesù afferma chiaramente la sua ansia universale: “E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo ovile e un solo pastore” (Gv 10,16). Gesù vuole che tutti gli uomini lo conoscano, lo amino, lo seguano.
2. Gesù ha voluto nella Chiesa il sacerdote come “Buon Pastore”.
La parrocchia è la comunità cristiana, illuminata dall’esempio del Buon Pastore, attorno al proprio parroco e ai sacerdoti collaboratori.
Nella parrocchia il sacerdote continua la missione e il compito di Gesù; e perciò deve “pascere il gregge”, deve insegnare, istruire, dare la grazia, difendere le anime dall’errore e dal male, consolare, aiutare, convertire e soprattutto amare.
Perciò, con tutta l’ansia del mio cuore di Pastore della Chiesa universale vi dico: amate i vostri sacerdoti! Stimateli, ascoltateli, seguiteli! Pregate ogni giorno per loro. Non lasciateli soli né all’altare né nella vita quotidiana!
E non cessate mai di pregare per le vocazioni sacerdotali e per la perseveranza nell’impegno della consacrazione al Signore e alle anime. Ma soprattutto create nelle vostre famiglie un’atmosfera adatta allo sbocciare delle vocazioni. E voi genitori siate generosi nel corrispondere ai disegni di Dio sui vostri figli.
3. Infine, Gesù vuole che ognuno sia “buon pastore”.
Ogni cristiano, in forza del battesimo, è chiamato ad essere lui stesso un “buon pastore” nell’ambiente in cui vive. Voi genitori dovete esercitare le funzioni del Buon Pastore verso i vostri figli e anche voi, figli, dovete essere di edificazione con il vostro amore, la vostra obbedienza e soprattutto con la vostra fede coraggiosa e coerente. Anche le reciproche relazioni tra i coniugi devono essere improntate all’esempio del Buon Pastore, affinché sempre la vita familiare sia a quell’altezza di sentimenti e di ideali voluti dal Creatore, per cui la famiglia è stata definita “chiesa domestica”. Così pure nella scuola, sul lavoro, nei luoghi del gioco e del tempo libero, negli ospedali e dove si soffre, sempre ognuno cerchi di essere “buon pastore” come Gesù. Ma soprattutto siano “buoni pastori” nella società le persone consacrate a Dio: i religiosi, le suore, coloro che appartengono agli Istituti Secolari.Oggi e sempre dobbiamo pregare per tutte le vocazioni religiose, maschili e femminili, perché nella Chiesa questa testimonianza della vita religiosa sia sempre più numerosa, sempre più viva, sempre più intensa e sempre più efficace. Il mondo oggi ha più che mai bisogno di testimoni convinti e totalmente consacrati!
Carissimi fedeli, termino ricordando l’accorata invocazione di Gesù buon Pastore: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate il padrone della messe, affinché mandi molti operai alla sua messe” (Mt 9,37; Lc 10,2).
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 6 maggio 1979]
Nel Vangelo di oggi (cfr Gv 10,27-30) Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca. «Le mie pecore – dice – ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute» (vv. 27-28). Leggendo attentamente questa frase, vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce.
Il Buon Pastore – Gesù – è attento a ciascuno di noi, ci cerca e ci ama, rivolgendoci la sua parola, conoscendo in profondità i nostri cuori, i nostri desideri e le nostre speranze, come anche i nostri fallimenti e le nostre delusioni. Ci accoglie e ci ama così come siamo, con i nostri pregi e i nostri difetti. Per ciascuno di noi Egli “dà la vita eterna”: ci offre cioè la possibilità di vivere una vita piena, senza fine. Inoltre, ci custodisce e ci guida con amore, aiutandoci ad attraversare i sentieri impervi e le strade talvolta rischiose che si presentano nel cammino della vita.
Ai verbi e ai gesti che descrivono il modo in cui Gesù, il Buon Pastore, si relaziona con noi, fanno riscontro i verbi che riguardano le pecore, cioè noi: «ascoltano la mia voce», «mi seguono». Sono azioni che mostrano in che modo noi dobbiamo corrispondere agli atteggiamenti teneri e premurosi del Signore. Ascoltare e riconoscere la sua voce, infatti, implica intimità con Lui, che si consolida nella preghiera, nell’incontro cuore a cuore con il divino Maestro e Pastore delle nostre anime. Questa intimità con Gesù, questo essere aperto, parlare con Gesù, rafforza in noi il desiderio di seguirlo, uscendo dal labirinto dei percorsi sbagliati, abbandonando i comportamenti egoistici, per incamminarci sulle strade nuove della fraternità e del dono di noi stessi, ad imitazione di Lui.
Non dimentichiamo che Gesù è l’unico Pastore che ci parla, ci conosce, ci dà la vita eterna e ci custodisce. Noi siamo l’unico gregge e dobbiamo solo sforzarci di ascoltare la sua voce, mentre con amore Egli scruta la sincerità dei nostri cuori. E da questa continua intimità con il nostro Pastore, da questo colloquio con Lui, scaturisce la gioia di seguirlo lasciandoci condurre alla pienezza della vita eterna.
Ci rivolgiamo ora a Maria, Madre di Cristo Buon Pastore. Lei, che ha risposto prontamente alla chiamata di Dio, aiuti in particolare quanti sono chiamati al sacerdozio e alla vita consacrata ad accogliere con gioia e disponibilità l’invito di Cristo ad essere suoi più diretti collaboratori nell’annuncio del Vangelo e nel servizio del Regno di Dio in questo nostro tempo.
[Papa Francesco, Regina Coeli 12 maggio 2019]
Terza Domenica di Pasqua [4 maggio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! In questi giorni, essendo intensa la preghiera della Chiesa in attesa della scelta del successore di Pietro, assume grande valore la proclamazione del Vangelo (Gv 21, 1-19) che riguarda proprio Pietro.
*Prima Lettura, dagli Atti degli Apostoli (5, 27b-32. 40b-41)
Dopo che gli apostoli sono stati flagellati per la loro predicazione, san Luca scrive che usciti dal sinedrio se ne andarono lieti di essere stati ritenuti degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. Del resto il Signore aveva loro predetto che sarebbero stati odiati, messi al bando, insultati e infamati a causa del Figlio dell’uomo e che proprio quello sarebbe stato il momento di rallegrarsi e addirittura esultare perché grande è la ricompensa nei cieli dato che così capitava anche ai profeti (cf Lc 6,22-23). Del resto, se hanno perseguitato il Maestro, faranno lo stesso con voi (cf. Gv 15,20). Pietro e Giovanni, dopo la guarigione dello storpio alla Porta Bella, miracolo che fece molto rumore in città, erano stati processati davanti al Sinedrio, il tribunale di Gerusalemme, il medesimo che qualche settimana prima aveva condannato Gesù. Appena liberati, avevano ripreso a predicare e a fare miracoli. Arrestati nuovamente e messi in prigione, durante la notte furono scarcerati da un angelo e si capisce che quest’intervento miracoloso li rese ancor più forti; ripresero infatti a predicare. Il brano di oggi ci situa proprio in questo momento: arrestati ancora una volta e portati in tribunale, al sommo sacerdote che li interroga Pietro risponde che “bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”. Parla poi della differenza tra la logica di Dio e quella degli uomini: quella degli uomini, cioè quella del tribunale giudaico, ritiene che a un malfattore ucciso non bisogna certo far pubblicità. E argomenta così: Gesù, agli occhi delle autorità religiose, è un impostore crocifisso perché si doveva impedirgli di ingannare il popolino incline a dar credito a ogni presunto messia. Un condannato appeso alla croce, secondo la Torah, diventa maledetto persino da Dio. Esiste però anche la logica di Dio: voi avete crocifisso Gesù eppure, contro ogni previsione, non solo non è maledetto da Dio ma innalzato alla destra di Dio che l’ha fatto Principe e Salvatore per concedere a Israele la conversione e il perdono dei peccati. Parole che suonano scandalose per i giudici esasperati dalla sicurezza degli apostoli per cui molti decidono di eliminarli come fecero con Gesù. Interviene però Gamaliele, che invita il Sinedrio alla prudenza perché se quest’opera è di origine umana si distruggerà da sola, ma se viene da Dio questo non avverrà mai; anzi li mette in guardia perché “non vi accada di combattere contro Dio “(At 5,34-39). L’odierna lettura liturgica salta l’episodio di Gamaliele e narra direttamente la risposta di Pietro al tribunale deciso a flagellare gli apostoli e poi a liberarli. La storia mostra che nella Chiesa da sempre ci sono persecuzioni, scandali e attacchi di ogni tipo, eppure continua a camminare nei secoli. Scrive sant’Agostino: ““La città di Dio avanza nel tempo, pellegrinando tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio.” (De Civitate Dei, XIX, 26).
*Salmo responsoriale 29 (30), 3-4, 5-6ab, 6cd.12, 13
Il Salmo 29 (30) è molto breve, solo tredici versetti (di cui otto soltanto proposti nell’odierna liturgia). Leggendo l’intero salmo si percepisce la situazione di un disperato che ha fatto di tutto per essere salvato, gridando, supplicando, chiedendo aiuto. Ci sono persone che addirittura godono nel vederlo soffrire e lo deridono, ma lui continua a invocare soccorso finché qualcuno finalmente ascolta e lo libera. A intervenire è Dio stesso e, liberato dall’oppressione, il disperato esplode di gioia. L’incipit del salmo dà il tono a tutto il resto: “Ti esalto, Signore perché mi hai risollevato e non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me”. In ogni salmo ci sono due livelli di lettura: e anche qui l’avventura d’un tale che, pur avendo subito un inatteso crollo nella sua vita, continua a essere certo che alla fine sarà liberato, è immagine d’Israele che dopo l’esilio babilonese esplode di gioia, come aveva esultato dopo il passaggio del Mar Rosso. Nei momenti tragici Israele confida in Dio: “Nella mia sicurezza dicevo: mai potrò vacillare”; grida al Signore: “Ascolta, Signore, abbi pietà di me, Signore vieni in mio aiuto!” e utilizza ogni argomento possibile arrivando a provocare Dio: “a che ti servirebbe se io morissi, A che ti servirebbe il mio sangue se scendessi nella tomba?” E quando il salmista dice: “La polvere può forse lodarti, annunciare la tua fedeltà?” ci fa capire che allora si credeva che dopo la morte c’era il nulla per cui inutili davanti alla morte erano preghiere, sacrifici, canti. Dio però ascolta e compie il miracolo: “Ho gridato verso di te, mio Dio, e mi hai guarito; Signore mi hai fatto risalire dall’abisso e rivivere quando stavo per morire”. Questo salmo trova il suo compimento nel grido pasquale dell’Alleluia perché il Signore ci ha liberati dalla schiavitù del male. Tra i commenti rabbinici ho trovato questo: “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto al giorno di festa, dalle tenebre alla luce splendente, dalla schiavitù alla Redenzione. Per questo cantiamo davanti a lui l’Alleluia!”
*Seconda Lettura: Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (5, 11-14)
Il libro dell’Apocalisse è un inno alla vittoria narrato con molte visioni. Nell’odierno testo milioni e milioni di angeli gridano a squarciagola in cielo: “lunga vita al Re!” mentre in terra, mare e sotto terra, ogni creatura che respira inneggia al nuovo Re, Gesù Cristo: l’Agnello immolato, acclamato mentre riceve “potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”. Per descrivere la regalità di Cristo, la visione utilizza un linguaggio di immagini e di numeri; un testo quindi ricco perché solo il linguaggio simbolico può introdurci nel mondo di Dio ineffabile e lindicibile. Si tratta, al tempo stesso, di un testo difficile perché si serve di immagini, colori e numeri ricorrenti, non facili da interpretare. Difficile è voler afferrare il senso nascosto di un passaggio come l’espressione “i quattro esseri viventi” che nel capitolo precedente sono quattro esseri alati: il primo con volto d’uomo, gli altri tre di animali – un leone, un’aquila, un toro – e siamo abituati a vederli in molti dipinti, sculture e mosaici, credendo di sapere senza esitazione a chi si riferiscano. Sant’Ireneo, nel II secolo, propose una lettura simbolica: per lui i quattro viventi sono i quattro evangelisti; sant’Agostino riprese la stessa idea, modificandola leggermente e la sua interpretazione è rimasta nella tradizione: secondo lui Matteo è il vivente dal volto d’uomo, Marco il leone, Luca il toro e Giovanni l’aquila. Biblisti moderni non sembrano d’accordo perché per loro l’autore dell’Apocalisse ha ripreso un’immagine di Ezechiele, dove i quattro esseri sostengono il trono di Dio e rappresentano semplicemente il mondo creato. Pure per i numeri è difficile l’interpretazione. Secondo molti il numero 3 simboleggia Dio; il 4 il mondo il creato in ragione dei quattro punti cardinali; il 7 (3+4) evoca sia Dio e il mondo creato nella sua pienezza e perfezione, mentre il 6 (7–1) sta per incompletezza, imperfezione. Singolare interesse riveste quest’acclamazione: ”L’Agnello che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e lode”: potenza e ricchezza, sapienza e forza rimandano al successo terreno, onore, gloria e lode sono riservati a Dio. Si tratta in totale di sette parole: questo per dire che l’Agnello immolato, cioè Gesù è pienamente Dio e pienamente uomo, il tutto espresso con la forza suggestiva del linguaggio simbolico. Tutte le creature che sono in cielo, sulla terra, sotto la terra e sul mare proclamano così la loro sottomissione a Dio che siede sul Trono e all’Agnello: “A colui che siede sul Trono e all’Agnello, lode, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli”. L’insistenza di Giovanni mira a esaltare la vittoria dell’Agnello immolato: sconfitto agli occhi degli uomini, è il grande vincitore. Contempliamo qui il mistero che sta nel cuore del Nuovo Testamento, che è al tempo stesso il suo paradosso: il Signore del mondo si fa il più piccolo, il Giudice dei vivi e dei morti viene giudicato come un malfattore; colui che è Dio viene accusato di bestemmia e rifiutato proprio in nome di Dio. Tutto questo avviene perché Dio lo ha permesso. Utilizzando questo linguaggio san Giovanni ha un duplice obbiettivo: da una parte offre alla comunità una risposta allo scandalo della croce fornendo argomenti ai cristiani che discutevano aspramente con gli ebrei a proposito della morte di Cristo. Per gli ebrei era chiaro che non era il Messia perché nel Deuteronomio è scritto che “chiunque sia stato condannato a morte in base alla legge, giustiziato e appeso a un legno, è un maledetto di Dio” (Dt 21,22). Per i cristiani, invece, alla luce della risurrezione la sua morte è l’opera di Dio e la croce costituisce il luogo dell’esaltazione del Figlio, come Gesù stesso aveva annunciato: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, voi conoscerete che “Io Sono”» (Gv 8,28). Cioè riconoscerete la mia divinità: “Io Sono” è esattamente il nome di Dio (Es, 3,14). In un misero condannato brilla la gloria di Dio e nella visione di Giovanni l’Agnello riceve gli stessi onori e le stesse acclamazioni di colui che siede sul Trono. In secondo luogo, con l’Apocalisse Giovanni voleva sostenere i cristiani nell’ora della prova perché sulla croce l’Amore ha vinto l’odio e, in fondo è proprio questo il messaggio dell’Apocalisse a sostegno dei cristiani perseguitati
*Dal Vangelo secondo Giovanni (21, 1-19)
Giovanni precisa in questo testo la presenza di sette apostoli (21,2). Poiché le sette Chiese dell’Apocalisse rappresentano tutta la Chiesa, si può ritenere che i sette apostoli indicano i discepoli di ogni tempo, cioè l’intero mondo cristiano. Questo capitolo, come spesso succede nel IV vangelo, è tutto simbolico. Vediamo solo qualche esempio.
1. Quando la barca tocca la riva, nonostante che i discepoli trovano un fuoco di brace con del pesce e del pane, Gesù chiede loro di portare il pesce pescato da loro. Probabilmente questo il messaggio: nell’opera di evangelizzazione, da quando ha chiamato Pietro «pescatore d’uomini», Gesù ci precede (ecco il pesce già posto sul fuoco prima dell’arrivo dei discepoli), ma chiede sempre la nostra collaborazione.
2. Altro punto è il dialogo tra Gesù e Pietro di cui la traduzione italiana ha cercato di rendere in qualche modo la sottigliezza del verbo greco utilizzato per amare. Commentando i versetti 15-17 nella catechesi del 24 maggio 2006, Benedetto XVI osserva l’uso dei due verbi agapaō e phileō. In greco phileō esprime l’amore d’amicizia, affettuoso ma non totalizzante; agapaō l’amore senza riserve. La prima volta Gesù chiede a Pietro: “Simone… mi «agapā̄s me»?” (21,15), cioè “Mi ami di quell’amore totale e incondizionato?”, Pietro però non risponde con agapaō ma con phileō, dicendo: “Signore, ti amo (phileō) come so amare”. Gesù ripete il verbo agapaō nella seconda domanda, ma Pietro insiste con phileō. Infine, la terza volta, Gesù chiede solo “phileîs me?”e Simone comprende che il suo povero amore basta a Gesù. Si può dire che Gesù si è adattato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù ed è quest’adattarsi di Dio che dà speranza al discepolo, che ha provato la sofferenza dell’infedeltà. Come nella notte tra giovedì e venerdì, Pietro negò tre volte di conoscere quell’uomo, ora Gesù lo interroga tre volte: infinita delicatezza per permettergli di cancellare il suo triplice rinnegamento. Da qui nasce la fiducia che lo renderà capace di seguire il Cristo fino alla fine.
3. Ogni volta Gesù fonda la sua domanda su quest’adesione di Pietro per affidargli il ministero di pastore della comunità: “Pasci le mie pecore”. La nostra relazione con il Cristo ha senso e verità se realizza una missione al servizio degli altri. Gesù infatti precisa “mie” pecore: Pietro è invitato a condividere il “peso” di Cristo. Non è proprietario del gregge, ma la cura che dedicherà al gregge di Cristo costituirà la verifica del suo amore per lo stesso Cristo. Quando Gesù gli chiede se mi ami più di costoro non è da intendere “poiché mi ami più degli altri, ti affido il gregge”, ma al contrario. Proprio perché ti affido questo compito, dovrai amarmi di più e ricorda che in qualunque ambito ecclesiale accettare un incarico pastorale comporta molto amore gratuito. Sant’Agostino commenta: «Se mi ami, non pensare che tu sia il pastore; ma pasci le mie pecore come mie, non come tue.»
4. Abbiamo anche qui un racconto di apparizione del Risorto, ma il termine apparizione non deve ingannarci perché Gesù non viene da altrove per poi scomparire; anzi è presente in permanenza presso i suoi discepoli, presso di noi come aveva promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Per questo è meglio che apparizione usare il termine manifestazione. Cristo è Invisibile, ma non assente e nelle apparizioni di allora e di ogni tempo si rende visibile (in greco: “si dà a, si fa vedere”). Queste manifestazioni della presenza di Cristo sono un sostegno per rafforzare la nostra fede: ricche di dettagli concreti, talvolta sorprendenti, ma con alto valore simbolico.
5. Quale significato hanno i 153 pesci? Pare che allora si conoscevano esattamente centocinquantatre specie di pesci. Per sant’Eusebio di Cesarea è un modo simbolico per indicare una pesca al massimo rendimento. E in seguito diventa il simbolo teologico della pienezza della salvezza operata da Cristo tramite la Chiesa nei secoli che raccoglie tutti, giudei e pagani, in un’unica fede.
NOTA. Il cap.20 del IV vangelo si conclude dicendo che Gesù fece molti altri segni in presenza dei discepoli, che non sono scritti in questo libro perché noi crediamo che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e credendo abbiamo la vita nel suo nome (20, 30-31). E’ dunque un bel finale e perché il capitolo 21? Per molti è stato aggiunto in un secondo tempo, quasi come un post-scriptum per chiarire la questione della preminenza di Pietro, già avvertita nelle prime comunità cristiane. Detto altrimenti, può sorprendere il ruolo di Pietro in un racconto di apparizione di Cristo sotto la penna di san Giovanni e questo fa pensare a uno dei problemi delle prime comunità cristiane. Per questo sembrò utile ricordare alla comunità legata alla memoria di Giovanni che, per volontà di Cristo, il pastore della Chiesa universale è Pietro e non Giovanni. “Quando sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi” (v.18), frase che segue immediatamente la consegna a Pietro: “pasci le mie pecore” e sembra indicare con chiarezza che la missione affidata a Pietro è di servizio e non di dominio. All’epoca, la cintura era indossata dai viaggiatori e dai servitori: ecco un doppio segno per i servitori itineranti del Vangelo. Pietro morirà fedele al servizio del vangelo; ecco perché Giovanni spiega: Gesù “questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio”(v.19) e ciò fa supporre che questo capitolo sia posteriore alla morte di Pietro (durante la persecuzione di Nerone, nel 66 o 67). In genere si pensa che il vangelo di Giovanni sia stato scritto molto tardi e alcuni persino ipotizzano (a partire da Gv 21,23-24) che la stesura finale sia posteriore alla sua stessa morte.
+Giovanni D’Ercole
For Christians, volunteer work is not merely an expression of good will. It is based on a personal experience of Christ (Pope Benedict)
Per i cristiani, il volontariato non è soltanto espressione di buona volontà. È basato sull’esperienza personale di Cristo (Papa Benedetto)
"May the peace of your kingdom come to us", Dante exclaimed in his paraphrase of the Our Father (Purgatorio, XI, 7). A petition which turns our gaze to Christ's return and nourishes the desire for the final coming of God's kingdom. This desire however does not distract the Church from her mission in this world, but commits her to it more strongly [John Paul II]
‘Vegna vêr noi la pace del tuo regno’, esclama Dante nella sua parafrasi del Padre Nostro (Purgatorio XI,7). Un’invocazione che orienta lo sguardo al ritorno di Cristo e alimenta il desiderio della venuta finale del Regno di Dio. Questo desiderio però non distoglie la Chiesa dalla sua missione in questo mondo, anzi la impegna maggiormente [Giovanni Paolo II]
Let our prayer spread out and continue in the churches, communities, families, the hearts of the faithful, as though in an invisible monastery from which an unbroken invocation rises to the Lord (John Paul II)
La nostra preghiera si diffonda e continui nelle chiese, nelle comunità, nelle famiglie, nei cuori credenti, come in un monastero invisibile, da cui salga al Signore una invocazione perenne (Giovanni Paolo II)
"The girl is not dead, but asleep". These words, deeply revealing, lead me to think of the mysterious presence of the Lord of life in a world that seems to succumb to the destructive impulse of hatred, violence and injustice; but no. This world, which is yours, is not dead, but sleeps (Pope John Paul II)
“La bambina non è morta, ma dorme”. Queste parole, profondamente rivelatrici, mi inducono a pensare alla misteriosa presenza del Signore della vita in un mondo che sembra soccombere all’impulso distruttore dell’odio, della violenza e dell’ingiustizia; ma no. Questo mondo, che è vostro, non è morto, ma dorme (Papa Giovanni Paolo II)
Today’s Gospel passage (cf. Lk 10:1-12, 17-20) presents Jesus who sends 72 disciples on mission, in addition to the 12 Apostles. The number 72 likely refers to all the nations. Indeed, in the Book of Genesis 72 different nations are mentioned (cf. 10:1-32) [Pope Francis]
L’odierna pagina evangelica (cfr Lc 10,1-12.17-20) presenta Gesù che invia in missione settantadue discepoli, in aggiunta ai dodici apostoli. Il numero settantadue indica probabilmente tutte le nazioni. Infatti nel libro della Genesi si menzionano settantadue nazioni diverse (cfr 10,1-32) [Papa Francesco]
Christ reveals his identity of Messiah, Israel's bridegroom, who came for the betrothal with his people. Those who recognize and welcome him are celebrating. However, he will have to be rejected and killed precisely by his own; at that moment, during his Passion and death, the hour of mourning and fasting will come (Pope Benedict)
Cristo rivela la sua identità di Messia, Sposo d'Israele, venuto per le nozze con il suo popolo. Quelli che lo riconoscono e lo accolgono con fede sono in festa. Egli però dovrà essere rifiutato e ucciso proprio dai suoi: in quel momento, durante la sua passione e la sua morte, verrà l'ora del lutto e del digiuno (Papa Benedetto)
Peter, Andrew, James and John are called while they are fishing, while Matthew, while he is collecting tithes. These are unimportant jobs, Chrysostom comments, "because there is nothing more despicable than the tax collector, and nothing more common than fishing" [Pope Benedict]
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
Disclaimer
Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.