don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

1. Siamo riuniti anche oggi, come tutte le domeniche, per la comune preghiera dell’Angelus. La lettura della liturgia d’oggi (XVII domenica del tempo ordinario) ci incoraggia alla riflessione sulla preghiera. “Signore, insegnaci a pregare . . .” (Lc 11, 1), dice a Cristo nel Vangelo uno dei suoi discepoli. Ed egli risponde loro richiamandosi all’esempio di un uomo, sì, di un uomo importuno, che, trovandosi nel bisogno, bussa alla porta del suo amico addirittura a mezzanotte. Ma ottiene ciò che chiede. Gesù, quindi, ci incoraggia ad avere un simile atteggiamento nella preghiera: quello dell’ardente perseveranza. Dice: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto . . .” (Lc 11, 9).

Un modello di simile preghiera perseverante, umile e, nello stesso tempo, fiduciosa si riscontra nell’Antico Testamento, in Abramo, il quale supplica Dio per la salvezza di Sodoma e di Gomorra, se almeno vi si trovassero dieci giusti.

2. Così dunque dobbiamo incoraggiarci sempre maggiormente alla preghiera. Dobbiamo ricordare spesso l’esortazione di Cristo: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”. In particolare, dobbiamo ricordarla quando perdiamo la fiducia o la voglia di pregare.

Dobbiamo anche sempre nuovamente imparare a pregare. Spesse volte avviene che ci dispensiamo dal pregare con la scusa di non saperlo fare. Se davvero non sappiamo pregare, tanto più allora è necessario impararlo. Ciò è importante per tutti, e sembra essere particolarmente importante per i giovani, i quali spesso tralasciano la preghiera che hanno imparato da bambini perché essa sembra loro troppo infantile, ingenua, poco profonda. Invece un simile stato di coscienza costituisce uno stimolo indiretto ad approfondire la propria preghiera, a renderla più riflessiva, più matura, a cercare l’appoggio per essa nella parola di Dio stesso e nello Spirito Santo, il quale “intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili”, come scrive san Paolo (Rm 8, 26).

3. So che tante persone in Italia, in Polonia e in tutto il mondo pregano per il Papa e tanti si uniscono con lui nella preghiera, abbracciando nell’animo i problemi che costituiscono l’oggetto delle sue implorazioni a Dio. Nell’occasione odierna, desidero dire quanto io sono enormemente grato per questo ricordo e per questa unione nella preghiera. È un grande aiuto e un enorme sostegno, per il quale non cesso di ringraziare quotidianamente Dio. Con questo atto di gratitudine abbraccio tutti i miei benefattori, conosciuti e sconosciuti, e, in particolare, quelli che completano la loro preghiera col sacrificio spirituale della sofferenza.

E mentre per questo ringrazio pubblicamente, nella circostanza odierna, non cesso di ripetere a me stesso e agli altri: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”. Sì, cari fratelli e sorelle. Esiste un enorme bisogno di preghiera, della preghiera grande e incessante della Chiesa; esiste il bisogno della preghiera fervente, umile e perseverante. Essa è il primo fronte in cui il bene e il male, nel nostro mondo, si affrontano. Essa fa strada al bene e serve a superare il male. La preghiera ottiene la grazia divina e la misericordia per il mondo. Essa eleva gli uomini alla dignità, che ha dato loro il Figlio di Dio, quando, uniti con lui, ripetono: “Padre nostro”.

Giustamente parliamo anche dell’apostolato della preghiera. Giustamente esiste un’associazione che porta tale nome. La preghiera è il primo apostolato, quello fondamentale e più universale per ciascuno e per tutti.

[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 27 luglio 1980]

Mercoledì, 01 Ottobre 2025 05:00

Strumento di lavoro

L’insegnamento di Gesù sulla preghiera prosegue con due parabole, con le quali Egli prende a modello l’atteggiamento di un amico nei confronti di un altro amico e quello di un padre nei confronti di suo figlio (cfr vv. 5-12). Entrambe ci vogliono insegnare ad avere piena fiducia in Dio, che è Padre. Egli conosce meglio di noi stessi le nostre necessità, ma vuole che gliele presentiamo con audacia e con insistenza, perché questo è il nostro modo di partecipare alla sua opera di salvezza. La preghiera è il primo e principale “strumento di lavoro” nelle nostre mani! Insistere con Dio non serve a convincerlo, ma a irrobustire la nostra fede e la nostra pazienza, cioè la nostra capacità di lottare insieme a Dio per le cose davvero importanti e necessarie. Nella preghiera siamo in due: Dio e io a lottare insieme per le cose importanti.

Tra queste, ce n’è una, la grande cosa importante che Gesù dice oggi nel Vangelo, ma che quasi mai noi domandiamo, ed è lo Spirito Santo. “Donami lo Spirito Santo!”. E Gesù lo dice: «Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (v. 13). Lo Spirito Santo! Dobbiamo chiedere che lo Spirito Santo venga in noi. Ma a che serve lo Spirito Santo? Serve a vivere bene, a vivere con sapienza e amore, facendo la volontà di Dio. Che bella preghiera sarebbe, in questa settimana, che ognuno di noi chiedesse al Padre: “Padre, dammi lo Spirito Santo!”. La Madonna ce lo dimostra con la sua esistenza, tutta animata dallo Spirito di Dio. Ci aiuti lei a pregare il Padre uniti a Gesù, per vivere non in maniera mondana, ma secondo il Vangelo, guidati dallo Spirito Santo.

[Papa Francesco, Angelus 24 luglio 2016]

Martedì, 30 Settembre 2025 23:23

27a Domenica T.O. (anno C)

XXVII Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [5 Ottobre 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Le raccomandazioni di Paolo a Timoteo sono quanto mai utili anche per noi. E la parola del vangelo apre il nostro cuore all’umile fiducia nel compimento della nostra missione.

 

*Prima Lettura dal Libro del profeta Abacuc (1, 2-3 ; 2, 2-4) 

Il profeta Abacuc non è molto di moda oggi, ma certamente lo era al tempo del Nuovo Testamento, dal momento che viene citato più volte. Per esempio, la frase della Vergine Maria nel Magnificat: «Io gioisco nel Signore, esulto in Dio mio salvatore» si trovava già, secoli prima, nel libro di Abacuc (Ab 3,18); è da lui inoltre che san Paolo ha tratto e citato più volte una frase, che fa parte della nostra lettura di oggi: “Il giusto vivrà per la sua fed” (Rm 1,17; Gal 3,11). Questo piccolo libro è davvero un libretto, solo tre capitoli, di circa venti versetti ciascuno, ma che ricchezza di sentimenti! Dal lamento alla violenza, dall’invocazione di aiuto all’esultanza pura. I suoi gridi di angoscia fanno pensare a Giobbe: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi?» (Ab 1,2). Eppure la speranza non lo abbandona mai: quando san Pietro invita i suoi lettori alla pazienza, riprende  un’espressione ispirata da Abacuc: «Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa…» (2 Pt 3,9). I primi versetti somigliano al libro di Giobbe: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti? A te alzerò il grido “Violenza!”, e non salvi?» È una supplica davanti al dilagare della violenza; ma soprattutto è il grido dell’angoscia estrema, quella del silenzio di Dio. Qui, come nel libro di Giobbe e in molti salmi, la Bibbia osa dire frasi in cui l’uomo sembra chiedere conto a Dio: “Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti? Griderò a te: “Violenza!” e non salvi?”  La violenza di cui parla Abacuc è quella di Babilonia, la nuova potenza emergente del Medio Oriente. Da che mondo è mondo, le stesse atrocità della guerra si ripetono come possiamo ben constatare anche oggi. Eppure Abacuc non perde la fede. In un altro versetto afferma: “Starò in piedi al mio posto di guardia, mi metterò sul bastione e starò attento a vedere che cosa mi dirà il Signore” (Ab 2,1). In questa espressione ci sono almeno due cose: anzitutto è l’attesa della sentinella, sicuro che l’alba arriverà; è lo stesso tema del Salmo 129/130: “L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora” e la seconda è la coscienza che la sua interpellanza è un po’ audace: il profeta ha chiesto conto a Dio e si aspetta di essere rimproverato. E invece la risposta di Dio non porta nessuna condanna; lo invita soltanto alla pazienza e alla fiducia: i giorni della vittoria del nemico non dureranno sempre (cf. Ab 2,2-3). Nel testo di oggi Abacuc non descrive il contenuto della visione, sarà oggetto del capitolo seguente; ma già si intuisce che riguarda la liberazione degli oppressi. Resta però un fatto: Dio non ha davvero risposto alla domanda; non ha detto perché a volte sembra sordo alle nostre preghiere. Ha solo riaffermato che non ci abbandona mai. Il messaggio di Abacuc sembra allora essere questo: nelle prove, anche le più terribili, l’unica strada possibile per il credente è custodire la fiducia in Dio: accettare di non capire, ma non accusare Dio. Ogni altra posizione distrugge perché la diffidenza verso Dio non porta che dolore. È probabilmente questo il senso della formula finale: “Il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2,4), o, detto in altro modo, è la fiducia in Dio che ci fa vivere, altrimenti il sospetto e la ribellione ci logorano. Al contrario, è lecito gridare il proprio dolore: se la Bibbia ci fa leggere, nel libro di Giobbe e nei salmi, grida di angoscia e perfino rimproveri rivolti a Dio, è perché il credente ha il diritto di gridare la propria sofferenza, la sua impazienza davanti alla violenza che lo schiaccia. Riprendiamo la frase finale: “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2,4). L’orgoglioso è Babilonia che si vanta delle sue conquiste e pensa di fondare su di esse una prosperità duratura; il giusto, invece, sa che solo Dio dà vita. L’esempio più celebre nella storia d’Israele è Abramo: quando lasciò la sua terra e la sua famiglia per rispondere alla chiamata di Dio, non sapeva dove sarebbe stato condotto. Quando, sempre obbedendo a Dio, si preparava a offrire suo figlio unico, non capiva, ma continuò a fidarsi di Colui che glielo aveva dato. E ancora una volta la sua fede fece vivere lui e suo figlio (Gn 22). La Scrittura dice di lui: “Abramo ebbe fede nel Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gn 15,6).

 

*Salmo Responsoriale (94/95, 1-2, 6-7ab, 7d-8a.9)

Siamo nel tempio di Gerusalemme, i pellegrini si affollano sui gradini del tempio per una grande celebrazione: “Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza”. La roccia della nostra salvezza: questa espressione, da sola, è una professione di fede. Israele ha scelto di poggiare su Dio e solo su di Lui, come nei primi giorni dell’Alleanza. La Bibbia paragona spesso la storia del popolo d’Israele a un fidanzamento con il suo Dio. Dopo lo slancio iniziale e le promesse, sono venuti i dubbi, le infedeltà. Dio, però, è sempre rimasto fedele, e dopo ogni tempesta e ogni infedeltà, Israele è sempre tornato a Lui, come una sposa pentita e riconoscente per l’Alleanza sempre rinnovata: Andiamo a Lui con rendimento di grazie. La parola ebraica qui è tôdah: indica un momento preciso del culto dell’Alleanza, il sacrificio di tôdah, che esprime insieme gratitudine, ringraziamento, lode, pentimento, desiderio di amare… In ebraico moderno, grazie si dice ancora tôdah. Un termine italiano che riassumerebbe bene questo salmo è proprio riconoscenza: riconoscere Dio, conoscere chi Egli è conoscere chi siamo noi, e allora la gratitudine ci invade.Riconoscere Dio, anzitutto: il nostro Creatore ma, ancor più, il nostro liberatore.  Sembra semplice fidarsi di questo Dio che ci guida e ci protegge, di questo Dio che ci ha liberati dalla schiavitù d’Egitto. È semplice, finché non ci sono problemi. Ma quando arrivano le prove, sorgono i dubbi. Eppure proprio nella prova si verifica la nostra fiducia e qui viene posta precisamente la questione della fiduci. Ascoltare, nella Bibbia, significa avere fiducia; ascoltare la sua voce è anche il contrario di indurire il cuore. Il salmo infatti continua: “Oggi, se ascoltaste la sua voce! Non indurite il cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere”. Massa e Meriba significano, appunto, tentazione e provocazione. L’episodio di Massa e Meriba è rimasto celebre nella memoria di Israele come il simbolo della tentazione del sospetto verso Dio non appena sopraggiunge la prima difficoltà. Il popolo cominciò a rimpiangere la schiavitù perché la libertà appena conquistata sembrava ben poco confortevole. In Egitto erano schiavi, certo, ma almeno sopravvivevano….nel deserto, il popolo ebbe sete e venne montata la rivolta. Il testo dice che il popolo mormorava, ma il termine è probabilmente più forte che nel nostro italiano di oggi, perché Mosè esclama a Dio: “Ancora un poco e mi lapideranno!” (Es 17,4). Dio interviene, e l’acqua sgorga dalla roccia (ritorna qui l’immagine: Dio, mia roccia). Quanto sarebbe stato più giusto fidarsi! Nella sofferenza, come abbiamo visto in Abacuc nella prima lettura, possiamo gridare, supplicare, interpellare Dio, ma mai dubitare di Lui. Massa e Meriba restano i nomi di quel sospetto che sempre può riaffiorare nei nostri cuori.

 

*Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo a Timoteo (1, 6-8. 13-14)

Quando Paolo scrive la sua seconda lettera a Timoteo, si trova in prigione a Roma, poco prima della sua esecuzione; egli stesso dice di essere incatenato come un malfattore e chiede a Timoteo di non vergognarsi di lui, come invece hanno fatto altri. Sa molto bene che non gli resta molto tempo e si sente molto solo. Questa seconda lettera a Timoteo è quindi una sorta di testamento:Timoteo dovrà prendere il suo posto e Paolo gli dà delle raccomandazioni in questo senso. Bisogna sapere che, per ragioni di stile, di vocabolario e persino di contenuto, si pensa generalmente che le lettere a Timoteo non siano di Paolo, ma di uno dei suoi discepoli dopo la sua morte. Non si è in grado di dirimere questa questione difficile e per essere fedeli all’insegnamento di queste lettere, non dobbiamo a nostra volta perderci in discussioni senza fine. Per comodità di linguaggio, continueremo quindi a parlare di Paolo e Timoteo. Del resto, che si tratti di Paolo e Timoteo o dei loro discepoli futuri ha ormai poca importanza per noi: ciò che conta è il contenuto di queste lettere che raccolgono le raccomandazioni di Paolo a un giovane responsabile cristiano, e dunque ci riguardano da vicino. La prima raccomandazione è forse la più importante: “Ravviva il dono gratuito di Dio”; questo dono di Dio, se leggiamo il seguito del testo, è evidentemente lo Spirito Santo. E, visibilmente, Timoteo ne avrà proprio bisogno! Paolo, incatenato per il Vangelo, lo sa fin troppo bene. Questo dono dello Spirito, Timoteo l’ha ricevuto con l’imposizione delle mani: le parole confermazione e ordinazione non esistevano ancora, ma sappiamo che, fin dall’inizio della Chiesa, il gesto dell’imposizione delle mani significava il dono dello Spirito. Ravviva in te il dono di Dio significa che i doni di Dio possono dunque dormire in noi. Altrove Paolo dice: “Non spegnete lo Spirito” (Cf 1 Tess 5,19). Anche qui, possiamo ascoltare un messaggio che incoraggia  a portare in noi il fuoco dello Spirito, e anche se sembra che lo abbiamo ricoperto di cenere, esso è ancora in noi, arde sotto la cenere dato che nulla può spegnerlo. Questo Spirito non è spirito di paura, ma spirito di forza, di amore, di dominio di sé. Qui ritroviamo un tema caro a Paolo: quello della trasmissione della fede. Paolo ha trasmesso a Timoteo questo tesoro prezioso, che Timoteo deve trasmettere a sua volta e così via: Tieniti al modello delle sane parole che hai udito da me, nella fede e nell’amore che sono in Cristo Gesù. Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi. Altrove, nella prima lettera ai Corinzi, Paolo scriveva: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto” (cf 15,3-4). Questo fa pensare a una corsa a staffetta, nella quale i corridori si trasmettono un testimone che rimane identico dall’inizio alla fine della corsa mentre il deposito della fede si esprime inevitabilmente in termini diversi lungo i secoli. La fede, infatti, non è un oggetto ben confezionato e imballato, intoccabile. Il problema è sapere però se la trasmissione sia davvero fedele. Molte controversie, nel corso dei secoli, sono nate dalle divergenze tra cristiani sul contenuto del deposito della fede. Ma, in realtà, non siamo noi i garanti ultimi di questa fedeltà: è lo Spirito Santo il custode supremo del deposito della fede. Per trasmettere fedelmente la fiaccola alle generazioni successive, ci basta dunque ravvivare in noi il dono di Dio, il fuoco dello Spirito che nulla può spegnere.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (17, 5-10)

 Troviamo qui diversi versetti che si susseguono e non si somigliano. Sembra quasi che ci siano due parti in questo testo: nella prima, un dialogo tra Gesù e i suoi apostoli sulla fede, con quella formula un po’ terribile di Gesù: «Se aveste fede quanto un granello di senape, direste a quest’albero: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe”. Nella seconda parte, una specie di parabola sul servo, che si conclude anch’essa con una frase molto forte di Gesù: “Quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. Gesù non cerca certo di scoraggiarci; e, d’altra parte, se questi versetti si trovano così vicini, senza alcuna interruzione significa che c’è un legame tra di essi. Abbiamo qui un dialogo tra Cristo e i suoi apostoli cioè gli inviati, il che vuol dire che questa frase di Gesù riguarda l’attività di evangelizzazione. Gli inviati dicono a colui che li manda: Aumenta la nostra fede! Una preghiera che è anche molto spesso la nostra quando prendiamo coscienza della nostra debolezza, della nostra impotenza, e ci sembra che se fossimo più ricchi di fede saremmo più efficaci. Ma come armonizzare questo con la frase di Paolo: “Se avessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sono nulla” (1 Cor 13,2)? Nel suo linguaggio, Gesù risponde che non si tratta di misurare la nostra fede: il problema non è lì. Si tratta piuttosto di contare sulla potenza di Dio perché è Lui ad agire e non la nostra fede, piccola o grande che sia. Gesù accentua volutamente il paradosso: il granello di senape era considerato il più piccolo di tutti i semi, e il grande albero di cui parla (in greco, sicomoro) era ritenuto impossibile da sradicare. La frase di Gesù significa dunque: Non serve avere tanta fede: basta un granello di senape, piccolissimo, per fare cose apparentemente impossibili. Si potrebbe allora tradurre così: Quando agite nel nome del Vangelo, ricordatevi che nulla è impossibile a Dio. C’è poi l’espressione “servi inutili” archreioi  (17,10) che  possiamo tradurre  così: voi siete semplicemente dei servi nemmeno indispensabili chiamati al servizio di un compito che vi supera. E – direi - per fortuna perché chi si sentirebbe abbastanza forte per portare la responsabilità del Regno di Dio? Queste frasi di Gesù, dunque, non sono dure o scoraggianti, ma al contrario vogliono incoraggiarci: se noi non siamo che subalterni, la responsabilità non ricade su di noi, ma non per questo siamo inutili: se il servo fosse davvero inutile, nessun padrone lo terrebbe. Se Dio ci prende come servi, è perché vuole avere bisogno di noi. Se Gesù ha scelto degli apostoli e ha detto che “la messe è molta ma gli operai sono pochi” (Mt 9,37-38) e questa sua parola continua a risuonare da duemila anni, è perché vuole avere bisogno della nostra collaborazione. Noi siamo quel che siamo e Dio ci associa alla sua opera di salvezza.  Dice Gesù: “Quando anche voi avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (17,10). Con ciò ci suggerisce due atteggiamenti: in primo luogo invita ancora una volta a uscire dalla logica dei meriti e delle ricompense, ma soprattutto invita a rimanere sereni nell’esercizio della nostra missione. È Lui il padrone della messe, non noi. Allora si capisce meglio il legame tra le due parti di questo testo: il messaggio è lo stesso: un po’ di fede, per quanto piccola, è sufficiente a Dio per compiere miracoli. A condizione, però, che ci mettiamo fedelmente al suo servizio.

+ Giovanni D’Ercole

Lunedì, 22 Settembre 2025 13:19

26a Domenica T.O. (anno C)

XXVI Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [28 Settembre 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Prosegue l’insegnamento sulla ricchezza e il rapporto con i poveri, campo quanto mai utile per la nostra riflessione di fronte alle grandi e piccole ingiustizie che la cronaca quotidianamente ci mostra.

 

Prima Lettura dal libro del profeta Amos (6, 1a. 4-7)

Nella Bibbia, Amos è il primo profeta “scrittore”, cioè il primo di cui ci è rimasto un libro. Altri grandi profeti anteriori sono rimasti molto celebri: Elia, ad esempio, o Eliseo, o Natan… ma non possediamo le loro predicazioni scritte, bensì soltanto ricordi tramandati dal loro ambiente. Amos ha predicato verso il 780-750 a.C. e di certo ha dovuto dire cose che non sono piaciute a tutti, visto che alla fine fu espulso per denuncia al re.  Originario del Sud, ha predicato nel Nord in un periodo di grande prosperità economica. La settimana scorsa avevamo già letto un suo testo, in cui rimproverava alcuni ricchi di costruire la loro ricchezza a spese dei poveri il passo di oggi lascia immaginare il lusso che regnava a Samaria: “Distesi su letti d’avorio… mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla…canterellano al suono dell’arpa come Davide e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano”. I governanti non sanno o non vogliono sapere che una terribile minaccia pesa su di loro: “della rovina di Giuseppe non si preoccupano”. Saranno poi deportati, anzi saranno i primi dei deportati e la banda dei gaudenti non esisterà più. Non si è ascoltato questo profeta di sventura che cercava di avvertire il potere e la classe dirigente, anzi lo si è fatto tacere liberandosi di lui. Ma ciò che temeva, si è avverato. Amos dunque si rivolge qui ai ricchi e ai potenti, ai responsabili. Che cosa rimprovera loro precisamente? È la prima frase a darci la chiave: “Guai a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria”. In altre parole: siete comodi, soddisfatti del vostro benessere e persino del vostro lusso… ebbene, io vi compiango perché non avete capito nulla: siete come gente che si infila sotto le coperte per non vedere arrivare il ciclone e  crollerà tutta questa società, pochi anni più tardi schiacciata dagli Assiri, con molti morti mentre i superstiti saranno deportati. Guai a quelli che si credono sicuri sulla montagna di Samaria”… Ma che fanno di male? Il male è fondare la propria sicurezza su ciò che passa: qualche successo militare effimero, la prosperità economica e le apparenze della pietà… per non dispiacere a Dio e al suo profeta. Si vantano persino dei loro successi, credono di averne qualche merito, mentre tutto viene da Dio. Ora, l’unica sicurezza d’Israele è la fedeltà all’Alleanza. Questa è la grande insistenza di tutti i profeti come farà Michea predicando qualche anno più tardi a Gerusalemme. A Samaria regnava l’ipocrisia: quando offrono sacrifici, trasformano il banchetto che segue in gozzoviglia… perché i pasti che Amos descrive sono probabilmente pasti sacri, come quelli che seguivano certi sacrifici. Pasti sacrileghi dunque che nulla hanno a che fare con l’Alleanza. La difficoltà di questo passo sta nella sua concisione: infatti, per comprenderlo, bisogna avere in mente l’insieme della predicazione profetica; la logica di Amos, come quella di tutti i profeti, è la seguente: la felicità degli uomini e dei popoli passa inevitabilmente attraverso la fedeltà all’Alleanza con Dio; e fedeltà all’Alleanza significa giustizia sociale e fiducia in Dio e se ci si distacca da questi due punti ci si perde. Di questo Amos sta parlando e basta rileggere il testo della scorsa domenica, in cui rimproverava ai ricchi di arricchirsi sulle spalle dei poveri. Nel testo di oggi, i banchetti di lusso descritti non giovano ovviamente a tutti e non si sente più il bisogno di Dio. Dirà anche Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13). Samaria si copriva di palazzi lussuosi, costruiti da alcuni a spese degli altri; una volta arricchitisi, grazie al commercio fiorente si faceva presto a espropriare un piccolo proprietario riducendo alcuni più poveri in schiavitù come nel testo di domenica scorsa. L’archeologia porta inoltre su questo punto precisazioni interessanti: mentre nel decimo secolo le case erano tutte sullo stesso modello e rappresentavano livelli di vita del tutto identici, nell’ottavo secolo, al contrario, si distinguono chiaramente quartieri ricchi e quartieri poveri.

 

*Salmo responsoriale (145/146, 6c.7, 8.9a, 9bc-10)

Questa splendida litania è solo una parte del Salmo 145/146 e la liturgia oggi non propone gli Alleluia che lo incorniciano nel testo ebraico essendo un Salmo alleluiatico. Questo significa che ci troviamo, come domenica scorsa, davanti a un salmo di lode. A parlare in questo salmo sono gli oppressi, gli affamati, i ciechi, i piegati, gli stranieri, le vedove, gli orfani che riconoscono la sollecitudine di Dio per loro. In realtà, è il popolo d’Israele che parla di se stesso: è la propria storia che racconta e ringrazia per la protezione di Dio avendo conosciuto tutte queste situazioni: l’oppressione in Egitto, dalla quale Dio lo ha liberato con mano potente e braccio teso e l’oppressione a Babilonia dove ancora una volta Dio è intervenuto. Ha conosciuto la fame nel deserto e Dio ha mandato la manna e le quaglie. A questi ciechi Dio apre gli occhi rivelandosi progressivamente attraverso i suoi profeti. Sono questi piegati che Dio rialza instancabilmente e fa stare in piedi; sono il popolo in cerca di giustizia che Dio guida. È dunque un canto di riconoscenza: Il Signore rende giustizia agli oppressi,  agli affamati dà il pane, libera i prigionieri, apre gli occhi ai ciechi, rialza chi è caduto, ama i giusti, protegge lo straniero e sostiene la vedova e l’orfano. Il Signore, che ritorna in maniera litanica è la traduzione del Nome di Dio in 4 lettere, Il Tetragramma: YHVH, che dice la sua presenza operante e liberatrice. Il versetto che precede quelli di oggi li riassume tutti: “Felice chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe, chi ripone la sua speranza nel Signore (YHVH) suo Dio”: il segreto della felicità è appoggiarsi a Dio e attendere tutto da Lui. Questo salmo è scelto per questa domenica come risposta al testo di Amos che avvertiva la gente di Samaria a ben sapere su chi porre la fiducia, fuggendo le false sicurezze perché solo Dio è degno di fiducia. Riconoscere la nostra dipendenza da Dio e viverla con piena fiducia, perché Egli è totale benevolenza: ecco la definizione della fede e il segreto della felicità, come predicano i profeti.  Non bisogna dimenticare l’esperienza unica di cui i figli d’Israele hanno avuto il privilegio: lungo tutto il loro cammino verso la libertà, hanno sperimentato accanto a sé la presenza di Colui che hanno riconosciuto come il Signore che li ha condotti alla ricerca della libertà e della giustizia per tutti, anzi a più grande giustizia, rispetto e difesa dei piccoli e dei deboli. Se si guarda più da vicino, si constata che la legge d’Israele non ha altro obiettivo: fare di Israele un popolo libero, rispettoso della libertà altrui. Su questo lungo cammino di liberazione Dio conduce il suo popolo. E’ bene per noi rileggere questo salmo non solo per riconoscere ciò che Dio compie a favore del suo popolo, ma anche per darci una linea di condotta: se Dio ha agito così verso Israele, a nostra volta, noi che siamo eredi di questo lungo cammino di Alleanza, siamo tenuti a fare altrettanto per gli altri.

 

*Seconda Lettura dalla prima lettera di san paolo Apostolo a Timoteo (6,11-16)

Non si potrebbe immaginare una sintesi più completa di tutto ciò che costituisce la fede e la vita del cristiano. Allo stesso tempo, sorprende le formule solenni di Paolo: “Davanti a Dio e… a Cristo Gesù, ti ordino”.  A una prima lettura, sembra di percepire gli echi di difficoltà nella comunità di Efeso, dove Timoteo aveva delle responsabilità: “Combatti la buona battaglia della fede”. Poco più sopra, nella stessa lettera, Paolo aveva già parlato del combattimento per la fede nel primo capitolo (1 Tm 1,18-19). C’è dunque un combattimento da affrontare per affermare la propria fede. Il momento è grave, il che spiega il tono solenne: è in gioco la fedeltà della giovane comunità cristiana al proprio Battesimo. Il passo che leggiamo oggi è incorniciato da due testi molto simili che precisano ancora meglio i due pericoli da evitare: le false dottrine e la ricerca delle ricchezze. Bisogna credere che ci fossero problemi reali sulle false dottrine: Timoteo, custodisci il deposito, evita chiacchiere empie e obiezioni di una pseudo-scienza. Per averla professata (sottinteso questa pseudo-scienza), alcuni si sono allontanati dalla fede (cf.1 Tm 6,20-21). E nello stesso senso, pochi versetti più su: Se qualcuno insegna un’altra dottrina, se non si attiene alle parole del Signore Gesù Cristo e alla dottrina conforme alla pietà, è accecato dall’orgoglio. È ignorante, malato, in cerca di controversie e di dispute verbali (1 Tm 6,3-4). Questo problema era già apparso all’inizio della lettera e Paolo aveva raccomandato a Timoteo di rimanere a Efeso (cf.1 Tm 1,3-4) e poi insiste con la stessa forza sul rischio della ricerca delle ricchezze perché la radice di tutti i mali è l’amore del denaro (cf.1 Tm 6,10). Ecco dunque i due peggiori pericoli per la fede agli occhi di Paolo che invita Timoteo a restare aggrappato al suo battesimo. All’epoca di Paolo, i battesimi erano amministrati davanti all’intera comunità e nel rito stesso battesimale la professione di fede era un momento molto importante perché il “sì” del nostro battesimo è radicato nel “sì” di Cristo al Padre e questo “sì”, bisognerà essere capaci di ripeterlo giorno per giorno. Timoteo avrà bisogno di tutte le sue forze ed è per questo che Paolo moltiplica le raccomandazioni perché perseveri nel combattere per la fede per ottenere la vita eterna. Le armi del combattimento sono la fede, l’amore, la perseveranza e la dolcezza che è l’arma principale. Il vero combattimento non ha nulla a che fare con guerre di religione e la storia mostra che le guerre di religione non hanno mai convertito nessuno. L’obiettivo su cui dobbiamo sempre tenere gli occhi fissi è la vita eterna che è anche la manifestazione («epifania») di Cristo. Paolo conclude con una sorta di professione di fede, che è precisamente ciò che Timoteo deve continuare ad affermare contro ogni avversità: “Dio è il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile, nessuno fra gli uomini l’ha mai visto né può vederlo”. Dio è il Tutto-Altro, tema che ritroviamo nell’Antico Testamento: è la trascendenza di Dio, il Tutto Altro che si rende però vicino a noi e al tempo stabilito renderà manifesto il Signore Gesù Cristo.

 

Dal Vangelo secondo Luca (16, 19-31)

L’ultima frase è doppiamente terribile: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”.  Un’affermazione che sembra disperata, come se nulla possa cambiare un cuore di pietra, ed è ancora più terribile sulla bocca di Gesù. Quando infatti Luca scrive il vangelo sapeva bene che la Risurrezione di Cristo non aveva convertito tutti, anzi, aveva indurito ancor più il cuore di alcuni. Passiamo alla storia del ricco epulone e del povero Lazzaro: del ricco non sappiamo molto, nemmeno il nome; non è detto che sia malvagio, anzi, più tardi penserà a salvare i suoi fratelli dalla sventura nell’aldilà. Vive però nel suo mondo così immerso nel suo comfort, come i Samaritani di cui parla Amos nella prima lettura, da non vedere nemmeno il mendicante che muore di fame sulla sua porta e che si accontenterebbe dei suoi avanzi. Il nome del povero è Lazzaro, che significa Dio aiuta, e questo già dice molto: Dio lo aiuta, non perché sia virtuoso, ma semplicemente perché è povero. Questa forse è la prima sorpresa che Gesù riserva ai suoi ascoltatori: questa storia era un noto racconto proveniente dall’Egitto, parla di due personaggi un ricco pieno di peccati e un povero pieno di virtù: giunti nell’aldilà, pesati sulla bilancia, vengono valutate le azioni buone e cattive sia dei ricchi che dei poveri . I buoni, sia ricchi che poveri, erano premiati, mentre i cattivi, ricchi o poveri, puniti.  Anche i rabbini, prima di Gesù, raccontavano storie simili : il ricco era figlio di un pubblicano peccatore mentre il povero un uomo molto devoto; anche loro pesati sulla bilancia e  valutati accuratamente i meriti degli uni e degli altri, il devoto risultava più meritevole del figlio del pubblicano. Gesù sconvolge un po’ questa logica: non calcola i meriti e le buone azioni perché non si dice che Lazzaro sia virtuoso e il ricco cattivo ma constata semplicemente che il ricco è rimasto ricco tutta la vita, mentre il povero è rimasto povero, alla sua porta: ciò significa l’abisso di indifferenza che si è creato tra ricco e povero, semplicemente perché il ricco non ha mai aperto il portone. Altro dettaglio importante nel racconto di Gesù: non è del tutto vero che non sappiamo nulla del ricco, perché ci dice come era vestito: di porpora e lino, chiara allusione ai vestiti dei sacerdoti.Il colore porpora, originariamente colore dei vestiti reali, era diventato dei sommi sacerdoti perché servivano il re del mondo; il lino era il tessuto della tunica del sommo sacerdote. Gesù vuol dire che puoi essere anche il Sommo Sacerdote ma se disprezzi i tuoi fratelli, non meriti il titolo di figli di Abramo. Infatti, Abramo è citato sette volte ed  è certamente una chiave del testo. La domanda di Gesù è: “Chi è veramente figlio di Abramo?” e risponde che se non si ascolta la Legge e i Profeti, se si è indifferenti alla sofferenza dei fratelli, nonsi è figli di Abramo. E va oltre: il povero avrebbe voluto mangiare le briciole del ricco, ma erano piuttosto i cani a leccare le sue piaghe. I cani erano animali impuri… quindi anche se il ricco pio si fosse preso la briga di aprire il portone, sarebbe stato comunque scandalizzato e avrebbe fuggito quell’uomo impuro leccato dai cani… La lezione di Gesù è dunque: Vi preoccupate dei meriti, cercate di rimanere puri, siete orgogliosi di essere discendenti di Abramo… ma dimenticate l’essenziale.. Non servono segni straordinari per convertirsi: basta la Legge con i Profeti e per noi basta il Vangelo: ma occorre viverli!

+ Giovanni D’Ercole

Martedì, 16 Settembre 2025 07:32

25a Domenica T.O. (C)

25a Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [21 settembre 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Riprendendo le attività pastorali la parola di Dio ci guida a comprendere dove sta la vera ricchezza della vita. 

 

*Prima Lettura dal libro del profeta Amos (8, 4 – 7)

L’ora è certamente grave, poiché questo  testo del profeta Amos si conclude con una formula solenne: “Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe”(v.7) . “Il vanto di Giacobbe” è Dio stesso, perché è lui che è (o che dovrebbe essere) l’unico vanto del suo popolo; in altre parole, il Signore giura per sè stesso. Dio non può impegnarsi che per se stesso! Ma a proposito di cosa Dio giura? Assicura di non dimenticare “tutte le loro opere “, cioè tutte le malefatte d’Israele che il profeta Amos stigmatizza perché cercano solo di arricchirsi a spese degli altri. Amos è un profeta dell’VIII secolo a.C., quando la Palestina è divisa in due regni. Piccolo pastore di un villaggio del Sud (Téqoa, vicino a Betlemme), fu scelto da Dio per andare a predicare nel regno del Nord, chiamato anche Samaria dal nome della sua capitale. Sotto il regno di Geroboamo II, verso il 750 a.C, la Samaria vive un periodo di prosperità economica ma questa prosperità non giova a tutti; al contrario, Amos constata che l’arricchimento degli uni nasce dall’impoverimento degli altri, semplicemente perché i prodotti di prima necessità, come il pane quotidiano o i sandali, sono nelle mani di venditori senza scrupoli. Così si arriva al punto che i poveri non hanno altra soluzione, per non morire di fame o di freddo, se non quella di vendersi come schiavi “ comprare con denaro gli indigenti e il povero con un paio di sandali” (v.6). Chi subisce un torto può tentare di rivolgersi alla giustizia, ma ogni volta che c’è un processo per frodi o truffe manifeste, i tribunali prendono le parti dei ricchi contro i poveri semplicemente perché i ricchi pagano i giudici. Amos lo dice chiaramente: “Cambiano il diritto in veleno e gettano a terra la giustizia”(5,7). La stessa giustizia è falsata, corrotta. Il testo che abbiamo ascoltato è dunque uno di quelli in cui Amos prende la parola per annunciare il giudizio di Dio ed è un vero e proprio atto d’accusa: enuncia i fatti, poi rende il suo verdetto: Voi schiacciate i poveri, annientate gli umili della terra e vi domandate quando passerà la festa della luna nuova perché possiamo vendere il nostro grano?  La luna nuova, il primo giorno del mese (detta «neomenia»), era un giorno festivo: nessun lavoro, nessuno spostamento, nessuna attività commerciale era autorizzata perché giorno del riposo come il sabato. Questo tempo di sospensione negli affari serviva a rivolgere l’uomo verso Dio. Ma qui sembra che lo si viva con impazienza, perché ormai l’uomo ha un altro padrone: il denaro e, per chi ha come unico pensiero il guadagno, un giorno festivo è una perdita. Per questo Amos rimprovera: “Ascoltate questo, voi che calpestate il povero…e dite: quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? (v.7). Prende di mira i venditori disonesti, per i quali commercio significa truffa, con prezzi esorbitanti e bilance falsate. L’immagine della bilancia falsata è a doppio senso: da una parte si capisce come un bilanciere storto possa falsare una misura, ma, più profondamente, significa che tutta la società vive su bilance truccate. In fondo, Amos rimprovera al popolo di Samaria di vivere nella menzogna e nell’ingiustizia: le bilance sono falsate, la giustizia è corrotta, si rispettano controvoglia i giorni festivi e con un secondo fine; tutto è falsato, insomma. Ecco dunque il giudizio: «Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: certo non dimenticherò mi tutte le loro opere”  (v.7). In altre parole: Voi che vi arricchite ingiustamente, dimenticate in fretta i vostri delitti, e i tribunali vi seguono; ma il Signore vi dichiara che tutto questo non va dimenticato e non dovete abituarvi all’ingiustizia. Amos pronuncia la sua ammonizione nel modo più solenne possibile, perché c’è una lezione molto seria: la prima cosa che Dio chiede al suo popolo è di vivere nella giustizia e la società fondata su ingiustizie e miserie di ogni genere, non può che offendere Dio. Amos è tanto più severo perché, da cent’anni, il regno del Nord si vanta di aver eliminato l’idolatria abolendo i culti dei Baal; ma in realtà, ciò che Amos rimprovera è di essere caduti in un’idolatria ancora più pericolosa: quella del denaro.

 

*Salmo responsoriale (113/[112])

Questo salmo è il primo di quelli che Gesù ha cantato la sera del Giovedì Santo prima di partire per il Monte degli Ulivi. La prima parola che ha cantato è Alleluia che significa letteralmente Lodate Dio: Allelu è l’imperativo, lodate; e Ya la prima sillaba del Nome santo. Dunque, si tratta di un salmo di lode e si capisce dalla prima parola: Alleluia. Interessante è la composizione di questo salmo, formato da due parti di quattro versetti ciascuna, che incorniciano un versetto centrale. Il versetto centrale è una domanda: “Chi è come il Signore nostro Dio? (v.5) e le due parti contemplano le due facce del mistero di Dio: la sua santità e la sua misericordia. Nella sua rivelazione Dio si è fatto conoscere come il Trascendente, il tutto Santo e come il Misericordioso il Tutto Vicino. Per manifestare la sua santità, si ripete il suo Nome, “il Signore”, il Nome di Dio, rivelato da Lui stesso in quattro lettere (YHWH) che però non viene mai pronunciato. E come sappiamo, nella Bibbia, quando compaiono queste quattro lettere, spontaneamente il lettore ebreo le sostituisce con «Adonai», che significa Mio Signore, e che non pretende descrivere né definire Dio. Il termine “Signore”, che esprime bene la distanza tra Dio e noi, è usato cinque volte mentre “il Nome” tre volte, e il verbo lodare tre volte.  La grande scoperta si trova nel versetto centrale: ”Chi è come il Signore nostro Dio?”: il Dio della gloria è nello stesso tempo il Dio della misericordia. e la seconda parte del salmo descrive l’azione di Dio a favore dei più piccoli, dei più poveri: solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero (v.7). Tra i deboli e i poveri, vi era la donna sterile, che viveva con la continua paura di essere ripudiata: “Fa abitare nella casa la sterile, come madre gioiosa di figli” (v.9). Sara, moglie di Abramo, ha conosciuto questo miracoloso rovesciamento: la gioia della sterile che si ritrova, dopo alcuni anni, con la casa piena di figli. La Bibbia ama sottolineare questi rovesciamenti di situazione: perché nulla è impossibile a Dio. Il Magnificat di Maria è pieno di questa certezza fiduciosa. Quando dopo l’Ultima Cena Gesù ha cantato questo salmo con i discepoli salendo verso il Monte degli Ulivi, ha sentito in modo particolare il versetto “solleva dalla polvere il debole”. Si avviava alla sua morte, e ha certamente riconosciuto qui un annuncio della sua risurrezione. 

 

*Seconda Lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (2, 1-8)

Nel cuore di questo brano si trova una frase che riassume tutta la Bibbia, è al centro del pensiero di Paolo, e soprattutto è il centro della storia dell’umanità: “Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (v.4). Ogni parola è importante: “Dio vuole”: è il mistero della sua volontà, quel progetto di misericordia che aveva già prestabilito in se stesso per condurre i tempi alla loro pienezza, come dice la lettera agli Efesini (cf. 1,9-10). La volontà di Dio è una volontà di salvezza che riguarda tutti gli uomini.  Paolo insiste sulla dimensione universale del progetto di Dio: “Dio, nostro Salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”. In frasi di questo genere la parola “e” può essere sostituita da “cioè”; bisogna quindi intendere: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati, cioè che giungano a conoscere pienamente la verità. E che cos’è la verità? È che Dio ci ama ed è sempre con noi per colmarci del suo amore. Essere salvati significa conoscere questa verità secondo il senso biblico del “conoscere”: cioè viverne, lasciarsi amare e trasformare da essa. Finché gli uomini non conoscono l’amore di Dio restano come prigionieri e Cristo è venuto per liberarci. Ecco perché troviamo l’espressione “ha dato se stesso in riscatto per tutti”(v.6) : ogni volta si può sostituire la parola riscatto con liberazione: credere nell’amore di Dio per tutti gli uomini e vivere di questo amore, significa essere salvati. Allora, la vera preghiera, – come dice Paolo – è entrare nel progetto di Dio per essere capaci di diffondere il vangelo come una scintilla che si propaga. Nell’ultima frase, l’insistenza di Paolo non riguarda tanto la posizione esteriore, ma lo stato d’animo con cui ci si deve presentare nella preghiera: “Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese”. Come entrare nel progetto d’amore di Dio per tutti se il cuore è pieno di collera e di cattive intenzioni? Molto probabilmente qui si intravedono segni di difficoltà gravi, di opposizioni, di divisioni, forse persino di persecuzioni, nella comunità alla quale era destinata questa lettera. Non possiamo avanzare ipotesi precise, poiché non siamo nemmeno sicuri della data di composizione della lettera, né se sia interamente di Paolo o di un suo discepolo. Ma poco importa: ciò che conta, in ogni epoca e in qualunque difficoltà  non bisogna dimenticare mai che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla piena conoscenza della verità, cioè dell’amore di Dio.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (16, 1-13)

Questo testo riserva una sorpresa: Gesù sembra fare i complimenti ai truffatori: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”(v.8). Attenzione a non sbagliare! Gesù lo definisce disonesto, cioè  malvagio perché l’onestà faceva parte della morale più elementare. Dunque, l’intenzione di Gesù non è certo quella di andare contro la morale di base e si premura di precisare che il padrone loda quell’uomo per la sua scaltrezza. Se Gesù usa un esempio provocatorio, è per farci riflettere su qualcosa di serio, come mostra l’ultima frase: c’è una scelta urgente da fare tra Dio e il denaro perché non si può servire  Dio e il denaro. Gesù elenca una serie di opposizioni: tra i figli di questo mondo e i figli della luce, tra una piccola cosa e una grande cosa, tra il denaro ingannevole e il bene autentico, tra i beni altrui e ciò che è veramente nostro. Tutte queste opposizioni hanno un unico scopo: farci scoprire che il denaro è un inganno e che dedicare la vita a fare soldi è una strada sbagliata; è grave quanto l’idolatria, che i profeti hanno sempre combattuto. Nella frase: “Non potete servire Dio e il denaro”, il verbo servire ha un senso religioso. C’è un solo Dio: non fatevi idoli, perché ogni idolatria vi rende schiavi e il denaro può diventare un fine a se stesso e non più un mezzo.  Quando si è ossessionati dal desiderio di guadagnare, si diventa presto schiavi: è importante guardarsi da ciò che si possiede per non esserne posseduti, dice la saggezza popolare. Il sabato era stato istituito anche per riscoprire, una volta alla settimana, il gusto della gratuità, un modo per restare liberi. Il denaro è ingannevole in due sensi: anzitutto, ci fa credere che ci assicurerà la felicità, ma un giorno dovremo lasciare tutto. Nella frase di Gesù l’espressione “quando verrà a mancare” (v.9) è un’allusione alla morte e certamente non c’è grande interesse a essere il più ricco del cimitero! Inoltre, il denaro ci inganna se pensiamo che ci appartenga solo per noi. Gesù non disprezza il denaro, ma lo mette al servizio del Regno, cioè per il bene degli altri e nessuno ne è proprietario, bensì amministratore. Se è vero che non serve a nulla essere il più ricco del cimitero, ha però molto senso essere ricchi per farne beneficiare anche gli altri. La domanda “se non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta chi vi affiderà quella vera?” (v.11) aiuta a capire che nell’uso del denaro è importante la fiducia: Dio si fida di noi, ci affida del denaro di cui siamo amministratori e responsabili. Ogni nostra ricchezza, di qualunque genere, ci è stata affidata come a degli amministratori perché la condividiamo trasformandola in felicità per chi ci circonda. Così si comprende meglio la parabola precedente, la storia di quell’amministratore minacciato di licenziamento che, per salvarsi, fa ancora una volta dei regali con i beni del suo padrone per farsi degli amici che lo accolgano. Era del tutto disonesto, ma ha saputo trovare rapidamente una soluzione ingegnosa per assicurarsi un futuro. L’astuzia, qui, consiste nell’usare il denaro come un mezzo e non come un fine. Non è quindi la disonestà che Gesù ammira, ma l’abilità: che cosa aspettiamo anche noi a trovare soluzioni creative per assicurare l’avvenire di tutti? La sete di guadagnare rende molte persone piene di inventiva; Gesù vorrebbe che la passione per la giustizia o la pace ci rendesse altrettanto inventivi! Il giorno in cui dedicheremo tanto tempo e tanta intelligenza a ricercare vie di pace, di giustizia e di condivisione quanto ne dedichiamo ad accumulare denaro oltre il necessario, il volto del mondo cambierà. In fondo, la morale della parabola può essere riassunta così: scegliete Dio, con decisione, e mettete al servizio del Regno la stessa intelligenza che mettereste nel fare soldi. I figli della luce sanno che il denaro è solo una piccola cosa; il Regno è la grande cosa e per questo non servono il denaro come una divinità, ma se ne servono per il bene di tutti.

+ Giovanni D’Ercole

Giovedì, 11 Settembre 2025 14:37

Amministratori disonesti, o Casa comune

Martedì, 09 Settembre 2025 13:52

Esaltazione della Santa Croce

Esaltazione della Santa Croce [Domenica 14 settembre 2025]

Iddio ci benedica e la Vergine ci protegga!  Contemplando il Mistero della Croce scopriamo la dolcezza di un amore che nasce laddove sembra spegnersi la vita. Mentre muore crocifisso, Gesù rivela per sempre la vittoria definitiva dell’Amore e della Misericordia.

 

*Prima Lettura dal libro dei Numeri (21, 4 – 9)

Il Libro dell’Esodo e quello dei Numeri raccontano episodi simili: quando il popolo, liberato  dalla schiavitù dell’Egitto cammina verso la Terra Promessa,  deve affrontare la quotidianità nel deserto, un luogo totalmente inospitale. Schiavi in Egitto erano sedentari, non certo abituati a lunghe marce a piedi, ma avevano un padrone che li nutriva per cui non morivano di fame come nel deserto deve invece presero a rimpiangere le famose cipolle d’Egitto.  Vennero tentati da crisi di scoraggiamento per la fame, la sete e la paura per tutti gli inconvenienti del deserto, e sfiduciati si misero a mormorare contro Dio e contro Mosè perché li avevano condotti a morire nel deserto. Il Signore mandò allora contro il popolo serpenti velenosi e molti Israeliti morirono. A questo punto il popolo si pente, riconosce di aver peccato e prega il Signore di allontanare i serpenti. Dio ordina a Mosè  di fabbricare un serpente (la tradizione dice di bronzo) perché, fissatolo sopra  un’asta, potesse guarire chiunque lo guardava. Interessante considerare come Mosè reagisce: non discute se i serpenti vengano o no da Dio, ma il suo scopo è di condurre questo popolo diffidente a un atteggiamento di fiducia, qualunque siano le difficoltà perché non tanto i serpenti, bensì la mancanza di fiducia in Dio stava rallentando il loro cammino verso la libertà. Per educarli alla fede, utilizza una pratica già conosciuta: l’adorazione di un dio guaritore raffigurato da un serpente di bronzo su un’asta (probabile antenato del caduceo, simbolo oggi della medicina). Bastava guardare il feticcio per essere guariti. Mosè non distrugge la tradizione, ma la trasforma: Fate come sempre, ma sappiate che non è il serpente a guarirvi bensì il Signore e non confondetevi perché un solo Dio vi ha liberati dall’Egitto e guardando il serpente, in realtà adorate il Dio dell’Alleanza. Secoli dopo, il Libro della Sapienza commenterà così: “Chi si volgeva a guardarlo veniva salvato, non per l’oggetto guardato, ma da te, Salvatore di tutti» (Sp 16,7). La lotta contro idolatria, magia e divinazione percorre tutta la storia biblica e forse continua ancora. Quel serpente di bronzo, segno per condurre alla fede, tornò ad essere considerato oggetto magico e per questo il re Ezechia lo distrusse definitivamente come leggiamo nel libro dei Re (2 Re 18,4).

 

*Salmo responsoriale (77/78, 3-4, 34 – 39)

Nel salmo responsoriale, tratto dal salmo 77/78, abbiamo un riassunto della storia d’Israele che si snoda nella relazione fra Dio sempre fedele e quel popolo incostante perché smemorato, ma pur sempre consapevole dell’importanza del ricordo per cui ripete: “Abbiamo udito ciò che i nostri padri ci hanno raccontato, lo ripeteremo alla generazione che verrà”. La fede si trasmette quando, chi ha vissuto un’esperienza di salvezza, può dire “Dio mi ha salvato” e a sua volta condivide con altri la sua esperienza. Sarà poi la sua comunità a far memoria e a conservare tale testimonianza perché la fede è un’esperienza di salvezza condivisa nel tempo. Il popolo ebraico sa da sempre che la fede non è un bagaglio intellettuale, ma l’esperienza comune del  dono e del perdono sempre rinnovato di Dio. Questo salmo esprime tutto ciò: ricorda in settantadue versetti l’esperienza di salvezza, che ha fondato la fede d’Israele, cioè  la liberazione dall’Egitto e per questo  il salmo presenta tante allusioni all’Esodo e al Sinai. Ascoltare nel senso biblico significa aderire con tutto il cuore alla Parola di Dio e, se una generazione trascura di proseguire a testimoniare la propria fedeltà a Dio, si spezza la catena della trasmissione della fede. Spesso nel corso dei secoli i padri hanno confessato ai propri figli di aver mormorato contro Dio nonostante le sue azioni di salvezza. Di questo parla il salmo e accusa il popolo di infedeltà, di incostanza: ”Lo lusingavano con la loro bocca ma gli mormoravano con la lingua: il loro cuore non era costante verso di lui e non erano fedeli alla sua alleanza”(vv36-37). Ecco l’idolatria, verso bersaglio di tutti i profeti perché è causa della disgrazia dell’umanità. Ogni idolo ci fa retrocedere sul cammino della libertà e la definizione di un idolo e proprio ciò che ci impedisce di essere liberi. Marx diceva che la  religione è l’oppio del popolo, rivelando in modo crudo quale potere, quale manipolazione una religione, qualunque essa sia, può esercitare sull’umanità. La superstizione, il feticismo, la stregoneria ci impediscono di essere liberi e di imparare ad assumere liberamente le nostre responsabilità, perché ci fanno vivere in un regime di paura. Ogni culto idolatrico. ci allontana dal Dio vivo e vero: solo la verità può fare di noi uomini liberi. Anche il culto eccessivo di una persona o di un’ideologia fa di noi degli schiavi: basta pensare a tutti gli integralismi e i fanatismi che ci deturpano e il denaro pure può benissimo diventare un idolo. In altri versetti che non fanno parte della liturgia di questa domenica, il salmo offre un’immagine molto eloquente, quella di un arco deformato: il cuore d’Israele dovrebbe essere come un arco teso verso il suo Dio, ma è storto. E proprio all’interno dell’ingratitudine che Israele ha fatto l’esperienza più bella: quella del perdono di Dio come dice il salmo chiaramente: “Il loro cuore non era costante verso di lui; non erano fedeli alla sua alleanza. Ma lui, misericordioso, perdonava  la colpa invece di distruggere”(v.38). Questa descrizione della  tenera pietà di Dio dimostra che il salmo è stato scritto in un’epoca in cui la Rivelazione del Dio d’amore aveva già profondamente penetrato la fede di Israele. 

NOTA La grande assemblea di Sichem organizzata da Giosuè aveva proprio questo scopo: ravvivare la memoria di questo popolo oggetto di tanta sollecitudine, ma così spesso incline a dimenticare (Gs 24: vedi la XX domenica del tempo ordinario B): dopo aver ricordato alle tribù radunate tutta l’opera di Dio a partire da Abramo, disse loro: «Scegliete oggi chi volete servire: o il Signore, o un idolo». E le tribù quel giorno fecero la scelta giusta, anche se poi l’avrebbero presto dimenticata. La trasmissione della fede è allora come una corsa a staffetta: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto”, dice Paolo ai Corinzi (1 Cor 11,23) e la liturgia è il luogo privilegiato di questa testimonianza e di questo ravvivare la memoria  nel senso di gratitudine che nasce dall’esperienza.

 

*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Filippesi (2, 6 – 1)

Questo passo paolino si legge ogni anno per la festa delle Palme e ora per la festa della Croce Gloriosa: il che significa che le due celebrazioni hanno un punto in comune, che è il legame stretto tra la sofferenza di Cristo e la sua gloria, tra l’abbassamento della croce e l’esaltazione della risurrezione. Paolo lo dice chiaramente: “Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce… Per questo Dio lo esaltò al di sopra di ogni nome”(vv8-9). L’espressione “per questo” indica un legame e un contrasto forte tra abbassamento ed esaltazione, ma non bisogna leggere queste frasi in termini di ricompensa, come se, essendosi Gesù comportato in modo ammirevole, ha ricevuto una ricompensa ammirevole. Questa potrebbe essere la “tendenza” o meglio “tentazione” ma Dio è amore e non conosce calcoli, scambi, il do ut des perché l’amore è gratuito. La meraviglia dell’amore di Dio è che non aspetta i nostri meriti per colmarci e nella Bibbia questo gli uomini l’hanno scoperto poco a poco perché la grazia, come il suo nome indica, è gratuita. Quindi, se, come dice Paolo, Gesù ha sofferto e poi è stato glorificato, non è perché con la sua sofferenza avesse accumulato abbastanza meriti da guadagnarsi il diritto ad essere ricompensato. E allora, per essere fedeli al testo, bisogna leggerlo in termini di gratuità. Per Paolo è evidente che il dono di Dio è gratuito e questo si percepisce in tutte le sue lettere, avendolo lui stesso sperimentato. Quando poi leggiamo: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” (v.6) è chiaro che Paolo allude ad Adamo ed Eva e qui probabilmente Paolo ci offre un commento al racconto del Paradiso terrestre: il tentatore aveva detto: “Sarete come Dio” e per diventarlo bastava disobbedire a Dio. Eva stese la mano verso il frutto proibito e lo ha preso (il greco labousa nella lettura teologica è “rivendicò l’essere come Dio” come se fosse un suo diritto). Paolo contrappone l’atteggiamento di Adamo/Eva (afferrare/vendicare) a quello di Cristo (accogliere gratuitamente, obbedire). Gesù Cristo è stato soltanto accoglienza (ciò che Paolo chiama «obbedienza»), e proprio perché è stato pura accoglienza del dono di Dio e non rivendicazione, ha potuto lasciarsi colmare dal Padre, completamente disponibile al suo dono. La scelta di Gesù è la “kénosis”, lo svuotamento totale di sé scandito con cinque verbi di umiliazione: svuotarsi, assumere una condizione di servo, diventare simile agli uomini, umiliarsi, farsi obbediente. La croce è il baratro dell’annientamento (vv.6-8), ma anche l’apice della seconda frase dell’inno (vv9-11). “Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome” (v9). Gesù riceve il Nome che è al di sopra di ogni nome: il nome “Signore” è il nome di Dio! Dire che Gesù è Signore significa dire che è Dio: nell’Antico Testamento il titolo di Signore era riservato a Dio come pure la genuflessione. Quando Paolo dice: “Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi”… allude a una frase del profeta Isaia: “Davanti a me si piegherà ogni ginocchio e ogni lingua presterà giuramento” (Is 45,23). L’inno si conclude con “ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre” (v.11): vedendo Cristo portare l’amore al suo culmine, accettando di morire per rivelare fino a dove arriva l’amore di Dio, possiamo dire come il centurione: «Davvero costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (3, 13 – 17)

La prima sorpresa di questo testo è che Gesù parla della croce con un linguaggio positivo, potremmo dire «glorioso»: da una parte, usa il termine “innalzato” – “bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo” (v.14) – e poi questa croce che ai nostri occhi è strumento di supplizio e di dolore, viene presentata come prova dell’amore di Dio: “Dio ha tanto amato il mondo” (v17). Come può lo strumento di tortura di un innocente essere glorioso? E qui sta la seconda sorpresa: il richiamo al serpente di bronzo. Gesù utilizza questa immagine perché era allora ben conosciuta. Nella prima Lettura si parla ampiamente di questo evento nel deserto del Sinai durante l’Esodo, al seguito di Mosè. Gli Ebrei assaliti da serpenti velenosi e, non avendo la coscienza tranquilla perché avevano mormorato, sono convinti che ciò sia una punizione del Dio di Mosè. Supplicano Mosè di intercedere e Mosè riceve il comando di fissare un serpente ardente (cioè velenoso) sopra un’asta: chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita (Nm 21, 7-9). Se a prima vista, sembra pura magia, in realtà, è esattamente il contrario. Mosè trasforma quello che fino ad allora era un atto magico in un atto di fede. Gesù riprende questo episodio parlando di sé: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”(vv14-15). Se nel deserto, bastava guardare con fede verso il Dio dell’Alleanza per essere guariti fisicamente, ora occorre guardare con fede Cristo in croce per ottenere la guarigione interiore. Come spesso avviene nel vangelo di Giovanni, ritorna il tema della fede: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”(v.17).  Quando Gesù mette in parallelo il serpente di bronzo innalzato nel deserto e la sua elevazione sulla croce, manifesta anche il salto straordinario che esiste tra Antico e Nuovo Testamento. Gesù porta tutto a compimento, ma in lui tutto assume una dimensione nuova. Nel deserto era interessato solo il popolo dell’Alleanza; ora, in lui, è l’umanità intera a essere invitata a credere per avere la vita: ben due volte Gesù ripete che “chiunque crede in lui avrà la vita eterna”. Inoltre, non si tratta più solo di guarigione esteriore, ma della trasformazione profonda dell’uomo. Al momento della crocifissione, Giovanni scrive: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), citando il profeta Zaccaria che aveva scritto: “In quel giorno effonderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di supplica; essi guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Questo “spirito di grazia e supplica” è l’opposto delle mormorazioni del deserto: l’uomo ora finalmente è convinto dell’amore di Dio per lui.  Ci sono dunque due modi di guardare la croce di Cristo: come segno dell’odio e della crudeltà degli uomini, ma soprattutto come l’emblema della mitezza e del perdono di Cristo che accetta la croce per mostrarci fino a che punto arriva l’amore di Dio per l’umanità. La croce è il luogo stesso della rivelazione dell’amore di Dio: “Chi ha visto me ha visto il Padre”(Gv14,9) aveva detto Gesù a Filippo. Cristo crocifisso mostra la tenerezza di Dio, malgrado l’odio degli uomini. Ecco perché possiamo dire che la croce è gloriosa: perché è il luogo in cui si manifesta l’amore perfetto, cioè Dio stesso, un Dio abbastanza grande da farsi piccolo per  condividere la vita degli uomini malgrado incomprensioni e odio: non fugge davanti ai suoi carnefici e perdona dall’alto della Croce. Chi accetta di cadere in ginocchio davanti a tale grandezza viene trasformato per sempre: “A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome” (Gv 1,12).

+ Giovanni D’Ercole

Mercoledì, 03 Settembre 2025 09:59

23a Domenica T.O. (C)

XXIII Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [7 settembre 2025]

 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! In questa domenica Gesù nel vangelo sviluppa il “principio di precauzione” che è sancito anche dall’art.191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Questo prova che la Parola di Dio è sapienza divina che, come cogliamo nella prima lettura e nel salmo responsoriale, illumina ogni umana scelta e decisione.  Saggezza che è sempre segreto di vera felicità.

 

*Prima Lettura dal libro della Sapienza (9, 13-18)

La Sapienza, nel senso biblico, è in qualche modo l’arte di vivere. Israele, come tutti i popoli vicini, sviluppò un’ampia riflessione su questo tema a partire dal regno di Salomone e il suo contributo in questo campo è del tutto originale. Si riassume in due punti: anzitutto per la Bibbia solo Dio conosce i segreti della felicità e se l’uomo pretende di scoprirli da solo percorre false piste, come è chiara la lezione del giardino dell’Eden. In secondo luogo Dio solo rivela al suo popolo e a tutta l’umanità il segreto della felicità: ecco il messaggio di questo testo che è anzitutto una lezione di umiltà. Già Isaia aveva affermato che i pensieri e le vie di Dio sono diversi dai nostri (cf. Is 55,8) e il libro della Sapienza, scritto molto tempo dopo con uno stile ben diverso, ripete: “Quale uomo può scoprire il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il  Signore?” (v.13). Non riusciamo ad avere la minima idea di ciò che Dio pensa e conosciamo solo quanto Egli ha comunicato attraverso i suoi profeti. Giobbe aveva chiesto dove cercare la sapienza perché non esiste sulla terra dei viventi e Dio solo sa dove si trova (cf. Gb 28,12-13.23); poco dopo Dio ricorda a Giobbe i suoi limiti (cc. 38–41) e, alla fine della dimostrazione, Giobbe si inchina e ammette di aver parlato senza capire  le meraviglie che “sono al di sopra di me e che non conoscevo” (Gb 42,3). Nel libro della Sapienza la discussione sulle conoscenze umane si sviluppa tra i più intellettuali che esistevano ad Alessandria, quando erano assai sviluppate le discipline scientifiche e filosofiche ed era celebre la Biblioteca di Alessandria. A tali sapienti l’autore ricorda i limiti del sapere umano: “I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni” (v.14). E ancora: “A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? (v.16). L’autore non vuol dire che se riusciamo a scoprire la terra, potremo capire le cose celesti, ma afferma che non esiste soltanto una questione di livello di conoscenze, come se l’uomo potesse scoprire i misteri di Dio con il ragionamento e le ricerche, ma è questione di natura: noi siamo solo uomini, e tra Dio e noi vi è un abisso essendo Dio il Totalmente Altro e i suoi pensieri sono al di là della nostra portata. Sta qui la seconda lezione del testo: se riconosciamo la nostra impotenza Dio stesso ci rivela ciò che da soli non possiamo scoprire facendoci dono del suo Spirito (cf.1,9). Le altre letture di questa domenica indicano i comportamenti nuovi ispirati dallo Spirito che abita in noi. Ancora una osservazione: Al v. 14 “un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni” appare una concezione dell’uomo non abituale nella Bibbia, che solitamente insiste sull’unità dell’essere umano, mentre qui è descritto come un essere composto da uno spirito immateriale e un involucro materiale che lo contiene. Il libro della Sapienza, scritto in ambiente greco, utilizza questo vocabolario per non scandalizzare i suoi lettori greci, ma di certo non vuole descrivere un dualismo dell’essere umano: presenta piuttosto il combattimento interiore che si svolge in ciascuno di noi e che san Paolo descrive così: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19). In definitiva, questo testo porta un contributo originale a una grande duplice scoperta biblica: Dio è insieme il Totalmente Altro e il Totalmente Vicino. Dio è il Totalmente Altro: “Qual uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?”(v. 13). Allo stesso tempo, Egli si fa il Totalmente Vicino  dando all’uomo la sapienza e il suo santo spirito (v.17). E così gli uomini furono istruiti in ciò che è a Dio gradito e furono salvati per mezzo della sapienza (cf.v.18).

 

*Salmo responsoriale (89/90,3-4,5-6,12-13,14.17)

La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, trova un’eco in questo salmo che offre una magnifica definizione della sapienza: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio” (v.12). Questi versetti danno un’idea dell’atmosfera generale e suona del tutto insolita un’espressione: “Ritorna, Signore, fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi” (v.13). E’ come se si dicesse: ‘in questo momento siamo infelici, siamo puniti per le nostre colpe; perdonaci e togli la punizione”, quindi una formula tipica di una liturgia penitenziale nel contesto di una cerimonia penitenziale nel tempio di Gerusalemme. Perché Israele chiede perdono? I primi versetti suggeriscono la risposta: “Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: Ritornate, figli dell’uomo”( v.3).  Il problema è che la nostra condizione di peccatori è legata ad Adamo e l’intero salmo medita sul racconto della colpa di Adamo nel libro della Genesi. All’inizio Dio e l’uomo si trovavano faccia a faccia: Dio, creatore e l’uomo sua creatura uscita dalla polvere. Il secondo versetto (qui assente) del salmo dice appunto: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”. Di fronte a Lui, noi siamo soltanto un pugno di polvere nelle sue mani. Eppure l’uomo ha osato sfidare Dio e non gli resta che meditare sulla sua vera condizione: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti  e il loro agitarsi  è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via” (v.10).  E noi siamo veramente piccoli: “Mille anni ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte” (v.4) come san Pietro commenterà: “Una cosa non sfugga mai a voi, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2 Pt 3,8). Dopo la presa di coscienza viene la supplica: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio. Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi. Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni» (vv. 12-14). Vera sapienza è stare piccoli davanti a Dio e il salmo paragona la vita umana all’erba che “al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca” (v.6). Quante volte davanti a una morte improvvisa capita di dire che siamo proprio nulla! Non si tratta di umiliarsi, ma di essere realisti e restare sereni nelle mani di Dio. “Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni” (v.14): questa è l’esperienza del credente, consapevole della propria piccolezza e fiducioso tra le mani di Dio al quale possiamo chiedere che “si manifesti ai tuoi servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli. Sia su di noi la bontà del Signore nostro Dio” (vv. 16-17a). Ancora più audace l’ultimo versetto del salmo che ripete due volte “Rendi salda per noi l’opera delle nostre mani” (v.17). Forse il salmista si riferiva alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese, in mezzo a ogni genere di opposizione. Più in generale, esprime però l’opera comune di Dio e dell’uomo nel compimento della creazione: l’uomo lavora nella creazione, ma è Do a dare all’opera umana stabilità ed efficacia. 

 

*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo a Filemone ( 9b-10.12-17)

Nelle domeniche passate abbiamo letto brani della lettera di Paolo ai Colossesi; oggi invece Paolo, mentre si trova in prigione, scrive a Filemone, un cristiano di Colossi (in Turchia) ed è una lettera personale, piena di diplomazia, su un argomento molto delicato. Filemone aveva probabilmente diversi schiavi, anche se la storia non lo specifica, e uno si chiama Onesimo. Un bel giorno, Onesimo fuggì, cosa totalmente proibita e severamente punita dal diritto romano perché lo schiavo apparteneva al padrone come un oggetto e non era libero di disporre di sé. Durante la sua fuga Onesimo incontra Paolo, si converte e si mette al servizio dell’apostolo. Situazione complicata: se Paolo tratteneva Onesimo si rendeva complice dell’abbandono di posto e ciò non piaceva a Filemone. Se invece Paolo lo rimandava, lo schiavo avrebbe corso seri rischi dato che Paolo riconosce più avanti nella lettera che Onesimo era debitore verso il suo padrone. Decide comunque di rimandare Onesimo con una richiesta di perdono in cui dispiega tutte le sue risorse persuasive per convincere Filemone: “Io, Paolo, così come sono, vecchio e, ora anche prigioniero a causa di Cristo Gesù ti prego per Onesimo, figlio mio” (vv.9-10). Precisa che lo vorrebbe trattenere ma sa che la decisione finale spetta a Filemone (vv12-14) e allora non intende forzare la mano a Filemone, sa però bene cosa vuole ottenere e lo rivela gradualmente. Chiede anzitutto di perdonare Onesimo per la fuga e, più che il semplice perdono, Paolo suggerisce una vera conversione: Onesimo è battezzato e quindi è ora un fratello per Filemone cristiano, suo ex padrone: “Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre, non più però come schiavo, ma, molto più che schiavo, come fratello carissimo”(vv.15-16). Paolo si spinge oltre: “Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso”(v.17).

 

*Dal Vangelo secondo Luca (14,25-33)

La fine illumina tutto il discorso: sottolineando la totalità (la rinuncia a tuti i suoi averi v.33) Luca ripropone la sua teologia della povertà come radicale sequela di Cristo. Cominciamo dalla frase che riguarda i legami familiari (v.26):  Gesù non dice di considerarli come nulla perché sarebbe contrario a tutto il suo insegnamento sull’amore e al comandamento “Onora tuo padre e tua madre”. Vuol dire, piuttosto, che questi legami sono buoni, però non devono diventare ostacoli che impediscono di seguire Cristo perché il legame che ci unisce a Cristo mediante il Battesimo è più forte di qualsiasi altro legame terreno. La difficoltà di questo Vangelo è altrove: a prima vista non si vede bene il nesso tra le diverse parti. Gesù dice: “Se uno viene a me e non mi ama (nel linguaggio semitico orientale “odiare” vale anche per amare meno)  più di  suo padre, sua madre… non può essere mio discepolo” (v.26), frase che ritroviamo in eco (in inclusione) nell’ultima: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Tra queste due affermazioni ci sono due brevi parabole: quella dell’uomo che vuole costruire una torre e quella del re che parte in guerra. La loro lezione è simile: chi vuole costruire una torre deve prima calcolare la spesa per non imbarcarsi in un’impresa insensata; allo stesso modo, il re che pensa di affrontare una guerra occorre che valuti in anticipo le proprie forze. La saggezza consiste nell’adeguare le proprie ambizioni alle proprie possibilità: verità valida in ogni ambito. Quanti progetti falliscono perché iniziati troppo in fretta senza riflettere, prevedere e calcolare i rischi: questa è la saggezza elementare, il segreto del successo. Governare infatti è prevedere e forse si diventa adulti proprio il giorno in cui si impara finalmente a calcolare le conseguenze delle proprie azioni. Ma questo non sembra in contraddizione con il messaggio delle frasi che aprono e chiudono il discorso di Gesù? Queste sembrano parlare un linguaggio tutt’altro che prudente e misurato: anzitutto per essere discepolo di Cristo bisogna preferirlo a chiunque altro e seguirlo con tutto se stesso, eppure, la saggezza e persino la giustizia chiedono di rispettare i legami naturali con la famiglia e l’ambiente. La seconda esigenza è portare con decisione la propria croce, accettando il rischio della persecuzione e terza condizione: rinunciare a tutti i propri beni. In sintesi, lasciare per Cristo ogni sicurezza affettiva e materiale. Ma tutto questo è prudente? Non sembra lontano dai calcoli aritmetici delle due brevi parabole? Eppure è chiaro che Gesù non si diverte a coltivare il paradosso e non si contraddice. Sta quindi a noi comprendere il suo messaggio e come le due brevi parabole illuminino le scelte che dobbiamo fare per seguirlo. A ben vedere Gesù dice sempre la stessa cosa: Prima di lanciarsi in un’impresa: si tratti di seguirlo, o di costruire una torre, oppure di partire in guerra, invita a fare bene i conti e a non sbagliare. Chi costruisce una torre calcola il costo; chi parte in guerra valuta il numero di uomini e di armi e chi segue Cristo deve fare anch’egli i suoi conti, che però sono di altro genere: deve rinunciare a ciò che può ostacolarlo e così mettere al servizio del Regno tutte le sue ricchezze, anche affettive e materiali. E soprattutto, deve contare sulla potenza dello Spirito che “continua la sua opera nel mondo e porta a compimento ogni santificazione”, come dice la quarta preghiera eucaristica. Anche qui si tratta di un rischio calcolato: per seguire Gesù, egli ci indica i rischi — saper lasciare tutto, accettare l’incomprensione e talvolta la persecuzione, rinunciare alla resa immediata. Per essere cristiani, il vero calcolo, la vera saggezza, è non contare su nessuna delle nostre sicurezze terrene; è come se ci dicesse: Accetta di non avere sicurezze: ti basta la mia grazia!. Già la prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, lo affermava chiaramente: la sapienza di Dio non è quella degli uomini; ciò che agli occhi degli uomini appare follia è la sola vera sapienza davanti a Dio. Con lui, si è sempre nella logica del chicco di grano: accetta di morire sotto terra ma solo così può germogliare e dare frutto. Beati coloro che sanno  liberarsi dalle false precauzioni per prepararsi a passare per la porta stretta di cui parlava il vangelo alla ventunesima domenica (Lc 13,24). 

NOTA Gesù sviluppa qui il “principio di precauzione” che è sancito anche dall’art.191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Nelle due parabole è evidente: bisogna sedersi per calcolare rischi e spese, adottando misure preventive - anche in assenza di prove scientifiche complete. Nel caso del discepolo i dati del calcolo sono completamente diversi: Gesù vuole che valutiamo bene che l’unica nostra ricchezza è in lui e l’unica nostra forza è la sua grazia. E persino la valutazione di rischi e obiettivi ci sfugge: come dice il libro della Sapienza, nella prima lettura: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni».

+ Giovanni D’Ercole

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"Too bad! What a pity!" “Sin! What a shame!” - it is said of a missed opportunity: it is the bending of the unicum that we are inside, which every day surrenders its exceptionality to the normalizing and prim outline of common opinion. Divine Appeal of every moment directed Mary's dreams and her innate knowledge - antechamber of her trust, elsewhere
“Peccato!” - si dice di una occasione persa: è la flessione dell’unicum che siamo dentro, che tutti i giorni cede la sua eccezionalità al contorno normalizzante e affettato dell’opinione comune. L’appello divino d’ogni istante orientava altrove i sogni di Maria e il suo sapere innato - anticamera della fiducia
It is a question of leaving behind the comfortable but misleading ways of the idols of this world: success at all costs; power to the detriment of the weak; the desire for wealth; pleasure at any price. And instead, preparing the way of the Lord: this does not take away our freedom (Pope Francis)
Si tratta di lasciare le strade, comode ma fuorvianti, degli idoli di questo mondo: il successo a tutti i costi, il potere a scapito dei più deboli, la sete di ricchezze, il piacere a qualsiasi prezzo. E di aprire invece la strada al Signore che viene: Egli non toglie la nostra libertà (Papa Francesco)
Inside each woman and man resides a volcano of potential energies which are not to be smothered and aligned. The Lord doesn’t level the character; he doesn’t wear out the creatures. He doesn't make them desolate. The Kingdom is Near: it reinstates the imbalances. It does not mortify them, it convert them and enhances them
Dentro ciascuna donna e uomo risiede un vulcano di energie potenziali che non devono essere soffocate e allineate. Il Signore non livella il carattere; non sfianca le creature. Non le rende desolate. Il Regno è Vicino: reintegra gli squilibri. Non li mortifica, li tramuta e valorizza
The Person of Christ opens up another panorama to the perception of the two short-sighted (because ambitious) disciples. But sometimes it is necessary to take a leap in the dark, to contact one's vocational Seed; heal the gaze of the soul, recognize himself, flourish; make true Communion
La Persona di Cristo spalanca alla percezione dei due discepoli miopi (perché ambiziosi) un altro panorama. Ma talora bisogna fare un salto nel buio, per contattare il proprio Seme vocazionale; guarire lo sguardo dell’anima, riconoscersi, fiorire; fare vera Comunione
«Too pure water has no fish». Accepting ourselves will complete us: it will make us recover the co-present, opposite and shadowed sides. It’s the leap of profound Faith. And seems incredible, but the Rock on which we build the way of being believers is Freedom
«L’acqua troppo pura non ha pesci». Accettarsi ci completerà: farà recuperare i lati compresenti, opposti e in ombra. È il balzo della Fede profonda. Sembra incredibile, ma la Roccia sulla quale edifichiamo il modo di essere credenti è la Libertà
Our shortages make us attentive, and unique. They should not be despised, but assumed and dynamized in communion - with recoveries that renew relationships. Falls are therefore also a precious signal: perhaps we are not using and investing our resources in the best possible way. So the collapses can quickly turn into (different) climbs even for those who have no self-esteem
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Anche le cadute sono dunque un segnale prezioso: forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse

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