don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

1. Con la catechesi della scorsa settimana, seguendo i più antichi simboli della fede cristiana, abbiamo iniziato un nuovo ciclo di riflessioni su Gesù Cristo. Il Simbolo apostolico proclama: “Credo . . . in Gesù Cristo, suo unico Figlio (di Dio)”. Il Simbolo niceno-costantinopolitano, dopo aver definito con precisione ancora maggiore la divina origine di Gesù Cristo come Figlio di Dio, prosegue dichiarando che questo Figlio di Dio “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e . . . si è incarnato”. Come si vede, il nucleo centrale della fede cristiana è costituito dalla duplice verità che Gesù Cristo è Figlio di Dio e Figlio dell’uomo (la verità cristologica), ed è la realizzazione della salvezza dell’uomo, che Dio Padre ha compiuto in lui, Figlio suo e Salvatore del mondo (la verità soteriologica).

2. Se nelle precedenti catechesi abbiamo trattato del male, e in particolare del peccato, lo abbiamo fatto anche per preparare il ciclo presente su Gesù Cristo Salvatore. Salvezza infatti significa liberazione dal male, in particolare dal peccato. La Rivelazione contenuta nella sacra Scrittura, a cominciare dal Proto-Vangelo (Gen 3, 15) ci apre alla verità che solo Dio può liberare l’uomo dal peccato e da tutto il male presente nell’esistenza umana. Dio, mentre rivela se stesso come Creatore del mondo e suo provvidente Ordinatore, si rivela contemporaneamente come Salvatore: come colui che libera dal male, in particolare dal peccato causato dalla libera volontà della creatura. È questo il culmine del progetto creativo attuato dalla Provvidenza di Dio, nel quale mondo (cosmologia), uomo (antropologia) e Dio salvatore (soteriologia) sono strettamente legati.

Come infatti ricorda il Concilio Vaticano II, i cristiani credono che il mondo è “creato e conservato in esistenza dall’amore del Creatore, mondo certamente posto sotto la schiavitù del peccato, ma liberato da Cristo crocifisso e risorto . . .” (Gaudium et Spes, 2).

3. Il nome “Gesù”, considerato nel suo significato etimologico, vuol dire “Jahvè libera”, salva, aiuta. Prima della schiavitù di Babilonia veniva espresso nella forma “Jehosua”: nome teoforico che contiene la radice del santissimo nome di Jahvè. Dopo la schiavitù babilonese prese la forma abbreviata “Jeshua”, che nella traduzione dei Settanta fu trascritto con “Jesoûs” da cui l’italiano “Gesù”.

Il nome era alquanto diffuso, sia al tempo dell’antica sia della nuova alleanza. È infatti il nome che portava Giosuè, che dopo la morte di Mosè introdusse gli Israeliti nella terra promessa: “Egli, secondo il significato del suo nome, fu grande per la salvezza degli eletti di Dio . . . per assegnare il possesso a Israele” (Sir 46, 1). Gesù, figlio di Sirach, fu il compilatore del libro del Siracide (Sir 50, 27). Nella genealogia del Salvatore, riportata nel Vangelo secondo Luca, troviamo enumerato “Er, figlio di Gesù” (Lc 3, 28-29). Tra i collaboratori di san Paolo è presente anche un certo Gesù, “chiamato Giusto” (cf. Col 4, 11).

4. Il nome Gesù, tuttavia, non ebbe mai quella pienezza di significato che avrebbe assunto nel caso di Gesù di Nazaret e che sarebbe stato rivelato dall’angelo a Maria (cf. Lc 1, 31ss.) e a Giuseppe (cf. Mt 1, 21). All’inizio del ministero pubblico di Gesù, la gente intendeva il suo nome nel senso comune di allora.

“Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret”. Così dice uno dei primi discepoli, Filippo, a Natanaele il quale ribatte: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1, 45-46). Questa domanda indica che Nazaret non era molto stimata dai figli di Israele. Nonostante ciò, Gesù fu chiamato “Nazareno” (cf. Mt 2, 23), o anche “Gesù da Nazaret di Galilea” (Mt 21, 11), espressione che lo stesso Pilato utilizzò nell’iscrizione che egli fece porre sulla croce: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei” (Gv 19, 19).

5. La gente chiamò Gesù “il Nazareno” dal nome del luogo in cui egli risiedette con la sua famiglia fino all’età di trent’anni. Sappiamo tuttavia che il luogo di nascita di Gesù non fu Nazaret ma Betlemme, località della Giudea, a sud di Gerusalemme. Lo attestano gli evangelisti Luca e Matteo. Il primo, in particolare, fa notare che a causa del censimento ordinato dalle autorità romane, “Giuseppe, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto” (Lc 2, 4-6).

Come avviene per altri luoghi biblici, anche Betlemme assume un valore profetico. Rifacendosi al profeta Michea, Matteo ricorda che questa cittadina è stata designata come luogo della nascita del Messia: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te infatti uscirà un capo che pascerà il mio popolo Israele” (Mt 2, 6). Il profeta aggiunge: “. . . le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” (Mt 5, 1).

A questo testo si riferirono i sacerdoti e gli scribi che Erode aveva consultato per rispondere ai Magi che, giunti dall’Oriente, domandavano dove era il luogo della nascita del Messia.

Il testo del Vangelo di Matteo (Mt 2, 1): “Gesù nacque a Betlemme di Giudea al tempo del re Erode”, si rifà alla profezia di Michea, alla quale si riferisce anche l’interrogativo riportato nel quarto Vangelo: “Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?” (Gv 7, 42).

6. Da questi particolari si deduce che Gesù è il nome di una persona storica, vissuta in Palestina. Se è giusto riconoscere credibilità storica a figure come Mosè e Giosuè, a maggior ragione va accolta l’esistenza storica di Gesù. I Vangeli non ci riferiscono in dettaglio la sua vita perché non hanno scopo primariamente storiografico. Sono però proprio i Vangeli che, letti con onestà di critica, portano a concludere che Gesù di Nazaret è una persona storica vissuta in uno spazio e tempo determinati. Anche da un punto di vista puramente scientifico deve suscitare meraviglia non chi afferma, ma chi nega l’esistenza di Gesù, come hanno fatto le teorie mitologiche del passato e come ancora oggi fa qualche studioso.

Per quanto riguarda la data precisa della nascita di Gesù, i pareri degli esperti non sono concordi. Si ammette comunemente che il monaco Dionigi il Piccolo, quando nell’anno 533 propose di calcolare gli anni non dalla fondazione di Roma, ma dalla nascita di Gesù Cristo, sia caduto in errore. Fino a qualche tempo fa si riteneva che si trattasse di uno sbaglio di circa quattro anni, ma la questione è tutt’altro che risolta.

7. Nella tradizione del popolo israelitico il nome “Gesù” ha conservato il suo valore etimologico: “Dio libera”. Per tradizione erano sempre i genitori che imponevano il nome ai loro figli. Invece nel caso di Gesù, figlio di Maria, il nome fu scelto e assegnato dall’alto già prima della nascita, secondo l’indicazione dell’angelo a Maria, nell’annunciazione (Lc 1, 31) e a Giuseppe in sogno (Mt 1, 21). “Gli fu messo nome Gesù” - sottolinea l’evangelista Luca - perché con questo nome “era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre” (Lc 2, 21).

8. Nel progetto disposto dalla Provvidenza di Dio, Gesù di Nazaret porta un nome che allude alla salvezza: “Dio libera”, perché egli è in realtà ciò che il nome indica, cioè il Salvatore. Lo testimoniano alcune frasi, presenti nei cosiddetti Vangeli dell’infanzia, scritti da Luca (Lc 2, 11): “. . . vi è nato . . . un salvatore”, e da Matteo (Mt 1, 21): “egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Sono espressioni che riflettono la verità che è rivelata e proclamata da tutto il Nuovo Testamento. Scrive ad esempio l’apostolo Paolo nella Lettera ai Filippesi: “Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi . . . e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore (Kyrios, Adonai) a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 9-11).

La ragione dell’esaltazione di Gesù la troviamo nella testimonianza resa a lui dagli apostoli i quali proclamarono con coraggio: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti sotto il cielo altro nome dato agli uomini nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati” (At 4, 12).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 14 gennaio 1987]

Giovedì, 12 Settembre 2024 03:33

I passi per conoscere Gesù

«Sarà una bella abitudine se tutti i giorni, in qualche momento, potessimo dire: “Signore, che ti conosca e mi conosca” e così andare avanti». È il suggerimento proposto da Papa Francesco nella messa celebrata giovedì 25 ottobre a Santa Marta. Non servono «cristiani a parole» che dicono il Credo «a pappagallo», ha affermato il Pontefice, invitando a vivere l’esperienza di sentirsi sul serio peccatori.

«Se qualcuno — ha esordito Francesco — ci domanda “chi è Gesù Cristo”, noi sicuramente diremo quello che abbiamo imparato nella catechesi, come lui è venuto a salvare il mondo, diremo la vera dottrina su Gesù: è il salvatore del mondo, il Figlio del Padre, Dio, uomo, quello che recitiamo nel Credo». Ma, ha fatto presente, «un po’ più difficile sarà rispondere alla domanda: “È vero, ma per te, chi è Gesù Cristo?”». E questa è una «domanda» che «ci mette un po’ in imbarazzo, perché devo pensare e arrivare al mio cuore per dare la risposta».

Dunque, ha rilanciato il Papa, «per me, chi è Gesù Cristo? La conoscenza di Gesù Cristo che io ho, quale è? Quando dico che per me Gesù Cristo è il Salvatore, è così — ha affermato il Pontefice — ma ognuno di noi deve rispondere anche dal cuore, quello che sa e sente di Gesù Cristo, perché tutti sappiamo che è il salvatore del mondo, che è il Figlio di Dio, che è venuto sulla terra per salvarci, e anche possiamo raccontare tanti passi del Vangelo».

Resta, però, la domanda diretta: ma «per me» chi è Gesù Cristo? Proprio «questo è il lavoro di Paolo» ha spiegato Francesco in riferimento al passo liturgico tratto dalla lettera agli Efesini (3, 14-21), facendo notare che l’apostolo «ha questa inquietudine di trasmettere la propria esperienza di Gesù Cristo». In effetti, ha insistito Francesco, Paolo «non ha conosciuto Gesù Cristo cominciando dagli studi teologici; poi, è andato a vedere come nella Scrittura era annunciato Gesù Cristo». Al contrario, «lui ha conosciuto Gesù Cristo per propria esperienza, quando è caduto da cavallo, quando il Signore gli ha parlato al cuore, direttamente». E «quello che Paolo ha sentito vuole che noi cristiani lo sentiamo».

Se fosse possibile domandare a Paolo «chi è Cristo per te?», ecco che, ha affermato il Papa, lui racconterebbe «la propria esperienza, semplice: “Mi amò e si è consegnato per me”». Ma Paolo «è coinvolto con Cristo, che ha pagato per lui», e «questa esperienza Paolo vuole che i cristiani — in questo caso i cristiani di Efeso — la abbiano, entrino in questa esperienza al punto che ognuno possa dire: “Mi amò e si consegnò per me”». Però è importante «dirlo con l’esperienza propria» ha suggerito il Papa.

Francesco ha voluto rileggere un passo della lettera agli Efesini proposta come prima lettura: «Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere — lì va Paolo — quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio».

«Paolo vuole condurre tutti noi a questa esperienza» ha spiegato il Pontefice, perché è «l’esperienza che lui ha avuto di Gesù Cristo: l’incontro con Gesù Cristo gli ha fatto capire questa cosa grande».

Ma «come si può arrivare a questo, qual è la strada?» è la questione proposta dal Papa. Forse, ha aggiunto, «devo recitare il Credo tante volte? Sì, ma non è proprio la migliore strada giusta per arrivare a questa esperienza: aiuterà, ma non è quella giusta». Infatti, ha affermato Francesco, «Paolo quando dice che Gesù si è consegnato per lui, che è morto per lui, vuole dire “ha pagato per me” e racconta tante volte nelle sue lettere la propria esperienza: “Io ero un peccatore”, “io perseguitavo i cristiani”».

Per farlo, ha proseguito il Papa, egli «parte dal proprio peccato, dalla propria esistenza peccatrice, e la prima definizione che dà Paolo di se stesso è “peccatore”: scelto per amore, ma peccatore». Così, ha fatto presente il Pontefice, «il primo passo per la conoscenza di Cristo, per entrare in questo mistero, è la conoscenza del proprio peccato, dei propri peccati».

«Tutti noi ci accostiamo al sacramento della riconciliazione e noi diciamo i nostri peccati» ha proseguito Francesco. «Ma — ha specificato — una cosa è dire i peccati, riconoscere i peccati e un’altra cosa è riconoscersi “peccatore”, di natura “peccatore”, capace di fare qualsiasi cosa». Insomma, «riconoscersi una sporcizia». E «Paolo ha questa esperienza».

Ci vuole, perciò, la consapevolezza che «il primo passo per la conoscenza di Gesù Cristo è la conoscenza propria, della propria miseria, che ha bisogno di essere redenta, che ha bisogno di qualcuno che paghi: paghi il diritto a dirsi “figlio di Dio”». In realtà, ha spiegato il Papa, «tutti lo siamo, ma» per «dirlo, sentirlo, c’era bisogno del sacrificio di Cristo e, partendo da questo, Paolo va avanti con queste esperienze religiose che lui ha, una dietro l’altra, tramite la preghiera e la carità».

Ecco allora, ha riaffermato il Pontefice, che «il primo passo» è «riconoscersi peccatori, ma non in teoria, in pratica». Dire «ho incominciato a fare questo, mi sono fermato, ma se io fossi andato più su questa strada, sarei finito male, molto male» è «la radice del peccato che ti porta avanti». Dunque «il primo passo è questo: riconoscersi peccatore e dire a se stesso le proprie miserie, vergognarsi di se stesso: è il primo passo».

«Il secondo passo per conoscere Gesù è la contemplazione, la preghiera» ha affermato il Papa, proponendo la semplice invocazione: «“Signore, che io ti conosca”». E aggiungendo che «c’è una preghiera bella, di un santo: “Signore, che ti conosca e mi conosca”». Si tratta, ha spiegato Francesco, di «conoscere se stessi e conoscere Gesù». E «qui si dà questo rapporto di salvezza: la preghiera» ha rilanciato il Pontefice, invitando a «non accontentarsi con il dire tre, quattro parole giuste su Gesù» perché «conoscere Gesù è un’avventura, ma un’avventura sul serio, non un’avventura da ragazzino».

Conoscere Gesù, ha proseguito il Papa, «è un’avventura che ti porta tutta la vita, perché l’amore di Gesù è senza limiti». Lo ricorda Paolo sempre nella lettera agli Efesini: «Quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità» è un’espressione per indicare, appunto, che «non ha limiti». Ma «questo soltanto con l’aiuto dello Spirito Santo possiamo trovarlo: è l’esperienza di un cristiano». E «Paolo stesso lo dice: Lui ha tutto il potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare. Ha la potenza di farlo». Però «dobbiamo domandarlo: “Signore, che io ti conosca; che quando io parlerò di te, dica non parole da pappagallo, dica parole nate nella mia esperienza, e come Paolo possa dire: “Mi amò e si è consegnato per me” e dirlo con convinzione». Proprio questa è la nostra forza, questa è la nostra testimonianza».

«Cristiani di parole, ne abbiamo tanti; anche noi, tante volte lo siamo» ha messo in guardia Francesco. Ma «questa non è la santità: santità è essere cristiani che operano nella vita quello che Gesù ha insegnato e quello che Gesù ha seminato nel cuore». Per farlo occorre «conoscere Gesù» con «quella conoscenza che non ha limiti: l’altezza, la lunghezza, la pienezza, tutto».

Il «primo passo» ha ripetuto il Papa, resta «conoscere se stessi peccatori: senza questa conoscenza, e anche senza questa confessione interiore che sono un peccatore, non possiamo andare avanti». Poi, ha ricordato, il «secondo passo» è «la preghiera al Signore che, con la sua potenza, ci faccia conoscere questo mistero di Gesù che è il fuoco che lui ha portato sulla terra».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 26/10/2018]

Martedì, 10 Settembre 2024 10:39

Sollevare la Croce, cattiva reputazione

XXIII Domenica Tempo Ordinario Anno B (8 settembre 2024)

1. Nella prima lettura dell’odierna liturgia il profeta Isaia si rivolge agli ebrei deportati in Babilonia che tornano verso Gerusalemme: “Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”. C’è una parola che potrebbe sorprendere: “la vendetta divina”.  E’ meglio subito precisare che non ha lo stesso significato rispetto al nostro modo di sentire. Contestualizzandola nel momento storico, si capisce che quando il profeta parla della vendetta di Dio si riferisce alla salvezza e lo comprendiamo meglio se si formula il testo così: “Ecco la vendetta di Dio: Egli viene e vi salverà”, e poi: “Ecco la ricompensa di Dio: Egli stesso viene per salvarvi”. Ancor più aiutano a percepire questo messaggio di speranza le promesse che seguono: i malati guariranno, i ciechi riacquisteranno la vista, i sordi l’udito, gli storpi salteranno come cervi e griderà di gioia la lingua del muto. Queste promesse hanno il sapore d’un balsamo lenitivo e incoraggiante alle orecchie di un popolo deportato in Babilonia e segnato dalle atroci ferite inferte dall’assedio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor. E’ a loro che Dio assicura futuri giorni di benessere e di gioia ritrovata. Ma c’è di più: alla luce del quadro storico e religioso di quel tempo la “vendetta” veniva percepita in maniera favorevole dagli ebrei perché sapevano che il Signore mai avrebbe abbandonato il suo popolo e anzi lottava contro il male che l’opprimeva. “Vendetta divina” significava quindi ridare dignità a coloro che formano questo popolo che il Signore si è scelto e che pone in lui ogni attesa. E proprio in questo brilla la gloria di Dio. A meglio comprendere giova aggiungere che all’inizio della sua storia, il popolo della Bibbia immaginava un Dio vendicativo come sono gli uomini e, solo attraverso un percorso di purificazione della fede durato lunghi secoli grazie alla predicazione dei profeti, ha cominciato a scoprire il vero volto del Signore. E allora, pur restando la parola “vendetta” il contenuto è del tutto mutato, come si è verificato per altre parole, ad esempio “sacrificio” e “il timore di Dio”. Ci sono voluti secoli per arrivare a riconoscere il vero volto di Dio, un Dio diverso da come si poteva immaginare, un Dio che è amore e spende il suo amore per tutti gli uomini.  Con la frase: “Ecco la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”, il profeta vuol far intendere che Dio ama più di ogni altro al mondo e in qualsiasi prova, dolore e umiliazione fisica o morale, non tarda a intervenire manifestando la sua misericordia. Quanto è necessario riscoprire nella nostra vita la misericordia divina! Dio viene a salvarci, viene a rialzarci. Un aspetto fondamentale della fede è proprio la certezza che Egli ha già vinto la prepotenza del male con l’onnipotenza del suo amore misericordioso e anche se le forze sataniche operanti a vari livelli apparentemente dominano nel mondo, il cristiano non cede alla tentazione del pessimismo perché sa di essere amato da Colui che in tanti modi vuole manifestarci la sua tenerezza di Padre e mai ci abbandona.

2. Oggi è per noi l’invito che Isaia rivolge agli esuli in Babilonia che fanno ritorno a Gerusalemme. La fede ci assicura che l’umanità è in sicura attesa della definitiva liberazione da ogni forma di schiavitù e di offesa alla dignità dell’uomo, da ogni rischio di accecamento fisico e morale che perturba la pace. Il Messia è il salvatore promesso: i contemporanei di Gesù dovevano averlo compreso perché, presentando sé stesso come Messia nella sinagoga di Nazaret (Cf Lc 4) Gesù cita proprio il profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore, di DIO, è su di me, perché il SIGNORE mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l'apertura del carcere ai prigionieri, per proclamare l'anno di grazia del SIGNORE, il giorno di vendetta del nostro Dio” (61,1-2).  Da notare però che della profezia omette di proposito le ultime parole: “il giorno di vendetta del nostro Dio”, per chiarire che egli viene per dare speranza e salvezza ai poveri, ai prigionieri, agli oppressi, che con fatica avrebbero compreso la parola “vendetta”. Ormai ogni sua azione avrà il volto della misericordia.  Misericordia, di cui sono segni tangibili i ciechi che riacquistano la vista, gli storpi che riprendono a camminare, i lebbrosi purificati, i sordi capaci di sentire nuovamente, i morti che risuscitano e soprattutto il vangelo annunciato ai poveri, come il Cristo afferma rispondendo ai discepoli di Giovanni Battista venuti per domandargli se è il Messia atteso (Lc 7,22). Questo è il vangelo: Dio ci rialza dalla nostra miseria e ci salva, e questo appare chiaramente nell’odierna pagina del vangelo di Marco (cap.7). Gesù è in terra pagana - il territorio della Decapoli - dove guarisce un uomo che soffre di doppia infermità: è sordo e muto. L’evangelista utilizza il termine greco “magilalos”(che significa colui che parla con difficoltà perché è non udente), raramente usato nel Nuovo Testamento e una sola volta presente nell’Antico Testamento proprio nel testo d’Isaia che abbiamo ascoltato nella prima lettura: ”griderà di gioia la lingua del muto”. L’evangelista assicura che questa profezia si è compiuta in Gesù e ne è prova la guarigione del sordo muto, simbolo dell’umanità incapace di sentire e quindi con serie difficoltà nel comunicare (balbetta soltanto). Si chiede a Gesù “di imporgli la mano” e lui compie qualcosa che mai aveva fatto prima. Lo allontana dalla folla e ripete gesti rituali dei guaritori: mette le dita negli orecchi e con la saliva tocca la lingua. Gesù non cambia questi gesti ma li riveste di un nuovo significato. A differenza dei guaritori, egli guarda verso il cielo, emette un sospiro e gli dice: “Effata, cioè apriti”.  Alzando gli occhi verso l’Alto manifesta che guarisce grazie al potere conferitogli dal Padre. Quanto al sospiro si tratta piuttosto di un gemito: viene usata la stessa parola che san Paolo, nella lettera ai Romani, utilizza per descrivere sia l’impazienza della creazione che attende la liberazione, sia la maniera con cui lo Spirito Santo prega nel cuore dei credenti “con gemiti inesprimibili” (Rm 8, 26). Nel gemito di Gesù possiamo avvertire da una parte l’umanità che aspetta e invoca la liberazione e dall’altra lo Spirito che intercede per noi perché nessuna umana sofferenza ci lasci indifferenti. Il vangelo si chiude con la gente che piena di stupore proclama: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”. Percepiamo qui un’anticipazione della professione di fede della comunità cristiana che sarà totale e perfetta sulle labbra del centurione sotto la croce di Cristo verso la fine del vangelo di Marco: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15, 39).

3. Effatà, cioè “Apriti” è una delle poche parole aramaiche citate direttamente nel vangelo e rimaste immutate in ogni lingua. Si trova nel rito del battesimo, quando il celebrante tocca le orecchie e le labbra del battezzato aggiungendo: “Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede a lode e gloria di Dio Padre. Ogni giorno ascoltiamo nella liturgia il salmista che canta: “Signore apri le mie labbra e la mia bocca annuncerà la tua lode (Sal 50/51,17), e torna frequente nella predicazione l’affermazione dell’apostolo Paolo: “Nessuno può dire "Gesù è Signore" se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Co 12,3). Solo Dio può aprire il cuore dell’uomo e rendere le sue labbra degne di onorarlo. Solo Dio ci salva: tocca però alla nostra libertà decidere di scegliere di amarlo e proclamare la sua lode non semplicemente a parole, bensì  con tutta la vita diventata vangelo vivente.

Buona domenica + Giovanni D’Ercole

Martedì, 03 Settembre 2024 12:43

Iniziazione alla Fede

XXII Domenica del Tempo Ordinario B (1 settembre 2024)

1. “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. L’affermazione si trova nella prima lettura tratta dal libro del Deuteronomio e si riferisce a ciò che tutti potrebbero dire di Israele, quando resta fedele all’Alleanza. Il progetto del Creatore è che, attratti dall’esempio di questo piccolo popolo che si è scelto come nucleo trascinante dell’umanità, venga il giorno in cui da ogni continente la gente chieda di far parte del popolo della nuova alleanza e possa gridare con gioia di aver trovato finalmente la gioia di vivere e di viver insieme con l’unico Dio, Dio di tutti i popoli.  I testi biblici di questa XXII Domenica del tempo ordinario ci aiutano a scoprire qual è l’inghippo, meglio l’ostacolo alla realizzazione di tale sogno divino.  La prima lettura tratta dal Deuteronomio (redatto tra l’VIII e VI secolo A.C.) attribuisce il discorso a Mosè, anche se in verità risale a molti anni dopo la sua morte, ma è come se si volesse ripetere quanto egli avrebbe detto in quel momento se fosse vivo. Qui si insiste che nulla si aggiunga e nulla si tolga alla Legge da Dio donata a Mosè sul Sinai perché purtroppo il popolo con il tempo si era allontanato ed urgeva ribadire l’essenziale della fede ebraica, l’osservanza cioè della Torah che tiene viva nei secoli l’Alleanza. L’Alleanza tra Yahweh e il suo popolo reca in sé due aspetti inscindibili. Da una parte Dio ha compiuto fedelmente quanto aveva promesso (una terra al suo popolo), mentre non si può dire altrettanto della risposta di Israele. Da quando infatti è entrato nella terra promessa, la terra di Canaan, non ha resistito alla tentazione di abbandonare l’unico Dio e i suoi precetti (mitzvot) per rivolgersi agli idoli di quelle popolazioni. Il Signore gli aveva donato la terra perché vi vivesse in modo santo e il termine “santo” (Kadosh) indica qualcuno o qualcosa che è distinto dal resto, nel bene o nel male, e potrebbe tradursi con “separato”. Parliamo di Terra santa, ma meglio sarebbe dire “Terra separata”, territorio donato a Israele perché vi viva in maniera diversa e questo significa almeno tre cose. In primo luogo, è una terra destinata ad essere la patria d’un popolo felice perché fedele al proprio Dio; in secondo luogo è una terra chiamata a diventare terra di giustizia e di pace perché il popolo ha appreso dalla bocca del suo Dio che non è il solo popolo al mondo e che quindi deve imparare a coabitare con altri. Da questo punto di vista la lunga storia biblica d’Israele può leggersi come un cammino di difficile conversione dalla violenza alla fraterna apertura agli altri. In terzo luogo, la Terra santa costituisce nel progetto divino lo spazio per imparare a vivere interamente secondo la Torah. Comprendiamo allora il comando del Signore: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi”. Se questo testo risale all’epoca dell’esilio a Babilonia, si potrebbe interpretare così: Israele non avrebbe mai perso questa Terra se avesse seguito la Torah e i comandi del suo Dio, ma ora che sta per rientrarvi, cerchi almeno questa volta di essere fedele a quanto garantisce la sua felicità. Essere fedele per Israele però non appariva facile ed è per questo che l’autore sacro, per incoraggiarlo, inventa un nuovo argomento: “udendo parlare di tutte queste leggi”, cioè vedendo la vita e lo stile che lo anima, le altre popolazioni diranno : “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Qui si avverte l’eco del libro dei Proverbi che considera l’accoglienza della Sapienza (Pr 9, 1-6 che abbiamo ascoltato nella scorsa XX domenica del tempo ordinario) il modo migliore di imparare a vivere. Infine, un ultimo argomento: la dolcezza della vita secondo l’Alleanza è l’esperienza spirituale unica al mondo di cui Israele ha avuto il privilegio: .“Quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?”.

2. A nostra volta, noi popolo di battezzati possiamo parafrasare e ripetere: “Quale grande nazione ha gli dei tanto vicino come il Signore lo è verso di noi ogni volta che lo invochiamo?”. Questa domanda ci provoca e per tentare una risposta occorre partire da un’altra parola di Gesù che troviamo oggi nel vangelo: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Siamo nel cuore di una controversia con i farisei che rimproverano i suoi discepoli di non osservare la Torah. Si fa cenno qui alla “tradizione degli antichi”: la parola tradizione ripetuta nel versetto 3 e  5 non va intesa in senso dispregiativo. Essa anzi costituisce la ricchezza di quanto gli antenati hanno cercato di insegnare circa la Legge divina e hanno codificato, sotto forma di precetti, i comportamenti graditi a Dio, che concernono ogni più piccolo dettaglio della vita quotidiana. Per tale motivo i farisei ritenevano l’osservanza di tale disciplina indispensabile per preservare l’identità del popolo ebreo. Israele si sentiva una nazione “separata” per appartenere a Dio e quindi ogni contatto con i pagani costitutiva un impedimento alla propria fedeltà all’Alleanza. Ecco perché i farisei s’indignano contro i discepoli di Cristo per il fatto che vanno contro la Legge mangiando senza essersi lavate le mani.  Citando il profeta Isaia Gesù li definisce “ipocriti” e questa sua severità sottintende un problema di fondo, che interpella la nostra vita. In verità anche Gesù cita le Scritture che sono per tutti il riferimento supremo d’ogni scelta e dice: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” . Qui sta il problema: l’osservanza fedele d’ogni norma della Legge diventa un culto inutile se le dottrine che s’insegnano si riducono a  precetti umani, come già i profeti avevano più volte dichiarato (Cf Is 29,13). Gesù afferma: Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Quale sia il comandamento di Dio a cui faccia riferimento, che farisei e scribi calpestano, Gesù non lo dice, ma rimprovera loro di “avere il cuore lontano da Dio”. Torna spesso nel Vangelo questo rimprovero del Signore - lottando contro ogni esclusione compiuta in nome di Dio e questa è la tela di fondo delle sue controversie con le autorità religiose. Si comprende in modo errato la legge divina se si crede che per avvicinarsi a Dio bisogna separarsi dagli altri uomini. Al contrario i profeti hanno dispiegato ogni energia per far scoprire che il vero culto gradito al Cielo comincia con il rispetto di ogni persona umana. Se nel Levitico leggiamo: “Siate santi, perché io, il SIGNORE vostro Dio, sono santo” (19,2), non dimentichiamo che lo stesso Dio è annunciato da Isaia come il Dio del perdono (Is 43) che non può mai condurre al disprezzo degli altri. E Gesù spiega poi in cosa consiste la vera “purità”, cioè il culto autentico reso a Dio. Se in senso biblico “purità” indica la maniera di avvicinarsi a Dio, la vera purità del cuore, come molti profeti hanno ripetuto,  è l’amore e il perdono, la tenerezza e l’accoglienza: in una parola la misericordia, mentre l’impurità che condanna nei suoi avversari è l’indurimento del cuore perché è ciò che fuoriesce dal cuore umano a renderci impuri.

3. Gesù infatti si rivolge poi ai discepoli e completa così il suo insegnamento: Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo. Bisogna riconoscere che si tratta di un insegnamento difficile da comprendere non solo per i farisei, ma anche per noi. E’ però una lezione di vita che riusciamo a comprendere ed accettare appieno solamente grazie al fatto che Dio è venuto ad abitare fra noi mostrando con il suo esempio di non aver paura del contatto con gli esseri impuri che noi siamo. E per incoraggiare i discepoli subito dopo Gesù se ne va in una regione abitata da pagani.  Come ai tempi di Cristo, esiste il rischio dei farisei che era il movimento religioso nato verso il 135 a.C. dal desiderio di sincera conversione. Il termine fariseo significa “separato” e si traduce nel rifiuto di ogni compromesso politico e di ogni lassismo nella pratica religiosa. Si tratta di due problemi molto sentiti e Gesù non attacca mai i farisei e non rifiuta di parlare con loro, come fa con Nicodemo (Gv 3) e con Simone ( Lc 7). Ma la pretesa di ogni più alto ideale spirituale e religioso può avere la sua trappola: il rigore dell’osservanza può generare una coscienza talmente centrata sulla ricerca dell’ottimo, da disprezzare chi non arriva a farlo. Più in profondità, quando si concepisce la perfezione nel vivere in maniera esclusiva e “separati” si dimentica che il progetto di Dio è di vedere tutti gli uomini riuniti nell’amore. Se Gesù usa talora parole dure non è contro la pratica dei farisei, ma condanna quelle deviazioni che riguardano ciò che si definisce “fariseismo” e di questo rischio non è esente nessun movimento religioso, compreso il cristianesimo.

Buona domenica e buon mese di settembre 

+Giovanni D’Ercole 

Lunedì, 26 Agosto 2024 11:52

Modelli e Purezza, Idee e Ideale

Domenica, 18 Agosto 2024 20:16

Da Chi andremo?

XX Domenica del tempo ordinario  B  (18 agosto 2024)

1. Come domenica scorsa, anche quest’oggi san Paolo, nella seconda lettura, rivolge agli Efesini alcune raccomandazioni, che possiamo riassumere in quattro punti: “non vivete come dei pazzi, ma siate saggi”; “fate buon uso del tempo perché i giorni nostri sono cattivi”; “non ubriacatevi di vino che fa perdere il controllo di sé, ma siate ricolmi dello Spirito”; “rendete continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre nel nome di nostro Signore Gesù Cristo”. Vivere come pazzi o come saggi è la sfida per ogni essere umano. Lo sforzo di chi vuole seguire Gesù è nutrirsi della sua sapienza che si presenta come un cammino, un modo di concepire la vita e di comportarsi non alla maniera di questo mondo bensì secondo la vocazione dei figli della luce, immersi nell’amore divino. Stiamo attraversando, osserva san Paolo, tempi non facili fra gente che facilmente diventa egoista, nemica del bene e amante dei piaceri piuttosto che dedicarsi alla ricerca della gioia di Dio (Cf. 2 Tm 3, 1-7). La vera sapienza consiste nell’accogliere ogni giorno la volontà di Dio, riempirsi non di vino che ubriaca, cioè di ciò che stordisce la coscienza e indebolisce la volontà, ma di Spirito Santo che rende capaci di vivere nella lode, nell’adorazione e nel ringraziamento. Grazie all’azione dello Spirito Santo tutta l’umana esistenza si converte in una vera liturgia perché è lui a introdurci nella sapienza di Cristo, Colui che dona la vita perché il mondo abbia la vita.

2. Il riferimento di san Paolo alla sapienza divina, e di questa sapienza parla anche la prima lettura tratta dal libro dei Proverbi, ci prepara alla meditazione dell’odierna pagina del vangelo di Giovanni che prosegue il racconto della catechesi sull’Eucarestia che Gesù tiene nella sinagoga di Cafarnao. Quest’oggi riprende con quest’affermazione: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (v.51). Gesù non sta parlando di un cannibale, di antropofagia; e non si meravigliano i suoi ascoltatori perché minimamente sospettano che si tratti di un linguaggio assurdo. Nel mondo ebraico si era abituati ad utilizzare la metafora del mangiare e del bere e si sapeva che esistono fame e sete più urgenti ed esigenti di quelle dello stomaco. Ci sono uomini che possono riempirsi lo stomaco a volontà, ma soffrono di mancanza di amore, allo stesso modo il cuore umano lontano da Dio finisce per morire di inedia spirituale. La sapienza per il popolo d’Israele è sempre una scelta: tra la vita o la morte, tra il bene o il male, tra la gioia o la tristezza mortale, tra Dio o l’uomo.  Dio solo però, conoscendola può donare all’uomo la vera sapienza che non delude.  Nel libro della Genesi il racconto dell’albero della conoscenza del bene e del male e del peccato di Adamo ed Eva costituisce una metafora per dire che la conoscenza di ciò che rende l’uomo veramente libero e felice o schiavo e infelice è accessibile solo a Dio e l’uomo con la sola sua intelligenza/volontà non può mai costruirsela (Gn 2, 8 - 3, 24). All’uomo allora non resta che mettersi in ascolto obbediente di Dio, il quale ha voluto dare in dono la sapienza al suo popolo e Israele è fiero di essere il depositario della sapienza divina dinanzi al mondo intero. Sempre nella prima lettura dal libro dei Proverbi, si dice che la divina sapienza ha posto la sua tenda sulla montagna santa a Gerusalemme e “si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne”. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola e ha mandato le sue ancelle a proclamare a chi è inesperto e a chi è privo di senno: “venite a mangiare pane e bere vino che vi ho preparato”. Non si fa fatica a capire il nesso tra il dono della Sapienza e il dono dell’Eucarestia, tutto e sempre nella logica del dono.

3. Gli ascoltatori a Cafarnao conoscevano questi testi dell’Antico Testamento e per questo rimangono basiti quando Gesù parla di sé come del pane della vita e si chiedono: ma per chi si prende quest’uomo che conosciamo bene? Capivano che Gesù si stava presentando come il Messia che loro aspettavano e questo era per loro inaccettabile. Nel suo discorso Gesù più volte ha insistito sul fatto di essere l’Inviato di Dio per dare la vita al mondo affrontando l’incomprensione, il mormorio critico e spesso il deciso rifiuto degli ascoltatori. Rifiuto della sua identità che san Giovanni afferma già nel prologo del suo vangelo, quando scrive che il Verbo “venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1, 11).  In effetti pochi riescono a entrare gradualmente nel mistero di Dio e sono coloro che umilmente ascoltano Gesù fino in fondo invece di cominciare subito a discutere. Questo vale anche per noi: solo avvolti dalla sapienza divina che è follia per gli uomini possiamo accostarci al mistero. Gesù di Nazaret, ebreo tra gli ebrei, parlava con il linguaggio del tempo, utilizzava le stesse immagini e i medesimi simboli. Chi lo ascoltava poteva capirlo almeno per il fatto che stava usando lo stesso vocabolario e condivideva la stessa maniera di ragionare. Invece la maggioranza decide di non seguirlo e questo avviene in tanti momenti della sua vita.  Non essendoci nel quarto vangelo, come invece nei sinottici, il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia il Giovedì Santo dopo l’ultima cena, questo discorso costituisce una prima grande catechesi sul mistero eucaristico. Quando Giovanni scrive il vangelo, le prime comunità cristiane erano già abituate da diversi anni a nutrirsi del corpo e del sangue di Cristo ogni domenica e cercavano di capire questo mistero. Ma più che cercare di capire – dice Gesù - occorre con umiltà lasciarsi contagiare dal mistero.  Nel cuore della preghiera eucaristica anche il celebrante lo proclama: questo è “Mistero della fede”. Entrare nel mistero dell’Eucarestia va oltre la nostra capacità ed allora è necessario lasciarsi illuminare e condurre da Dio. E Gesù spiega ancora: “Come il Padre che la vita ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”. Vivere la stessa sua vita: è questo il dono di Dio agli uomini nell’Eucaristia. Gesù aveva proclamato che la sua parola è nutrimento per il mondo, ma qui va ben oltre, parla di carne da mangiare che diventa cibo da assimilare non solo per noi stessi ma per il bene dell’umanità: ”Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo”. Si riferisce alla sua passione e alla sua morte e risurrezione dato che tutto il Nuovo Testamento ci fa comprendere che il mondo ha ritrovato la vita grazie proprio al dono della croce gloriosa di Cristo, cioè vittoriosa della morte. Non meravigliamoci se facciamo fatica a capire con la nostra intelligenza perché l’unica strada percorribile non è cercare di capire, ma lasciarci attrarre da Dio. A coloro che mormoravano tra loro quando Gesù aveva detto di essere il pane disceso dal cielo, Gesù aveva replicato: “Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio”. Dunque per l’uomo tutto è difficile se Dio stesso non viene ad istruirci. Quando ascoltiamo gli insegnamenti del Padre incontriamo Gesù perché “nessuno viene a me – insiste - se il Padre mio non l’attira”. Nell’Eucarestia siamo attratti: è la Trinità Santissima che ci attrae divinamente a sé. Sì, nella celebrazione eucaristica, entriamo nel mistero della Santissima Trinità. Prima, durante e dopo restiamo in adorazione lasciandoci istruire e trasformare da Dio Trinità Santissima e Misericordia infinita. Questo è l’esempio dei santi, che traggono dall’immersione nel mistero della Santissima Trinità la forza per amare tutti nella verità. E questo è un dono offerto a tutti. Durante la sua breve vita, Carlo Acutis, un adolescente già beato e presto proclamato santo viveva dell’Eucarestia. Diceva: "L'Eucaristia è la mia autostrada per il Paradiso", e "se stiamo davanti al sole, diventiamo marroni, ma quando stiamo davanti a Gesù nell'Eucaristia, diventiamo santi".

+Giovanni D'Ercole

Solennità dell’Assunzione di Maria (15 agosto 2024)

1. Nel cuore dell’estate la liturgia c’invita a celebrare la Vergine Maria assunta in cielo, segno di consolazione e di sicura speranza per tutti. Fu papa Pio XII, il 1° novembre dell’Anno Santo del 1950, a dichiarare come dogma (cioè verità di fede) l’Assunzione di Maria alla gloria celeste in anima e corpo. L’odierno Vangelo di Luca presenta Maria come colei che è beata perché ha creduto. Al saluto di Elisabetta: “A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?”, lei risponde con il suo silenzio che si espande alla fine nel canto del Magnificat.  Al suo posto parla in maniera misteriosa Gesù in gestazione dentro di lei facendo sussultare di gioia Giovanni Battista nel ventre dell’anziana Elisabetta. Eccola Maria, Arca della nuova alleanza, primo itinerante tabernacolo dell’Eucarestia nella storia dell’umanità, modello di evangelizzazione: annunciare il vangelo senza bisogno di parole, recando Cristo nel cuore. Fra i mussulmani san Charles de Foucauld scelse l’icona della Visitazione come riferimento per la sua missione di piccolo fratello di tutti. Volle essere come Maria in adorazione costante dell’Eucarestia e in ascolto dei bisogni della gente dapprima a Beni-Abbès, al confine tra Algeria e Marocco e poi a Tamanrasset fra i tuareg del deserto del Sahara. Arca della nuova alleanza, Maria continua a camminare anche oggi ed entra nelle nostre case come fece nell’Antico Testamento l’Arca dell’alleanza che da Gerusalemme fu portata sulle colline della Giudea ed entrò per restarvi tre mesi nella casa di Obed Edom recandovi gioia (2 S 6,11-12). La preghiera, il cantico del Magnificat con cui risponde ad Elisabetta, è una silloge di tanti piccoli frammenti di testi biblici e salmi. Non ha voluto inventare la sua preghiera, ma ha ripreso diverse espressioni degli antenati nella fede incarnando così la sua preghiera nella vita dell’umanità. Maria, donna umile e credente, ci offre un prezioso insegnamento: in questo tempo tanto difficile per l’umanità dove si sta provocando Dio con ogni offesa e si rischia una guerra che potrebbe creare l’autodistruzione dell’umanità dobbiamo tornare al silenziare tante polemiche e tanti dibattiti e scontri. Dobbiamo avvertire la responsabilità di ciò che diciamo e facciamo sapendo che siamo parte di una stessa umanità e nel bene come nel male tocchiamo la vita di tutti. Il credente non può dimenticare che ogni vocazione, pur nella pluralità delle differenze, ci rende servitori dell’unico popolo chiamato ad affrontare in ogni epoca una dura lotta contro le potenze del male.   

2. A questa guerra senza fronti fa riferimento la prima lettura, tratta dal libro dell’Apocalisse, che vede vincitrice la “Donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle”, accompagnata da altre simboliche immagini: l’Arca dell’alleanza, il dragone e il bambino appena nato.  L’Arca dell’alleanza, come già detto, è il richiamo all’Arca di legno dorato che accompagnava il popolo di Dio durante l’esodo verso il Sinai. Quando Giovanni scrive l’Apocalisse, l’Arca dell’alleanza si era persa già da molti anni durante l’esilio babilonese e tutti pensavano che il profeta Geremia l’avesse nascosta in un posto segreto del monte Nebo (2 M 2,8) e sarebbe riapparsa all’arrivo del Messia. Se Giovanni la descrive ritrovata, vuol dire che ormai si è compiuta la promessa, si è definitivamente attuata l’alleanza di Dio con l’umanità grazie alla nascita del Messia (Ap 11,19). La “Donna vestita di sole” è incinta e “grida per le doglie del parto”. La Donna è immagine del popolo eletto all’interno del quale nasce il Messia, un parto doloroso perché è un popolo segnato da sofferenze, divisioni e persecuzioni. Con l’avvento di Gesù non fu difficile ai primi cristiani associare nella Donna dell’Apocalisse il richiamo alla Chiesa, nuovo Israele e a Maria, la Madre del Salvatore. Davanti alla Donna si apposta “un dragone rosso con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi” per divorare il figlio appena nato, simbolo impressionante delle forze del male scatenate contro il piano di Dio.  La sua testa e le corna indicano l’intelligenza e la violenza del potere di satana che vuole distruggere l’umanità. Il drago sembra prevalere perché abbatte un terzo delle stelle de cielo per precipitarle a terra, eloquente parabola del travaglio di un universo mai in pace. Nonostante però la sua potenza, riesce ad abbattere soltanto un terzo delle stelle. Si tratta quindi di una vittoria illusoria e il messaggio è chiaro: il potere del male è provvisorio e ad abbatterlo definitivamente sarà il bambino appena nato destinato a governare tutte le nazioni. Tutti riconoscono in questo neonato, trionfatore delle potenze sataniche, il Messia essendoci nell’Apocalisse chiari riferimenti ai salmi che ne prevedevano la venuta: ”Il Signore mi ha detto : Tu sei mio figlio , io oggi ti ho generato . Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre lontane. Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai.” (Sal 2,7-9).  Inoltre, nel rapimento del neonato è simboleggiata la risurrezione di Cristo risorto, vincitore della morte e assiso alla destra del Padre. Al Messia si unisce il richiamo a Maria, la vergine Madre Immacolata, rappresentata sempre nell’atto di schiacciare la testa del serpente- dragone, il quale avendo fallito in cielo non riuscirà nemmeno sulla terra. Come allora non amare Maria entrando nel suo Cuore Immacolato, “sicuro rifugio delle anime”?

3. Maria è sostegno della nostra speranza perché è Donna della fede che ha accettato il progetto di Dio senza tutto comprendere, anzi una spada le ha trafitto l’animo come aveva predetto il vecchio Simeone (Lc 2,35). La tradizione della Chiesa fin dall’inizio l’ha associata inscindibilmente a Gesù, il modello insuperabile della totale adesione alla volontà di Dio. Anzi lui stesso c’insegna con l’orazione del “Padre nostro” ad abbandonarci senza paura tra le braccia del Padre celeste dicendogli con la vita: “si compia la tua volontà”. Maria ha conosciuto come tutti noi la fatica, il dolore e la morte; per uno speciale privilegio però la morte è stata per lei un addormentarsi entrando così nella gloria in Dio. Contemplandola possiamo capire ciò che attendeva l’uomo se i nostri progenitori non avessero compiuto il primo peccato che ci ha resi condannati ai patimenti della morte. Alla luce di Maria possiamo dunque affermare due verità: Il nostro corpo, a causa del peccato originale, è soggetto alle fatiche, alla sofferenza e alla morte che decompone il nostro essere mortale. Maria assunta in cielo ci assicura però che, se a causa del peccato è entrata la morte, Dio può trasformarla e ridarci in dono la vita immortale. Questo è il messaggio dell’odierna festa dell’Assunzione, un’occasione per riflettere, pregare e confidare nella misericordia di Dio che in Maria ci mostra la vittoria dell’amore sull’odio e della vita sulla morte. Fermiamoci a contemplare Maria con questa preghiera di san Bernardo: “Chiunque tu sia, tu che avverti che nel flusso di questo mondo stai ondeggiando tra burrasche e tempeste invece di camminare sicuro sulla terra, non distogliere gli occhi dallo splendore di questa stella, se non vuoi essere sopraffatto dalle tempeste! Se si alzano i venti della tentazione, se t’imbatti negli scogli delle tribolazioni, guarda la stella, invoca Maria. Se sei sbattuto dalle onde della superbia, dell’ambizione, della calunnia, della gelosia, guarda la stella, invoca Maria. Se l’ira o l’avarizia o le lusinghe della carne hanno scosso la navicella del tuo animo, guarda Maria. Se turbato dalla enormità dei peccati, confuso dalla indegnità della coscienza, impaurito dall’orrore del giudizio, tu cominci ad essere inghiottito nel baratro della tristezza, nell’abisso della disperazione, pensa a Maria. Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Non s’allontani dalla tua bocca, non s’allontani dal tuo cuore. E per ottenere il suffragio della sua preghiera, non abbandonare l’esempio della sua vita raccolta in Dio. Seguendo Lei non ti smarrisci, pregando Lei non ti disperi, pensando a Lei non sbagli. Se Lei ti tiene, non cadi; se Lei ti protegge, non temi; se Lei ti guida, non ti stanchi; se Lei ti dà il suo favore, tu arrivi al tuo fine, e così sperimenti in te stesso quanto giustamente sia stato detto: «E il nome della Vergine era Maria” (In laudibus Virginis Matris II,17).

+ Giovanni D’Ercole

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The "widow" represents the soul of the People from whom God, the Bridegroom, has been stolen. The "poor" is such because she is the victim of a deviant teaching: a doctrine that arouses fear, more than humility or a spirit of totality. Jesus mourns the condition of she who should have been helped by the Temple instead of impoverished
La “vedova” raffigura l’anima del Popolo cui è stato sottratto Dio, lo Sposo. La “povera” è tale perché vittima di un insegnamento deviante: dottrina che suscita timore, più che umiltà o spirito di totalità. Gesù piange la condizione di colei che dal Tempio avrebbe dovuto essere aiutata, invece che impoverita
Jesus has forever interrupted the succession of ferocious empires. He turned the values ​​upside down. And he proposes the singular work - truly priestly - of the journey of Faith: the invitation to question oneself. At the end of his earthly life, the Lord is Silent, because he waits for everyone to pronounce, and choose
Gesù ha interrotto per sempre il susseguirsi degli imperi feroci. Ha capovolto i valori. E propone l’opera singolare - davvero sacerdotale - del cammino di Fede: l’invito a interrogarsi. Al termine della sua vicenda terrena il Signore è Silenzioso, perché attende che ciascuno si pronunci, e scelga
The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che continua a vedere malgrado tutto (Papa Francesco)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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