Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
19.a Domenica del tempo ordinario Anno B (11 agosto 2024)
Riferimenti Biblici:
Prima lettura: “Con la forza di quel cibo camminò fino al monte di Dio” (1Re 19,4-8)
Salmo responsoriale: “Gustate e vedete com’è buono il Signore” (salmo 33/34 2-3,4-5)
Seconda Lettura: “Camminate nella carità come Cristo” (Ef 4,30-5,2)
Vangelo: ”Io sono il pane vivo disceso dal cielo” (Gv 6, 411- 51)
1. Dio non ci lascia mai soli. Nella prima lettura incontriamo il profeta Elia, Eliyyah che significa “Il mio Dio é Yah” prima sillaba del nome di Dio. Un nome che indica bene le sue caratteristiche di profeta che ha combattuto una battaglia incessante contro l’idolatria. A un certo punto però sentì venir meno le forze, situazione che può capitare a tutti, ed essendo rimasto solo e abbandonato da tutti, andò verso il deserto sfiduciato per sfuggire alla regina Gezabele che voleva ucciderlo. La siccità, la carestia, la solitudine, la stanchezza fisica e morale: il deserto era specchio del suo vuoto interiore reso più acuto dalla paura della morte. Dio però non lo abbandona e la sua fuga si trasforma in un pellegrinaggio alle sorgenti della fede ebraica, il monte Sinai chiamato anche Oreb. Dio lo attrae sulla Montagna dell’Alleanza, dove un tempo chiamò Mosè (Es. 3) per consegnargli le tavole della legge (Es 19) e gli mostrò nel buio di una caverna il suo misterioso fulgore (Es 33,21-23). Da quell’incontro nacque il popolo ebraico liberato dalla schiavitù egiziana, metafora di ogni schiavitù. In quello stesso luogo avverrà la nuova nascita per Elia come grande profeta d’Israele. Avremo modo di meglio conoscere tutto ciò con i miracoli compiuti in casa della vedova di Sarepta (1 R 17,7-24) nella prossima XXXII Domenica del Tempo Ordinario, oggi invece sostiamo con Elia, che dopo una giornata di cammino stanco e disperato dubita persino di sé stesso perché prende coscienza della sua indegnità. Dio non lo lascia solo e un angelo gli fa avere pane, acqua e soprattutto il conforto dal Cielo per comprendere il senso della sua missione. Se fino ad allora aveva difeso un Dio onnipotente che distrugge i suoi nemici e lo aveva sfidato sul monte Carmelo contro i 450 sacerdoti di Baal, ora per scoprire il vero volto di Dio dovrà entrare nella stessa caverna dell’Oreb, dove Mosè vide il Signore: solo allora pure Elia capirà che il Dio dell’Amore non si rivela nell’uragano, nel terremoto e nel fuoco, ma nel mormorio di una brezza leggera (1 R 19,12). La prima lettura oggi descrive il suo cammino di quaranta giorni e quaranta notti per prepararsi a quest’incontro. Nella Bibbia il numero quaranta indica sempre una gestazione e quel che il profeta ha vissuto richiama la nostra esperienza personale: per rinascere occorre passare per il deserto e ricevere in dono il pane, l’acqua che ridanno la vita quando ci si sente abbandonati e persi sull’orlo del suicidio, della disperazione, schiavi del peccato e segnati da ogni tipo di sofferenza fisica e morale. Elia si credeva un privilegiato perché chiamato da Dio, ora scopre che il profeta è uno come gli altri al quale Dio affida una missione ben superiore alle sue forze: sperimenta però che il Signore non abbandona nessuno e non esistono situazioni che sfuggono al potere della sua misericordia. A tutto ciò fa eco il salmo responsoriale: “il povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce” (salmo 33/34).
2. Da qui nasce un invito per tutti: ogni volta che celebriamo l’Eucarestia, sentiamo il Signore sussurrarci nel cuore:” Alzati e mangia perché lungo è il cammino che ti resta da percorrere”.
Il disagio interiore del profeta Elia appare, sia pure in un contesto diverso, nell’inquietudine degli ascoltatori di Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Domenica scorsa il suo discorso si era fermato a queste parole: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà mai fame ”, espressioni che suonano strane e suscitano perplessità e critiche in chi lo ascolta. Il popolo ebraico conosceva bene che ci sono due tipi di pane: il pane materiale e quello spirituale e sapevano che l’unico pane spirituale è la parola di Dio, come leggiamo nel Deuteronomio: ”L’uomo non vive solo di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3). Comprensibile allora la domanda della gente: Come fa Gesù a credersi la parola di Dio? Come può pretendere di essere colui che porta la vita eterna, lui che è il figlio di Giuseppe, carpentiere di Nazareth e di Maria una semplice donna del villaggio? E’ uno come noi e pretende di ritenersi Dio? A dire il vero chiunque si ferma alle affermazioni di Gesù non può che trovarle a prima vista difficili da capire e da accettare. Nessuna meraviglia dunque se, come leggeremo nelle prossime domeniche, alcuni fra i presenti lo abbandoneranno. Gli ascoltatori erano contadini della Galilea abituati ad avere i piedi per terra, adoravano un Dio unico e quindi nemici dell’idolatria. Gesù li provoca e ci provoca con una domanda che tocca il cuore del cristianesimo: Gesù uomo può essere Dio? Domanda, cuore della fede cristiana che sempre interpella e attende la risposta personale. Gesù percepisce il borbottare della gente come il rifiuto di credere e reagisce in maniera energica: “non mormorate tra voi”. Questo comando sulle labbra di Gesù richiama il severo rimprovero legato all’incredulità, peccato originale d’Israele, il quale mormorava e si ribellava contro Dio e Mosè nel deserto durante i quarant’anni dell’esodo. E’ la tentazione di ogni credente. Ma Gesù prosegue con paziente pedagogia il suo discorso e ribadisce uno dopo l’altro i punti fondamentali della sua rivelazione: Sì, io sono la parola di Dio, sono colui che dona la vita eterna, sono il Figlio di Dio e a conferma fa riferimento ai profeti che avevano assicurato: “E tutti saranno istruiti da Dio”.
3. Sì, “Io sono il pane della vita” e aggiunge: “questo è il pane che discende dal cielo perché chi ne mangia non muoia”. Le diffidenze, i dubbi e le mormorazioni degli ascoltatori e persino dei discepoli toccano anche noi – non dobbiamo meravigliarci - perché per superare lo scandalo dell’incarnazione, della morte in croce di Cristo, è indispensabile l’umile ascolto della voce dello Spirito che ci invita a fidarci sempre e totalmente di Dio: Siamo salvati solo da Dio. Tutto questo è il mistero del “pane eucaristico”, presenza reale della vita divina in Gesù Cristo, presenza della Santissima Trinità. Se la fede non apre il cuore all’umile ascolto dello Spirito Santo, si rischia di ridurre il tutto a un rito liturgico che chiamiamo semplicemente “la messa”. San Giovanni non racconta l’istituzione dell’Eucarestia durante l’ultima cena e la sostituisce con il gesto profetico della lavanda dei piedi, rendendo evidente il legame inscindibile che unisce l’Eucaristia al Comandamento nuovo dell’amore e del servizio. Qualcuno dice che è più importante fare del bene agli altri che partecipare alla messa. Attenzione a non perdere di vista che la pienezza dell’amore evangelico legato al mistero eucaristico non deve mai ridursi a un’opera benefica, sociale e solidale. Solo la fedele condivisione nell’Eucarestia del “pane di vita” che è Dio stesso Amore che si dona gratuitamente apre il cuore del cristiano al dono totale dell’amore. Ma può capitare che ci si accosti alla celebrazione eucaristica pensando di condividere un rito religioso senza comprendere che invece è accogliere nella nostra povera esistenza Colui che è la gloria di Dio e la salvezza del mondo. Quando la domenica ci riuniamo non è per fare insieme la preghiera più bella e importante, ma per ben altro: partecipiamo in modo reale e vivo alla stessa vita di Dio - Trinità. Si può dire che c'è l'Eucarestia, Corpo di Cristo, perchè lo Spirito Santo «trasfigura» il pane e il vino nell'identità di Gesù Cristo, lo stesso Spirito che Gesù con la sua «autorità» invia per questa trasformazione. Se Gesù non mandasse lo Spirito il pane e il vino resterebbero tali; e se lo Spirito non fosse presente nessuna forza lo potrebbe sostituire, perché la forza di Gesù é significata e attivata dallo Spirito Santo. Quando si separa Cristo del suo Spirito si dissolve il disegno di Dio Trinità Misericordia. Nella tradizione cristiana Cristo e lo Spirito sono tenuti strettamente uniti per l'intelligenza dell'Eucarestia. E il cuore della celebrazione eucaristica viene sigillato dal celebrante che prega così: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo a te, Dio padre onnipotente nell’unità dello Spirito Santo ogni onore e gloria per tutti i secoli”. L'Amen finale di tutta l'assemblea è indispensabile perché è una solenne e quanto mai necessaria proclamazione di assenso e di consenso: è la firma che ci permette di contemplare la gloria di Dio attraverso Gesù. San Girolamo diceva che l'Amen rimbomba simile a un tuono dal cielo (Dai “dialoghi contro i Luciferi”, in latino: “Dialogus contra Luciferianos).
+ Giovanni D’Ercole
P.S. L’apostolo Paolo c’invita nella seconda lettura tratta dalla Lettera agli Efesini ad essere imitatori cioè amici di Dio (Ef 5,1) e questa imitazione non è altro che la nostra identificazione nel Cristo: come il Cristo ci ha amato “camminate nella carità”. Collegando questo alle parole di Gesù a Cafarnao si capisce che nessuno riesce a comprendere l’Eucarestia se non è istruito e attirato dall’amore di Dio. Leggiamo nel vangelo: “Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv6,44). Dio solo conosce Dio e per questo Gesù dice che occorre essere istruiti dalla luce di Dio per entrare nel mistero del pane della vita. L’Eucarestia è il segno per eccellenza dell’alleanza di Dio con l’umanità, è l’espressione originale del suo amore, realizzato da Gesù in una carne umana come la nostra. Amore indicato dall’offerta e dal sacrificio del suo corpo e del suo sangue, celebrato ogni volta che facciamo memoria della morte e della risurrezione di Colui che nella speranza attendiamo che venga nella gloria.
XVIII Domenica del Tempo Ordinario B (4 agosto 2024)
1. La manna “è il pane che il Signore vi ha dato”: così Mosè spiega al popolo il significato della manna che nella Bibbia riveste vari simboli. La scelta del racconto della manna nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, si lega al discorso “eucaristico” che Gesù tiene nella sinagoga di Cafarnao. Per ben 13 volte san Giovanni evoca la figura di Mosè e la manna è citata cinque volte come simbolo del “pane di vita”. Ma che cos’è la manna? Una mattina gli ebrei erranti nel deserto svegliandosi scoprirono accanto ai loro accampamenti “una cosa fine e granulosa, minuta come la brina sulla terra” piovuta miracolosamente tra cielo e terra; continuarono a trovarla ogni mattina durante l’esodo nel deserto. La raccoglievano tutti i giorni eccetto il sabato e impastata ne facevano focacce da cuocere dal vago sapore della pasta all’olio. La raccolta cessò, come leggiamo nel libro di Giosuè, proprio all’ingresso nella terra promessa (Gs 5, 11-12). Vari significati ha la manna nella Bibbia: in primo luogo è “il pane” con cui Dio nutre il suo popolo e lo mette alla prova quando nel deserto recrimina e mormora contro di lui. Si tratta di una duplice prova: anzitutto occorre che Israele impari la lezione della riconoscenza verso Colui che tutto provvede; inoltre essendo gente dura di cervice non contenta mai di nulla, deve imparare a restare fedele agli ordini e ai comandamenti del Signore che chiede di raccogliere la manna sufficiente solo per ogni singolo giorno perché il surplus marcisce. In altri termini Dio educa anche così il popolo che si è scelto come sua proprietà. In altri libri dell’Antico Testamento, soprattutto nei salmi, la manna assume il simbolo della parola di Dio e dell’amore divino che continua a diffondesi sull’umanità e infine, specialmente nella tradizione giudaica, la manna diventa il “cibo dell’epoca messianica”. In definitiva la manna nel deserto diventa anche per noi cristiani il segno della fedeltà di Dio e della nostra fatica nel fidarci di lui e nel credere alle sue promesse mentre avanziamo verso il Cielo, nostra patria definitiva.
2. Il salmo 77/78 di cui oggi proclamiamo soltanto qualche breve passaggio come salmo responsoriale riprende il tema della fedeltà di Dio e della fatica degli uomini a fidarsi di lui. Il Signore “fece piovere su di loro la manna per cibo e diede loro pane del cielo. L’uomo mangiò il pane dei forti, diede loro cibo in abbondanza” (v.v. 23-24). Anche se qui emerge la gratitudine per un dono così misterioso, il salmo 77/78 nel suo insieme racconta la vera storia d’Israele che si snoda tra la fedeltà di Dio e l’incostanza del popolo pur sempre cosciente dell’importanza di dover conservare la memoria delle opere compiute da Dio. Perché la fede continui ad essere diffusa occorrono tre condizioni: la testimonianza di chi possa dire che Dio è intervenuto nella sua vita; il coraggio di condividere questa esperienza personale e trasmetterla fedelmente, infine ci vuole la disponibilità di una comunità a conservare la fede tramandata dagli antenati come irrinunciabile eredità. Israele sa che la fede non è un bagaglio di nozioni intellettuali, ma la viva esperienza dei doni e della misericordia di Dio. Ecco il tessuto spirituale di questo salmo dove in ben settantadue versetti si canta la fede d’Israele fondata nella memoria della liberazione dalla schiavitù e sul ricordo del lungo travagliato pellegrinare dall’Egitto al Sinai segnato da infedeltà e incostanza: nonostante tutto la fede si tramanda di generazione in generazione. Il rischio più forte per la fede è l’idolatria come denunciano tutti i profeti, rischio attuale in ogni tempo, oggi facile da riconoscere nei segni e gesti compiuti e ostentati come vanto di emancipata libertà. Il salmista denuncia questa idolatria come causa della sventura dell’umanità. Finché l’uomo non scoprirà il vero volto di Dio, non come lo immagina ma come egli è in verità, troverà sbarrata la strada della felicità perché ogni tipo di idolo blocca il nostro cammino verso la libertà responsabile. Superstizione, feticismo, stregoneria, sete del denaro, fame di potere e di piacere, culto della persona e delle ideologie ci costringono a vivere nel regime della paura impedendo di conoscere il vero volto del Dio vivo. Al versetto 8 del salmo (77/78) che non troviamo oggi nella liturgia, il salmista indica l’infedeltà con l’immagine dell’arciere valoroso che fallisce e viene meno alla sua missione: “I figli di Efraim, arcieri valorosi, voltarono le spalle nei giorni della battaglia”. Se la “cancel culture” oggi vuol far dimenticare che tutto è dono nella vita, si cade in una tristezza piena d’ingratitudine giungendo a mormorare con rabbia: “Dio non esiste e se esiste non mi ama, anzi non mi ha mai amato”. Ne consegue che le oscure nuvole dell’ingratitudine e della rabbia intristiscono la vita e soltanto l’esperienza liberante della fede le dissipa e le disperde perché ci fa riscoprire che Dio c’è, ama e perdona: il suo nome è Misericordia!
3. Per non cedere alla tentazione dell’idolatria, oggi moda woke, Dio ci offre un duplice nutrimento: il cibo materiale e quello spirituale espresso nel “segno” della moltiplicazione dei pani e dei pesci con cui Gesù sfama una folla immensa. Nella sinagoga di Cafarnao Gesù prende questo miracolo come punto di partenza del lungo discorso sul “pane di vita” che è l’Eucaristia. Discorso che proseguirà nelle prossime domeniche, e ha un incipit a prima vista sorprendete. Alla gente che gli rivolge una semplice domanda: “Rabbi, quando sei venuto qui?” non risponde direttamente, ma parte con una formula solenne: “In verità, in verità io vi dico”, simile a quella dei profeti nell’Antico testamento: “Oracolo del Signore”. Attira l’attenzione su qualcosa d’importante e difficile da capire, che sta per dire e per tre volte gli ascoltatori lo interrompono con delle obiezioni. Con abilità educativa e provocatoria, utilizzando un linguaggio metaforico e simbolico, Gesù conduce anche noi, passo dopo passo, alla rivelazione del mistero centrale della fede: il mistero del “Verbo che si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” offrendo la vita sulla croce per la salvezza dell’umanità. Nell’intero discorso sul “pane di vita” sentiremo risuonare l’insuperabile meditazione del prologo del quarto vangelo: Gesù è il Verbo del Padre venuto nel mondo per dare, a coloro che lo accolgono, il potere di diventare figli di Dio, “a quelli che credono nel suo nome e sono stati generati da Dio” (cf. Gv 1,12). E per essere chiaro dice subito che del miracolo la gente non ha afferrato il segno: “Mi avete cercato non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”. Come dire, siete contenti per quel che avete mangiato, ma non avete colto l’essenziale: io non sono venuto per soddisfare la fame di cibo materiale, ma questo pane è il segno di qualcosa più importante. Anzi non sono stato io ad agire, ma ha agito il Padre celeste che mi ha inviato per donarvi un cibo diverso che vi conserva per la vita eterna. In realtà, la distinzione fra cibo materiale e cibo spirituale era un tema caro alla religione ebraica come ben si comprende già nel Deuteronomio: Dio “ti ha nutrito di manna che tu non conoscevi… per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3) e nel libro della Sapienza: “Sfamasti il tuo popolo con un cibo degli angeli, dal cielo offristi loro un pane già pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto. Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i tuoi figli; esso si adattava al gusto di chi l'inghiottiva e si trasformava in ciò che ognuno desiderava… non le diverse specie di frutti nutrono l'uomo, ma la tua parola conserva coloro che credono in te” (Sap.16,20-28). Gli ascoltatori capiscono a cosa Gesù si riferisce e chiedono: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”. Gesù allora si presenta come il Messia atteso: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”. E perché crederti? Mosè fece il miracolo della manna e in quel tempo grande era l’attesa per la manna promessa come cibo dell’era messianica. Si comprende quindi la terza domanda: “Quale opera tu compi perché crediamo?” e Gesù risponde: “il Padre mio vi da il pane del cielo, quello vero”. L’incomprensione non lo ferma nella sua autorivelazione e Il testo evangelico oggi si chiude con l’annuncio dell’Eucaristia: “Io sono il pane di vita. Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà mai sete”. Il segreto dunque è aver Fede!
Buona domenica a tutti + Giovanni D’Ercole
P.S. Aggiungo oggi, memoria del santo curato d’Ars Giovani Maria Vianney, questo suo pensiero sulla fede e l’Eucaristia: “Quale gioia per un cristiano che ha la fede, che, alzandosi dalla santa Mensa, se ne va con tutto il cielo nel suo cuore!... Ah, felice la casa nella quale abitano tali cristiani!... quale rispetto bisogna avere per essi, durante la giornata. Avere, in casa, un secondo tabernacolo dove il buon Dio ha dimorato veramente in corpo e anima!”
XVII Domenica del tempo Ordinario B (28 luglio 2024)
1. Siamo chiamati a costruire l’unità: ma come? Già domenica scorsa l’apostolo Paolo nella seconda lettura tratta dalla lettera agli Efesini (Ef 2,13-18) accennava ai problemi che turbavano la pace della comunità di Efeso, a causa delle discordie sorte soprattutto tra ebrei e pagani convertiti. Prigioniero a Roma, sa bene che un po’ ovunque sorgono diatribe e ci sono rischi di eresie per cui la sua preoccupazione è di ribadire la necessità dell’unità dei cristiani sia nei comportamenti che nella dottrina. Ricorda loro che esiste “un solo corpo e un solo spirito… una sola speranza… un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo… un solo Dio e Padre di tutti”. Per sette volte ripete “un solo” e alla fine della catena, fatta di sette anelli, c’è il Padre celeste al di sopra di tutti, che si serve di ognuno per far giungere il suo amore a tutti. Conoscendo bene l’umana fragilità, san Paolo afferma che l’unità è opera, anzi dono di Dio, ed è il “disegno di amore della volontà di Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo” con cui ci ha scelti prima della creazione del mondo, come la liturgia ci ha fatto meditare nella seconda lettura della Messa due domeniche fa (Ef 1,1-13). Dono e progetto di salvezza che si realizzerà pienamente quando saranno ricondotte “al Cristo unico capo tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra” nella pienezza dei tempi. A noi è chiesto di contribuire con il “supportarci e sopportarci a vicenda nell’amore”. L’unità è quindi dono di Dio e cammino degli uomini per cercare di attivare questo dono. Ma come? Gesù l’ha indicato agli apostoli durante l’ultima cena quando ha insistito sull’urgenza di “rimanere” con lui e in lui per ben 7 volte, che nel linguaggio biblico significa “sempre”. Solo uniti a Gesù possiamo contribuire a “edificare il corpo di Cristo”. Immergendoci in Cristo riusciremo a tendere “tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto per raggiungere la pienezza di Cristo” (Ef, 4,13). E l’intera umanità diventerà un solo corpo con Gesù: “il corpo totale di Cristo”. Con il battesimo abbiamo accolto l’invito a lavorare in questo cantiere che è il mondo, sotto la guida dello Spirito Santo. La parola Chiesa (in greco ecclesia) ha nella sua radice il significato di “chiamata”: con il battesimo siamo chiamati a seguire Gesù “mite e umile di cuore”, il quale porterà a termine il disegno del Padre celeste con la nostra cooperazione se ci lasciamo trasformare dal suo Spirito. Agli apostoli nel cenacolo raccomandò: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv13,35). Dio solamente può renderci capaci di amare e di amarci, essendo impossibile alle sole nostre forze. L’invito dell’apostolo è a vivere nell’umiltà, nella mitezza e nella pazienza, in modo che gli altri possano riconoscere che Dio esiste ed è lui che fa tutto in noi. Apparirà allora Il meglio della vita che è il gratuito libero intervento di Dio Trinità “koinonia-comunione di amore” che ci rende capaci “di conservare l’unità dello spirito, per mezzo del vincolo della Pace”. E sta in questo la nostra realizzazione.
2. Come la Bibbia insegna, il credente è colui che vive interamente e sempre nell’ottica del dono, essendo l’esistenza stessa avvolta dal mistero del dono e i suoi miracoli. In questa luce leggiamo oggi la prima lettura, tratta dal secondo Libro dei Re, il salmo responsoriale: “Tu apri la tua mano, Signore e sazi il desiderio di ogni uomo” (salmo 144/145), la seconda lettura dalla Lettera agli Efesini e il vangelo di Giovanni che è l’inizio del capitolo sesto, carico di messaggi legati al mistero dell’Eucarestia, definito “il Miracolo che è Dono” per eccellenza. San Giovanni non parla, come gli altri evangelisti, dell’istituzione dell’Eucaristia durante l’ultima cena; racconta invece la lavanda dei piedi, trasmettendoci il segreto dell’amore evangelico . Ci prepara però all’Eucarestia con il capitolo VI, che cominciamo a meditare oggi e proseguiremo per ben cinque domeniche. Interiorizzare un testo di san Giovanni chiede sempre di lasciarci attrarre da simboli che a prima vista non sono facili da comprendere e che dicono sempre più di quanto possiamo comprendere. Gesù ha scelto i suoi discepoli e ha già compiuti miracoli attirando il favore della folla che lo segue. Attraversato il lago di Tiberiade, leggiamo oggi nel vangelo, passa all’altra riva di Galilea, la sua patria dove non fu ben accolto dai suoi ed è proprio in questo contesto che svolge uno dei sei miracoli che il quarto evangelo chiama definisce sempre come “segni”. E’ la moltiplicazione dei pani che tutti gli evangelisti riportano, ma san Giovanni ne sottolinea Il contesto storico che è la preparazione della Pasqua imminente. Gesù sale sul monte (non essendoci nella zona monti si capisce che questo assume un tono simbolico: sta per compiere con autorevolezza qualcosa di molto alto e importante). Si rende conto che la gente ha fame ed è lui stesso, il Signore, a prendere l’iniziativa di dare loro da mangiare. Ma come? Non c’è pane, non ci sono soldi e la folla è numerosa – replicano gli apostoli, solo un ragazzetto ha con sé cinque pani d’orzo e due pesci. E da questo piccolo dono di uno sconosciuto si compie il miracolo che fornirà pani da mangiare a cinquemila uomini avanzando ben 12 sporte di pani sufficienti per nutrirne tanti altri ancora. Tutto scaturisce dal dono di un ragazzo che mai avrebbe potuto pensare che con i suoi pochi pani si sarebbero accontentate così tante persone. Ma proprio qui sta il miracolo del dono, dove il poco arricchisce tutti. Pure nella prima lettura si narra di un tale che offre 20 pani d’orzo al profeta Eliseo ed egli non li prende per sé, ma chiede di darli alla gente “poiché dice il Signore: Ne mangeranno e ne faranno avanzare”. E così avvenne: venti pani offerti e cento uomini sfamati, anche qui è evidente la sproporzione tra mezzi impiegati e risultato ottenuto. Ancora una volta torna il miracolo del dono. E non è tutto.
3. La reazione della folla dopo la moltiplicazione dei pani: “Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo” lascia capire che era forte l’attesa del Messia e l’effervescenza appariva più marcata perché ci si preparava alla Pasqua, festa- memoria della liberazione dalla schiavitù dall’Egitto e prefigura della liberazione totale che avrebbe recato al popolo d’Israele il Messia. Il fatto che san Giovanni precisi che era vicina la Pasqua, “la festa dei Giudei” è un elemento indispensabile per capire questo miracolo/segno. Nelle prossime domeniche continueremo a leggere questo capitolo e comprenderemo meglio quanto il mistero pasquale sia presente nel lungo discorso che Gesù farà sul pane della vita. Per ora egli conduce la gente che lo segue sulla “montagna”, e il pensiero va subito al banchetto messianico che il profeta Isaia aveva profetizzato a consolazione del popolo schiavo: il Signore darà su questa montagna una festa per tutti i popoli, una festa ricca di carni grasse e succulenti e di vini prelibati (Cf. Is 25,6). Alla folla affamata che attente il Messia Gesù offre il segno che il giorno tanto atteso è giunto: è lui il Messia. E’ lui che prendendo l’iniziativa mette alla prova gli apostoli per suscitare in loro la fede. Filippo non ha compreso subito che Gesù stava provando la sua fede e risponde in maniera comprensibile dal punto di vista umano, dicendo cioè che neppure duecento denari di pane non sono sufficienti per darne un pezzetto a tutti i presenti e l’apostolo Andrea fa notare la presenza di un ragazzetto con cinque pani e due pesci, ma che si può fare con questo? E’ il buon senso con cui tutti avremmo reagito, ma Gesù con i suoi gesti ci provoca alla fiducia in lui. Nella prima lettura Eliseo mostra di essere un profeta ricco di fede e Gesù stupisce gli apostoli chiedendo loro di far sedere la gente. Fidarsi di Dio sempre: ecco il messaggio che giunge a ciascuno di noi in qualsiasi situazione ci troviamo, specialmente se stiamo soffrendo la vita perché la precisazione che “c’era molta erba in quel luogo è un chiaro riferimento a Gesù buon pastore, che, sfamando la folla, si prende cura di tutte le pecore, di ciascuno di noi. Giovanni però a questo punto cambia tono e scrive che Gesù prese i pani e dopo aver reso grazie li diede alla folla. Facile intravedere nel miracolo e nelle parole di Gesù un anticipo del banchetto dell’Eucaristia, imbandito per tutti nell’ultima cena: ecco il dono dei doni! Il suo corpo e il suo sangue, vero pane della vita.
+ Giovanni D’Ercole buona domenica.
XVI Domenica del Tempo Ordinario (B) [21 luglio 2024]
1. Gesù Cristo, abbattendo il muro di separazione che ci divideva, ha fatto una cosa sola. Questa è la buona notizia che troviamo nella seconda lettura di questa XVI Domenica del tempo ordinario tratta dalla Lettera di san Paolo agli Efesini. L’apostolo è a Roma agli arresti domiciliari in una casa presa in affitto e uno dei suoi primi pensieri, durante la prigionia, è quello di scrivere ai suoi cari fratelli in fede, Efesini, Colossesi, Filippesi e a Filemone, presentandosi non come prigioniero di Cesare, ma come prigioniero di Cristo. Focalizza la Lettera agli Efesini sulla Chiesa, organismo universale composto da tutti coloro che sono salvati mediante la fede in Cristo Gesù. Una nuova unità è stata creata da Dio attraverso l’opera riconciliatrice della Croce (2:16) e così ebrei e pagani sono entrati a far parte della famiglia di Dio, in cui sono abbattute tutte le barriere razziali, culturali e sociali. C’è una sola Chiesa di cui Cristo è il Capo, e tre sono le immagini che Paolo utilizza per descriverne la natura: la Chiesa è un edificio fondato sugli apostoli e i profeti di cui la pietra angolare è Cristo; è un solo corpo e un solo spirito; è la Sposa di Cristo e modello di comunione di ogni relazione, in primo luogo nella famiglia tra marito, moglie e i figli. Conoscendo bene la situazione di quelle comunità, da lui stesse fondate e segnate ancora da discordie e contrasti, san Paolo auspica che le sue catene contribuiscano a incoraggiare e sostenere i credenti che soffrono per la salvaguardia della fede. La difficoltà a vivere insieme tra convertiti sia giudei che pagani è l’esperienza che aveva vissuto già nelle prime comunità da lui fondate e che continuavano ad essere alimentate da incomprensioni e persino da scontri violenti. Fu ad Antiochia di Pisidia che comprese il realizzarsi del primo grande tornante della storia della rivelazione quando incontrando la violenta opposizione dei giudei dichiarò che dopo il loro rifiuto di convertirsi a Cristo, dirigeva la sua predicazione verso i pagani (At 13,46). Nella lettera agli Efesini sviluppa il tema della riconciliazione tra cristiani di origine ebraica e quelli d’origine pagana diventati fratelli e quindi tutti con la stessa possibilità di accesso, in un solo Spirito, all’unico Padre celeste. Scrive in proposito che di Israele e dei pagani il Cristo ha fatto un solo popolo “abbattendo il muro della separazione”. Una simile unione appariva a molti irrealizzabile e la preoccupazione dell’Apostolo continuò ad essere fino alla fine quella di salvaguardare l’unità che purtroppo vedeva in serio pericolo. Non era questione di scelte operative, ma il cuore del problema toccava il contenuto stesso della fede cristiana. Per Paolo l’unica cosa che conta è che ebrei e pagani con il battesimo sono allo stesso modo immersi nella vita nuova del Cristo Risorto e quindi va abbattuta ogni barriera che li separa. E parlando di barriere aveva in mente qualcosa che tutti ben conoscevano: la barriera che nella spianata del Tempio a Gerusalemme separava lo spazio riservato ai membri del popolo di Israele (uomini, donne, sacerdoti), dal resto della piazza dove tutti potevano transitare, giudei e non giudei, circoncisi e incirconcisi, membri o no del popolo eletto, persone educate alla Legge mosaica e persone che non lo erano. Un cartello segnaletico proibiva formalmente ai non giudei di entrare sotto pena di morte e san Paolo aveva sperimentato il rischio di venire ucciso, come si legge negli Atti degli Apostoli perché pensavano che vi avesse introdotto un certo Trofimo proprio di Efeso (At.21,27-31). Quella barriera è per san Paolo icona del “muro dell’inimicizia”, così marcata tra giudei e pagani perché i giudei, circoncisi per fedeltà alla legge mosaica, disprezzavano e definivano i pagani “gli incirconcisi”. Nella Lettera agli Efesini insiste allora sul nuovo progetto di Dio per il popolo dei battezzati, un progetto di amore e di riconciliazione che concerne l’insieme di ogni comunità, i popoli di tutto il mondo e persino l’intera creazione.
2. Il tema della comunione, dell’unità e del perdono torna spesso nei vangeli e negli scritti del Nuovo Testamento. Costituisce anche un’aspirazione prevalente nella predicazione dei Padri della Chiesa mostrandoci il volto delle Chiese di allora già punteggiate di esempi di bontà ma minacciate dal virus della divisione e dei contrasti religiosi che talora s’intrecciavano con contese civili. Questo indica che la difficoltà a realizzare la comunione voluta dal Cristo è una costante provocazione per la fede di ogni battezzato. Malgrado infatti la buona volontà e gli sforzi, sperimentiamo, nel mondo e nella Chiesa, quanto difficile sia andare d’accordo. L’unità e la comunione restano un’aspirazione che si scontra con le fragilità della vita ed è così, come la storia mostra chiaramente, fin dall’origine dell’umanità, da quando cioè l’uomo creato per essere in amicizia con Dio scelse la sua autonomia che ben presto si dimostrò foriera di incomprensioni e divisioni, scontri e violenze dove il più forte pensa di vincere prevaricando in tanti modi il più debole, il diverso, il nemico. Eppure continuano a risonare nella coscienza dell’umanità queste parole dell’apostolo Paolo: “Gesù è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini”. Come allora interiorizzare quest’annuncio di salvezza quando sentiamo ribollire inimicizia e divisione fra credenti? Si parla di pace e di unità, ma continua a persistere lo scandalo della divisione che crea muri per sbarrare la vita a popolazioni diverse, cancelli per ben proteggere gli spazi riservati al proprio gruppo e alle proprie convinzioni mentre nel clima generale, al di là delle dichiarazioni di intese e di pace, cresce il disamore dell’altro che sfocia in gesti di rifiuto identificandolo spesso come avversario e come “nemico”. Malgrado lo scandalo della disunione, non mancano però moltissimi esempi e gesti di coraggio, di perdono, di riconciliazione che mostrano quanto più forte dell’odio sia l’amore, al di là delle apparenze, e noi crediamo che l’ultima parola sarà sempre dell’Amore capace di sanare conflitti e divisioni. Questa speranza invincibile ci sostiene e ci dà forza.
3. “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. La pagina del Vangelo ci offre uno spazio di quiete per capire come non cedere alle inquietudini della vita, alle divisioni e ai contrasti che distruggono la pace nei cuori. Per la prima volta san Marco definisce “apostoli” questi discepoli e ciò indica che ormai Gesù li chiama a condividere la sua stessa missione che prevede accanto all’immersione nell’azione pastorale, la necessità di adeguati spazi di silenzio e di solitudine. Ai Dodici che tornano entusiasti dalla prima spedizione apostolica e vorrebbero subito raccontare com’è andata, Gesù dice anzitutto: Riposatevi! Il silenzio e la preghiera servono a ogni apostolo perché non dimentichi che non è lui il salvatore del mondo: siamo solo fragili strumenti nelle mani di Dio e nella misura in cui non ci separiamo da lui, possiamo diventare operatori della sua pacificazione. Un santo prete, apostolo di carità, don Oreste Benzi amava ripetere: “Per stare in piedi davanti al mondo bisogna restare in ginocchio davanti a Dio”. Se Gesù condivide con i discepoli la sua angoscia nel vedere la “grande folla” di cui ha compassione perché sembrano pecore senza pastore, domanda anzitutto ai suoi di passare del tempo soli con lui. La folla che preme, annota l’evangelista Marco, può attendere anche se viene dalla Galilea e da ogni parte della Giudea, dell’Idumea, della Transgiordania, dalla regione di Tiro e di Sidone, e ci sono anche le autorità religiose che gli fanno la guerra e seminano odio sino a crocifiggerlo. Per entrare in azione il Signore non ha fretta: vuole che ogni apostolo comprenda e sposi con la vita la sua stessa passione per le anime con le inevitabili difficoltà e opposizioni che essa comporta. Non chiede all’apostolo un forte impegno sociale, ma gli comunica la sua compassione divina espressa dall’evangelista con il termine greco “SPLANGKNA” che definisce il movimento dell’interiorità, cioè la profondità dell’essere, e in ebraico ”RAHAMIN”, tradotto in italiano con misericordia. Il nome di Dio è Misericordia, amore che porta al sacrificio di Cristo per abbattere e distruggere ogni muro di divisione, di diversità e di odio. A differenza dell’evangelista Giovanni san Marco non sviluppa il tema del buon pastore, ma lo presenta in filigrana proprio in queste parole: Gesù “vide una grande folla, ebbe compassione di loro perché erano come pecore che non hanno pastore”. Solamente Cristo può farci dono della sua compassione per evitare che ci colga il rimprovero del profeta Geremia ben chiaro nella prima lettura: “guai ai pastori che fanno perire e disperdono il mio pascolo”.
P.S. Unisco una riflessione sul Tempio, tratta da una conferenza del cardinale Gianfranco Ravasi. "Il mondo è come l'occhio: il mare è il bianco, la terra è l'iride, Gerusalemme è la pupilla e l'immagine in essa riflessa è il tempio". Questo antico aforisma rabbinico illustra in modo nitido e simbolico la funzione nel tempio secondo un'intuizione che è primordiale e universale. Due sono le idee che sottendono all'immagine. La prima è quella di "centro" cosmico che il luogo sacro deve rappresentare... l'orizzonte esteriore, con la sua frammentazione e con le sue tensioni, converge e si placa in un'area che per la sua purezza deve incarnare il senso, il cuore, l'ordine dell'essere intero. Nel tempio, dunque, si "con-centra" la molteplicità del reale che trova in esso pace e armonia…Dal tempio, poi, si "de-centra" un respiro di vita, di santità, di illuminazione che trasfigura il quotidiano e la trama ordinaria dello spazio. Ed è a questo punto che entra in scena il secondo tema sotteso al detto giudaico sopra evocato. Il tempio è l'immagine che la pupilla riflette e rivela. Esso è, quindi, segno di luce e di bellezza. Detto in altri termini, potremmo affermare che lo spazio sacro è epifania dell'armonia cosmica ed è teofania dello splendore divino… E’ curioso che simbolicamente le tre religioni monoteistiche si ancorino a Gerusalemme attorno a tre pietre sacre, il Muro Occidentale (detto popolarmente "del Pianto"), segno del tempio salomonico per gli ebrei, la roccia dell'ascensione al cielo di Maometto nella moschea di Omar per l'islam e, appunto, la pietra ribaltata del Santo Sepolcro per il cristianesimo. Nell'ultima pagina neotestamentaria, quando Giovanni il Veggente si affaccia sulla planimetria della nuova Gerusalemme della perfezione e della pienezza, si trova di fronte a un dato a prima vista sconcertante: "Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio Onnipotente e l'Agnello sono il suo tempio" (Apocalisse, 21, 22). Tra Dio e uomo non è più necessaria nessuna mediazione spaziale; l'incontro è ormai tra persone, si incrocia la vita divina con quella umana in modo diretto…Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità" (Giovanni, 4, 21-24). Ci sarà un'ulteriore svolta che insedierà la presenza divina nella stessa "carne" dell'umanità attraverso la persona di Cristo, come dichiara il celebre prologo del Vangelo di Giovanni: "Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi" (1, 14), … Paolo andrà oltre e, scrivendo ai cristiani di Corinto, affermerà: "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi... Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!" (i, 6, 19-20). "Un tempio di pietre vive", quindi, come scriverà san Pietro, "impiegate per la costruzione di un edificio spirituale" (i, 2, 5) un santuario non estrinseco, materiale e spaziale, bensì esistenziale, un tempio nel tempo. Il tempio architettonico sarà, quindi, sempre necessario, ma dovrà avere in sé una funzione di simbolo: non sarà più un elemento sacrale intangibile e magico, ma solo il segno necessario di una presenza divina nella storia e nella vita dell'umanità. Il tempio, quindi, non esclude o esorcizza la piazza della vita civile ma ne feconda, trasfigura, purifica l'esistenza, attribuendole un senso ulteriore e trascendente. Terminiamo la nostra riflessione con tre testimonianze. La prima è una cantilena ebraica cabbalistica medievale che ricorda i vari passaggi per trovare il luogo dove s'incontra veramente Dio. Il ritornello in ebraico…con un gioco di parole e un'intuizione folgorante si dice: "Egli, Dio, è il Luogo di ogni luogo, / eppure questo Luogo non ha luogo". La seconda testimonianza è legata alla figura di san Francesco. Un frate dice a Francesco: "Non abbiamo più soldi per i poveri". Francesco risponde: "Spoglia l'altare della Vergine e vendine gli arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno". E subito dopo aggiunge: "Credimi, alla Vergine sarà più caro che sia osservato il vangelo di suo Figlio e nudo il proprio altare, piuttosto che vedere l'altare ornato e disprezzato il Figlio nel figlio dell'uomo". La terza e ultima considerazione ci è offerta dalla spiritualità ortodossa. Un noto teologo laico russo del Novecento vissuto a Parigi, Pavel Evdokimov, dichiarava che tra la piazza e il tempio non ci deve essere la porta sbarrata, ma una soglia aperta per cui le volute dell'incenso, i canti, le preghiere dei fedeli e il baluginare delle lampade si riflettano anche nella piazza dove risuonano il riso e la lacrima, e persino la bestemmia e il grido di disperazione dell'infelice. Infatti, il vento dello Spirito di Dio deve correre tra l'aula sacra e la piazza ove si svolge l'attività umana. Si ritrova, così, l'anima autentica e profonda dell'Incarnazione che intreccia in sé spazio e infinito, storia ed eterno, contingente e assoluto.
Un adolescente ha viaggiato attaccato a un treno per diversi chilometri.
Non è l’unica né la prima follia tra adolescenti “annoiati e sazi” [non tutti] cui noi genitori abbiamo dato, a mio avviso, troppo.
Ci sono diversi giochi pericolosi in voga: saltare da un balcone all’altro, o gesta simili; abbuffate di alcool, far finta di strangolarsi, appendersi a testa in giù.
Leggo dai social che l’ultima bravata è quella di picchiare i passanti e mettere tutto in rete (non so se è attendibile).
Questi comportamenti anomali forse si potrebbero evitare se i genitori stabilissero dei limiti, ma spesso non li hanno neanche loro.
È pur vero che simili comportamenti possono essere dovuti ad emulazione di qualche falso mito.
Ma al di là di questi comportamenti estremi, giocare è importante per l’essere umano.
Anticamente Aristotele avvicinò il concetto di gioco alla gioia e alla virtù, mentre Kant lo definì attività ’piacevole’.
Nel libro Homo Ludens del 1938 Huizinga dice che la cultura nasce in forma ludica, perché ogni cosa viene sotto forma di gioco; e giocando, il collettivo esprime la spiegazione della vita: il gioco non si cambia in cultura, ma questa ha inizialmente il carattere di gioco.
In psicologia il gioco è protagonista dello sviluppo psicologico del bambino - soprattutto della sua personalità.
Roger Caillois nel suo libro «I giochi e gli uomini» (Ed. Bompiani) raggruppa l’attività giocosa in quattro classi sostanziali, a seconda se nel gioco prevale la competizione, il caso, il simulacro, la vertigine.
Li ha denominati Agon (competizione), Alea (il caso, la sorte), Mimicry (Mimica, travestimento), Ilings (Vertigine). Questa distinzione raggruppa i giochi della stesa specie.
Nel gioco dapprima troviamo divertimento, indisciplinatezza, poco controllo, cui l’autore ha dato il termine “paidia” per giungere successivamente a un’attività disciplinata e osservante delle regole (Ludus).
L’Agon rappresenta il merito personale e lo si manifesta sia nella forma muscolare, sia nella forma intellettiva.
Esempi sono le gare sportive, ma anche giochi di capacità intellettiva. Scopo principale è affermare la propria superiorità.
L’Alea è la parola latina che individua il gioco dei dadi; qui il giocatore è inoperoso e si affida alla sorte, al destino.
La Mimicry include la recita, la mimica, il travestimento. L’uomo abbandona la propria personalità per fingere un’altra.
La mimicry è ideazione; per chi recita, è attirare l’attenzione dell’altro.
L’ultima classe di giochi descritta da Caillois viene chiamata Ilings.
Consiste nel far provare alla coscienza un notevole spavento.
Questo scompiglio è solitamente cercato per se stesso.
Caillois ci fa l’esempio dei dervisci danzanti che cercano l’inebriarsi girando su sé stessi al ritmo crescente di tamburi e la paura consiste in questo girare su di sé frenetico.
D’altronde senza cercare esempi eclatanti, ogni bambino sa l’effetto che si prova girando vorticosamente su di sé.
Questa sorta di giochi non la troviamo unicamente negli esseri umani, ma anche nel mondo animale.
I cani a volte girano su se stessi per afferrarsi la coda, finché non cadono.
L’autore riporta il caso dei camosci come indicativo.
Secondo Karl Groos “essi si arrampicano sui nevai e di lì ognuno si lancia sul pendio mentre gli altri lo stanno a guardare” col rischio di sfracellarsi.
Nell’esercizio della mia professione ho spesso incontrato per la maggior parte adolescenti che mettevano in atto giochi di questo tipo.
Ragazzi che con motorini sfidavano le auto o che passavano con il semaforo rosso. O ancora peggio, che giocavano a camminare in stato di lieve ebbrezza sul ciglio di un ponte.
Negli ultimi anni della professione ho notato che parecchi adolescenti si procuravano dei tagli sul corpo.
Gli episodi che riportano i media su questi comportamenti estremi non vanno ignorati.
Certo tutti abbiamo avuto momenti in cui abbiamo provato un senso di vertigine: mi viene in mente l’altalena da piccoli, o giochi ai vari luna-park.
Con l’aumento del benessere, spesso la società produce macchine e moto sempre più potenti.
E lì [oltre lo status symbol] vi è anche una ricerca conscia o meno di un senso di vertigine.
Ma sarebbe opportuno comprendere che associando la vertigine (ilings) al destino (alea)… il gioco diventa pericolo - a volte mortale.
Francesco Giovannozzi psicologo-psicoterapeuta.
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che continua a vedere malgrado tutto (Papa Francesco)
Deus dilexit mundum! God observes the depths of the human heart, which, even under the surface of sin and disorder, still possesses a wonderful richness of love; Jesus with his gaze draws it out, makes it overflow from the oppressed soul. To Jesus, therefore, nothing escapes of what is in men, of their total reality, in which good and evil are (Pope Paul VI)
Deus dilexit mundum! Iddio osserva le profondità del cuore umano, che, anche sotto la superficie del peccato e del disordine, possiede ancora una ricchezza meravigliosa di amore; Gesù col suo sguardo la trae fuori, la fa straripare dall’anima oppressa. A Gesù, dunque, nulla sfugge di quanto è negli uomini, della loro totale realtà, in cui sono il bene e il male (Papa Paolo VI)
People dragged by chaotic thrusts can also be wrong, but the man of Faith perceives external turmoil as opportunities
Un popolo trascinato da spinte caotiche può anche sbagliare, ma l’uomo di Fede percepisce gli scompigli esterni quali opportunità
O Lord, let my faith be full, without reservations, and let penetrate into my thought, in my way of judging divine things and human things (Pope Paul VI)
O Signore, fa’ che la mia fede sia piena, senza riserve, e che essa penetri nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare le cose divine e le cose umane (Papa Paolo VI)
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
don Giuseppe Nespeca
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