don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Il Signore ci benedica e la Vergine ci protegga!

VII Domenica del tempo Ordinario anno C (23 febbraio 2025)

 

Lettura dal Primo Libro di Samuele (26,2.7-9.12-13.22-23)

Saul fu il primo re del popolo d’Israele, intorno al 1040 a.C. I testi dicono che «nessun figlio d’Israele era più bello di lui, e superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo» (1 Sam 9,2). Era un contadino, originario di una famiglia semplice della  tribù di Beniamino, scelto da Dio e consacrato re dal profeta Samuele che inizialmente esitò  perché diffidava della monarchia in generale, ma dovette obbedire a Dio. Saul fu consacrato con l’unzione dell’olio e portava il titolo di “messia”.  Dopo un buon inizio, Saul purtroppo diede ragione ai peggiori timori di Samuele: il suo piacere personale, l’amore per il potere e per la guerra prevalsero sulla fedeltà all’Alleanza. Fu così grave che, senza attendere la fine del suo regno, Samuele, su ordine di Dio, si mise a cercare il suo successore e scelse Davide, il piccolo pastore di Betlemme, l’ottavo figlio di Iesse. Davide fu accolto alla corte di Saul e divenne pian piano un abile capo di guerra, i cui successi erano sulla bocca di tutti. Un giorno, Saul  udì il canto popolare che circolava ovunque: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18,7) e fu preso dalla gelosia che  divenne così feroce nei confronti di Davide da farlo impazzire. Davide dovette fuggire più volte per salvarsi, ma contrariamente ai sospetti di Saul, Davide non venne mai meno alla sua lealtà verso il re. Nell’episodio che ci viene qui narrato è Saul a prendere l’iniziativa: i tremila uomini di cui si parla furono radunati da lui con il solo scopo di soddisfare il suo odio per Davide. “Saul scese nel deserto di Zif con tremila uomini scelti d’Israele per cercare Davide” (v 2) e chiara era la sua intenzione: eliminarlo appena possibile. Ma la situazione si ribalta a favore di Davide: durante la notte Davide entra nel campo di Saul e trova tutti addormentati e quindi l’occasione favorevole per ucciderlo. Abisai, la guardia del corpo di Davide, non ha dubbi e si offre di ucciderlo: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” (v 8). Davide sorprende tutti, incluso Saul, che stenterà a credere ai suoi occhi quando vedrà la prova che Davide lo ha risparmiato. Si pongono due domande: perché Davide ha risparmiato colui che voleva la sua morte? L’unica ragione è il rispetto per la scelta di Dio: “Non ho voluto stendere la mano contro il messia del Signore” (v.11).  Perché la Bibbia racconta questo episodio? Ci sono certamente diversi motivi. Anzitutto, l’autore sacro vuole delineare il ritratto di Davide: rispettoso della volontà di Dio e magnanimo, che  rifiuta la vendetta e comprende che la Provvidenza non si manifesta mai attraverso la semplice consegna del nemico nelle proprie mani. In secondo luogo, perché il re regnante è intoccabile e non va dimenticato che questo racconto fu scritto alla corte di Salomone, il quale aveva tutto l’interesse a far passare questo insegnamento. Infine, questo testo rappresenta una tappa nella storia biblica, un momento nella pedagogia di Dio: prima di imparare ad amare tutti gli uomini, bisogna iniziare a trovare qualche buona ragione per amarne alcuni. Davide risparmia un nemico pericoloso perché questi è stato, a suo tempo, l’eletto di Dio. L’ultima tappa sarà comprendere che ogni uomo va rispettato ovunque perché in lui è segnata l’immagine di Dio. Siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio.

 

*Salmo 102 (103), 1-2, 3-4, 8. 10. 12-13

Questo salmo s’incontra più volte nei tre anni liturgici e possiamo ammirare il parallelismo dei versetti, una sorta di alternanza dei versi che si rispondono l’un l’altro. Sarebbe bene recitarlo o cantarlo a due voci, riga per riga o a due cori alternati. Primo coro: “Benedici il Signore, anima mia”… Secondo coro: “quanto è in me benedica  il suo santo nome santo”… Primo coro: “Egli perdona tutte le tue colpe … Secondo coro: “Non ci tratta secondo i nostri peccati”. E così via. Un’altra caratteristica è la tonalità gioiosa del rendimento di grazie. L’espressione “Benedici il Signore, anima mia” si ripete come inclusione nel primo e nell’ultimo versetto del salmo. Tra tutti i benefici, i versetti scelti per questa domenica insistono sul perdono di Dio: “Egli perdona tutte le tue colpe… Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore; non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe.” Più volte lo abbiamo notato: una delle grandi scoperte della Bibbia è che Dio è solo amore e perdono. Ed è proprio per questo che è così diverso da noi e costantemente ci sorprende. Quando il profeta Isaia afferma: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, dice Dio; le vostre vie non sono le mie vie” (55,6-8), invita a cercare il Signore mentre si fa trovare, a invocarlo mentre è vicino. Invita l’empio ad abbandonare la sua via e l’uomo perverso i suoi pensieri, e aggiunge: “Ritorni al Signore che avrà misericordia di lui, al nostro Dio che largamente perdona” - e aggiunge - ”perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Proprio la congiunzione “perché” dà il senso a tutta la frase: è proprio la sua misericordia inesauribile a fare la differenza tra Dio e noi. Circa cinquecento anni prima di Cristo, si era già compreso che il perdono di Dio è incondizionato e che precede tutte le nostre preghiere o pentimenti. Il perdono di Dio non è un atto puntuale, un evento, ma è la sua essenza stessa. Tuttavia, siamo solo noi a poter compiere liberamente il gesto di andare a ricevere questo perdono di Dio e rinnovare l’Alleanza; Egli non ci forzerà mai e allora andiamo da lui con fiducia, compiamo il passo indispensabile per entrare nel perdono di Dio che è già acquisito. A ben vedere si tratta di una scoperta che risale a tempi molto antichi. Quando Natan annunciò al re Davide, che si era appena sbarazzato del marito della sua amante, Betsabea, il perdono di Dio, Davide in verità non aveva ancora avuto il tempo di esprimere il minimo pentimento.  Dopo avergli ricordato tutti i benefici con cui Dio lo aveva colmato, il profeta aggiunse: “E se questo fosse poco, aggiungerei ancora di più” (2 Sam 12,8). Ecco il significato della parola perdono, formata da due sillabe che è bene separare “per – dono” a indicare il dono perfetto, dono al di là dell’offesa e al di là dell’ingratitudine; è l’alleanza sempre offerta nonostante l’infedeltà. Perdonare chi ci ha fatto del male significa continuare, nonostante tutto, a offrirgli un’alleanza, una relazione di amore o di amicizia; significa accettare di rivedere quella persona, tendergli la mano, accoglierla comunque alla nostra tavola o nella nostra casa; significa rischiare un sorriso; significa rifiutare di odiare e di vendicarsi. Tuttavia, questo non significa dimenticare. Spesso si sente dire: posso perdonare ma non dimenticherò mai. In realtà, si tratta di due cose completamente diverse. Il perdono non è un colpo di spugna, non è né dimenticanza né cancellazione di quanto è successo perché nulla lo cancellerà, sia che si tratti di un bene o di un male. Ci sono offese che non si potranno mai dimenticare, perché è successo l’irreparabile. È proprio questo che conferisce grandezza e gravità alle nostre vite umane: se un colpo di spugna potesse cancellare tutto, che senso avrebbe agire bene? Potremmo fare qualsiasi cosa. Il perdono quindi non cancella il passato, ma apre al futuro. Spezza le catene della colpa, porta la liberazione interiore e ci permette di ripartire. Quando Davide fece uccidere il marito di Betsabea, nulla poté riparare il male commesso. Ma Davide, perdonato, poté rialzare la testa e cercare di non fare più il male. Quando i genitori perdonano l’assassino di un loro figlio non significa che dimenticano il crimine commesso ma proprio nel loro dolore trovano la forza necessaria per perdonare e il perdono diventa un atto profondamente liberatore per loro stessi. Chi viene perdonato non sarà mai più un innocente, ma può rialzare la testa. Senza arrivare a crimini così gravi, la vita di ogni giorno è segnata da gesti più o meno gravi che seminano ingiustizia o dolore. Perdonando e ricevendo il perdono si smette di guardare al passato e si volge lo sguardo verso il futuro. Avviene così nel nostro rapporto con Dio dato che nessuno può dirsi innocente, ma tutti siamo peccatori perdonati.

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,45-49)

Continua la meditazione di san Paolo sulla resurrezione di Cristo e sulla nostra e si rivolge a cristiani di origine greca che vorrebbero avere una risposta chiara e precisa sulla resurrezione della carne, sul quando e sul come avverrà. Paolo ha già spiegato domenica scorsa  che la resurrezione è un articolo di fede per cui non credere nella resurrezione dei morti, significa non credere nemmeno nella resurrezione di Cristo. Adesso affronta la domanda: Come risorgono i morti e con quale corpo ritornano? In verità riconosce di non sapere come saranno i risorti, ma ciò che può affermare con certezza è che il nostro corpo risorto sarà completamente diverso da quello terreno. Se pensiamo che Gesù apparso dopo la risurrezione non veniva subito riconosciuto dai suoi discepoli e Maria Maddalena lo ha scambiato per il giardiniere, ciò dimostra che era lo stesso e, allo stesso tempo, completamente diverso. Paolo distingue un corpo animale da un corpo spirituale e l’espressione corpo spirituale ha sorpreso i suoi ascoltatori che conoscevano la distinzione greca tra corpo e anima. Egli però, essendo ebreo, sa che il pensiero ebraico non contrappone mai il corpo e l’anima e la sua formazione giudaica lo ha condotto invece a contrapporre due tipi di comportamento: quello dell’uomo terreno e quello dell’uomo spirituale, inaugurato dal Messia. In ogni uomo, Dio ha insufflato un soffio di vita che lo rende capace di vita spirituale, ma rimane ancora un uomo terreno. Solo nel Messia abita pienamente lo Spirito stesso di Dio, che guida ogni sua azione. Paolo per argomentare fa riferimento alla Genesi, nella quale legge la vocazione dell’umanità, ma non la interpreta in modo storico. Per lui Adamo è un tipo di uomo o, meglio, un tipo di comportamento. Questa lettura può sembrarci insolita, ma dobbiamo abituarci a leggere i testi della creazione nella Genesi non come un resoconto degli eventi, bensì come racconti di vocazione. Creando l’umanità (Adamo è un nome collettivo), Dio la chiama a un destino straordinario. Adamo, l’essere terrestre, è chiamato a diventare il tempio dello Spirito di Dio. E va ricordato che nella Bibbia la Creazione non è considerata un evento del passato perché la Bibbia parla molto di più di Dio Creatore che della Creazione; parla del nostro rapporto con Dio: siamo stati creati da Lui, dipendiamo da Lui, siamo sospesi al suo soffio e non si tratta del passato, bensì del futuro. L’atto creativo ci viene presentato come un progetto ancora in corso: nei due racconti della creazione, l’uomo ha un ruolo da svolgere. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” nel primo racconto (Gn 1,28). “Il SIGNORE Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” nel secondo racconto (Gn 2,15). E questo compito riguarda tutti noi, poiché Adamo è un nome collettivo che rappresenta tutta l’umanità. La nostra vocazione, dice ancora la Genesi, è essere l’immagine di Dio, cioè abitati dallo Spirito stesso di Dio. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.” (Gn 1,26-27). Adamo è anche il tipo di uomo che non risponde alla sua vocazione; si è lasciato influenzare dal serpente, che gli ha instillato, come un veleno, la sfiducia verso Dio. Questo è ciò che Paolo chiama un comportamento terreno, come il serpente che striscia rasoterra. Gesù Cristo, il nuovo Adamo, invece, si lascia guidare solo dallo Spirito di Dio. In questo modo, egli realizza la vocazione di ogni uomo, cioè di Adamo; è questo il senso della frase di Paolo: “Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo  ( cioè il Cristo) divenne  spirito datore di vita.”

Chiaro il messaggio: il comportamento di Adamo conduce alla morte, quello di Cristo conduce alla vita. Noi però siamo costantemente combattuti tra questi due comportamenti, tra cielo e terra e possiamo fare nostra l’espressione di Paolo quando grida: “Infelice uomo che sono! Non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7,24.19). In altri termini la storia individuale e quella collettiva di tutta l’umanità è un lungo cammino per lasciarci abitare sempre di più dallo Spirito di Dio.  Scrive Paolo: “Il primo uomo tratto dalla terra è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli della terra e come è l’uomo celeste, così anche i celesti”. E san Giovanni osserva: “Carissimi, fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.» (1 Gv 3,2). L’immagine perfetta di Dio in Gesù Cristo, gli apostoli l’hanno vista sul volto di Cristo durante la Trasfigurazione.

Nota: il serpente strisciante per terra tenta l’umanità (Adamo – adam uomo collegato a adamah terra, non è il nome di una persona ma indica l’umanità intera  fatta di terra Gn1,26-27)  e il nome del serpente è nahash parola che può significare sia serpente che il dragone dell’Apocalisse: Gn3,15; Ap 12)

 

*Dal Vangelo secondo Luca (6, 27-38)

“Siate misericordiosi come il vostro Padre è misericordioso” e sarete allora figli dell’Altissimo, perché lui è buono con gli ingrati e i cattivi.  Questo è il programma di ogni cristiano, è la nostra vocazione. L’intera Bibbia appare come il racconto della conversione dell’uomo, che impara gradualmente a dominare la propria violenza. Non è certo un processo facile, ma Dio è paziente, perché, come dice san Pietro , un giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno (cf 2 Pt 3,8) ed educa il suo popolo con tanta pazienza, come leggiamo nel Deuteronomio: “Come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te” (Dt 8,5). Questa lenta estirpazione della violenza dal cuore dell’uomo è espressa in modo figurato fin dal libro della Genesi: la violenza viene presentata come una forma di animalità. Riprendiamo il racconto del giardino dell’Eden: Dio aveva invitato Adamo a dare un nome agli animali, a simboleggiare la sua superiorità su tutte le creature. Dio aveva infatti concepito Adamo come il re della creazione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza. Domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Gn 1,26). E lo stesso Adamo si era riconosciuto diverso, superiore: «L’uomo diede un nome a tutti gli animali, agli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche; ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse» (Gn 2,20). L’uomo non trovò il suo pari. Ma due capitoli dopo, troviamo la storia di Caino e Abele. Nel momento in cui Caino è preso da una folle voglia di uccidere, Dio gli dice: «Il peccato è accovacciato (come una bestia) alla tua porta. È in agguato, ma tu devi dominarlo» (Gn 4,7). E a partire da questo primo omicidio, il testo biblico mostra la proliferazione della vendetta (Gn 4,1-26). Fin dai primi capitoli della Bibbia, la violenza è dunque riconosciuta: esiste, ma viene smascherata e paragonata a un animale. L’uomo non merita più di essere chiamato uomo quando è violento. I testi biblici intraprendono quindi l’arduo cammino della conversione del cuore dell’uomo. In questo percorso possiamo distinguere delle tappe. Fermiamoci sulla prima: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24). In risposta al terribile vanto di Lamech (Gn 4,23), pronipote di Caino, che si glorificava di uccidere uomini e bambini per vendicare semplici graffi, la Legge introduce un primo limite: un solo dente per un dente, e non tutta la mascella; una sola vita per una vita, e non un intero villaggio in rappresaglia. La legge del taglione rappresentava dunque già un progresso significativo, anche se oggi ci appare ancora insufficiente. La pedagogia dei profeti affronta costantemente il problema della violenza, ma si scontra con una grande difficoltà psicologica: l’uomo che accetta di non vendicarsi teme di perdere il proprio onore. I testi biblici allora mostrano all’uomo che il suo vero onore è altrove: consiste proprio nell’assomigliare a Dio, che è «buono con gli ingrati e i malvagi». Il discorso di Gesù, che leggiamo questa domenica, rappresenta l’ultima tappa di questa educazione: dalla legge del taglione siamo passati all’invito alla dolcezza, al disinteresse, alla gratuità perfetta. Egli insiste: per due volte, all’inizio e alla fine, dice «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano»… «Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare nulla in cambio». E così il finale ci sorprende un po’: fino a questo punto, sebbene non fosse facile, almeno era logico. Dio è misericordioso e ci invita a imitarlo. Ma ecco che le ultime righe sembrano cambiare tono: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,37-38). Siamo forse tornati a una logica del “do ut des”? Ovviamente no! Gesù qui ci sta semplicemente indicando un cammino molto rassicurante: per non temere di essere giudicati, basta non giudicare né condannare gli altri. Giudicate le azioni, ma mai le persone. Instaurate un clima di benevolenza. In questo modo, le relazioni fraterne non verranno mai spezzate. Quanto alla frase: «La vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo», essa esprime la meraviglia che sperimentano coloro che si conformano all’ideale cristiano della mitezza e del perdono. È la profonda trasformazione che avviene in loro: perché hanno aperto la porta allo Spirito di Dio, e lui abita in loro e li ispira sempre di più. A poco a poco vedono compiersi in loro la promessa formulata dal profeta Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.» (Ez 36,26).

+Giovanni D’Ercole

 

 

Sintesi su richiesta: Commento breve.

 

Lettura dal Primo Libro di Samuele (26,2.7-9.12-13.22-23)

Saul fu il primo re del popolo d’Israele, intorno al 1040 a.C. Era un contadino, originario di una famiglia semplice della  tribù di Beniamino, scelto da Dio e consacrato re dal profeta Samuele che inizialmente esitò  perché diffidava della monarchia in generale, ma dovette obbedire a Dio. Dopo un buon inizio, Saul purtroppo diede ragione ai peggiori timori di Samuele: il suo piacere personale, l’amore per il potere e per la guerra prevalsero sulla fedeltà all’Alleanza. Fu così grave che, senza attendere la fine del suo regno, Samuele, su ordine di Dio, si mise a cercare il suo successore e scelse Davide, il piccolo pastore di Betlemme, l’ottavo figlio di Iesse. Davide fu accolto alla corte di Saul e divenne pian piano un abile capo di guerra, i cui successi erano sulla bocca di tutti. Un giorno, Saul  udì il canto popolare che circolava ovunque: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18,7) e fu preso dalla gelosia che  divenne così feroce nei confronti di Davide da farlo impazzire. Davide dovette fuggire più volte per salvarsi, ma contrariamente ai sospetti di Saul, Davide non venne mai meno alla sua lealtà verso il re. Nell’episodio che ci viene qui narrato è Saul a prendere l’iniziativa: i tremila uomini di cui si parla furono radunati da lui con il solo scopo di soddisfare il suo odio per Davide. “Saul scese nel deserto di Zif con tremila uomini scelti d’Israele per cercare Davide” (v 2) e chiara era la sua intenzione: eliminarlo appena possibile. Ma la situazione si ribalta a favore di Davide: durante la notte Davide entra nel campo di Saul e trova tutti addormentati e quindi l’occasione favorevole per ucciderlo. Abisai, la guardia del corpo di Davide, non ha dubbi e si offre di ucciderlo: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” (v 8). Davide sorprende tutti, incluso Saul, che stenterà a credere ai suoi occhi quando vedrà la prova che Davide lo ha risparmiato. Si pongono due domande: perché Davide ha risparmiato colui che voleva la sua morte? L’unica ragione è il rispetto per la scelta di Dio: “Non ho voluto stendere la mano contro il messia del Signore” (v.11).  L’autore sacro vuole delineare il ritratto di Davide: rispettoso della volontà di Dio e magnanimo, che  rifiuta la vendetta e comprende che la Provvidenza non si manifesta mai attraverso la semplice consegna del nemico nelle proprie mani. In secondo luogo, perché il re regnante è intoccabile e non va dimenticato che questo racconto fu scritto alla corte di Salomone, il quale aveva tutto l’interesse a far passare questo insegnamento. Infine, questo testo rappresenta una tappa nella storia biblica, un momento nella pedagogia di Dio: prima di imparare ad amare tutti gli uomini, bisogna iniziare a trovare qualche buona ragione per amarne alcuni e Davide risparmia un nemico pericoloso perché come re è l’eletto di Dio. L’ultima tappa sarà comprendere che ogni uomo va rispettato perché siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio.

 

*Salmo 102 (103), 1-2, 3-4, 8. 10. 12-13

Questo salmo sarebbe bene recitarlo o cantarlo a due voci, a due cori alternati. Primo coro: “Benedici il Signore, anima mia”… Secondo coro: “quanto è in me benedica  il suo santo nome santo”… Primo coro: “Egli perdona tutte le tue colpe … Secondo coro: “Non ci tratta secondo i nostri peccati”. E così via. Un’altra caratteristica è la tonalità gioiosa del rendimento di grazie. L’espressione “Benedici il Signore, anima mia” si ripete come inclusione nel primo e nell’ultimo versetto del salmo. Tra tutti i benefici, i versetti scelti per questa domenica insistono sul perdono di Dio: “Perché Egli perdona tutte le tue colpe… Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore; non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe …”perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Proprio la congiunzione “perché” dà il senso a tutta la frase: è proprio la sua misericordia inesauribile a fare la differenza tra Dio e noi. Circa cinquecento anni prima di Cristo, si era già compreso che il perdono di Dio è incondizionato e che precede tutte le nostre preghiere o pentimenti. Il perdono di Dio non è un atto puntuale, un evento, ma è la sua essenza stessa. Tuttavia, siamo solo noi a poter compiere liberamente il gesto di andare a ricevere questo perdono di Dio e rinnovare l’Alleanza; Egli non ci forzerà mai e allora andiamo da lui con fiducia, compiamo il passo indispensabile per entrare nel perdono di Dio che è già acquisito. A ben vedere si tratta di una scoperta che risale a tempi molto antichi. Quando Natan annunciò al re Davide, che si era appena sbarazzato del marito della sua amante, Betsabea, il perdono di Dio, Davide in verità non aveva ancora avuto il tempo di esprimere il minimo pentimento.  Dopo avergli ricordato tutti i benefici con cui Dio lo aveva colmato, il profeta aggiunse: “E se questo fosse poco, aggiungerei ancora di più” (2 Sam 12,8). Ecco il significato della parola perdono, formata da due sillabe che è bene separare “per – dono” a indicare il dono perfetto, dono al di là dell’offesa e al di là dell’ingratitudine; è l’alleanza sempre offerta nonostante l’infedeltà. Perdonare chi ci ha fatto del male significa continuare, nonostante tutto, a offrirgli un’alleanza, una relazione di amore o di amicizia; significa rifiutare di odiare e di vendicarsi. Tuttavia, questo non significa dimenticare. Spesso si sente dire: posso perdonare ma non dimenticherò mai. In realtà, si tratta di due cose completamente diverse. Il perdono non è un colpo di spugna. Ci sono offese che non si potranno mai dimenticare, perché è successo l’irreparabile. È proprio questo che conferisce grandezza e gravità alle nostre vite umane: se un colpo di spugna potesse cancellare tutto, che senso avrebbe agire bene? Potremmo fare qualsiasi cosa. Il perdono quindi non cancella il passato, ma apre al futuro. Spezza le catene della colpa, porta la liberazione interiore e ci permette di ripartire. Quando Davide fece uccidere il marito di Betsabea, nulla poté riparare il male commesso. Ma Davide, perdonato, poté rialzare la testa e cercare di non fare più il male. Quando i genitori perdonano l’assassino di un loro figlio non significa che dimenticano il crimine commesso ma proprio nel loro dolore trovano la forza necessaria per perdonare e il perdono diventa un atto profondamente liberatore per loro stessi. Chi viene perdonato non sarà mai più un innocente, ma può rialzare la testa. Senza arrivare a crimini così gravi, la vita di ogni giorno è segnata da gesti più o meno gravi che seminano ingiustizia o dolore. Perdonando e ricevendo il perdono si smette di guardare al passato e si volge lo sguardo verso il futuro. Avviene così nel nostro rapporto con Dio dato che nessuno può dirsi innocente, ma tutti siamo peccatori perdonati.

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,45-49)

Continua la meditazione di san Paolo sulla resurrezione di Cristo e sulla nostra e si rivolge a cristiani di origine greca che vorrebbero avere una risposta chiara e precisa sulla resurrezione della carne, sul quando e sul come avverrà. Paolo ha già spiegato domenica scorsa  che la resurrezione è un articolo di fede per cui non credere nella resurrezione dei morti, significa non credere nemmeno nella resurrezione di Cristo. Adesso affronta la domanda: Come risorgono i morti e con quale corpo ritornano? In verità riconosce di non sapere come saranno i risorti, ma ciò che può affermare con certezza è che il nostro corpo risorto sarà completamente diverso da quello terreno. Se pensiamo che Gesù apparso dopo la risurrezione non veniva subito riconosciuto dai suoi discepoli e Maria Maddalena lo ha scambiato per il giardiniere, ciò dimostra che era lo stesso e, allo stesso tempo, completamente diverso. Paolo distingue un corpo animale da un corpo spirituale e l’espressione corpo spirituale ha sorpreso i suoi ascoltatori che conoscevano la distinzione greca tra corpo e anima. Egli però, essendo ebreo, sa che il pensiero ebraico non contrappone mai il corpo e l’anima e la sua formazione giudaica lo ha condotto invece a contrapporre due tipi di comportamento: quello dell’uomo terreno e quello dell’uomo spirituale, inaugurato dal Messia. In ogni uomo, Dio ha insufflato un soffio di vita che lo rende capace di vita spirituale, ma rimane ancora un uomo terreno. Paolo per argomentare fa riferimento alla Genesi e vede Adamo  come un tipo di comportamento perché  il racconto della creazione nella Genesi non è il resoconto degli eventi, bensì il racconto di una vocazione. Creando l’umanità (Adamo è un nome collettivo), Dio la chiama a un destino straordinario. Adamo, l’essere terrestre, è chiamato a diventare il tempio dello Spirito di Dio. E va ricordato che nella Bibbia la Creazione non è considerata un evento del passato ma parla del nostro rapporto con Dio: siamo stati creati da Lui, dipendiamo da Lui, siamo sospesi al suo soffio e non si tratta del passato, bensì del futuro. L’atto creativo ci viene presentato come un progetto ancora in corso: nei due racconti della creazione, l’uomo ha un ruolo da svolgere. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Gn 1,28). “Il SIGNORE Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). E questo compito riguarda tutti noi, poiché Adamo è un nome collettivo che rappresenta tutta l’umanità. La nostra vocazione, dice ancora la Genesi, è essere l’immagine di Dio, cioè abitati dallo Spirito stesso di Dio. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.” (Gn 1,26-27). Adamo è anche il tipo di uomo che non risponde alla sua vocazione; si è lasciato influenzare dal serpente, che gli ha instillato, come un veleno, la sfiducia verso Dio. Questo è ciò che Paolo chiama un comportamento terreno, come il serpente che striscia rasoterra. Gesù Cristo, il nuovo Adamo, invece, si lascia guidare solo dallo Spirito di Dio. In questo modo, egli realizza la vocazione di ogni uomo, cioè di Adamo; è questo il senso della frase di Paolo: “Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo  ( cioè il Cristo) divenne  spirito datore di vita.”

Chiaro il messaggio: il comportamento di Adamo conduce alla morte, quello di Cristo conduce alla vita. Noi però siamo costantemente combattuti tra questi due comportamenti, tra cielo e terra e possiamo fare nostra l’espressione di Paolo quando grida: “Infelice uomo che sono! Non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7,24.19). In altri termini la storia individuale e quella collettiva di tutta l’umanità è un lungo cammino per lasciarci abitare sempre di più dallo Spirito di Dio.  Scrive Paolo: “Il primo uomo tratto dalla terra è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli della terra e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. 

 

*Dal Vangelo secondo Luca (6, 27-38)

“Siate misericordiosi come il vostro Padre è misericordioso” e sarete allora figli dell’Altissimo, perché lui è buono con gli ingrati e i cattivi.  Questo è il programma di ogni cristiano, è la nostra vocazione. L’intera Bibbia appare come il racconto della conversione dell’uomo, che impara gradualmente a dominare la propria violenza. Non è certo un processo facile, ma Dio è paziente ed educa il suo popolo con tanta pazienza. Questa lenta estirpazione della violenza dal cuore dell’uomo è espressa in modo figurato fin dal libro della Genesi: la violenza viene presentata come una forma di animalità. Dio aveva invitato Adamo a dare un nome agli animali, a simboleggiare la sua superiorità su tutte le creature.  E lo stesso Adamo si era riconosciuto diverso, superiore e non trovò il suo pari. Ma dopo troviamo la storia di Caino e Abele. Nel momento in cui Caino è preso da una folle voglia di uccidere, Dio gli dice: «Il peccato è accovacciato (come una bestia) alla tua porta. È in agguato, ma tu devi dominarlo» (Gn 4,7). E a partire da questo primo omicidio, il testo biblico mostra la proliferazione della vendetta (Gn 4,1-26). Fin dai primi capitoli della Bibbia, la violenza è dunque riconosciuta: esiste, ma viene smascherata e paragonata a un animale. L’uomo non merita più di essere chiamato uomo quando è violento. I testi biblici intraprendono quindi l’arduo cammino della conversione del cuore dell’uomo. In questo percorso possiamo distinguere delle tappe. Fermiamoci sulla prima: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24). In risposta al terribile vanto di Lamech (Gn 4,23), pronipote di Caino, che si glorificava di uccidere uomini e bambini per vendicare semplici graffi, la Legge introduce un primo limite: un solo dente per un dente, e non tutta la mascella; una sola vita per una vita, e non un intero villaggio in rappresaglia. La legge del taglione rappresentava dunque già un progresso significativo, anche se oggi ci appare ancora insufficiente. La pedagogia dei profeti affronta costantemente il problema della violenza, ma si scontra con una grande difficoltà psicologica: l’uomo che accetta di non vendicarsi teme di perdere il proprio onore. I testi biblici allora mostrano all’uomo che il suo vero onore è altrove: consiste proprio nell’assomigliare a Dio, che è «buono con gli ingrati e i malvagi». Il discorso di Gesù, che leggiamo questa domenica, rappresenta l’ultima tappa di questa educazione: dalla legge del taglione siamo passati all’invito alla dolcezza, al disinteresse, alla gratuità perfetta. Egli insiste: per due volte, all’inizio e alla fine, dice «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano»…. Dio è misericordioso e ci invita a imitarlo. Ma ecco che le ultime righe sembrano cambiare tono: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato (Lc 6,37-38). Siamo forse tornati a una logica del “do ut des”? Ovviamente no! Gesù qui ci sta semplicemente indicando un cammino molto rassicurante: per non temere di essere giudicati, basta non giudicare né condannare gli altri. Giudicate le azioni, ma mai le persone. Instaurate un clima di benevolenza. In questo modo, le relazioni fraterne non verranno mai spezzate.

+Giovanni D’Ercole

Giovedì, 13 Febbraio 2025 21:26

VI Domenica T.O. (C) [e Commento breve]

Buona giornata sotto lo sguardo materno della B.V. di Lourdes.

Commento alle Letture della VI Domenica del Tempo Ordinario anno C [16 Febbraio 2025].

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.

 

*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (17, 5 – 8)

 Il profeta Geremia inizia in maniera solenne: “Così dice il Signore” per avvisare che quanto si sta per ascoltare è importante e grave perché è il “Signore” – cioè il Dio stesso dell’Alleanza del Sinai - che afferma: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Qui però sorgono due domande: Dio può maledire l’uomo? E perché e in che senso fidarsi di un uomo è un errore? Non c’è alcun dubbio: Dio non può maledirci e l’espressione ebraica tradotta con “maledetto” nei profeti è “arur” (אָרוּר), che compare spesso nella Bibbia ebraica e il suo significato non va inteso come un’azione diretta di Dio che maledice, piuttosto come una dichiarazione dello stato di rovina o disgrazia in cui cade chi si allontana da Lui. Si tratta quindi di un avvertimento profetico e “maledetto l’uomo che confida nell’uomo” non indica un’azione attiva di Dio, ma un monito di questo tipo: se scegli di confidare solo negli uomini e non in Dio, ti metti in una situazione di insicurezza e fallimento. Nella mentalità biblica, Dio è fonte di vita e benedizione (berakha), e l’allontanamento da Lui porta automaticamente alla ’arur (rovina, sterilità, fallimento). Quando dunque i profeti usano “maledetto”, stanno dicendo: “Attenzione, questa strada porta alla tua distruzione”. Non è Dio a lanciare una maledizione come un castigo arbitrario, ma è una legge spirituale: quando ci si allontana dalla sorgente dell’acqua viva (Dio), inevitabilmente ci si ritrova nella siccità del deserto. Circa la seconda domanda concernente l’uomo che confida nell’uomo, dovremmo diffidare gli uni degli altri? Certamente no, perché Dio vuole che l’umanità diventi una cosa sola e dunque ogni sfiducia tra gli uomini va contro il suo disegno d’amore.  Qui si tratta di chi si allontana da Dio e confida, cioè ha fede nell’uomo. La parola chiave è confida/ ha “fede”, un termine assai forte che indica fare affidamento, appoggiarsi in modo assoluto sugli uomini, come ci si arrocca su una roccia. Senza Dio ogni sicurezza è fragile e si diventa come un arbusto nel deserto senza acqua destinato a morire. Chiaro il messaggio: Se ti allontani da Dio diventi spiritualmente arido e instabile, come un cespuglio nel deserto, mentre se confidi, hai fede, la tua vita sarà come un albero che rimane verde perché ha le sue radici nell’acqua.  Facile capire l’importanza dell’acqua per un popolo che camminava nel deserto e Geremia parla per esperienza avendo sotto gi occhi la strada che da Gerusalemme va a Gerico in un deserto completamente arido per gran parte dell’anno. Rinverdisce soltanto e fiorisce con le piogge primaverili, e così, attingendo a esempi e immagini dalla vita quotidiana dei suoi ascoltatori, il profeta offre saggi consigli di vita spirituale. La fede quindi è il fondamento: la fiducia in Dio è come radicarsi in una roccia sicura (Mt 7,24-25). Far dipendere la vita solo da umane realtà come il potere, il successo, i soldi, le relazioni, porta a diventare fragili. Inoltre il fatto di aver posto la propria fede in Dio non ti risparmia dalle difficoltà e dai problemi, ma dà la forza per superare ogni ostacolo. E allora ogni giorno Il credente è chiamato a scegliere: affidarsi solo su sé stesso e vivere nella paura, oppure radicare la vita in Dio e affrontare le tempeste dell’esistenza senza perdersi d’animo.

Una nota: Geremia probabilmente sta denunciando i due errori/peccati fatali dei re, dei capi religiosi e dell’intero popolo: l’idolatria e le alleanze. Per quanto concerne l’idolatria molti hanno introdotto in Israele vari culti idolatrici e offerto sacrifici agli idoli e Geremia lo stigmatizza: “Il mio popolo mi ha dimenticato per bruciare offerte a chi è un nulla.” ( 18,15). Quanto invece alle alleanze, il profeta critica la politica dei re che invece di contare sulla protezione di Dio, hanno moltiplicato manovre diplomatiche, alleandosi di volta in volta con ciascuna delle potenze del Medio Oriente ricavandone solo guerre e disgrazie. Così è avvenuto per Sedecia che, affidandosi a manovre diplomatiche e alla sua forza militare, è andato incontro  al fallimento con massacri, umiliazioni  per sé e per il popolo (Gr 39,1-10).

 

*Salmo Responsoriale (1) 

Questo salmo, il primo, molto breve dove ogni dettaglio è significativo, costituisce la chiave interpretativa di tutto il Salterio ed è stato scelto per introdurre alla preghiera di Israele. Esso  si apre con questa parola: Beato!  “Beato l’uomo che non entra nel  consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siete in compagnia degli arroganti “. Il termine “beato” nella Bibbia deriva dall’ebraico “ashré”, che esprime uno stato di felicità e profondo appagamento, condizione di benedizione e di pace interiore che Dio accorda a chi vive secondo la sua volontà. Questo concetto è simile a “shalom”, che indica una pace profonda e completa. Chi evita le influenze negative e trova gioia nella legge del Signore, meditandola costantemente, viene paragonatao a un albero piantato lungo corsi d’acqua, che produce frutto al momento opportuno e le cui foglie non appassiscono. Il salmista ha compreso che Dio vuole la nostra felicità, e questa è la cosa più importante che ha voluto dirci sin dall’inizio. Per capire il senso della parola beato nella Bibbia, dobbiamo pensare alle felicitazioni che ci si scambia nelle occasioni di festa augurando gioia e prosperità. L’espressione “Beato” etimologicamente significa riconoscerlo felice e rallegrarsi con lui; è innanzitutto una constatazione (sei felice), ma è anche un augurio, un incoraggiamento a far crescere la felicità ogni giorno. È come dire: sei sulla buona strada, continua a essere felice. Il termine biblico “Beato” esprime in definitiva una duplice dimensione: constatazione e incoraggiamento. Per questo, molti studiosi, come André Chouraqui, traducono beato con “in cammino”, immagine che invita a considerare la storia dell’umanità come un lungo viaggio, durante il quale gli uomini sono continuamente chiamati a scegliere la strada che porta alla vera felicità. 

 

Qualche nota per meglio entrare nella Parola:

1. Nei pochi versetti del salmo troviamo un’insistenza particolare sulla parola via: “via dei peccatori…cammino dei giusti…via dei malvagi” ed emerge il tema delle due vie: la via giusta e la via sbagliata, il bene e il male. L’immagine è chiara: la nostra vita è come un incrocio, dove dobbiamo decidere quale direzione prendere. Se imbocchiamo la strada giusta, ogni passo ci avvicinerà alla meta; se scegliamo la direzione sbagliata, ogni passo ci allontanerà sempre di più dal traguardo.  L’intera Rivelazione biblica ha lo scopo di indicare all’umanità il cammino della felicità che Dio desidera per noi e per tale motivo offre tanti segnali come le espressioni beato/maledetto o felice/infelice che sono indicatori del cammino. Quando Geremia nella prima Lettura dice “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo… o Isaia proclama “Guai a coloro che promulgano leggi inique” (10,1), non stanno giudicando o condannando le persone in modo definitivo, ma stanno lanciando un allarme, come chi grida per avvertire un passante del pericolo di un burrone. Al contrario, espressioni come “Benedetto l’uomo che confida nel Signore (Ger 17,7) o “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei peccatori” (Sal 1) sono un incoraggiamento: siete sulla strada giusta!

2. Il tema delle due vie ci ricorda che siamo liberi e il desiderio di felicità è inscritto nel cuore di ogni uomo, ma spesso si sbaglia direzione e la legge di Dio non è altro che una guida per la nostra libertà, un aiuto per scegliere la via giusta. Israele sa che la Torah è un dono di Dio, un segno del suo desiderio di felicità per noi e per questo “la sua legge medita giorno e notte”.

3. Quando il salmo parla di giusti e malvagi, si riferisce a comportamenti, non a persone perché non esistono uomini perfettamente giusti o completamente malvagi e in verità dentro di noi convivono entrambe le tendenze. Ogni sforzo per ascoltare la Parola di Dio è un passo sulla via del vero bene. Ecco perché il salmo dice: ”Beato l’uomo che nella legge del Signore trova la sua gioia”.  Infine si capisce che la stessa costruzione letteraria del salmo sottolinea l’importanza della scelta giusta: il salmo non è infatti simmetrico e contrappone due atteggiamenti, quello dei giusti e quello dei peccatori, ma dedica la maggior parte a descrivere la felicità dei giusti per dirci che ciò che merita attenzione è il bene, non il male. Questo salmo è dunque un invito a scegliere consapevolmente il cammino della fedeltà a Dio e non è un caso che il salterio inizi proprio con questa parola: Beato l’uomo che confida nel Signore!  

 

*Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (15, 12 – 20)

Comprendiamo meglio quello che san Paolo vuol dirci se pensiamo allo svolgimento del funerale di un cristiano il cui rituale prevede tre “segni” di alto valore simbolico. Anzitutto il Cero Pasquale accanto alla bara arde durante tutta la celebrazione a ricordare la presenza del Cristo risorto vivo fra noi. Nel rito di commiato che segue la messa il celebrante e, secondo alcuni usi, anche i fedeli aspergono il corpo del defunto con l’acqua benedetta a ricordo del Battesimo. Inoltre il celebrante incensa il feretro e questo per i cristiani dei primi secoli era un gesto assai audace perché nell’Impero Romano l’incenso veniva bruciato davanti alle statue degli dèi e sembrava un fuori luogo incensare un corpo umano senza vita ridotto a nulla. Ma questo gesto è molto eloquente perché un cristiano, fin dal suo Battesimo, è tempio dello Spirito Santo come ci ricorda san Paolo e dimenticandolo si finisce per perdere il segno e il valore della risurrezione dei corpi. I cristiani di Corinto e forse non pochi oggi anche se credono alla risurrezione di Cristo, faticano a trarne la conseguenza che per Paolo è evidente: se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo. E per spiegarci questa verità di fede procede per due tappe. Prima riafferma che Gesù è veramente risorto e poi ne trae le conseguenze. Essendo la risurrezione di Cristo il fondamento della fede cristiana, Paolo afferma che “se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede”.  In verità se non si crede nella risurrezione di Cristo, l’edificio della fede cristiana crolla: un rischio che corre ogni comunità. Chiediamoci: tutti i cattolici credono nella risurrezione di Cristo e nella nostra risurrezione? 

Da questa premessa san Paolo trae le conseguenze argomentando così: poiché Cristo è risorto e molti lo hanno visto vivo e lo possono testimoniare, egli è davvero il Salvatore del mondo ed è vero tutto ciò che ha detto e promesso. Con il battesimo noi siamo diventati tempio dello Spirito e questo significa che lo Spirito vive in noi, ma se lo Spirito d’amore è l’opposto del peccato, essendo il peccato mancanza di amore per Dio e per gli altri, lo Spirito Santo ci libera dal peccato e noi siamo, come Cristo, abitati dallo Spirito di Dio, per cui risorgeremo come lui. Ciò che è stato tempio dello Spirito può essere trasformato, ma non può essere distrutto. La morte biologica distrugge il nostro corpo, ma Gesù lo farà risorgere. 

 

Note per meglio capire il testo:

1.L’apostolo aggiunge “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”. Nel testo greco il termine utilizzato significa primizia nel senso di inizio di una lunga serie. Nell’Antico Testamento, le primizie erano i primi frutti della terra che segnavano l’inizio del raccolto. Dire che Gesù è risorto come “primizia di coloro che sono morti” significa affermare che è il fratello maggiore dell’umanità, il primo nato, come dice altrove Paolo: “Egli è il capo del corpo… Egli è il principio, il primogenito di coloro che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose…” (Col 1,18).

2. In definitiva, occorre sempre tornare al progetto misericordioso di Dio che è quello di riunire tutta l’umanità in Gesù Cristo come leggiamo nella Lettera agli Efesini ( cf. Ef 1,9-10). E Dio non ha certo previsto di riunire dei morti, ma dei vivi e Gesù nella sua discussione con i Sadducei: ebbe a spiegare: “Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Egli non è il Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22,31-32).

3. C’è un aspetto del mistero dell’Incarnazione da non dimenticare: Dio prende sul serio la nostra umanità, il nostro corpo perché il Verbo si è fatto carne diventando in tutto simile agli uomini, così simile che il suo destino è diventato il nostro: se è risorto, anche noi risorgeremo. La risurrezione di Cristo non è dunque solo il felice epilogo della sua storia personale ma l’alba della vittoria dell’umanità sulla morte. La morte non è più un muro, ma una porta… e noi vi entriamo dietro di lui. Da qui si capisce l’inconciliabilità della fede cristiana con qualsiasi idea di reincarnazione. La dignità dell’essere umano arriva fino a questo punto: anche se il nostro corpo a volte è fragile e segnato dalla sofferenza, Dio non lo tratta mai come una cosa da gettare e sostituire; la nostra persona è un tutt’uno. Può capitare che ci disprezziamo, ma agli occhi di Dio, siamo ognuno unico e insostituibile. Il nostro intero essere è chiamato a vivere per sempre accanto a Lui.

 

*Dal Vangelo secondo Luca ( 6, 17......26)

Nella prima lettura il profeta Geremia ha esortato a non confidare in sé stessi e sui beni materiali, ma a poggiare la propria vita su Dio. Il Vangelo delle Beatitudini va ben oltre affermando: Beati voi poveri che ponete la vostra fiducia in Dio perché egli vi colmerà delle sue ricchezze. Ma chi sono i poveri secondo il vangelo? Il termine poveri nell’Antico Testamento non ha alcun legame con il conto in banca perché nel senso biblico (anawim) poveri sono coloro che non hanno un cuore superbo né lo sguardo altero chiamati “i curvi di schiena”: sono i piccoli, gli umili, che, mai sazi e compiaciuti di sé, sentono che manca loro qualcosa e proprio per questo Dio può colmarli. I profeti alternano nella loro predicazione il tono severo e minaccioso quando il popolo si smarrisce e insegue valori sbagliati, con quello incoraggiante e consolante quando attraversa momenti di sofferenza e disperazione. Gesù cerca di educare lo sguardo dei discepoli e della folla riprendendo il doppio linguaggio del profeta presente nella prima lettura. Geremia afferma: voi che ponete la vostra fiducia nelle ricchezze materiali, nella vostra posizione sociale, voi che siete ben considerati, presto non vi invidieranno più e per questo non siete sulla strada giusta. Se lo foste, non sareste così ricchi e così ben visti. Un vero profeta si espone al rischio di non piacere, e Gesù lo sa bene. Un vero profeta non ha né il tempo né la preoccupazione di accumulare denaro o curare la propria immagine. Queste quattro beatitudini fotografano perfettamente Gesù che è così povero da non avere una pietra su cui posare il capo ed è morto nell’abbandono totale; è colui che ha pianto la morte dell’amico Lazzaro e ha conosciuto l’angoscia nell’orto degli Ulivi, ha pianto la sorte di Gerusalemme; ha avuto fame e sete nel deserto e drammaticamente sulla croce; è colui che è stato disprezzato, calunniato, perseguitato e infine eliminato in nome dei principi della legge e quindi di quella che si riteneva la vera religione. In queste Beatitudini si profila la promessa della Risurrezione ed emerge un senso di gratitudine a Dio perché Gesù vuol far comprendere con quale sguardo d’amore il Padre ci avvolge sapendo che la vittoria è già certa. Ci rivela così lo sguardo di Dio, la sua misericordia: e noi sappiamo che “misericordia” etimologicamente significa viscere che fremono di compassione. In definitiva questo è il messaggio: lo sguardo dell’uomo è ben diverso da quello di Dio; l’ammirazione umana rischia spesso di sbagliare l’oggetto del proprio entusiasmo e si dirige ai ricchi, ai sazi, ai privilegiati della vita. Lo sguardo di Dio è ben diverso: “Un povero grida, il Signore lo ascolta”, dice il Salmo e “Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 50/51). Isaia arriva persino a dire: “Nella sofferenza che schiaccia il suo servo, Dio lo ama con un amore di predilezione” (Is 53,10). I poveri, i perseguitati, coloro che hanno fame e che piangono, Dio si china su di loro con predilezione: non per un loro merito, ma per la loro stessa condizione. E così Gesù ci apre gli occhi su un’altra dimensione della felicità: la vera felicità è lo sguardo di Dio su di noi. Certi di questo sguardo di Dio, i poveri, coloro che piangono, coloro che hanno fame, troveranno la forza di prendere in mano il proprio destino. 

 

Una nota per meglio entrare nella Parola: 

Ricordo che André Chouraqui afferma che la parola “beati” significa anche “in cammino”. Cita l’esempio del popolo guidato da Mosè che trovò la forza di affrontare la lunga marcia nel deserto nella certezza della costante presenza di Dio. Ancora una volta, la contrapposizione tra beatitudini e maledizioni non divide l’umanità in due gruppi distinti: da una parte quelli che meritano parole di conforto, dall’altra quelli che meritano solo rimproveri. Tutti, a seconda dei momenti della vita, possiamo trovarci nell’uno o nell’altro gruppo. E a ciascuno di noi Cristo dice: “In cammino…Sarete saziati, consolati, rallegratevi ed esultate”.  Tutto questo era già presente nel linguaggio dell’Antico Testamento per descrivere la felicità che avrebbe portato il Messia. I discepoli conoscevano bene queste espressioni e capiscono subito cosa Gesù sta annunciando loro: Voi che siete usciti dalla folla per seguirmi, non lo avete fatto per raccogliere onori o ricchezze, ma avete fatto la scelta giusta, perché avete saputo riconoscere in me il Messia.

 

 

Commento Breve:

*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (17, 5 – 8)

 Il profeta Geremia inizia in maniera solenne: “Così dice il Signore” per avvisare che quanto si sta per ascoltare è importante e grave perché è il “Signore” – cioè il Dio stesso dell’Alleanza del Sinai - che afferma: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Qui però sorgono due domande: Dio può maledire l’uomo? E perché e in che senso fidarsi di un uomo è un errore? Non c’è alcun dubbio: Dio non può maledirci e l’espressione ebraica che compare spesso nella Bibbia e il suo significato non va inteso come un’azione diretta di Dio che maledice, piuttosto come una dichiarazione dello stato di rovina o disgrazia in cui cade chi si allontana da Lui. Si tratta quindi di un avvertimento profetico e “maledetto l’uomo che confida nell’uomo” non indica un’azione attiva di Dio, ma un monito di questo tipo: se scegli di confidare solo negli uomini e non in Dio, ti metti in una situazione di insicurezza e fallimento. Quando dunque i profeti usano “maledetto”, stanno dicendo: “Attenzione, questa strada porta alla tua distruzione”. Non è Dio a lanciare una maledizione come un castigo arbitrario, ma è una legge spirituale: quando ci si allontana dalla sorgente dell’acqua viva (Dio), inevitabilmente ci si ritrova nella siccità del deserto. Circa la seconda domanda concernente l’uomo che confida nell’uomo, dovremmo diffidare gli uni degli altri? Certamente no, perché Dio vuole che l’umanità diventi una cosa sola e dunque ogni sfiducia tra gli uomini va contro il suo disegno d’amore.  Qui si tratta di chi si allontana da Dio e confida, cioè mette tutta la sua fiducia nell’uomo, appoggiarsi in modo assoluto sugli uomini. Senza Dio ogni sicurezza è fragile e si diventa come un arbusto nel deserto senza acqua destinato a morire. Chiaro il messaggio: Se ti allontani da Dio diventi spiritualmente arido e instabile, come un cespuglio nel deserto, mentre se confidi, hai fede, la tua vita sarà come un albero che rimane verde perché ha le sue radici nell’acqua. La fede quindi è il fondamento: la fiducia in Dio è come radicarsi in una roccia sicura (Mt 7,24-25). Far dipendere la vita solo da umane realtà come il potere, il successo, i soldi, le relazioni, porta a diventare fragili. Inoltre il fatto di aver posto la propria fede in Dio non ti risparmia dalle difficoltà e dai problemi, ma dà la forza per superare ogni ostacolo. E allora ogni giorno Il credente è chiamato a scegliere: affidarsi solo su sé stesso e vivere nella paura, oppure radicare la vita in Dio e affrontare le tempeste dell’esistenza senza perdersi d’animo.

 

*Salmo Responsoriale (1) 

Questo salmo, il primo, molto breve dove ogni dettaglio è significativo, costituisce la chiave interpretativa di tutto il Salterio ed è stato scelto per introdurre alla preghiera di Israele. Esso  si apre con questa parola: Beato!  “Beato l’uomo che non entra nel  consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siete in compagnia degli arroganti “. Il termine “beato” nella Bibbia esprime uno stato di felicità e profondo appagamento, condizione di benedizione e di pace interiore che Dio accorda a chi vive secondo la sua volontà. Questo concetto è simile a “shalom”, che indica una pace profonda e completa. Chi evita le influenze negative e trova gioia nella legge del Signore, meditandola costantemente, viene paragonatao a un albero piantato lungo corsi d’acqua, che produce frutto al momento opportuno e le cui foglie non appassiscono. Il salmista ha compreso che Dio vuole la nostra felicità, e questa è la cosa più importante che ha voluto dirci sin dall’inizio. Per capire il senso della parola beato nella Bibbia, dobbiamo pensare alle felicitazioni che ci si scambia nelle occasioni di festa augurando gioia e prosperità. L’espressione “Beato” etimologicamente significa riconoscerlo felice e rallegrarsi con lui; è innanzitutto una constatazione (sei felice), ma è anche un augurio, un incoraggiamento a far crescere la felicità ogni giorno. È come dire: sei sulla buona strada, continua a essere felice. Il termine biblico “Beato” esprime in definitiva una duplice dimensione: constatazione e incoraggiamento.

 

*Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (15, 12 – 20)

Comprendiamo meglio quello che san Paolo vuol dirci se pensiamo allo svolgimento del funerale di un cristiano il cui rituale prevede tre “segni” di alto valore simbolico. Anzitutto il Cero Pasquale accanto alla bara arde durante tutta la celebrazione a ricordare la presenza del Cristo risorto vivo fra noi. Nel rito di commiato che segue la messa il celebrante e, secondo alcuni usi, anche i fedeli aspergono il corpo del defunto con l’acqua benedetta a ricordo del Battesimo. Inoltre il celebrante incensa il feretro e questo per i cristiani dei primi secoli era un gesto assai audace perché nell’Impero Romano l’incenso veniva bruciato davanti alle statue degli dèi e sembrava un fuori luogo incensare un corpo umano senza vita ridotto a nulla. Ma questo gesto è molto eloquente perché un cristiano, fin dal suo Battesimo, è tempio dello Spirito Santo come ci ricorda san Paolo e dimenticandolo si finisce per perdere il segno e il valore della risurrezione dei corpi. I cristiani di Corinto e forse non pochi oggi anche se credono alla risurrezione di Cristo, faticano a trarne la conseguenza che per Paolo è evidente: se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo. E per spiegarci questa verità di fede procede per due tappe. Prima riafferma che Gesù è veramente risorto e poi ne trae le conseguenze. Essendo la risurrezione di Cristo il fondamento della fede cristiana.  In verità se non si crede nella risurrezione di Cristo, l’edificio della fede cristiana crolla: un rischio che corre ogni comunità. Chiediamoci: tutti i cattolici credono nella risurrezione di Cristo e nella nostra risurrezione?  Da questa premessa san Paolo trae la conclusione che, se  con il battesimo siamo, come Cristo, abitati dallo Spirito di Dio, risorgeremo come lui. La morte biologica distrugge il nostro corpo, ma Gesù lo farà risorgere. 

 

*Dal Vangelo secondo Luca ( 6, 17......26)

 Nella prima lettura il profeta Geremia ha esortato a non confidare in sé stessi e sui beni materiali, ma a poggiare la propria vita su Dio. Il Vangelo delle Beatitudini va ben oltre affermando: Beati voi poveri che ponete la vostra fiducia in Dio perché egli vi colmerà delle sue ricchezze. Ma chi sono i poveri secondo il vangelo? Il termine poveri nell’Antico Testamento non ha alcun legame con il conto in banca perché nel senso biblico (anawim) poveri sono coloro che non hanno un cuore superbo né lo sguardo altero chiamati “i curvi di schiena”: sono i piccoli, gli umili, che, mai sazi e compiaciuti di sé, sentono che manca loro qualcosa e proprio per questo Dio può colmarli. I profeti alternano nella loro predicazione il tono severo e minaccioso quando il popolo si smarrisce e insegue valori sbagliati, con quello incoraggiante e consolante quando attraversa momenti di sofferenza e disperazione. Queste quattro beatitudini fotografano perfettamente Gesù che è così povero da non avere una pietra su cui posare il capo ed è morto nell’abbandono totale; è colui che ha pianto la morte dell’amico Lazzaro e ha conosciuto l’angoscia nell’orto degli Ulivi, ha pianto la sorte di Gerusalemme; ha avuto fame e sete nel deserto e drammaticamente sulla croce; è colui che è stato disprezzato, calunniato, perseguitato e infine eliminato in nome dei principi della legge e quindi di quella che si riteneva la vera religione. In queste Beatitudini si profila la promessa della Risurrezione ed emerge un senso di gratitudine a Dio perché Gesù vuol far comprendere con quale sguardo d’amore il Padre ci avvolge sapendo che la vittoria è già certa. Ci rivela così lo sguardo di Dio, la sua misericordia. Lo sguardo dell’uomo è ben diverso da quello di Dio; l’ammirazione umana rischia spesso di sbagliare l’oggetto del proprio entusiasmo e si dirige ai ricchi, ai sazi, ai privilegiati della vita. Lo sguardo di Dio è ben diverso: “Un povero grida, il Signore lo ascolta”, dice il Salmo e “Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 50/51). E così Gesù ci apre gli occhi su un’altra dimensione della felicità: la vera felicità è lo sguardo di Dio su di noi. Certi di questo sguardo di Dio, i poveri, coloro che piangono, coloro che hanno fame, troveranno la forza di prendere in mano il proprio destino.

Lunedì, 10 Febbraio 2025 12:19

Beatitudini dell’inversione dei ruoli

Martedì, 04 Febbraio 2025 12:55

V Domenica T.O. (C) [con Commento breve]

9 Febbraio 2025 V Domenica Tempo Ordinario Anno C

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! 

Aggiungo in coda al commento delle Letture alcune note che aiutano a meglio entrare nel testo e utili anche per la lectio divina o la catechesi. 

 

*Prima Lettura Dal Libro del profeta Isaia (6, 1- 8)

 Nella IV domenica del Tempo Ordinario Anno C (quest’anno sostituita dalla liturgia della Presentazione del Signore) si leggeva il racconto della vocazione di Geremia, oggi invece quello di Isaia: entrambi grandi profeti eppure tutti e due confessano la loro piccolezza. Geremia proclama di essere incapace di parlare, ma poiché è Dio ad averlo scelto sarà Dio stesso a dargli la forza necessaria. Isaia, da parte sua, è preso da un senso di indegnità ma è sempre Dio a renderlo “puro”. La vocazione dei profeti è sempre una scelta personale da parte di Dio che chiede una completa adesione, frutto di decisa consapevolezza: “Mandare e andare” sono i termini di ogni vocazione e anche Isaia risponde in maniera totale. Se Geremia è un sacerdote ma non si sa dove abbia ricevuto la chiamata divina, Isaia invece, che sacerdote non era, colloca la sua vocazione nel tempio di Gerusalemme: “Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato”. Quando Isaia dice: io vidi, ci comunica una visione e poiché i libri profetici sono costellati di visioni occorre riuscire a decodificare questo linguaggio. Isaia ci offre un’indicazione preziosa e afferma che tutto ciò accadde nell’anno della morte del re Ozia che  regnò a Gerusalemme dal 781 al 740 a.C. Morto il re Salomone (nel 933 a.C., quasi due secoli prima), il regno di Davide e Salomone si era diviso: esistevano due regni con due re e due capitali. Al Sud, Ozia regnava su Gerusalemme; al Nord, Menaem regnava su Samaria. Ozia era lebbroso e morì di questa malattia a Gerusalemme nel 740 a.C. È dunque in quell’anno che Isaia ricevette la sua vocazione profetica. Successivamente, predicò per circa quarant’anni e morì martirizzato sotto il re Manasse di Giuda, secondo un’accreditata tradizione, segato in due con una sega di legno. Rimane nella memoria collettiva di Israele come un grande profeta, in particolare come il profeta della santità di Dio. “Santo! Santo! Santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria”: il Sanctus delle nostre celebrazioni eucaristiche risale dunque al profeta Isaia, anche se forse questa acclamazione faceva già parte della liturgia del tempio di Gerusalemme. Dio è “Santo”:  in senso biblico significa che è totalmente Altro rispetto all’uomo (Qadosh), non è cioè a immagine dell’uomo, ma come la Bibbia afferma, è l’uomo a essere creato a immagine di Dio. Nella visione d’Isaia Dio è seduto su un trono elevato, il fumo si diffonde e riempie tutto lo spazio, una voce tuona così forte che i luoghi tremano: “Tutta la terra è piena della tua gloria”. Il profeta pensa a ciò che accadde a Mosè sul monte Sinai, quando Dio fece alleanza con il suo popolo e gli diede le Tavole della Legge. Il libro dell’Esodo racconta: “Il monte Sinai era tutto fumante, perché il Signore vi era disceso nel fuoco; il fumo saliva come quello di una fornace e tutto il monte tremava molto…” (Es 19,18-19). Isaia, nella sua piccolezza, prova un reverenziale timore: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono… eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”.  Il timore d’Isaia è anzitutto consapevolezza del nostro essere piccoli e del divario incolmabile che ci separa da Dio. Dio però non si ferma e dice: “Non temere”. Nella visione di Isaia la parola è sostituita dal gesto: “Uno dei serafini volò verso di me, teneva in mano un carbone ardente… mi toccò la bocca”. Lo purifica perché il profeta viene purificato dalla Parola che gli permette di entrare in relazione con Dio. Chiamando Dio “Il Santo d’Israele” afferma inoltre che Egli è il Totalmente Altro e al tempo stesso vicino al suo popolo, così che il suo popolo lo può sentire come il proprio Dio.  In tutta la Bibbia Dio appare come colui che vuole diventare il “Santo” per l’intera umanità, il Dio che ci ama e vuole restare con tutti noi. 

 

Tre note integrative: 

1.Il libro di Isaia comprende sessantasei capitoli: non è però di un solo autore perché è un insieme di tre raccolte. I capitoli da 1 a 39 sono in gran parte opera del profeta che qui racconta la sua vocazione (all’interno di questi 39 capitoli, alcune pagine sono probabilmente posteriori); i capitoli da 40 a 55 sono opera di un profeta che predicava durante l’esilio a Babilonia (nel VI secolo a.C.); i capitoli da 56 a 66 riportano la predicazione di un terzo profeta, contemporaneo di quanti erano tornati dall’esilio in Babilonia.

2.La santità non è un concetto morale, né un attributo di Dio, ma è la natura stessa di Dio; infatti, l’aggettivo divino non esiste in ebraico ed è sostituito dal termine santo, che significa Totalmente Altro rispetto all’uomo: non possiamo raggiungerlo con le nostre forze perché ci supera infinitamente, al punto che non abbiamo alcun potere su di lui. Il profeta Osea scrive: “Io sono Dio e non uomo; in mezzo a te sono il Dio santo” (Os 11,9). Pertanto nella Bibbia nessun essere umano è mai considerato santo, al massimo si può essere “santificati” da Dio e, di conseguenza, riflettere la sua immagine, che è da sempre la nostra vocazione. 

3.In alcune traduzioni linguistiche l’espressione “Il Signore degli eserciti” viene reso con “il Signore dell’universo” probabilmente per andare incontro a una sensibilità a cui urta l’idea di un Dio degli eserciti e per esprimere nel contempo un senso universalistico dell’azione di Dio. 

 

*Salmo responsoriale (137 /138 ,1-5.7c-8)

Questo salmo trasmette una sensazione di gioia profonda e fin dal primo versetto tutto è detto. L’espressione “rendere grazie” è infatti ripetuta più volte: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore… Rendo grazie al tuo nome”. Il credente è colui che vive nella grazia di Dio e lo riconosce semplicemente, con il cuore colmo di gratitudine. Qui il credente è il popolo d’Israele che, come sempre nei salmi, parla e rende grazie per l’Alleanza che Dio gli ha offerto. Questo si comprende dalla ripetizione del nome “Signore”, che torna più volte in questi versetti. “Signore” è il Nome di Dio, il cosiddetto “tetragramma”, formato da quattro consonanti (YHWH), rivelato a Mosè al Sinai nell’episodio del roveto ardente (Es. 3). Le quattro lettere ebraiche sono: yod, he, vav, he e la pronuncia esatta si è persa nel tempo, poiché le vocali originali non sono indicate nel testo ebraico. Generalmente diciamo “Yahweh”, nome sacro che si pronuncia raramente per rispetto. Quasi sempre viene sostituito da Adonai (“Signore”) o HaShem (“Il Nome”) durante la lettura. Dio si è rivelato a Mosè durante l’Esodo sul Sinai, anche sotto il nome di “Amore e Fedeltà” e lo sentiamo anche qui: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Questa stessa espressione “Amore e Fedeltà” ricorre più volte in altri salmi e in tutta la Bibbia, preziosa scoperta di Israele, grazie allo Spirito di Dio: «Io sono il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). Non è un caso che la rivelazione della tenerezza di Dio avvenga dopo l’episodio del vitello d’oro, cioè in un momento di grave infedeltà del popolo perché è nelle sue ripetute infedeltà che Israele ha sperimentato la misericordia di Dio. Fedeltà di Dio cantata incessantemente nel tempio di Gerusalemme: «Mi prostro verso il tuo tempio santo» (v.2) e il salmo prosegue: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Come appare nella vita del profeta Isaia, il divario che ci separa da Dio, incolmabile con azioni meritorie, è colmato da Dio stesso invitandoci nella sua intimità. E in questo salmo scopriamo in cosa consiste la santità di Dio: Amore e fedeltà. Alla fine del salmo leggiamo “il tuo amore” è per sempre e “la tua destra mi salva”, un ulteriore richiamo all’Esodo dove si dice che Egli ci ha liberati “con mano potente e braccio teso” (Dt 4,34). Israele sa di essere il destinatario della Rivelazione, il confidente di Dio, ma si rende anche conto che deve diventarne il profeta proclamandone l’Amore e la Fedeltà a tutta l’umanità. Questo è il senso del versetto: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra… quando ascolteranno le parole della tua bocca» (v.4). Soltanto quando Israele avrà compiuto la sua missione di testimone di Dio, allora si potrà davvero cantare: “Ti rendo grazie, Signore con tutto il cuore” e… “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra”. Il salmo si conclude con una preghiera: “Non abbandonare l’opera delle tue mani”, che vuol dire: Continua nonostante le nostre infedeltà. Vanno lette insieme le due frasi: “Signore, il tuo amore è per sempre…non abbandonare l’opera delle tue mani”. Il suo amore eterno ci dà certezza che non abbandonerà mai l’opera delle sue mani e per questo non smettiamo di rendere grazie: “Il Signore farà tutto per me” (v.8).

Nota integrativa. La traduzione italiana porta: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra” (v.4), Gli esegeti fanno notare che qui si tratta di un verbo ebraico inaccompiuto o imperfetto che può indicare sia azoni future, sia azioni abituali e ripetute oppure azioni continue o incomplete nel passato o nel presente. Quindi potrebbe essere validamente tradotto con il presente: “Ti rendono grazie tutti i re della terra” oppure con un congiuntivo: “Che ti rendano grazie tutti i re della terra” ed è ovvio che in ogni scelta cambia un po’ il significato.

 

*Seconda Lettura Dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,1-11)

Se oggi rileggiamo quanto scrive san Paolo è grazie al fatto che in questi millenni, di generazione in generazione, è stato trasmesso il vangelo come in una ininterrotta staffetta dove, lungo il percorso, si consegna il “testimone” a chi viene dopo che a sua volta lo consegnerà al seguente.  La Chiesa è chiamata a trasmettere fedelmente il vangelo. Paolo, a parte l’apparizione sulla via di Damasco, non ha conosciuto e non è stato testimone della vita di Gesù di Nazareth; le sue fonti sono gli Apostoli della prima generazione e per lui, in particolare, Anania, Barnaba e la comunità cristiana di Antiochia di Siria. Grazie a loro, egli ha ricevuto il Vangelo che trasmette a sua volta riassumendolo in due frasi: Cristo morì per i nostri peccati ed è risorto il terzo giorno, sintetizzabili in due sole parole: morto/risorto che costituiscono i due pilastri della fede cristiana e questo è conforme alle Scritture, cioè anche all’Antico Testamento dove però non si trovano affermazioni esplicite sulla morte e risurrezione del Messia. La formula “secondo le Scritture” non significa pertanto che tutto fosse scritto in anticipo, ma che tutto ciò che è accaduto è conforme al disegno misericordioso di Dio. Si potrebbe allora sostituire l’espressione “secondo le Scritture” con “secondo il progetto e la promessa di Dio”. Cristo morendo in croce ha cancellato i nostri peccati e, secondo la sua stessa promessa, è risorto: la morte è stata vinta ed è facile costatare che tutto l’Antico Testamento è colmo di promesse di perdono dei peccati, di salvezza e di vita. Ad esempio nell’Antico Testamento l’espressione “il terzo giorno” evocava una promessa di salvezza e liberazione perché dire che ci sarà un terzo giorno equivaleva a dire: “Dio interverrà”. Il terzo giorno sul monte Moria, Dio salva Isacco dalla morte (Gn 22,8); Il terzo giorno, Giuseppe in Egitto restituì la libertà ai suoi fratelli (Gn 42,18); Il terzo giorno, il Signore apparve al suo popolo radunato ai piedi del monte Sinai (Es 19,11- 16); Il terzo giorno, Giona, finalmente convertito, torna sulla terraferma e alla sua missione (Gn 2,1). Così si interpretava la parola di Osea: “Ci ridarà vita dopo due giorni; il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo davanti a lui” (Os 6,2). Il terzo giorno non è dunque un dato cronologico, ma l’espressione di una speranza: quella del trionfo della vita sulla morte. Proclamare che Cristo è risorto il terzo giorno secondo le Scritture è quindi affermare che la salvezza è universale: il trionfo della vita e la salvezza sono per tutti i tempi e per tutti gli uomini, poiché Cristo vive per sempre. Innestati in lui siamo già parte della nuova umanità resa viva dallo Spirito Santo. Paolo racconta che ha personalmente sperimentato questa salvezza essendo un persecutore perdonato, convertito e trasformato in colonna della Chiesa e mai lo dimenticherà testimoniando la meraviglia dell’amore di Dio per l’umanità: un amore senza condizioni e continuamente offerto. Paolo, come Isaia, come Pietro, è profondamente consapevole del proprio peccato; ma lascia agire la grazia di Dio in lui: “Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi ho faticato più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è me” (v.10). Da persecutore Dio l’ha fatto apostolo, il più ardente, come da giovane timido, ha reso Geremia profeta coraggioso e Isaia, da uomo dalle labbra impure, l’ha fatto la «bocca di Dio» e Pietro, da rinnegatore, l’ha costituito il fondamento della sua Chiesa. Il vangelo da gridare sui tetti dell’umanità è proprio l’Amore e la Misericordia di Dio per tutti.

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*Dal Vangelo secondo Luca (5, 1-11)

 La prima lettura richiama quasi sempre il vangelo e oggi lo percepiamo molto bene. Non siamo abituati a paragonare l’apostolo Pietro al profeta Isaia, eppure i testi della liturgia ci aiutano a farlo proponendoci i racconti della loro vocazione. Diversi gli scenari: per Isaia, tutto avviene durante una visione nel tempio di Gerusalemme; per Pietro, sul lago di Tiberiade. Entrambi, però, si trovano improvvisamente al cospetto di Dio: Isaia nella sua visione, Pietro assistendo a un miracolo dopo una notte andata a vuoto. I dettagli forniti da Luca non lasciano dubbi. Pietro dice a Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” e Gesù invita a gettare ancora le reti.  Succede allora qualcosa di straordinario contro ogni aspettativa e umana esperienza. Se infatti di notte non si è pescato nulla, di giorno sicuramente è ancor peggio e questo lo sanno tutti i pescatori che lavorano di notte. Il miracolo però avviene perché, sulla semplice parola di Gesù, Pietro, esperto pescatore mostra una fiducia umile e smisurata e ubbidisce. il risultato fu una così enorme quantità di pesci da rischiare di rompere le reti. Sia Pietro che Isaia reagiscono allo stesso modo davanti all’irruzione di Dio nella loro vita; entrambi ne percepiscono la santità e l’abisso che li separa da lui. Le loro espressioni sono simili: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”, esclama Pietro, mentre Isaia dice: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono”.  Chiaro l’insegnamento: i nostri peccati, la nostra indegnità non fermano Dio perché lui si accontenta che noi ne prendiamo coscienza e ci presentiamo a Lui nella verità. Soltanto però, quando riconosciamo la nostra povertà, Dio può colmarci della sua grazia. Pietro e Isaia sono presi da un timore reverenziale davanti alla sua presenza: Isaia vede un carbone ardente toccargli la bocca, Pietro sente le parole di Gesù: “Non temere” e alla fine entrambi vengono chiamati al servizio dello stesso progetto di Dio, la salvezza degli uomini. Isaia come profeta, Pietro diventerà pescatore di uomini per la loro salvezza. Alle parole di Gesù: “Non temere, d’ora sarai pescatore di uomini” Pietro non risponde direttamente, ma insieme agli altri compie un gesto d’una semplicità impressionante: “E tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. I discepoli diventeranno collaboratori di Cristo anche se l’impresa sembrerà destinata al fallimento secondo il giudizio umano e occorrerà continuare  sempre a gettare le reti. E’ il mistero della nostra collaborazione all’opera di Dio: non possiamo fare nulla senza lui, e Dio non vuole fare nulla senza noi. Come dice Paolo nella seconda lettura, è la sua grazia che fa tutto: “Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana”. A ben vedere l’unica collaborazione che ci viene chiesta è una fiduciosa disponibilità come fa Pietro che con coraggio rischia un nuovo tentativo di pesca. E dopo il miracolo non chiama più Gesù Maestro, ma Signore, il nome riservato a Dio: si prostra ai suoi piedi pronto ormai a fare tutto ciò che dirà. In definitiva è grazie al sì di Isaia, di Pietro e dei suoi compagni e di Paolo, che oggi anche noi siamo qui. La parola di Gesù risuona ancora per noi: “Prendi il largo e gettate le reti per la pesca” e tocca a noi rispondere: sulla tua parola getteremo le reti. Per una pesca miracolosa il segreto è fidarsi sempre di Cristo, cosa non facile ma possibile a tutti.

 

Nota integrativa. Nel versetto 6, il verbo “presero una quantità di pesci” è συνεκλεισαν (synekleisan), derivato dal verbo συγκλείω (synkleió), che significa “rinchiudere”, “intrappolare” o “racchiudere insieme” e significa prendere i pesci con la rete strappandoli dal mare per ucciderli. Nelle sue opere, Sant’Agostino utilizza spesso l’immagine dei pescatori per descrivere l’opera degli Apostoli, in particolare di Pietro e Andrea, chiamati da Gesù a diventare “pescatori di uomini” (Matteo 4,19). Così annota nel Commento ai Salmi (Salmo 91, Discorso 2): “Essi pescano uomini, non per ucciderli ma per vivificarli; pescano, ma per condurli alla luce della verità, non alla morte”. Quando quindi si tratta di uomini, strapparli dal mare (simbolo del male) significa salvarli: prendere uomini vivi vuol dire impedir loro di annegare, cioè salvarli da gorghi di morte: portarli al respiro, alla Luce, alla Vita.

+Giovanni D’Ercole

 

 

*Sintesi 9 Febbraio 2025 V Domenica Tempo Ordinario Anno C

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! 

Aggiungo in coda al commento delle Letture alcune note che aiutano a meglio entrare nel testo e utili anche per la lectio divina o la catechesi. 

 

*Prima Lettura Dal Libro del profeta Isaia (6, 1- 8)

 Nella IV domenica del Tempo Ordinario Anno C (quest’anno sostituita dalla liturgia della Presentazione del Signore) si leggeva il racconto della vocazione di Geremia, oggi invece quello di Isaia: entrambi grandi profeti eppure tutti e due confessano la loro piccolezza. Geremia proclama di essere incapace di parlare, ma poiché è Dio ad averlo scelto sarà Dio stesso a dargli la forza necessaria. Isaia, da parte sua, è preso da un senso di indegnità ma è sempre Dio a renderlo “puro”. La vocazione dei profeti è sempre una scelta personale da parte di Dio che chiede una completa adesione, frutto di decisa consapevolezza: “Mandare e andare” sono i termini di ogni vocazione e anche Isaia risponde in maniera totale. Se Geremia è un sacerdote ma non si sa dove abbia ricevuto la chiamata divina, Isaia invece, che sacerdote non era, colloca la sua vocazione nel tempio di Gerusalemme: “Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato”. Isaia ci offre un’indicazione preziosa e afferma che ciò accadde nell’anno della morte del re Ozia che  regnò a Gerusalemme dal 781 al 740 a.C. Morto il re Salomone (nel 933 a.C., quasi due secoli prima), il regno di Davide e Salomone si era diviso: esistevano due regni con due re e due capitali. Al Sud, Ozia regnava su Gerusalemme; al Nord, Menaem regnava su Samaria. Ozia era lebbroso e morì di questa malattia a Gerusalemme nel 740 a.C. È dunque in quell’anno che Isaia ricevette la sua vocazione profetica. Successivamente, predicò per circa quarant’anni e morì martirizzato sotto il re Manasse di Giuda, secondo un’accreditata tradizione, segato in due con una sega di legno. Rimane nella memoria collettiva di Israele come un grande profeta, in particolare come il profeta della santità di Dio. “Santo! Santo! Santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria”: il Sanctus delle nostre celebrazioni eucaristiche risale dunque al profeta Isaia, anche se forse questa acclamazione faceva già parte della liturgia del tempio di Gerusalemme. Dio è “Santo”:  in senso biblico significa che è totalmente Altro rispetto all’uomo (Qadosh), non è cioè a immagine dell’uomo, ma come la Bibbia afferma, è l’uomo a essere creato a immagine di Dio. Chiamando Dio “Il Santo d’Israele” afferma inoltre che Egli è il Totalmente Altro e al tempo stesso vicino al suo popolo, così che il suo popolo lo può sentire come il proprio Dio.  In tutta la Bibbia Dio appare come colui che vuole diventare il “Santo” per l’intera umanità, il Dio che ci ama e vuole restare con tutti noi. 

 

Tre note integrative: 

1.Il libro di Isaia comprende sessantasei capitoli: non è però di un solo autore perché è un insieme di tre raccolte. I capitoli da 1 a 39 sono in gran parte opera del profeta che qui racconta la sua vocazione (all’interno di questi 39 capitoli, alcune pagine sono probabilmente posteriori); i capitoli da 40 a 55 sono opera di un profeta che predicava durante l’esilio a Babilonia (nel VI secolo a.C.); i capitoli da 56 a 66 riportano la predicazione di un terzo profeta, contemporaneo di quanti erano tornati dall’esilio in Babilonia.

2.La santità non è un concetto morale, né un attributo di Dio, ma è la natura stessa di Dio; infatti, l’aggettivo divino non esiste in ebraico ed è sostituito dal termine santo, che significa Totalmente Altro rispetto all’uomo: non possiamo raggiungerlo con le nostre forze perché ci supera infinitamente, al punto che non abbiamo alcun potere su di lui. Il profeta Osea scrive: “Io sono Dio e non uomo; in mezzo a te sono il Dio santo” (Os 11,9). Pertanto nella Bibbia nessun essere umano è mai considerato santo, al massimo si può essere “santificati” da Dio e, di conseguenza, riflettere la sua immagine, che è da sempre la nostra vocazione. 

3.In alcune traduzioni linguistiche l’espressione “Il Signore degli eserciti” viene reso con “il Signore dell’universo” probabilmente per andare incontro a una sensibilità a cui urta l’idea di un Dio degli eserciti e per esprimere nel contempo un senso universalistico dell’azione di Dio. 

 

*Salmo responsoriale (137 /138 ,1-5.7c-8)

Questo salmo trasmette una sensazione di gioia profonda e fin dal primo versetto tutto è detto. L’espressione “rendere grazie” è infatti ripetuta più volte: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore… Rendo grazie al tuo nome”. Il credente è colui che vive nella grazia di Dio e lo riconosce semplicemente, con il cuore colmo di gratitudine. Qui il credente è il popolo d’Israele che, come sempre nei salmi, parla e rende grazie per l’Alleanza che Dio gli ha offerto. Questo si comprende dalla ripetizione del nome “Signore”, che torna più volte in questi versetti. “Signore” è il Nome di Dio, il cosiddetto “tetragramma”, formato da quattro consonanti (YHWH), rivelato a Mosè al Sinai nell’episodio del roveto ardente (Es. 3). Generalmente diciamo “Yahweh”, nome sacro che si pronuncia raramente per rispetto. Dio si è rivelato a Mosè durante l’Esodo sul Sinai, anche sotto il nome di “Amore e Fedeltà” e lo sentiamo anche qui: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Questa stessa espressione “Amore e Fedeltà” ricorre più volte in altri salmi e in tutta la Bibbia: «Io sono il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). In questo salmo scopriamo che la santità di Dio consiste in Amore e fedeltà. Israele si rende conto che deve diventarne il profeta proclamandone l’Amore e la Fedeltà a tutta l’umanità. Soltanto quando Israele avrà compiuto questa  sua missione, allora si potrà davvero cantare: “Ti rendo grazie, Signore con tutto il cuore” e… “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra”. 

 

Nota integrativa. La traduzione italiana porta: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra” (v.4), Gli esegeti fanno notare che qui si tratta di un verbo ebraico inaccompiuto o imperfetto che può indicare sia azoni future, sia azioni abituali e ripetute oppure azioni continue o incomplete nel passato o nel presente. Quindi potrebbe essere validamente tradotto con il presente: “Ti rendono grazie tutti i re della terra” oppure con un congiuntivo: “Che ti rendano grazie tutti i re della terra” ed è ovvio che in ogni scelta cambia un po’ il significato.

 

*Seconda Lettura Dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,1-11)

Paolo, a parte l’apparizione sulla via di Damasco, non ha conosciuto e non è stato testimone della vita di Gesù di Nazareth; le sue fonti sono gli Apostoli della prima generazione e grazie a loro, ha ricevuto il Vangelo che trasmette a sua volta riassumendolo in due frasi: Cristo morì per i nostri peccati ed è risorto il terzo giorno, sintetizzabili in due sole parole: morto/risorto che costituiscono i due pilastri della fede cristiana e questo è conforme alle Scritture, cioè anche all’Antico Testamento dove però non si trovano affermazioni esplicite sulla morte e risurrezione del Messia. La formula “secondo le Scritture” non significa pertanto che tutto fosse scritto in anticipo, ma che tutto ciò che è accaduto è conforme al disegno misericordioso di Dio. Si potrebbe allora sostituire l’espressione “secondo le Scritture” con “secondo il progetto e la promessa di Dio”. Cristo morendo in croce ha cancellato i nostri peccati e, secondo la sua stessa promessa, è risorto: la morte è stata vinta ed è facile costatare che tutto l’Antico Testamento è colmo di promesse di perdono dei peccati, di salvezza e di vita. Ad esempio nell’Antico Testamento l’espressione “il terzo giorno” evocava una promessa di salvezza e liberazione perché dire che ci sarà un terzo giorno equivaleva a dire: “Dio interverrà”. Il terzo giorno sul monte Moria, Dio salva Isacco dalla morte (Gn 22,8); Il terzo giorno, Giuseppe in Egitto restituì la libertà ai suoi fratelli (Gn 42,18); Il terzo giorno, il Signore apparve al suo popolo radunato ai piedi del monte Sinai (Es 19,11- 16); Il terzo giorno, Giona, finalmente convertito, torna sulla terraferma e alla sua missione (Gn 2,1). Così si interpretava la parola di Osea: “Ci ridarà vita dopo due giorni; il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo davanti a lui” (Os 6,2). Il terzo giorno non è dunque un dato cronologico, ma l’espressione di una speranza: quella del trionfo della vita sulla morte. Proclamare che Cristo è risorto il terzo giorno secondo le Scritture è quindi affermare che la salvezza è per tutti i tempi e per tutti gli uomini, poiché Cristo vive per sempre. Da persecutore Dio ha fatto san Paolo apostolo, come da giovane timido, ha reso Geremia profeta coraggioso e Isaia, da uomo dalle labbra impure, l’ha fatto la «bocca di Dio» e Pietro, da rinnegatore, l’ha costituito il fondamento della sua Chiesa. 

 

*Dal Vangelo secondo Luca (5, 1-11)

 La prima lettura richiama quasi sempre il vangelo e oggi lo percepiamo molto bene. Non siamo abituati a paragonare l’apostolo Pietro al profeta Isaia, eppure i testi della liturgia ci aiutano a farlo proponendoci i racconti della loro vocazione. Diversi gli scenari: per Isaia, tutto avviene durante una visione nel tempio di Gerusalemme; per Pietro, sul lago di Tiberiade. Entrambi, però, si trovano improvvisamente al cospetto di Dio: Isaia nella sua visione, Pietro assistendo a un miracolo dopo una notte andata a vuoto. I dettagli forniti da Luca non lasciano dubbi. Pietro dice a Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” e Gesù invita a gettare ancora le reti.  Succede allora qualcosa di straordinario contro ogni aspettativa e umana esperienza. Se infatti di notte non si è pescato nulla, di giorno sicuramente è ancor peggio e questo lo sanno tutti i pescatori che lavorano di notte. Il miracolo però avviene perché, sulla semplice parola di Gesù, Pietro, esperto pescatore mostra una fiducia umile e smisurata e ubbidisce. il risultato fu una così enorme quantità di pesci da rischiare di rompere le reti. Sia Pietro che Isaia reagiscono allo stesso modo davanti all’irruzione di Dio nella loro vita; entrambi ne percepiscono la santità e l’abisso che li separa da lui. Le loro espressioni sono simili: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”, esclama Pietro, mentre Isaia dice: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono”.  Chiaro l’insegnamento: i nostri peccati, la nostra indegnità non fermano Dio perché lui si accontenta che noi ne prendiamo coscienza e ci presentiamo a Lui nella verità e quando riconosciamo la nostra povertà, Dio può colmarci della sua grazia. Alle parole di Gesù: “Non temere, d’ora sarai pescatore di uomini” Pietro non risponde direttamente, ma insieme agli altri compie un gesto d’una semplicità impressionante: “E tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. I discepoli diventeranno collaboratori di Cristo anche se l’impresa sembrerà destinata al fallimento secondo il giudizio umano e occorrerà continuare sempre a gettare le reti. E’ il mistero della nostra collaborazione all’opera di Dio: non possiamo fare nulla senza lui, e Dio non vuole fare nulla senza noi. La parola di Gesù risuona ancora per noi: “Prendi il largo e gettate le reti per la pesca” e tocca a noi rispondere: sulla tua parola getteremo le reti. 

 

Nota integrativa. Nel versetto 6, il verbo “presero una quantità di pesci” deriva dal verbo greco synkleió, che significa “rinchiudere”, “intrappolare” o “racchiudere insieme” e significa prendere i pesci con la rete strappandoli dal mare per ucciderli. Sant’Agostino utilizza spesso l’immagine dei pescatori per descrivere l’opera degli Apostoli, in particolare di Pietro e Andrea, chiamati da Gesù a diventare “pescatori di uomini” (Matteo 4,19). Nel Commento ai Salmi (Salmo 91, Discorso 2) scrive: “Essi pescano uomini, non per ucciderli ma per vivificarli; pescano, ma per condurli alla luce della verità, non alla morte”. Quando quindi si tratta di uomini, strapparli dal mare (simbolo del male) significa salvarli: prendere uomini vivi vuol dire impedir loro di annegare, cioè salvarli da gorghi di morte: portarli al respiro, alla Luce, alla Vita.

+Giovanni D’Ercole

Martedì, 28 Gennaio 2025 20:18

Presentazione del Signore [con versione breve]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. In questa domenica 2 Febbraio 2025 celebriamo la Presentazione del Signore al Tempio di Gerusalemme

*Prima Lettura Dal libro del profeta Malachia (3,1-4) 

Siamo in presenza di un misterioso frammento profetico visto da molti come una testimonianza di universalismo, di libertà e di speranza. Non è però facile capire come accogliere questo testo. Perché il profeta Malachia insiste così tanto sul Tempio, sui leviti (o sacerdoti), sulle offerte e su tutto ciò che riguarda il culto? Per capire questa insistenza, occorre tener conto del contesto storico. Malachia scrive intorno al 450 a.C., in un periodo in cui in Israele non c’era più un re discendente di Davide, il paese era sotto il dominio persiano e il popolo ebraico era comandato dai sacerdoti. Ecco perché l’autore insiste sull’alleanza di Dio con i sacerdoti he erano i rappresentanti di Dio presso il suo popolo. Malachia ricorda il legame privilegiato tra Dio e la discendenza di Levi, ma assiste a una degenerazione nella condotta di questa casta sacerdotale ed era perciò molto importante richiamare l’ideale e la responsabilità del sacerdozio. L’alleanza con i sacerdoti era al servizio dell’alleanza di Dio con il suo popolo ed è proprio di questa alleanza che qui si parla: “subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, eccolo venire”. Malachia si rivolge a tutti coloro che aspettano, desiderano, cercano e annuncia loro che non hanno atteso, cercato, desiderato invano e il loro desiderio, la loro attesa saranno esauditi. E questo avverrà presto.

“E subito entrerà”, la parola ebraica pit’ôm indica sia rapidità che vicinanza, ed è forte come l’espressione che segue: ”eccolo venire”. Le due espressioni sinonime “subito entrerà” e “eccolo venire” incorniciano (inclusione) l’annuncio della venuta del Signore. ”Subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, eccolo venire”. L’angelo dell’alleanza viene per ristabilire l’alleanza: prima di tutto con i figli di Levi, ma soprattutto, attraverso di loro, con il popolo intero e si capisce che quest’angelo dell’alleanza è Dio stesso. Nella Bibbia, per non nominare direttamente Dio per rispetto, si usa spesso l’espressione “l’Angelo di Dio”. Si tratta quindi della venuta stessa di Dio. Nel suo piccolo libro di appena quattro pagine nella nostra Bibbia, Malachia parla più volte del giorno della sua venuta; lo chiama il “giorno del Signore” e ogni volta questo giorno appare desiderabile e al tempo stesso inquietante. Per esempio, nel versetto che segue immediatamente il testo dell’odierna liturgia, Dio dice: “Io mi accosterò a voi per il giudizio” (v. 5), cioè vi libererò dal male. Questo è desiderabile per i giusti ma temibile per chi vive nel male e opera il male. L’intervento di Dio è un discernimento che deve avvenire dentro di noi nel giorno del giudizio e un messaggero deve precedere la venuta del Signore che chiamerà tutto il popolo alla conversione. Come scrive Malachia: “Io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me. Più tardi, Gesù citerà precisamente questa profezia riferendosi a Giovanni Battista. Chiedendo alla gente chi erano andati a vedere dirà che Giovanni Battista è “più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te; egli preparerà la tua strada davanti a te”(Mt 11,7-10 e Lc 7,27).  Con queste parole, Gesù identificava sé stesso  come l’Angelo dell’alleanza che viene nel suo tempio e lo capiremo meglio approfondendo il Vangelo di san Luca oggi, festa della Presentazione del Signore 

 

*Salmo responsoriale 23/24 (7, 8, 9, 10)

“Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria”. Quest’espressione è solenne e un po’ sorprendente dato che è difficile immaginare che i lintei delle porte possano sollevarsi. Siamo in un contesto poetico e l’iperbole serve a esprimere la maestà di questo Re di gloria che entra solennemente nel Tempio di Gerusalemme. L’espressione “re della gloria” è riferita a Dio stesso, il Signore dell’universo. Il pensiero va alla grande festa della Dedicazione del primo Tempio, realizzata dal re Salomone intorno al 950 a.C. Con la fantasia rivediamo l’enorme processione, le gradinate gremite di fedeli… Come leggiamo nel salmo 67/68: “Appare il tuo corteo, Dio, il corteo del mio Dio, del mio re, nel santuario. Precedono i cantori, seguono i suonatori di cetra, insieme a fanciulle che suonano tamburelli” (Sal 67,25-26). La Dedicazione del primo Tempio da parte di Salomone è descritta nel primo libro dei Re. In quell’occasione Salomone radunò a Gerusalemme gli anziani d’Israele, i capi delle tribù, i prìncipi delle famiglie dei figli d’Israele, per far salire l’Arca del Signore dalla città di Davide, cioè da Sion nel mese di Etanim, il settimo mese, durante la festa delle Capanne. Quando tutti gli anziani d’Israele erano arrivati, i sacerdoti portarono l’Arca, la tenda del convegno e tutti gli oggetti sacri che si trovavano nella tenda e fu sacrificato così tanto bestiame minuto e grande che non si poteva contare né enumerare. I sacerdoti sistemarono l’Arca dell’Alleanza del Signore al suo posto, nella camera interna della Casa, il Santo dei Santi, sotto le ali dei cherubini. I cherubini, nella Bibbia, non assomigliano ai piccoli angioletti della nostra immaginazione, ma sono animali alati con volto umano, più simili a grandi sfingi egiziane. In Mesopotamia, erano i guardiani dei templi. Nel Tempio di Gerusalemme, sopra l’Arca dell’Alleanza si trovavano due statue di legno dorato raffiguranti questi esseri. Le loro ali spiegate sopra l’Arca simboleggiavano il trono di Dio. In questo contesto, possiamo immaginare la folla e un coro che canta: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria”. E un altro coro risponde: “Chi è questo re della gloria? Il Signore forte e valoroso, il Signore valoroso in battaglia”. Dietro i termini che richiamano la guerra, che oggi possono sorprenderci, dobbiamo leggere il ricordo di tutte le battaglie necessarie a Israele per conquistarsi uno spazio vitale. Sin dal dono della Legge sul Sinai, l’Arca accompagnava il popolo d’Israele in ogni battaglia, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. L’ipotesi più comune è che questo salmo sia molto antico, poiché si è persa ogni traccia dell’Arca dall’esilio babilonese. Nessun testo biblico parla chiaramente di essa né durante né dopo l’esilio, ma si sa che finì come parte del bottino portato via da Nabucodonosor durante la presa di Gerusalemme. Fu nascosta poi da Geremia sul monte Nebo, come raccontano alcuni? Nessuno lo sa. Eppure questo salmo è stato cantato regolarmente nelle cerimonie del Tempio di Gerusalemme persino molto dopo l’esilio babilonese, in un’epoca in cui non vi era più nessuna processione intorno all’Arca. Proprio per questo ha acquisito maggiore importanza: avendo perso definitivamente l’Arca dell’’Alleanza, segno tangibile della presenza di Dio, il salmo rappresentava tutto ciò che restava dello splendore passato. Insegnava al popolo il necessario distacco: la presenza di Dio non è legata a un oggetto, per quanto carico di memoria. Inoltre, con il passare dei secoli, questo salmo ha assunto un significato nuovo: “Entri il re della gloria” è diventato il grido di impazienza per la venuta del Messia. Venga finalmente il Re eterno che regnerà sull’umanità rinnovata alla fine dei tempi! Sarà davvero il “Signore valoroso in battaglia” colui cioè che vince definitivamente il Male e le potenze della morte; sarà davvero il Signore, Dio dell’universo e tutta l’umanità parteciperà alla sua vittoria. Questa era l’attesa d’Israele, che cresceva di secolo in secolo.  Non stupisce, dunque, che la liturgia cristiana canti il salmo 23/24 il giorno in cui celebra la Presentazione di Gesù Bambino al Tempio di Gerusalemme: un modo per affermare che questo bambino è il re della gloria, cioè Dio stesso.

 

*Seconda Lettura Dalla lettera agli Ebrei ( 2,14-18)

 Il tema della mediazione di Cristo è fondamentale nella Lettera agli Ebrei. E' senz’altro utile ricordare che fu scritta in un contesto di non poche polemiche e proprio da questa lettera possiamo intuire il tipo di obiezioni che i primi cristiani di origine ebraica dovevano affrontare. Essi si sentivano dire continuamente: Il vostro Gesù non è il Messia; abbiamo bisogno di un sacerdote, e lui non lo è. Era quindi fondamentale per un cristiano del I° secolo sapere che Cristo è veramente sacerdote, essendo l’istituzione del sacerdozio centrale nell’Antico Testamento, come abbiamo notato anche nella prima lettura tratta dal libro di Malachia, che è l’ultimo dell’Antico Testamento. Ora, un’istituzione così importante nella storia del popolo ebraico e per la sua sopravvivenza, non poteva essere ignorata nel Nuovo Testamento. Gesù però, secondo la legge ebraica, non era sacerdote e non poteva aspirare a esserlo, tanto meno poteva considerarsi sommo sacerdote. Discendeva da Davide, quindi dalla tribù di Giuda, e per nulla da quella di Levi e l’autore della Lettera lo sa bene e afferma chiaramente (cf Eb 7,14).  La Lettera agli Ebrei risponde: Gesù non è sommo sacerdote discendente da Aronne, ma lo è a somiglianza di Melchisedek.  Questo personaggio menzionato nel capitolo 14 della Genesi visse molto prima di Mosè e di Aronne ed è legato ad Abramo. Eppure viene chiamato “sacerdote del Dio Altissimo” (Cf. Gn 14,18-20). Dunque Gesù è effettivamente sommo sacerdote, a suo modo, in continuità con l’Antico Testamento. Ecco precisamente lo scopo della Lettera agli Ebrei: mostrarci come Gesù realizzi l’istituzione del sacerdozio e realizzare nel linguaggio biblico non significa riprodurre il modello dell’Antico Testamento, ma portarlo alla sua piena perfezione. Vediamo allora i tre aspetti del sacerdozio antico e quali ne erano gli elementi essenziali: Il sacerdote era un mediatore, un membro del popolo ammesso a comunicare con la santità di Dio e, in cambio, trasmetteva al popolo i doni e le benedizioni di Dio. Nel brano odierno si sottolinea che Gesù è davvero un membro del popolo: “Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe… perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli…” (Eb 2,14-17). Essere «simile» significa condividere le stesse debolezze: tentazioni, prove, sofferenza e morte. Gesù ha condiviso la nostra povera condizione umana e per avvicinare Dio all’uomo, si è fatto uno di noi annullando così la distanza tra Dio e l’uomo. Inoltre il sacerdote doveva essere ammesso a comunicare con la santità di Dio che è il Santo, cioè il totalmente Altro (Kadosh, El Elyon, HaKadosh HaMufla), come spesso ci ricorda la Bibbia. Per avvicinarsi al Dio santo, i sacerdoti venivano sottoposti a riti di separazione: bagni rituali, unzioni, vestizioni e sacrifici. Anche i luoghi sacri in cui i sacerdoti officiavano erano separati dagli spazi di vita comune del popolo. Con Gesù, tutto ciò è stravolto: egli non si è mai separato dalla vita del suo popolo, anzi si è mescolato con i piccoli, gli emarginati, gli impuri. Eppure, dice la Lettera agli Ebrei, abbiamo una prova certa che Gesù è il Giusto per eccellenza, il Figlio di Dio, il Santo: la sua resurrezione sconfiggendo la morte ha ristabilito l’Alleanza con Dio, che era l’obiettivo stesso dei sacerdoti. Ora siamo liberi e il più grande nemico della libertà è la paura. Ma, grazie a Gesù, non abbiamo più nulla da temere perché conosciamo l’amore di Dio. Chi ci faceva dubitare di questo amore era satana, ma mediante la morte, Gesù l’ ha ridotto all’impotenza.(cf 2,14-15). La sofferenza di Gesù mostra fin dove arriva l’amore di Dio per noi. Infine una domanda: Perché in questa Lettera si parla dei «figli di Abramo» e non dei «figli di Adamo»? Dice infatti. “Non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo”. La risposta è perché Abramo, nella meditazione biblica, rappresenta la fede, intesa come fiducia e a noi resta la libertà di non essere figli di Abramo, cioè credenti. Sta a noi decidere se entrare o no nel progetto di Dio.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (2, 22 – 40)

Nel racconto dell’evangelista Luca emerge una doppia insistenza: prima sulla Legge, poi sullo Spirito. Nei primi versetti (vv. 22-24), egli cita tre volte la Legge per rimarcare che la vita del bambino inizia sotto il segno della Legge. Va però chiarito che Luca cita la Legge d’Israele non come una serie di comandamenti scritti e anzi si potrebbe sostituire la parola “Legge” con “Fede di Israele”. La vita della Famiglia di Nazaret è tutta impregnata della fede e, quando si presentano al Tempio di Gerusalemme per adempiere le usanze giudaiche, lo fanno con un atteggiamento di fervore. Il primo messaggio di Luca è questo: la salvezza di tutta l’umanità ha preso forma nel quadro della Legge d’Israele, della fede di Israele: in una parola, il Verbo di Dio si è incarnato in questo contesto e così si è compiuto il disegno misericordioso di Dio per l’umanità. Poi entra in scena Simeone, spinto dallo Spirito, menzionato anch’esso tre volte. È dunque lo Spirito che ispira a Simeone le parole che rivelano il mistero di questo bambino: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza”. E’ bene riprendere queste parole di Simeone una per una: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli”. L’Antico Testamento è la storia di questa lunga e paziente preparazione da parte di Dio per la salvezza dell’umanità. E si tratta proprio della salvezza dell’umanità, non solo del popolo d’Israele. È esattamente ciò che Simeone precisa: “Luce per irivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. La gloria di Israele, infatti, sta nell’essere stato scelto non per se stesso, ma per tutta l’umanità. Con il progredire della storia, durante tutte le vicende dell’Antico Testamento il popolo che Dio si è scelto ha scoperto sempre più chiaramente che il progetto di salvezza di Dio riguarda l’intera umanità. inoltre tutto questo avviene nel Tempio.  Per Luca il messaggio è fondamentale e lo comunica a noi: assistiamo già all’ingresso glorioso di Gesù, Signore e Salvatore, nel tempio di Gerusalemme, come aveva annunciato il profeta Malachia. Questo è proprio  l’incipit della prima lettura: “Così dice il Signore Dio: Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti”.

Luca riconosce in Gesù l’Angelo dell’Alleanza che entra nel suo tempio. Le parole di Simeone sulla gloria e sulla luce si collocano perfettamente in questa linea: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. Un’altra eco del vangelo di oggi nell’Antico Testamento si trova nel Salmo: “Chi è questo re di gloria? Alzate, o porte, la vostra fronte”. Il salmo attendeva un Messia-re discendente di Davide; sappiamo che il re di gloria è questo bambino. Luca descrive una scena maestosa di gloria: tutta la lunga attesa di Israele è rappresentata da due personaggi, Simeone e Anna. “Simeone, uomo giusto e pio aspettava la consolazione d’Israele”. Quanto ad Anna, si può pensare che, se parlava del bambino a quanti aspettavano la liberazione di Gerusalemme, era perché anche lei viveva con impazienza  l’attesa del Messia. Quando Simeone proclama: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola., perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele», afferma chiaramente che questo bambino è il Messia, il riflesso della gloria di Dio. Con Gesù, è la Gloria di Dio che entra nel Santuario; il che equivale a dire che Gesù è la Gloria, che egli è Dio stesso. Da questo momento, il tempo della Legge è compiuto. L’Angelo dell’Alleanza è entrato nel suo tempio per diffondere lo Spirito sull’intera umanità di ogni razza e cultura. 

 

P.S. Per un ulteriore approfondimento, visto che questa pagina evangelica la ritroviamo anche nella festa della Santa Famiglia di Nazaret, unisco qualche nota supplementare.

L’attesa del Messia era viva nel popolo ebraico all’epoca della nascita di Gesù, ma non tutti ne parlavano allo stesso modo anche se l’impazienza era condivisa da tutti. Alcuni parlavano della “Consolazione di Israele”, come Simeone, altri della “liberazione di Gerusalemme”, come la profetessa Anna. Alcuni aspettavano un re, discendente di Davide, che avrebbe scacciato gli occupanti, rappresentanti del potere romano. Altri attendevano un Messia completamente diverso: Isaia lo aveva lungamente descritto e lo chiamava “il Servo di Dio”.

A coloro che aspettavano un re, i racconti dell’Annunciazione e della Natività hanno mostrato che Gesù era proprio colui che attendevano. Per esempio, l’angelo nell’Annunciazione aveva detto a Maria: “Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre; regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Certamente la giovane di Nazaret rimase sorpresa, tuttavia il messaggio era chiaro.  Eppure nel racconto della presentazione di Gesù al Tempio, non si parla di questo aspetto della personalità del bambino appena nato. E d’altronde, il bambino che entra nel Tempio tra le braccia dei suoi genitori non è nato in un palazzo reale, ma in una famiglia modesta e in condizioni precarie. Sembra piuttosto che san Luca ci inviti a riconoscere nel bambino presentato nel Tempio, il servo annunciato da Isaia nei capitoli 42, 49, 50 e 52-53: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio (42, 1)… Il Signore mi ha chiamato fin dal seno materno, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome (I49, 1)…Ogni mattina fa attento il mio orecchio, perché io ascolti come i discepoli; il Signore Dio ha aperto il mio orecchio” (50, 4-5).  Un tal modo di esprimersi dichiara che questo servo era molto docile alla parola di Dio; e aveva ricevuto la missione di portare la salvezza a tutto il mondo. Isaia diceva: “Ti ho posto come alleanza per i popoli, come luce delle nazioni” (42, 6)… “Ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (49, 6). Il che mostra che già all’epoca di Isaia si era compreso che il progetto d’amore e di salvezza di Dio riguarda tutta l’umanità e non solo il popolo d’Israele. Infine, Isaia non nascondeva il terribile destino che attendeva questo salvatore: egli avrebbe compiuto la sua missione di salvezza per tutti, ma la sua parola, ritenuta troppo scomoda, avrebbe suscitato persecuzioni e disprezzo. Ricordiamo questo passo: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che strappavano la barba” (50, 6). Probabilmente sotto l’ispirazione dello Spirito Santo e grazie alla sua conoscenza delle profezie di Isaia, Simeone capì immediatamente che il bambino era il Servo annunciato dal profeta. Intuì il destino doloroso di Gesù, la cui parola ispirata sarebbe stata rifiutata dalla maggioranza dei suoi contemporanei. Disse a Maria: “Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”. Simeone comprese  che era giunta l’ora della salvezza per tutta l’umanità: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. Sì, Gesù è il Messia Servo, descritto nei “Canti del Servo del Signore” d’Isaia (42,49,50,52-53) colui che porta la salvezza: “Per mezzo suo si compirà la volontà del Signore” (53, 10).

+Giovanni D’Ercole

 

Offro anche su richiesta di qualcuno una breve sintesi che è possibile diffondere tra i fedeli. Domenica prossima 2 Febbraio 2025 celebriamo la Presentazione del Signore e

prepariamoci dando un rapido sguardo alla parola di Dio che ascolteremo nella santa Messa

*Prima Lettura Dal libro del profeta Malachia (3,1-4) 

Siamo in presenza di un misterioso frammento profetico visto da molti come una testimonianza di universalismo, di libertà e di speranza. Non è però facile capire come accogliere questo testo. Il profeta Malachia insiste tanto sul Tempio, sui leviti (o sacerdoti), sulle offerte e su tutto ciò che riguarda il culto perché Israele era sotto il dominio persiano e il popolo ebraico era comandato dai sacerdoti i quali erano i rappresentanti di Dio presso il suo popolo. L’alleanza con i sacerdoti era al servizio dell’alleanza di Dio con il suo popolo ed è proprio di questa alleanza che qui si tratta. Malachia si rivolge a tutti coloro che aspettano, desiderano, cercano e annuncia loro che non hanno atteso, cercato, desiderato invano e il loro desiderio, la loro attesa saranno esauditi perché presto arriverà L’Angelo dell’Alleanza cioè Dio stesso. Come scrive Malachia: “Io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me. Più tardi, Gesù citerà precisamente questa profezia riferendosi a Giovanni Battista. Chiedendo alla gente chi erano andati a vedere dirà che Giovanni Battista è “più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te; egli preparerà la tua strada davanti a te”(Mt 11,7-10 e Lc 7,27).  Con queste parole, Gesù identificava sé stesso come l’Angelo dell’alleanza che viene nel suo tempio e lo capiremo meglio approfondendo il Vangelo di san Luca oggi, festa della Presentazione del Signore 

 

*Salmo responsoriale 23/24 (7, 8, 9, 10)

“Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria”. Quest’espressione è solenne e un po’ sorprendente dato che è difficile immaginare che i lintei delle porte possano sollevarsi. Siamo in un contesto poetico e l’iperbole serve a esprimere la maestà di questo Re di gloria che entra solennemente nel Tempio di Gerusalemme. L’espressione “re della gloria” è riferita a Dio stesso, il Signore dell’universo. Possiamo immaginare la folla e un coro che canta: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria”. E un altro coro risponde: “Chi è questo re della gloria? Il Signore forte e valoroso, il Signore valoroso in battaglia”. Questo salmo è stato cantato nelle cerimonie del Tempio di Gerusalemme persino molto dopo l’esilio babilonese, in un’epoca in cui non vi era più nessuna processione intorno all’Arca. Proprio per questo ha acquisito maggiore importanza: avendo perso definitivamente l’Arca dell’’Alleanza, segno tangibile della presenza di Dio, il salmo rappresentava tutto ciò che restava dello splendore passato. Insegnava al popolo il necessario distacco: la presenza di Dio non è legata a un oggetto, per quanto carico di memoria. Inoltre, con il passare dei secoli, questo salmo ha assunto un significato nuovo: “Entri il re della gloria” è diventato il grido di impazienza per la venuta del Messia. Venga finalmente il Re eterno che regnerà sull’umanità rinnovata alla fine dei tempi! Questa era l’attesa d’Israele, che cresceva di secolo in secolo.  Non stupisce, dunque, che la liturgia cristiana canti il salmo 23/24 il giorno in cui celebra la Presentazione di Gesù Bambino al Tempio di Gerusalemme: un modo per affermare che questo bambino è il re della gloria, cioè Dio stesso.

 

*Seconda Lettura Dalla lettera agli Ebrei ( 2,14-18)

 Il tema della mediazione di Cristo è fondamentale nella Lettera agli Ebrei. E' senz’altro utile ricordare che fu scritta in un contesto di non poche polemiche e proprio da questa lettera possiamo intuire il tipo di obiezioni che i primi cristiani di origine ebraica dovevano affrontare. Essi si sentivano dire continuamente: Il vostro Gesù non è il Messia; abbiamo bisogno di un sacerdote, e lui non lo è. Era quindi fondamentale per un cristiano del I° secolo sapere che Cristo è veramente sacerdote. Gesù però, secondo la legge ebraica, non era sacerdote e non poteva aspirare a esserlo, tanto meno poteva considerarsi sommo sacerdote. La Lettera agli Ebrei risponde: Gesù non è sommo sacerdote discendente da Aronne, ma lo è a somiglianza di Melchisedek, personaggio che appare nel capitolo 14 della Genesi e visse molto prima di Mosè e di Aronne ed è legato ad Abramo. Eppure viene chiamato “sacerdote del Dio Altissimo” (Cf. Gn 14,18-20). Dunque Gesù è effettivamente sommo sacerdote, a suo modo, in continuità con l’Antico Testamento. Ecco precisamente lo scopo della Lettera agli Ebrei: mostrarci come Gesù realizzi l’istituzione del sacerdozio e realizzare nel linguaggio biblico non significa riprodurre il modello dell’Antico Testamento, ma portarlo alla sua piena perfezione. Infine una domanda: Perché in questa Lettera si parla dei «figli di Abramo» e non dei «figli di Adamo»? Dice infatti. “Non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo”. La risposta è perché Abramo, nella meditazione biblica, rappresenta la fede, intesa come fiducia e a noi resta la libertà di non essere figli di Abramo, cioè credenti. Sta a noi decidere se entrare o no nel progetto di Dio.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (2, 22 – 40)

Nel racconto dell’evangelista Luca emerge una doppia insistenza: prima sulla Legge, poi sullo Spirito. Nei primi versetti (vv. 22-24), egli cita tre volte la Legge per rimarcare che la vita del bambino inizia sotto il segno della Legge. Va però chiarito che Luca cita la Legge d’Israele non come una serie di comandamenti scritti e anzi si potrebbe sostituire la parola “Legge” con “Fede di Israele” e la vita della Famiglia di Nazaret è tutta impregnata di questa fede. Il primo messaggio di Luca è questo: la salvezza di tutta l’umanità ha preso forma nel quadro della Legge d’Israele, della fede di Israele: in una parola, il Verbo di Dio si è incarnato in questo contesto e così si è compiuto il disegno misericordioso di Dio per l’umanità. Poi entra in scena Simeone, spinto dallo Spirito, menzionato anch’esso tre volte. È dunque lo Spirito che ispira a Simeone le parole che rivelano il mistero di questo bambino: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli”. L’Antico Testamento è la storia di questa lunga e paziente preparazione da parte di Dio per la salvezza dell’umanità. E si tratta proprio della salvezza dell’umanità, non solo del popolo d’Israele. È esattamente ciò che Simeone precisa: “Luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. La gloria di Israele, infatti, sta nell’essere stato scelto non per se stesso, ma per tutta l’umanità. Per Luca il messaggio è fondamentale e lo comunica a noi: assistiamo già all’ingresso glorioso di Gesù, Signore e Salvatore, nel tempio di Gerusalemme, come aveva annunciato il profeta Malachia. Luca riconosce in Gesù l’Angelo dell’Alleanza che entra nel suo tempio. Il salmo attendeva un Messia-re discendente di Davide; sappiamo che il re di gloria è questo bambino. Luca descrive una scena maestosa di gloria: tutta la lunga attesa di Israele è rappresentata da due personaggi, Simeone e Anna. “Simeone, uomo giusto e pio aspettava la consolazione d’Israele”. Quanto ad Anna, si può pensare che, se parlava del bambino a quanti aspettavano la liberazione di Gerusalemme, era perché anche lei viveva con impazienza l’attesa del Messia. Quando Simeone proclama: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola., perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza “afferma chiaramente che questo bambino è il Messia. Con Gesù, la Gloria di Dio entra nel Santuario; il che equivale a dire che Gesù è la Gloria, Dio stesso entrato nel suo tempio per diffondere lo Spirito sull’intera umanità.

+Giovanni D’Ercole

Lunedì, 27 Gennaio 2025 10:31

Presentazione del Signore

Pagina 34 di 40
Even after seeing his people's repeated unfaithfulness to the covenant, this God is still willing to offer his love, creating in man a new heart (John Paul II)
Anche dopo aver registrato nel suo popolo una ripetuta infedeltà all’alleanza, questo Dio è disposto ancora ad offrire il proprio amore, creando nell’uomo un cuore nuovo (Giovanni Paolo II)
«Abide in me, and I in you» (v. 4). This abiding is not a question of abiding passively, of “slumbering” in the Lord, letting oneself be lulled by life [Pope Francis]
«Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Questo rimanere non è un rimanere passivo, un “addormentarsi” nel Signore, lasciandosi cullare dalla vita [Papa Francesco]
سَلامي أُعطيكُم – My peace I give to you! (Jn 14:27). This is the true revolution brought by Christ: that of love […] You will come to know inconceivable joy and fulfilment! To answer Christ’s call to each of us: that is the secret of true peace (Pope Benedict)
سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!]. Qui è la vera rivoluzione portata da Cristo, quella dell'amore [...] Conoscerete una gioia ed una pienezza insospettate! Rispondere alla vocazione di Cristo su di sé: qui sta il segreto della vera pace (Papa Benedetto)
Spirit, defined as "another Paraclete" (Jn 14: 16), a Greek word that is equivalent to the Latin "ad-vocatus", an advocate-defender. The first Paraclete is in fact the Incarnate Son who came to defend man (Pope Benedict)
Spirito, definito "un altro Paraclito" (Gv 14,16), termine greco che equivale al latino "ad-vocatus", avvocato difensore. Il primo Paraclito infatti è il Figlio incarnato, venuto per difendere l’uomo (Papa Benedetto)
The Lord gives his disciples a new commandment, as it were a Testament, so that they might continue his presence among them in a new way: […] If we love each other, Jesus will continue to be present in our midst, to be glorified in this world (Pope Benedict)
Quasi come Testamento ai suoi discepoli per continuare in modo nuovo la sua presenza in mezzo a loro, dà ad essi un comandamento: […] Se ci amiamo gli uni gli altri, Gesù continua ad essere presente in mezzo a noi, ad essere glorificato nel mondo (Papa Benedetto)
St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6) [Papa Benedetto]
Dear friends, the mission of the Church bears fruit because Christ is truly present among us in a quite special way in the Holy Eucharist. His is a dynamic presence which grasps us in order to make us his, to liken us to him. Christ draws us to himself, he brings us out of ourselves to make us all one with him. In this way he also inserts us into the community of brothers and sisters: communion with the Lord is always also communion with others (Pope Benedict)
Cari amici, la missione della Chiesa porta frutto perché Cristo è realmente presente tra noi, in modo del tutto particolare nella Santa Eucaristia. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a Sé. Cristo ci attira a Sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli: la comunione con il Signore è sempre anche comunione con gli altri (Papa Benedetto)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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