Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
1. Nella catechesi precedente abbiamo scorso, seppur velocemente, delle testimonianze dell’Antico Testamento che preparavano ad accogliere la piena rivelazione, annunciata da Gesù Cristo, della verità del mistero della paternità di Dio.
Cristo infatti ha parlato molte volte del Padre suo, presentandone in vari modi la provvidenza e l’amore misericordioso.
Ma il suo insegnamento va oltre. Riascoltiamo le parole particolarmente solenni, riportate dall’evangelista Matteo (e parallelamente da Luca): “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai semplici . . .” e, in seguito: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio, nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 25. 27; cf. Lc 10, 2. 11).
Dunque per Gesù, Dio non è solamente “il Padre d’Israele, il Padre degli uomini”, ma “il Padre mio”! “Mio”: proprio per questo i giudei volevano uccidere Gesù, perché “chiamava Dio suo Padre” (Gv 5, 18). “Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni.
2. Il “Padre mio” è il Padre di Gesù Cristo, colui che è l’origine del suo essere, della sua missione messianica, del suo insegnamento. L’evangelista Giovanni ha riportato con abbondanza l’insegnamento messianico che ci permette di scandagliare in profondità il mistero di Dio Padre e di Gesù Cristo, il Figlio suo unigenito.
Gesù dice: “Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato” (Gv 12, 44). “Io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare” (Gv 12, 49). “In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre, quello che egli fa, anche il Figlio lo fa” (Gv 5, 19). “Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso” (Gv 5, 26). E infine: “. . . il Padre che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre” (Gv 6, 57).
Il Figlio vive per il Padre prima di tutto perché è stato da lui generato. Vi è una strettissima correlazione tra la paternità e la figliolanza proprio in forza della generazione: “Tu sei mio Figlio; oggi ti ho generato” (Eb 1, 5). Quando presso Cesarea di Filippo Simon Pietro confesserà: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, Gesù gli risponderà: “Beato te . . . perché né la carne, né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio . . .” (Mt 16, 16-17), perché solo “il Padre conosce il Figlio” così come solo il “Figlio conosce il Padre” (Mt 11, 27). Solo il Figlio fa conoscere il Padre: il Figlio visibile fa vedere il Padre invisibile. “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14, 9).
3. Dall’attenta lettura dei Vangeli si ricava che Gesù vive ed opera in costante e fondamentale riferimento al Padre. A lui spesso si rivolge con la parola colma d’amore filiale: “Abbà”; anche durante la preghiera del Getsemani questa stessa parola gli torna alle labbra (cf. Mc 14, 36). Quando i discepoli gli domandano di insegnar loro a pregare, insegna il “Padre nostro” (cf. Mt 6, 9-13). Dopo la risurrezione, al momento di lasciare la terra sembra che ancora una volta faccia riferimento a questa preghiera, quando dice: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20, 17).
Così dunque per mezzo del Figlio (cf. Eb 1, 2), Dio si è rivelato nella pienezza del mistero della sua paternità. Solo il Figlio poteva rivelare questa pienezza del mistero, perché solo “il Figlio conosce il Padre” (Mt 11, 27). “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1, 18).
4. Chi è il Padre? Alla luce della testimonianza definitiva che noi abbiamo ricevuto per mezzo del Figlio, Gesù Cristo, abbiamo la piena consapevolezza della fede che la paternità di Dio appartiene prima di tutto al mistero fondamentale della vita intima di Dio, al mistero trinitario. Il Padre è colui che eternamente genera il Verbo, il Figlio a lui consostanziale. In unione col Figlio, il Padre eternamente “spira” lo Spirito Santo, che è l’amore nel quale il Padre e il Figlio reciprocamente rimangono uniti (cf. Gv 14, 10).
Dunque il Padre è nel mistero trinitario l’“inizio-senza-inizio”. “Il Padre da nessuno è fatto, né creato, né generato” (simbolo Quicumque). È da solo il principio della vita, che Dio ha in se stesso. Questa vita - cioè la stessa divinità - il Padre possiede nell’assoluta comunione col Figlio e con lo Spirito Santo, che sono a lui consostanziali.
Paolo, apostolo del mistero di Cristo, cade in adorazione e preghiera “davanti al Padre dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome” (Ef 3, 15), inizio e modello.
Vi è infatti “un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4, 6).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 23 ottobre 1985]
L’odierna pagina evangelica (cfr Lc 10,1-12.17-20) presenta Gesù che invia in missione settantadue discepoli, in aggiunta ai dodici apostoli. Il numero settantadue indica probabilmente tutte le nazioni. Infatti nel libro della Genesi si menzionano settantadue nazioni diverse (cfr 10,1-32). Così questo invio prefigura la missione della Chiesa di annunciare il Vangelo a tutte le genti. A quei discepoli Gesù dice: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe!» (v. 2).
Questa richiesta di Gesù è sempre valida. Sempre dobbiamo pregare il “padrone della messe”, cioè Dio Padre, perché mandi operai a lavorare nel suo campo che è il mondo. E ciascuno di noi lo deve fare con cuore aperto, con un atteggiamento missionario; la nostra preghiera non dev’essere limitata solo ai nostri bisogni, alle nostre necessità: una preghiera è veramente cristiana se ha anche una dimensione universale.
Nell’inviare i settantadue discepoli, Gesù dà loro istruzioni precise, che esprimono le caratteristiche della missione. La prima – abbiamo già visto –: pregate; la seconda: andate; e poi: non portate borsa né sacca…; dite: “Pace a questa casa”…restate in quella casa…Non passate da una casa all’altra; guarite i malati e dite loro: “è vicino a voi il Regno di Dio”; e, se non vi accolgono, uscite sulle piazze e congedatevi (cfr vv. 2-10). Questi imperativi mostrano che la missione si basa sulla preghiera; che è itinerante: non è ferma, è itinerante; che richiede distacco e povertà; che porta pace e guarigione, segni della vicinanza del Regno di Dio; che non è proselitismo ma annuncio e testimonianza; e che richiede anche la franchezza e la libertà evangelica di andarsene evidenziando la responsabilità di aver respinto il messaggio della salvezza, ma senza condanne e maledizioni.
Se vissuta in questi termini, la missione della Chiesa sarà caratterizzata dalla gioia. E come finisce questo passo? «I settantadue tornarono pieni di gioia» (v. 17). Non si tratta di una gioia effimera, che scaturisce dal successo della missione; al contrario, è una gioia radicata nella promessa che – dice Gesù – «i vostri nomi sono scritti nei cieli» (v. 20). Con questa espressione Egli intende la gioia interiore, la gioia indistruttibile che nasce dalla consapevolezza di essere chiamati da Dio a seguire il suo Figlio. Cioè la gioia di essere suoi discepoli. Oggi, per esempio, ognuno di noi, qui in Piazza, può pensare al nome che ha ricevuto nel giorno del Battesimo: quel nome è “scritto nei cieli”, nel cuore di Dio Padre. Ed è la gioia di questo dono che fa di ogni discepolo un missionario, uno che cammina in compagnia del Signore Gesù, che impara da Lui a spendersi senza riserve per gli altri, libero da sé stesso e dai propri averi.
Invochiamo insieme la materna protezione di Maria Santissima, perché sostenga in ogni luogo la missione dei discepoli di Cristo; la missione di annunciare a tutti che Dio ci ama, ci vuole salvare e ci chiama a far parte del suo Regno.
[Papa Francesco, Angelus 7 luglio 2019]
XXV Domenica del tempo ordinario B (22 settembre 2024)
1. Ogni pagina del vangelo, anzi ogni parola di Gesù produce risonanze diverse in chi ascolta perché non è come leggere o ascoltare una notizia chiusa nel tempo, ma ricevere un messaggio personalizzato sempre nuovo: insomma, attraverso il vangelo, Gesù parla nel contesto concreto nel quale ti trovi secondo l’apertura e l’attesa del tuo cuore. Prova pertanto a chiederti cosa ti dice oggi il Vangelo (Mc 9,30-37). Abbiamo già sentito l’apostolo Pietro scandalizzarsi dell’annuncio della morte in croce del suo Maestro e ricevere un duro rimprovero proprio dopo la sua professione di fede. Pietro - ha intimato con autorità Gesù – torna indietro “satana”, riprendi il tuo posto e lascia che io ti schiarisca le idee che non corrispondono ai piani di Dio. Oggi avviene la stessa cosa con tutti i discepoli che sulla strada verso Cafarnao discutono tra loro di chi sarà il più importante quando il Messia instaurerà il suo regno. Certo sono molto lontani dalla realtà se Gesù deve ripetere quanto già in precedenza aveva detto. E in effetti l’evangelista precisa che “insegnava ai suoi discepoli e diceva loro: il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Vale la pena soffermarsi sull’espressione “Il Figlio dell'uomo consegnato nelle mani degli uomini”. Il mistero di un Dio Figlio dell’uomo che si consegna nelle mani dell’uomo è il cuore di tutta la rivelazione. Ma da dove ha origine l’espressione “Figlio dell’uomo”? In verità si tratta di un titolo che presenta diverse sfumature di significato nell'Antico e nel Nuovo Testamento. L’espressione "Figlio dell’uomo" compare nell’Antico Testamento, principalmente nel libro del profeta Ezechiele e nel libro di Daniele. In Ezechiele Dio si rivolge al profeta chiamandolo "figlio dell'uomo" più di 90 volte e il termine sembra indicare semplicemente un essere umano di cui evidenzia la fragilità e la mortalità. Nel libro del profeta Daniele troviamo invece il passo chiave per il significato messianico dell'espressione "Figlio dell'uomo". In una visione il profeta vede “venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio dell'uomo; giunse fino al Vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (7:13-14). Qui, il "Figlio dell'uomo" non è solo un essere umano, ma una figura celeste a cui è conferito il dominio eterno e universale. Ecco il Messia, l’inviato di Dio per instaurare il suo regno, che avanza su nubi di gloria: descrizione che richiama la divinità e il giudizio finale. Nei vangeli Gesù utilizza l'espressione "Figlio dell'uomo" attribuendola a sé stesso più di 80 volte e tale titolo riveste almeno tre principali significati. Chiamandosi “Figlio dell’uomo”, si identifica come vero essere umano ed è per dire che, pur essendo il Messia il Figlio di Dio, è uomo e condivide la nostra la condizione umana. Quando poi fa riferimento alla visione del profeta Daniele vuole indicare il suo ruolo messianico. Ad esempio il "Figlio dell'uomo" che viene "con le nubi del cielo" (Mt 24,30), si identifica con la figura gloriosa e divina di Daniele e questo titolo sottolinea la sua definitiva apparizione quale giudice e sovrano universale. Ma Cristo usa il termine "Figlio dell'uomo" anche per parlare della sua passione e morte, predicendo che sarà consegnato a degli uomini e verrà ucciso, ma il terzo giorno risorgerà. Quindi il collegamento tra il Figlio dell’uomo e la sofferenza (che non era presente in Daniele) è un aspetto unico del modo in cui Gesù interpreta la propria missione. In definitiva, l'espressione "Figlio dell'uomo" Gesù l’attribuisce a sé stesso, combinando l'idea della sua umanità con il suo ruolo di Messia glorioso e la sua missione redentrice attraverso la sofferenza e la passione. Nei momenti della passione colpisce il verbo “consegnare” = tradire: Giuda lo consegna ai capi e ai soldati (Mc 14, 10.44), i capi a Pilato (Mc 15,1) e Pilato ai crocifissori (Mc 15,15), ma il cuore di tutto, che costituisce il paradosso, è che Dio stesso lo consegna e Gesù a sua volta si consegna a noi. In questo consegnarsi/donarsi a tutti, anche a chi lo rifiuta, lo rinnega e lo tradisce, la rivelazione di Dio come amore si mostra totale, incondizionata, definitiva e per sempre.
2. Torniamo al testo evangelico odierno dove i discepoli “non capivano e avevano timore di interrogarlo”. Tre di loro, Pietro Giacomo e Giovanni, lo hanno visto trasfigurato, come narra l’evangelista poco prima proprio all’inizio di questo stesso capitolo e già sognavano di entrare nella gloria con il Messia sfolgorante di luce. Gli altri apostoli, al racconto che i tre fanno della loro esperienza sul Tabor, reagiscono mettendosi a competere su “chi fosse il più grande” per occupare il primo posto nel regno che il Messia sta per instaurare. Gesù li spiazza: “se uno vuole esser il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti” e preso un bambino aggiunge: “chi accoglie uno di questi bambini nel nome mio accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”. Proviamo a immaginare la confusione nella testa dei discepoli che non riescono a conciliare la gloria del trionfo messianico con lo scandalo della croce e per i tre discepoli che hanno assistito alla trasfigurazione di Gesù, questo appare ancor più inaccettabile e inverosimile. In loro permane lo splendore della trasfigurazione, le loro orecchie hanno sentito che Gesù è il Figlio amato, colui che bisogna ascoltare, come fanno ad ammettere quel che ora lui annuncia: tradimento e odio degli uomini, sofferenze e morte in croce, e questo in maniera certa e ineluttabile? Nel pensiero degli apostoli come dei loro contemporanei e probabilmente anche in noi gloria e croce non sono una coppia felice. C’è inoltre un’ulteriore contraddizione: prima dice che sarà ucciso e trattato come un rifiuto dagli uomini, poi che risuscitato trionferà: quindi non soltanto la gloria e la croce sono inseparabili, ma per giungere alla gloria si deve passare attraverso la croce. Uno sconosciuto monaco e teologo del XVII secolo scrive:“Sic decet per crucem ad gloriam, per angusta ad augusta penetrare, et per aspera ad astra” (J.Heidfeld [†1624]).
3. Come se non bastasse, Gesù confonde ancor più gli apostoli perché, prima afferma che “se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”, poi, prendendo in braccio un bambino (solo qui nel vangelo di Marco compie questo gesto), mostra come modello da imitare proprio il bambino, un essere umano vulnerabile e indifeso e bisognoso di cura. In quel momento i discepoli non muoiono dal desiderio di essere ultimi e anche il gesto di Gesù che addita il bambino come modello da considerare li mette in agitazione perché sono nella piena problematica della rivalità del potere, di cui parla san Giacomo nell’odierna seconda lettura (Gc3,16-4,3). Insomma è Il mondo alla rovescia: non ci si può meravigliare se i discepoli fanno fatica a capirlo perché anche per noi questo ci mette in crisi. Gesù però è paziente e in verità non afferma che è un male aspirare a essere i primi, anzi offre persino il mezzo per arrivarci, cioè farsi ultimi. E così in questo testo si passa da una meraviglia all’altra perché l’unico modo per diventare primi è semplice per Gesù ed è alla portata di chiunque: chi vuole essere il primo si metta all’ultimo posto e si metta a servire tutti come si farebbe con un bambino. Non basta: solo così facendo si accoglie Gesù e aggiunge lui: anche “colui che mi ha mandato”. Nostro modello è dunque Gesù che nel cenacolo lava i piedi ai discepoli, come narra il vangelo di Giovanni, e lasciamo risuonare nel nostro cuore le sue parole: “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi” (13, 12-15).
+Giovanni D’Ercole buona domenica a tutti
Mondo astratto e incarnazione
(Mt 11,25-30)
I capi guardavano la religiosità con scopi d’interesse. I professori di teologia erano abituati a valutare ogni virgola partendo dal proprio sapere, ridicolo ma supponente - estraneo alle vicende reali.
Ciò che rimane vincolato a costumanze e soliti protagonisti non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.
Il Maestro si rallegra della sua stessa esperienza, che reca una gioia non epidermica e un insegnamento dallo Spirito - su chi è ben disposto, e capace di comprendere le profondità del Regno, nelle cose comuni.
Insomma, dopo un primo momento di folle entusiaste, il Maestro approfondisce le tematiche e si ritrova tutti contro, tranne Dio e i minimi: i senza peso, ma con tanta voglia di cominciare da zero.
Barlume del Mistero che lievita la storia - senza farne un possesso.
In un primo tempo anche Gesù rimane sbalordito per il rifiuto di chi si riteneva già soddisfatto e non attendeva più nulla che potesse destare le abitudini.
Poi comprende, loda e benedice il disegno del Padre: la persona autentica nasce dai bassifondi, e possiede «lo spirito del vicinato» (FT n.152).
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza.
L’Eterno non è il padrone del creato: è Ristoro che rinfranca, perché fa sentire completi e amabili; ci cerca, si fa attento al linguaggio del cuore.
Egli è Custode del mondo, anche dei non istruiti - degli «infanti» (v.25) spontaneamente vuoti di spirito borioso, ossia di coloro che non restano chiusi nella loro sufficiente appartenenza.
Così il rapporto Padre-Figlio viene comunicato ai poveri di Dio: coloro che sono dotati di un’attitudine da famigliari (v.27).
Insignificanti e invisibili privi di grandi doti, ma che si abbandonano alle proposte della vita provvidente che viene, come bimbi in braccio a dei genitori.
In tal guisa, con Spirito di pietas che favorisce chi si lascia colmare di saggezza innata.
Unica realtà che ci corrisponde e non presenta il “conto”: essa non procede sulle vie del pensiero funzionale, dell’iniziativa calcolante.
Sapienza che trasmette freschezza nella disponibilità a ricevere accogliere ritemprare personalmente la Verità come Dono, e l’entusiasmo spontaneo stesso, in grado di realizzarla.
Una preghiera di benedizione semplice, per i semplici - questa di Gesù (v.25) - che ci fa crescere nella stima, calza perfettamente con la nostra esperienza, e va d’accordo con noi stessi.
I nuovi, le nullità, i senza voce e invisibili non ragionano in termini di dottrina e leggi [vv.29-30: «giogo» insopportabile che schiaccia le persone e vocazioni concrete, particolari] ma di vita e di umanità.
Così arricchiscono l’esperienza fondamentale e spontanea della Fede-Amore, appagante senza manierismi né intime forzature.
Mentre l’esteriorità del mondo piramidale, la diffidenza di chi vuol “contare”, l’ansia della società competitiva, impoveriscono lo sguardo e contaminano l’onda vitale.
Anche noi, non apprezziamo troppo l’energia dei ‘modelli’, né la potenza aggressiva dei “pezzi grossi”.
Invece che solo con il “grande” ed esterno, desideriamo vivere di Comunione - pur con il ‘piccolo’ di sé, o non ci sarà amabilità, né autentica Vita.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa provi quando ti senti dire: «Tu non conti»?
Rimane un disprezzo umiliante o la consideri una grande Luce ricevuta, come ha fatto Gesù?
[s. Francesco d’Assisi, 4 ottobre 2024]
(Mt 11,25-30)
Mondo astratto e incarnazione
(Mt 11,25-27)
«Il mondo dà credito ai “sapienti” e ai “dotti”, mentre Dio predilige i “piccoli”. L’insegnamento generale che ne deriva è che vi sono due dimensioni del reale: una più profonda, vera ed eterna, l’altra segnata dalla finitezza, dalla provvisorietà e dall’apparenza» [Papa Benedetto].
La Ragione larga di Dio non è secondo “fortuna”, o “misura”
A commento del Tao Tê Ching (iv) il maestro Ho-shang Kung scrive:
«I desideri umani sono acuminati e sottili, si sforzano di appropriarsi di merito e gloria. Quando sono smussati, l’uomo li padroneggia, e a imitazione della Via, non si riempie».
I capi guardavano la religiosità con scopi d’interesse. I professori di teologia erano abituati a valutare ogni virgola partendo dal proprio sapere, ridicolo ma supponente - estraneo alle vicende reali.
Gesù si trova contro persino i suoi famigliari. Sotto la cappa e il ricatto delle convenzioni sociali abitudinarie, anch’essi subivano il preconcetto del parere dei “grandi” e della evasiva tradizione orale, che non trasmetteva alimento al tessuto concreto del tempo umano.
Il Signore constata: persino gli Apostoli non sono persone libere; per questo non emancipano nessuno e addirittura impediscono qualsiasi svolta (cf. Lc 9).
Il loro modo di essere è talmente fondato su atteggiamenti standard e comportamenti obbligati da tradursi in armature mentali impermeabili.
La loro prevedibilità è troppo limitante: non dà respiro al cammino di coloro che invece vogliono riattivarsi, scoprire e valorizzare sorprese dietro i lati segreti della realtà e della personalità.
Ciò che rimane vincolato ad antiche costumanze [o astrazioni] e soliti protagonisti [o pseudo maestri sofisticati] non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.
Il Maestro si rallegra della sua stessa esperienza, che reca una gioia non epidermica e un insegnamento dallo Spirito - su chi è ben disposto, e capace di comprendere le profondità del Regno, nelle cose comuni.
[A un certo punto del cammino spirituale, in Cristo ci si accorge di doversi distaccare dall’idolatria delle deferenze: soffocano e deridono la vita.
La Fede procede sul binario della Felicità della donna e dell’uomo concreti, resi viceversa fantoccio da una falsa pietà tutta esibizionista o disincarnata].
Insomma, dopo un primo momento di folle entusiaste, il Maestro approfondisce le tematiche e si ritrova tutti contro, tranne Dio e i minimi: i senza peso, ma con tanta voglia di cominciare da zero.
Barlume del Mistero che lievita la storia - senza farne un possesso.
A conclusione dell’enciclica Fratelli Tutti, Papa Francesco cita la figura e l’esperienza di Charles de Foucauld, il quale - sovvertendo tutto - «solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti» (n.287).
In un primo tempo anche Gesù rimane sbalordito per il rifiuto di chi si riteneva già soddisfatto della struttura religiosa ufficiale e non attendeva più nulla che potesse spodestare la pista battuta, destando abitudini (o fantasie) e tornaconto.
Poi supera la sorpresa iniziale: coglie pienamente, loda e benedice il disegno del Padre, facendolo proprio, stringendolo a sé.
Porta a piena e propria contezza il suo Segreto: che Radice della trasformazione dell’essere nell’Imprevedibile di Dio è il nascondimento, la “tapineria” [(tapeínōsis, “abbassamento”), da ταπεινός (tapeinós, “basso”) [v.29; Lc 1,48].
Qui il Figlio conosce e intende il nucleo delle Attese e delle Promesse dell’Alleanza, e i suoi protagonisti - a contrario: la Persona affidabile nasce appunto dai bassifondi, non dal ceto delle élites.
Insomma, Cristo intuisce l’autenticità a tutto tondo proprio dei malfermi - impulso profondo, motivo, motore, quintessenza e unica energia della storia della salvezza.
Trasparenza dell’Eterno, che viene da un’altra elaborazione.
Genesi stessa che sconvolge il rapporto religioso consolidato, talora divenuto inerte e “rassicurante” - mai profondo né decisivo per le sorti umane.
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza.
L’Eterno non è più il padrone del creato [Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura].
Tutto il contrario. In tal guisa, di riflesso, e anche nel cammino spirituale, il Padre non ci porta all’alienazione, all’isterismo delle forzature che non vogliamo, alle dissociazioni interiori.
È Amico e Ristoro che rinfranca, perché fa sentire completi e amabili; ci cerca per Nome, si fa attento al linguaggio del cuore.
Egli è Custode del mondo, anche dei non istruiti - degli «infanti» (v.25) spontaneamente vuoti di spirito borioso, ossia di coloro che non restano chiusi nella loro sufficiente appartenenza.
Già così come sono, “perfetti” in ordine alla loro missione nel mondo. Non bicchieri vuoti, solo da rieducare in funzione istituzionale.
Non più anime da cesellare secondo modelli.
Semmai, cuori da guidare a consapevolezza totale; anime da completare nel senso della scoperta completa di se stesse, negli opposti dell’essenza caratteriale, e vocazionale.
In tal guisa, il rapporto Padre-Figlio viene comunicato ai poveri di Dio: i dotati di un’attitudine da famigliari (v.27).
Capaci di convivenza, eppure più autonomi degli identificati e ben inseriti… totalmente impegnati a ricalcare, per farsi riconoscere.
I poveri restano genuini: ciò che sono; non esterni.
Insignificanti e invisibili, privi di grandi doti, ma stranamente sempre colmi di un’Altra “potenza”.
È la “virtù” dei malfermi, i quali si abbandonano alle proposte della vita provvidente che Viene, come bimbi in braccio a genitori.
Con Spirito di ‘pietas’ - che favorisce chi si lascia colmare di saggezza innata.
Unica realtà che ci corrisponde e non presenta il “conto”: essa non procede sulle vie del pensiero funzionale, dell’iniziativa calcolante.
Sapienza che trasmette freschezza nella disponibilità a ricevere, accogliere, ritemprare personalmente la Verità come Dono - e l’entusiasmo spontaneo stesso, in grado di realizzarla.
Una preghiera di benedizione semplice, per i semplici - questa di Gesù (v.25) - che ci fa crescere nella stima, calza perfettamente con la nostra esperienza, e va d’accordo con noi stessi; a partire dall’intimo.
Ma che stranamente i dotti sul territorio i quali non vivono «lo spirito del vicinato» (FT n.152) però sul territorio rivendicano posizioni e giocano sempre d’astuzia, non ci hanno mai voluto trasmettere.
I nuovi, le nullità, i senza voce e invisibili non ragionano in termini di dottrina e leggi - vv.29-30: «giogo» insopportabile che schiaccia le persone e vocazioni concrete, particolari - ma di vita e umanità.
Così arricchiscono l’esperienza fondamentale e spontanea della Fede-Amore, appagante senza manierismi né intime forzature che poi ci tirano fuori di noi stessi.
Perché l’esteriorità del mondo piramidale, la diffidenza di chi vuol “contare”, l’ansia della società competitiva ed epidermica, impoveriscono lo sguardo; contaminano l’onda vitale.
Per Dio, meglio “contare” poco.
Egli non ci forza nell’energia dei modelli, né prospetta come ideale la potenza aggressiva dei “pezzi grossi”.
In tal guisa, i suoi intimi, invece che solo con il “grande” ed esterno, vivranno di Comunione pur con il ‘piccolo’ di sé; o non godranno amabilità, né autentica vita.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa provi quando ti senti dire: «Tu non conti»?
Rimane un disprezzo umiliante o la consideri una grande Luce ricevuta, come ha fatto Gesù?
Il Giogo sui Piccoli
Religione trasformata in ossessione (per “trattenuti”)
(Mt 11,28-30)
I rabbini sceglievano i discepoli fra coloro che avevano maggiori capacità intellettive e ascetiche. Gesù invece va a cercare i fuori del giro, gli «infanti» (v.25) che neppure avevano stima di sé.
Anche per la rinascita che oggi si prospetta, Cristo non ha bisogno di finti fenomeni, anzi è Lui che libera da costrizioni esterne; sprigiona la forza interiore (e sana pure il cervello).
Nell’intimità del Mistero della vita divina entra chi sa ricevere tutto e molla la presa - ma rimane se stesso.
Dio non è lontanissimo, bensì vicinissimo; non è grande, ma piccolo: l’itinerario efficace per diventare intimi col Padre non è farsi subalterni con sforzo, ma sapersi famigliari disciolti.
Solo qui possiamo coglierlo nel centro del suo svelamento: potenza sapiente, soccorrevole, unita; per noi, come siamo.
Gli esperti della religione ufficiale - stracolmi di amor proprio e senso d’elezione - predicavano un Dio da convincere con atteggiamenti sicuri e fare artificioso, tagliente, imperioso.
Non lasciavano essere né diventare. L’intransigenza era segno che non conoscevano il Padre.
L’Eterno trasformato in Controllore era divenuto fonte di discriminazione e ossessione per la vita intima delle persone minute, vessate dall’insicurezza del distinguere-evitare-osservare, e dai dubbi di coscienza.
Scomodati dal vivere in prima persona (e come ceto) la conversione che predicavano agli altri, i professori non s’accorgevano di doversi svuotare di assurde presunzioni e diventare - loro - alunni della gente normale.
Insomma, come figli siamo incessantemente invitati a edificare Famiglia poliedrica, dove non si sta sempre in allerta.
Non siamo i sottoposti d’un Signore accigliato e tutto distante - però manipolatore.
Piuttosto, i chiamati a una scelta paradossale, personale e di ceto: senza forzature, riconoscersi e mettersi a fianco degli umiliati e vessati.
Ciò mentre la falsa pietà di provincia continua a far trascinare fardelli - proprio quelli dei contrastati e stancati, dall’esistenza resa più esitante anziché libera; ossessionata e greve, anziché leggera.
Perché? Senza giri di parole, l’Enciclica Fratelli Tutti risponderebbe:
«Il modo migliore per dominare e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori» (n.15).
Come dire: quando le autorità e i primi della classe sono poco credibili, unicamente la seminagione della paura produce significativi condizionamenti nel popolo, e lo mette a guinzaglio.
Nella Chiesa diffusa, solo da pochi decenni abbiamo superato il cliché delle predicazioni moralistiche e terroristiche, (p.es. anche in tempo di Avvento) disgiunte da un meridiano senso di umanizzazione.
Gli esclusi, abbattuti e sfiancati da adempimenti senza senso hanno tuttavia continuato a incontrare il Salvatore francamente, trovando riposo dell’anima, convinzione, pace, equilibrio, speranza.
D’istinto, sono riusciti a ritagliarsi ciò che nessuna religione piramidale aveva mai saputo porgere e dispiegare.
Infatti, i nuovi, le nullità, i senza voce inadeguati e invisibili non sanno calcolare in termini di dottrina e leggi, norma e codice - «giogo» antico (vv.29-30) insopportabile, che schiaccia persone e vocazioni concrete; autonomie o comunionalità particolari.
Insomma, nessun “patriarca” è abilitato da Dio a impacchettare la nostra anima, forzare le direzioni e tenerci d’occhio in modo maniacale, perfezionista e meticoloso.
Esasperando i fallimenti, a tutto campo.
Ciascuno ha un modo di stare al mondo connaturato, tutto suo - perfino se abitudinario. È opportunità d’impulso e ricchezza per tutti.
Noi stessi non vogliamo esacerbare gli eventi regolando ogni dettaglio anche “spirituale” a partire da schemi irritanti di vigilanza che non ci appartengono.
Preferiamo lasciar fluire i modi personali di affrontare la realtà; così rintracciandone le energie essenziali e spontanee.
Ragioniamo secondo codici di vita e umanizzazione: indole, storia irripetibile, influssi culturali, amicizie di carattere largo. Non viviamo per prevenire.
Solo così possiamo arricchire l’esperienza fondamentale: l’Amore - che non viene da giudizi, tagli e separazioni, ma dalla relazione Padre-Figlio. Unica che non stizzisce.
Radice della trasformazione dell’essere nell’Imprevedibile di Dio è appunto il nascondimento, la “tapineria” [(tapeínōsis, “abbassamento”), da ταπεινός (tapeinós, “basso”) [v.29 testo greco; Lc 1,48].
Solo chi ama la forza inizia dal troppo distante da sé.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In comunità ti cogli più o meno libero e sereno?
La tua Chiamata ottiene respiro o senti l’aggravio altrui di dubbi, giudizi, divieti e prescrizioni?
Subisci da qualche guida o da te stesso una sorta di complesso del controllore?
Cari fratelli e sorelle,
le parole del Signore, che abbiamo ascoltato poc’anzi nel brano evangelico, sono un sfida per noi teologi, o forse, per meglio dire, un invito a un esame di coscienza: che cosa è la teologia? che cosa siamo noi teologi? come fare bene teologia? Abbiamo sentito che il Signore loda il Padre perché ha nascosto il grande mistero del Figlio, il mistero trinitario, il mistero cristologico, davanti ai sapienti, ai dotti – essi non l’hanno conosciuto -, ma lo ha rivelato ai piccoli, ai nèpioi, a quelli che non sono dotti, che non hanno una grande cultura. A loro è stato rivelato questo grande mistero.
Con queste parole il Signore descrive semplicemente un fatto della sua vita; un fatto che inizia già ai tempi della sua nascita, quando i Magi dell’Oriente chiedono ai competenti, agli scribi, agli esegeti il luogo della nascita del Salvatore, del Re d’Israele. Gli scribi lo sanno perché sono grandi specialisti; possono dire subito dove nasce il Messia: a Betlemme! Ma non si sentono invitati ad andare: per loro rimane una conoscenza accademica, che non tocca la loro vita; rimangono fuori. Possono dare informazioni, ma l’informazione non diventa formazione della propria vita.
Poi, durante tutta la vita pubblica del Signore troviamo la stessa cosa. È inaccessibile per i dotti comprendere che questo uomo non dotto, galileo, possa essere realmente il Figlio di Dio. Rimane inaccettabile per loro che Dio, il grande, l’unico, il Dio del cielo e della terra, possa essere presente in questo uomo. Sanno tutto, conoscono anche Isaia 53, tutte le grandi profezie, ma il mistero rimane nascosto. Viene invece rivelato ai piccoli, iniziando dalla Madonna fino ai pescatori del lago di Galilea. Essi conoscono, come pure il capitano romano sotto la croce conosce: questi è il Figlio di Dio.
I fatti essenziali della vita di Gesù non appartengono solo al passato, ma sono presenti, in modi diversi, in tutte le generazioni. E così anche nel nostro tempo, negli ultimi duecento anni, osserviamo la stessa cosa. Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi, maestri della fede, che ci hanno insegnato molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura, della storia della salvezza, ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che Gesù era realmente Figlio di Dio, che il Dio trinitario entra nella nostra storia, in un determinato momento storico, in un uomo come noi. L’essenziale è rimasto nascosto! Si potrebbero facilmente citare grandi nomi della storia della teologia di questi duecento anni, dai quali abbiamo imparato molto, ma non è stato aperto agli occhi del loro cuore il mistero.
Invece, ci sono anche nel nostro tempo i piccoli che hanno conosciuto tale mistero. Pensiamo a santa Bernardette Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova lettura della Bibbia “non scientifica”, ma che entra nel cuore della Sacra Scrittura; fino ai santi e beati del nostro tempo: santa Giuseppina Bakhita, la beata Teresa di Calcutta, san Damiano de Veuster. Potremmo elencarne tanti!
Ma da tutto ciò nasce la questione: perché è così? È il cristianesimo la religione degli stolti, delle persone senza cultura, non formate? Si spegne la fede dove si risveglia la ragione? Come si spiega questo? Forse dobbiamo ancora una volta guardare alla storia. Rimane vero quanto Gesù ha detto, quanto si può osservare in tutti i secoli. E tuttavia c’è una “specie” di piccoli che sono anche dotti. Sotto la croce sta la Madonna, l’umile ancella di Dio e la grande donna illuminata da Dio. E sta anche Giovanni, pescatore del lago di Galilea, ma è quel Giovanni che sarà chiamato giustamente dalla Chiesa “il teologo”, perché realmente ha saputo vedere il mistero di Dio e annunciarlo: con l’occhio dell’aquila è entrato nella luce inaccessibile del mistero divino. Così, anche dopo la sua risurrezione, il Signore, sulla strada verso Damasco, tocca il cuore di Saulo, che è uno dei dotti che non vedono. Egli stesso, nella prima Lettera a Timoteo, si definisce “ignorante” in quel tempo, nonostante la sua scienza. Ma il Risorto lo tocca: diventa cieco e, al tempo stesso, diventa realmente vedente, comincia a vedere. Il grande dotto diviene un piccolo, e proprio per questo vede la stoltezza di Dio che è saggezza, sapienza più grande di tutte le saggezze umane.
Potremmo continuare a leggere tutta la storia in questo modo. Solo un’osservazione ancora. Questi dotti sapienti, sofòi e sinetòi, nella prima lettura, appaiono in un altro modo. Qui sofia e sínesis sono doni dello Spirito Santo che riposano sul Messia, su Cristo. Che cosa significa? Emerge che c’è un duplice uso della ragione e un duplice modo di essere sapienti o piccoli. C’è un modo di usare la ragione che è autonomo, che si pone sopra Dio, in tutta la gamma delle scienze, cominciando da quelle naturali, dove un metodo adatto per la ricerca della materia viene universalizzato: in questo metodo Dio non entra, quindi Dio non c’è. E così, infine, anche in teologia: si pesca nelle acque della Sacra Scrittura con una rete che permette di prendere solo pesci di una certa misura e quanto va oltre questa misura non entra nella rete e quindi non può esistere. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù storico: una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è rimasto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto. Il metodo sa “captare” certi pesci, ma esclude il grande mistero, perché l’uomo si fa egli stesso la misura: ha questa superbia, che nello stesso tempo è una grande stoltezza perché assolutizza certi metodi non adatti alle realtà grandi; entra in questo spirito accademico che abbiamo visto negli scribi, i quali rispondono ai Re magi: non mi tocca; rimango chiuso nella mia esistenza, che non viene toccata. È la specializzazione che vede tutti i dettagli, ma non vede più la totalità.
E c’è l’altro modo di usare la ragione, di essere sapienti, quello dell’uomo che riconosce chi è; riconosce la propria misura e la grandezza di Dio, aprendosi nell’umiltà alla novità dell’agire di Dio. Così, proprio accettando la propria piccolezza, facendosi piccolo come realmente è, arriva alla verità. In questo modo, anche la ragione può esprimere tutte le sue possibilità, non viene spenta, ma si allarga, diviene più grande. Si tratta di un’altra sofìa e sìnesis, che non esclude dal mistero, ma è proprio comunione con il Signore nel quale riposano sapienza e saggezza, e la loro verità.
In questo momento vogliamo pregare perché il Signore ci dia la vera umiltà. Ci dia la grazia di essere piccoli per poter essere realmente saggi; ci illumini, ci faccia vedere il suo mistero della gioia dello Spirito Santo, ci aiuti a essere veri teologi, che possono annunciare il suo mistero perché toccati nella profondità del proprio cuore, della propria esistenza. Amen.
[Papa Benedetto, omelia ai membri della Commissione Teologica internazionale, 1 dicembre 2009]
1. “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25).
Veniamo qui, cari fratelli, per ripetere con Cristo Signore queste parole, per “benedire il Padre”.
– veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi;
– le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”;
– le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”;
– queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco.
Mediante Francesco di Pietro di Bernardone, figlio cioè di un ricco commerciante d’Assisi, che abbandonò tutta l’eredità del padre terreno e sposò “Madonna Povertà”, l’eredità del Padre celeste offertagli in Cristo crocifisso e risorto.
Il primo scopo del nostro pellegrinaggio di quest’anno ad Assisi è di rendere gloria a Dio.
In spirito di venerazione, celebriamo pure insieme l’Eucaristia, noi tutti, Pastori della Chiesa che è in Italia con il Vescovo di Roma, successore di Pietro.
2. “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11, 26).
Dopo otto secoli sono rimaste le reliquie e i ricordi. Tutta Assisi è una viva reliquia e una testimonianza dell’uomo. Dell’uomo soltanto? Dell’uomo insolito soltanto?
– Essa è la testimonianza di un particolare compiacimento che il Padre Celeste, per opera del suo Figlio Unigenito, ebbe in questo uomo, in questo “piccolino”, nel “Poverello”, in Francesco che – come pochissimi nel corso della storia della Chiesa e dell’umanità – ha imparato da Cristo ad essere mite e umile di cuore.
Sì, Padre, tale fu il tuo compiacimento. Tanti uomini vengono qui per seguire le orme del tuo compiacimento. Oggi veniamo noi, Vescovi d’Italia.
Siamo venuti per chiudere e, al tempo stesso, coronare in questo anno giubilare di san Francesco d’Assisi l’opera svoltasi durante l’anno intero della visita “ad limina Apostolorum” alla quale la tradizione e la legge della Chiesa hanno invitato il nostro episcopato proprio in questo tempo.
3. Ci troviamo in presenza del Santo, che contemporaneamente è il patrono d’Italia, quindi Colui che tra i numerosi figli e figlie di questa terra, canonizzati e beatificati, unisce in modo particolare l’Italia con la Chiesa. Infatti, compito della Chiesa è di proclamare e realizzare in ogni nazione quella vocazione alla santità che abbiamo dal Padre nello Spirito Santo per opera di Cristo crocifisso e risorto; di questo Cristo, le cui ferite san Francesco d’Assisi portò nel suo corpo: “Difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo” (Gal 6, 17).
Ci troviamo quindi alla sua presenza e meditiamo sulle parole del Vangelo, frase dopo frase:
“Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27).
Ecco, ci troviamo davanti ad un uomo, al quale il Figlio di Dio ha voluto rivelare, in misura particolare e con particolare abbondanza, ciò che gli è stato dato dal Padre per tutti gli uomini, per tutti i tempi. Certo, Francesco fu mandato col Vangelo di Cristo specialmente ai suoi tempi, a trapasso dal XII al XIII secolo, in pieno medioevo italiano, che fu periodo splendido e insieme difficile: ma ogni epoca ne ha conservato in sé qualche cosa. Tuttavia, la missione francescana non si è conclusa allora; essa dura tuttora.
Ed ecco noi, Vescovi e Pastori della Chiesa, ai quali sono affidati il Vangelo e la Chiesa dei nostri tempi – quanto apparentemente splendidi, quanto lontani dal medioevo secondo la misura del progresso terreno! e insieme quanto, quanto difficili! – noi Vescovi e Pastori della Chiesa in questa medesima Italia, preghiamo soprattutto per una cosa. Preghiamo che si compiano su di noi le stesse parole del nostro Maestro, che si sono compiute su san Francesco; che siamo i depositari sicuri della Rivelazione del Figlio! che siamo i fedeli amministratori di ciò che il Padre stesso ha tramandato al Figlio Unigenito, nato dalla Vergine Maria per opera dello Spirito Santo. Che siamo amministratori di questa verità e di quest’amore, di questa parola e di questa salvezza, che l’umanità intera e ogni uomo e ogni nazione hanno in lui e da lui; perché “nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27).
Tale è lo scopo pastorale e apostolico del nostro odierno pellegrinaggio.
4. Ed ecco, Francesco sembra rivolgersi a noi e parlarci con gli accenti di Paolo apostolo: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia col vostro spirito, fratelli” (Gal 6, 18)!
Grazie, santo Poverello, per questi auguri con i quali ci stai ricevendo!
Guardando con gli occhi dello spirito
la tua figura
e meditando sulle parole della lettera ai Galati,
con le quali ci parla l’odierna liturgia,
desideriamo imparare da te
questa “appartenenza a Gesù”,
di cui tutta la tua vita costituisce
un così perfetto esempio e modello.
“Quanto a me...
non ci sia altro vanto che nella croce
del Signore nostro Gesù Cristo,
per mezzo della quale il mondo per me
è stato crocifisso come io per il mondo” (Gal 6, 14).
Sentiamo le parole di Paolo,
che pure sono, Francesco,
le tue parole.
Il tuo spirito si esprime in esse.
Gesù Cristo ti ha consentito,
così come un tempo
aveva consentito a quell’Apostolo,
che divenne “strumento eletto” (At 9, 15),
di “vantarsi”, soltanto ed esclusivamente,
nella Croce della nostra Redenzione.
In questo modo sei arrivato al cuore stesso
della conoscenza della verità su Dio,
sul mondo e sull’uomo;
verità che si può vedere
soltanto con gli occhi dell’amore.
Ora che ci troviamo davanti a te,
come successori degli Apostoli,
mandati agli uomini dei nostri tempi
con lo stesso Vangelo della Croce di Cristo,
chiediamo: insegnaci, così come l’apostolo Paolo
ha insegnato a te,
a non avere “altro vanto che
nella Croce del Signore nostro Gesù Cristo”.
Che ciascuno di noi,
con tutta la perspicacia del dono del timore,
della sapienza e della fortezza,
sappia penetrare nella verità
di queste parole circa la Croce
in cui inizia la “nuova creatura”,
circa la Croce che porta costantemente
all’umanità “la pace e la misericordia”.
Mediante la Croce Dio si è espresso fino alla fine nella storia dell’uomo; Dio che è “ricco di misericordia” (Ef 2, 4). Nella Croce è rivelata la gloria dell’Amore disposto a tutto. Soltanto con la Croce nella mano – come un libro aperto – l’uomo può imparare fino in fondo se stesso e la sua dignità.
Egli deve infine, fissando gli occhi sulla Croce, chiedersi: “chi sono” io, uomo, agli occhi di Dio, se egli paga per me e per il mio amore un tale prezzo!
“La Croce sul Calvario – ho scritto nell’enciclica "Redemptor Hominis" – per mezzo della quale Gesù Cristo – uomo, figlio di Maria Vergine, figlio putativo di Giuseppe di Nazaret – "lascia" questo mondo, è al tempo stesso una nuova manifestazione dell’eterna paternità di Dio, il quale in lui si avvicina di nuovo all’umanità, ad ogni uomo, donandogli il tre volte santo "Spirito di Verità" (cf. Gv 16, 13)... Il suo è amore che non indietreggia davanti a nulla di ciò che in lui stesso esige la giustizia.
E per questo il Figlio
"che non aveva conosciuto peccato,
Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (2 Cor 5, 21; cf. Gal 3, 13).
Se "trattò da peccato"
Colui che era assolutamente
senza alcun peccato,
lo fece per rivelare l’amore
che è sempre più grande
di tutto il creato,
l’amore che è lui stesso,
perché "Dio è amore" (1 Gv 4, 8.16)” (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 9).
Proprio così hai guardato le cose
tu, Francesco.
Ti hanno chiamato “Poverello d’Assisi”,
e tu eri e sei rimasto
uno degli uomini che hanno donato
più generosamente agli altri.
Avevi quindi un’enorme ricchezza,
un grande tesoro.
E il segreto della tua ricchezza
si nascondeva nella Croce di Cristo.
Insegna a noi,
Vescovi e Pastori del XX secolo
che si sta avviando verso la fine,
a vantarci similmente nella Croce,
insegnaci questa ricchezza nella povertà
e questo donare nell’abbondanza.
5. Nella prima lettura del libro del Siracide sono ricordate le parole sul sommo sacerdote Simone, figlio di Onia, che “nella sua vita riparò il tempio e nei suoi giorni fortificò il santuario” (Sir 50, 1).
La liturgia riferisce queste parole a Francesco d’Assisi. Egli rimase nella tradizione, nella letteratura e nell’arte come colui che “riparò il tempio... e fortificò il santuario”. Come colui che “premuroso di impedire la caduta del suo popolo, fortificò la città contro un assedio (Sir 50, 4).
La lettura continua a parlare ancora di Simone, figlio di Onia, e noi riferiamo tali parole a Francesco, figlio di Pietro di Bernardone. A lui applichiamo anche questi paragoni:
“Come un astro mattutino fra le nubi, / come la luna nei giorni in cui è piena, / come il sole sfolgorante sul tempio dell’Altissimo, / come l’arcobaleno splendente fra nubi di gloria” (Sir 50, 6-7).
6. Volentieri prendiamo queste parole in prestito dal libro del Siracide per venerare, dopo ottocento anni, Francesco d’Assisi, patrono d’Italia.
Per questo siamo venuti qui noi tutti, Vescovi e Pastori della Chiesa che è in tutta l’Italia insieme col Vescovo di Roma, successore di Pietro.
Tuttavia lo scopo del nostro pellegrinaggio è particolarmente apostolico e pastorale.
Quando sentiamo le parole di Cristo sul giogo che è dolce e sul carico che è leggero, (cf. Mt 11, 30) pensiamo alla nostra missione di Vescovi e al servizio pastorale.
E ripetiamo con fiducia e con gioia le parole del Salmo responsoriale: “Ho detto a Dio: "Sei tu il mio Signore, /senza di te non ho alcun bene". / Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: / nelle tue mani è la mia vita. / Benedico il Signore che mi ha dato consiglio... / Io pongo sempre innanzi a me il Signore, / sta alla mia destra, non posso vacillare” (Sal 15 [16]).
Con gioia abbiamo accettato l’invito di venire qui ad Assisi, sentito in certo modo nelle parole del nostro Signore e Maestro: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11, 28). Speriamo che esse si attuino su di noi tutti, così come anche quelle ulteriori: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11, 29).
Così vogliamo, Cristo! Così desideriamo! Con un tale pensiero siamo venuti oggi ad Assisi. Ti ringraziamo per il santo “carico” del sacerdozio e dell’episcopato. Ti ringraziamo per san Francesco, che non si è sentito degno di accettare l’ordinazione sacerdotale. Eppure a lui hai affidato, in modo così eccezionale, la tua Chiesa.
7. Ed ecco, guardando verso Francesco che “povero e umile, entra ricco nel cielo, onorato con inni celesti” (Cant. ad Evang.), vorremmo ancora applicare a lui le parole del libro del Siracide, che tanto bene riassumono la sua celebre visione: “Francesco, abbi premura di impedire la caduta del tuo popolo”!
Francesco! come nella tua vita, così anche adesso, ripara il tempio! Fortifica il santuario!
Per questo preghiamo noi, Pastori della Chiesa, che alla scuola del Concilio Vaticano II abbiamo imparato nuovamente a circondare con una comune sollecitudine la Chiesa, l’Italia e il mondo contemporaneo.
E con le nostre amatissime popolazioni ripetiamo:
“Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: / nelle tue mani è la mia vita. / Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;... / Io pongo sempre innanzi a me il Signore”.
Si, fratelli e sorelle, sempre! E così sia.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia Assisi 12 marzo 1982]
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25).
Pace e bene a tutti! Con questo saluto francescano vi ringrazio per essere venuti qui, in questa Piazza, carica di storia e di fede, a pregare insieme.
Oggi anch’io, come tanti pellegrini, sono venuto per rendere lode al Padre di tutto ciò che ha voluto rivelare a uno di questi “piccoli” di cui ci parla il Vangelo: Francesco, figlio di un ricco commerciante di Assisi. L’incontro con Gesù lo portò a spogliarsi di una vita agiata e spensierata, per sposare “Madonna Povertà” e vivere da vero figlio del Padre che è nei cieli. Questa scelta, da parte di san Francesco, rappresentava un modo radicale di imitare Cristo, di rivestirsi di Colui che, da ricco che era, si è fatto povero per arricchire noi per mezzo della sua povertà (cfr 2 Cor 8,9). In tutta la vita di Francesco l’amore per i poveri e l’imitazione di Cristo povero sono due elementi uniti in modo inscindibile, le due facce di una stessa medaglia.
Che cosa testimonia san Francesco a noi, oggi? Che cosa ci dice, non con le parole – questo è facile – ma con la vita?
1. La prima cosa che ci dice, la realtà fondamentale che ci testimonia è questa: essere cristiani è un rapporto vitale con la Persona di Gesù, è rivestirsi di Lui, è assimilazione a Lui.
Da dove parte il cammino di Francesco verso Cristo? Parte dallo sguardo di Gesù sulla croce. Lasciarsi guardare da Lui nel momento in cui dona la vita per noi e ci attira a Lui. Francesco ha fatto questa esperienza in modo particolare nella chiesetta di san Damiano, pregando davanti al crocifisso, che anch’io oggi potrò venerare. In quel crocifisso Gesù non appare morto, ma vivo! Il sangue scende dalle ferite delle mani, dei piedi e del costato, ma quel sangue esprime vita. Gesù non ha gli occhi chiusi, ma aperti, spalancati: uno sguardo che parla al cuore. E il Crocifisso non ci parla di sconfitta, di fallimento; paradossalmente ci parla di una morte che è vita, che genera vita, perché ci parla di amore, perché è l’Amore di Dio incarnato, e l’Amore non muore, anzi, sconfigge il male e la morte. Chi si lascia guardare da Gesù crocifisso viene ri-creato, diventa una «nuova creatura». Da qui parte tutto: è l’esperienza della Grazia che trasforma, l’essere amati senza merito, pur essendo peccatori. Per questo Francesco può dire, come san Paolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6,14).
Ci rivolgiamo a te, Francesco, e ti chiediamo: insegnaci a rimanere davanti al Crocifisso, a lasciarci guardare da Lui, a lasciarci perdonare, ricreare dal suo amore.
2. Nel Vangelo abbiamo ascoltato queste parole: «Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,28-29).
Questa è la seconda cosa che Francesco ci testimonia: chi segue Cristo, riceve la vera pace, quella che solo Lui, e non il mondo, ci può dare. San Francesco viene associato da molti alla pace, ed è giusto, ma pochi vanno in profondità. Qual è la pace che Francesco ha accolto e vissuto e ci trasmette? Quella di Cristo, passata attraverso l’amore più grande, quello della Croce. E’ la pace che Gesù Risorto donò ai discepoli quando apparve in mezzo a loro (cfr Gv 20,19.20).
La pace francescana non è un sentimento sdolcinato. Per favore: questo san Francesco non esiste! E neppure è una specie di armonia panteistica con le energie del cosmo… Anche questo non è francescano! Anche questo non è francescano, ma è un’idea che alcuni hanno costruito! La pace di san Francesco è quella di Cristo, e la trova chi “prende su di sé” il suo “giogo”, cioè il suo comandamento: Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato (cfr Gv 13,34; 15,12). E questo giogo non si può portare con arroganza, con presunzione, con superbia, ma solo si può portare con mitezza e umiltà di cuore.
Ci rivolgiamo a te, Francesco, e ti chiediamo: insegnaci ad essere “strumenti della pace”, della pace che ha la sua sorgente in Dio, la pace che ci ha portato il Signore Gesù.
3. Francesco inizia il Cantico così: “Altissimo, onnipotente, bon Signore… Laudato sie… cun tutte le tue creature” (FF, 1820). L’amore per tutta la creazione, per la sua armonia! Il Santo d’Assisi testimonia il rispetto per tutto ciò che Dio ha creato e come Lui lo ha creato, senza sperimentare sul creato per distruggerlo; aiutarlo a crescere, a essere più bello e più simile a quello che Dio ha creato. E soprattutto san Francesco testimonia il rispetto per tutto, testimonia che l’uomo è chiamato a custodire l’uomo, che l’uomo sia al centro della creazione, al posto dove Dio - il Creatore - lo ha voluto. Non strumento degli idoli che noi creiamo! L’armonia e la pace! Francesco è stato uomo di armonia, uomo di pace. Da questa Città della Pace, ripeto con la forza e la mitezza dell’amore: rispettiamo la creazione, non siamo strumenti di distruzione! Rispettiamo ogni essere umano: cessino i conflitti armati che insanguinano la terra, tacciano le armi e dovunque l’odio ceda il posto all’amore, l’offesa al perdono e la discordia all’unione. Sentiamo il grido di coloro che piangono, soffrono e muoiono a causa della violenza, del terrorismo o della guerra, in Terra Santa, tanto amata da san Francesco, in Siria, nell’intero Medio Oriente, in tutto il mondo.
Ci rivolgiamo a te, Francesco, e ti chiediamo: ottienici da Dio il dono che in questo nostro mondo ci sia armonia, pace e rispetto per il Creato!
Non posso dimenticare, infine, che oggi l’Italia celebra san Francesco quale suo Patrono. […] Preghiamo per la Nazione italiana, perché ciascuno lavori sempre per il bene comune, guardando a ciò che unisce più che a ciò che divide.
Faccio mia la preghiera di san Francesco per Assisi, per l’Italia, per il mondo: «Ti prego dunque, o Signore Gesù Cristo, padre delle misericordie, di non voler guardare alla nostra ingratitudine, ma di ricordarti sempre della sovrabbondante pietà che in [questa città] hai mostrato, affinché sia sempre il luogo e la dimora di quelli che veramente ti conoscono e glorificano il tuo nome benedetto e gloriosissimo nei secoli dei secoli. Amen» (Specchio di perfezione, 124: FF, 1824).
[Papa Francesco, omelia Assisi 4 ottobre 2013]
E smuovere i vicini
(Lc 10,1-12)
Gesù constata che gli Apostoli non sono persone libere (cf. Lc 9). Il loro modo di essere è talmente fondato su atteggiamenti standard e comportamenti obbligati da tradursi in armature mentali impermeabili.
La loro prevedibilità è troppo limitante: non dà respiro al cammino di coloro che invece vogliono riattivarsi, scoprire, valorizzare sorprese dietro i lati segreti della realtà e della personalità.
Ciò che rimane vincolato ad antiche costumanze e soliti protagonisti non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.
Il Signore si vede costretto a chiamare i Samaritani [gli eretici della religione] raccolti altrove, non provenienti da osservanze “corrette”, ma in grado di camminare, comprendere e non fare gli schizzinosi.
I nuovi inviati vanno sulla strada indifesi. Non potendo contare sulle consuete astuzie, vengono sicuramente danneggiati, defraudati e - se toccano tutti i nervi scoperti - sbranati.
Ma il loro essere dimesso e poco saccente fa pensare, suscita nuovi saperi e consapevolezze. Così la loro amicizia spontanea e innocente.
Poi, in situazioni bloccate sarà questo ‘disordine’ di nuovi stupefatti a introdurre rinnovato fascino, evocare potenzialità, allargare occasioni espressive e il campo d’azione di tutti.
Giunti in un territorio, sarà bene non passare di casa in casa: da una sistemazione di fortuna all’appartamento, alla villa e poi al palazzo, perché la ricerca di migliori agi fa sparire la Novità di Dio.
La cura dei malati e delle devianze è punto fermo della Missione, perché proprio dalle insicurezze o eccentricità germoglia un ‘regno’ diverso, quello che si accorge e si fa carico - nell’amore di chi non abbandona.
E non si perda tempo a pettinare l’ambiente seduto: anche un volontario allontanamento educa alla gratuità.
Lo slancio della vita desterà le coscienze e prevarrà sul negativo: nel cammino che ci appartiene le accuse conteranno sempre meno.
A differenza dell’azione infruttuosa degli Apostoli (Lc 9 passim), il ritorno dei nuovi evangelizzatori è pieno di gioia e risultati (vv.17-20).
Sono gli ultimi e diversi a far cadere dal “cielo” - e sostituire - i nemici dell’umanità e della nostra Letizia (vv.5-6).
Nella prospettiva della Pace-Felicità [Shalom] da annunciare, quelli che erano sempre sembrati imperfezioni e difetti diventano energie preparatorie, che ci completano e realizzano anche spiritualmente.
Ora la Salvezza [vita da salvati] che fiorisce è a portata di mano di tutti (v.9), non più un privilegio.
I lati giudicati pazzeschi, estranei o materialmente inconcludenti stanno apprestando i nostri nuovi percorsi.
Nel grande Mistero di percepirsi come un ‘essere nel Dono’ - «due a due» (v.1) per vivere in pienezza - il sé comprende le opposte polarità della sua essenza.
Solo così ‘dilatati’ diventiamo un essere Con e Per l'altro. In cammino sulla Via, nella forma di Croce.
[Giovedì 26.a sett. T.O. 3 ottobre 2024]
E smuovere i vicini
(Lc 10,1-12)
E io e Te
«La Verità non è affatto ciò che ho. Non è affatto ciò che hai. Essa è ciò che ci unisce nella sofferenza, nella gioia. Essa è figlia della nostra Unione, nel dolore e nel piacere partoriti. Né io né Te. E io e Te. La nostra opera comune, stupore permanente. Il suo nome è Saggezza».
(Irénée Guilane Dioh)
Gesù constata che gli Apostoli non sono persone libere, per questo non emancipano nessuno e addirittura impediscono qualsiasi svolta (cf. Lc 9).
Il loro modo di essere è talmente fondato su atteggiamenti standard e comportamenti obbligati da tradursi in armature mentali impermeabili.
La loro prevedibilità è troppo limitante: non dà respiro al cammino di coloro che invece vogliono riattivarsi, scoprire e valorizzare sorprese dietro i lati segreti della realtà e della personalità.
Ciò che rimane vincolato ad antiche costumanze e soliti protagonisti non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.
Il Signore si vede costretto a chiamare i samaritani (gli eretici della religione) raccolti altrove, non provenienti da osservanze “corrette” - ma in grado di camminare, comprendere e non fare gli schizzinosi.
Almeno loro non smentiscono la Parola che proclamano con una vita dietro le quinte: quello che vedi, sono.
È praticamente indotto a sorvolare i Dodici, con «72» insicuri ma trasparenti, nell’incertezza dei (molti) lupi che si sentono destabilizzati.
I nuovi inviati vanno sulla strada indifesi. Non potendo contare sulle consuete astuzie, vengono sicuramente danneggiati, defraudati e - se toccano tutti i nervi scoperti - sbranati.
Ma il loro essere dimesso e poco saccente fa pensare, suscita nuovi saperi e consapevolezze. Così la loro amicizia spontanea e innocente.
Poi, in situazioni bloccate sarà questo “disordine” di nuovi stupefatti a introdurre rinnovato fascino; evocare potenzialità, allargare le possibili inclinazioni espressive, e il campo d’azione di tutti.
Sono i testimoni critici a trasmutare il mondo e guidare le persone alla lode (perché magari si sono semplicemente riappropriati di risorse che neanche sapevano di possedere o avevano perso di vista).
Coloro che non cessano di sorprendere devono stare attenti ai falsi e profittatori che si sentono disturbati dal sorriso dei nuovi ingenui - e molto attenti. Solo qui bisogna fare i difficili: non ci siano altri scrupoli!
Giunti in un territorio, sarà bene non passare di casa in casa: da una sistemazione di fortuna all’appartamento, alla villa, poi al palazzo, perché la ricerca di migliori agi fa sparire la Novità di Dio.
La cura dei malati e delle devianze è punto fermo della Missione, perché è proprio dalle insicurezze o eccentricità che germoglia un regno diverso, quello che si accorge e si fa carico - nell’amore di chi non abbandona.
E non si perda tempo a pettinare l’ambiente seduto sulla falsa ideologia tronetto-altare: anche un volontario allontanamento educa alla gratuità. Anzi fa sbalordire e riflettere proprio i capi religiosi [all’antica e non] e i loro devoti di cerchia, che restano legati a posizioni di visibilità sociale, all’idolo del posto, alla malattia del titolo (senza il quale non si sentono personaggi).
Sono manipolatori, e ci riempiono la testa di venticelli.
Lo spione del sovrano - il «satana» [i suoi accoliti sono molti e insospettabili] nemico del progresso dell’umanità - non avrà più rilievo.
Lo slancio della vita desterà le coscienze e prevarrà sul negativo: nel cammino che ci appartiene le accuse dei sorveglianti interessati conteranno sempre meno.
A differenza dell’azione scrupolosa ma triste e deviante degli Apostoli [Lc 9 passim] il ritorno dei nuovi evangelizzatori aggregati per Chiamata diretta e senza ritualità intermedie è pieno di brio e risultati (vv.17-20).
Sono gli ultimi e diversi - non i più noti e autoreferenziali aggregati - a far cadere dal “cielo” e sostituire i satana-funzionari, nemici dell’umanità e della Gioia inclusiva (vv.5-6).
Nella prospettiva della Pace-Felicità [Shalôm] da annunciare, quelli che erano sempre sembrati imperfezioni e difetti diventano energie preparatorie, che ci compiono e realizzano anche spiritualmente.
Ora la Salvezza che fiorisce [vita da salvati, conclusiva] è per tutti a portata di mano (v.9), non più un privilegio.
I lati giudicati malaticci, squilibrati, sofferenti, invalidi, pazzeschi o materialmente inconcludenti stanno apprestando i nostri nuovi percorsi.
Nella dinamica vocazionale il punto fermo non risiede in una soddisfacente adesione a criteri di ragione, né in qualche geniale elaborazione di novità.
Neppure si colloca nella eroicità o fissità di comportamenti conformi, pur convinti.
La nostra certezza stupisce d’una sorpresa che Viene.
Essa ci desta, ma risiede unicamente in una percezione dell’occhio interiore: nella leggera immagine ricorrente che c’inabita e misteriosamente si affaccia, trascina e guida.
E cura le paure.
Unica sicurezza sarà quella lieve visione che - corrispondendo e ribadendo le sue venute - volge ciascuno al suo desiderio personale inespresso, tessendo un dialogo ineffabile con l’anima e la sua Via.
Il Dono s’impone allo scenario intimo, per volgere ogni Nome a destinazione.
Per attirare e attualizzare Futuro. Beninteso: non il ritorno alla situazione precedente che molti propugnano; oggi, anche in tempo di crisi globale.
Non esiste altro punto fermo che la nostra Chiamata.
Essa giunge per allacciare una relazione sponsale con l’opera imprevedibile e inedita della personale Fede-calamita.
Attrazione che seduce l'anima, la libera dalle insicurezze infondendole passione, e chiede di farsi rispettare.
Solo in senso vocazionale e intimamente forte, l’appello del Sogno che affiora alla percezione del cuore, ci fa tenaci.
E rianima un’esistenza vagante tra le bufere - come quella d’un pianeta alla deriva - intrecciando la vita al Cristo.
È la nostra Pace nel caos, che pure invita all’introspezione.
“Magnete-contro” nell’artificio esterno del farsi condurre da obbiettivi altrui.
Non basta neppure trovare un antidoto moderno alla frenesia che ci punge, ancora peggiorando il nostro vagabondare.
Né imponendosi uno stile conflittuale con l’indipendenza dello spirito personale.
Non è sufficiente una parentesi per annientare la tensione della vita contemporanea.
Tutto sommato non ci manca un’oasi per riflettere sul mondo, comprendere se stessi, e gli amici o i lontani.
«Non ho pace» - ci sentiamo ripetere da persone che si sentono alla deriva. E questo sentimento è contagioso; oggi dilagante.
Come proclamare armonia e conciliazione nelle case (v.5), in un mondo assediato da provocazioni, da malanni e competizioni globali, che se considerate in modo responsabile fanno subito tremare i polsi?
In un discorso di auguri d’inizio anno al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Giovanni Paolo II sintetizzò quattro emergenze epocali per il nuovo millennio:
«Vita, pane, pace e libertà: ecco le grandi sfide dell’umanità di oggi».
Un fuori scala per la nostra natura.
Come può l’uomo di Fede annunciare equilibrio e prosperità, se la debolezza non è protetta, se il criterio di natura sembra oggi volatile, se il nutrimento non è abbondante e vario per tutti, se la fraternità non si scorge neppure in ambienti protetti [al massimo viene scambiata per generica simpatia a scopo pubblicitario, in una chiesa degli eventi - come dice Papa Francesco], o se il belligerare può avere motivazioni teologiche (pur di non accettare le esigenze vitali altrui)… se non si riconosce a ciascuno di potersi realizzare «in maniera rispondente alla sua natura»?
Quest’ultimo a mio parere il punto cardine: prerogativa della Vocazione e dell’immaginario interiore che suscita; della nostra risposta di fiducia sponsale personale e creativa.
Diceva Giovanni Paolo: la libertà è luce «perché permette di scegliere responsabilmente le proprie mete e la via per raggiungerle».
Non un lume che abbaglia, bensì che si posa, e tesse trame.
Una luce redenta, che diviene rapporto, possibilità di condivisione; Presenza che trasmette senso.
Il libero arbitrio impallidisce, a braccetto col nostro volontarismo, e non ci basta neppure la capacità di autodeterminarci per il bene. Lo sappiamo da sempre.
Nella sua seconda Satira, Giovenale scrive:
«Le pratiche t’han dato questa tigna/
E a molti la daran, come di pecore/
O di porci in un branco un sol comunica/
A tutti gli altri la scabbia e la forfora/
E basta un chicco per guastare un grappolo/
Da questa moda a più brutte faccende/
Adagio adagio passerai: la scala/
Dei vizi non discendesi d’un salto/
In breve ti faranno uno dei loro/
Quelli che in casa cingonsi la fronte».
Bisogna vivere di Comunione, anche con se stessi, o non c’è autentica vita.
Nel grande Mistero di percepirsi come un “essere nel Dono” - «due a due» (v.1) - per godere pienezza, il sé comprende le opposte polarità della sua essenza.
Solo così dilatati diventiamo un essere “con” e “per” l'altro.
Non di rado la proposta sacrale ci isola o colloca in compartimenti stagni unilaterali, che troncano i sogni [non le fantasie disincarnate, che ne sono corollario].
I bei costumi antichi, o gli schemi di sociologia astratta, e stilemi o costumi locali, determinano i binari della nostra corsa: i soliti totem di costume. O le mode altrui; i manierismi esterni.
Gesù (appunto) nota l’insuccesso dei suoi, che non riescono a liberare le persone - e addirittura pretendono d’impedirlo [Lc 9].
Così chiama anche i samaritani (v.1), ossia i male indottrinati, meticci e bastardi.
Insomma, allarga l’orizzonte delle tribù designate, facendo appello a nazioni pagane, per un compito universale.
Il Signore sa che la Fede “laicale” non è di cerchia.
Essa non si adegua volentieri a modelli senza forza intima; quindi non blocca l’evoluzione, perché fa vivere di Relazione e carattere.
Ciò, in mezzo a tutte le sfaccettature dell’essere e della storia: appunto con e per gli altri, ma non all’esterno - bensì saldi in se stessi.
In tal guisa, nell’amicizia di sé e del prossimo, diventiamo per Grazia e genuinamente assai più affidabili di coloro che sono animati da articolate convinzioni o forti volontarismi di club.
Queste i ultimi spesso illusioni pericolosissime, se non riconoscono come valore assoluto il bene concreto dell’uomo reale, il diritto alla sua Felicità.
Totalità o integrazione derivante dal benessere d’un completamento nell’essere, non più ridotto.
Presenza Messianica [Annuncio dello Shalôm] che non svaluta; non permane unilaterale.
Lo spione che cade, e i piccoli cervelli
Lo spione del “sovrano” - il «satana» [i suoi accoliti sono molti e insospettabili], nemico del progresso dell’umanità - non avrà più rilievo.
Detronizzato dalla condizione di potere sugli uomini, esso precipita nel baratro (v.18).
Significa che grazie alla missione in Cristo, lo slancio della vita prevarrà sul negativo.
Nel cammino che ci appartiene, le accuse dei sorveglianti interessati conteranno zero.
I vecchi Re e Profeti avevano solo sospirato la pienezza del Messia. Si sentivano dei grandi, ma non avevano incontrato l’Eterno in sovrabbondanza di Persona.
Erano ancora schiavi di elementi cosmici, talora sottomessi al potere irrazionale del male; spesso vinti dal pensiero comune, dalla miseria propria e altrui, dalle attrattive della realtà mondana circostante.
I «piccoli» invece anche oggi restano aperti al Mistero e ricevono un essere rinnovato.
I sapientoni suppongono che l’unica vita si trovi dalla loro parte; si pensano potenti e convincenti. Non hanno bisogno di luce, né di un Amico.
Su questo piano viene formulata una delle rivelazioni definitive sull’Uomo autentico che manifesta la condizione divina.
Il Figlio benedice il Padre per il dono concesso agli insignificanti della società, e scopre il punto nodale del Mistero della nostra comunicazione con l’Altissimo: lo spirito di sapersi in Famiglia, a pieno titolo.
La santità religiosa antica poggiava sulla separazione [Qadosh-Santo: è attributo del Dio che dimora in luoghi distinti, remoti, inaccessibili] non sull’essenza.
Il nuovo nome della santità (domestica) riflessa nella Persona del Cristo e in quella dei suoi fratelli non è più sinonimo di “tagliato dagli altri e messo a parte”, bensì «Unito».
Malgrado le stampelle che porta, resta in sé “dignitoso” e addirittura “chiamato”; quindi abilitato a essere promosso, senza ulteriori condizioni di purità ideologica o cultuale.
Padre e Figlio costituiscono un Mistero di reciprocità e dedizione nel quale penetrano solo coloro che vogliono ricevere e accogliersi nella scaturigine - in Dio, per lasciarsi avvolgere da una Amicizia che raggranella tutto l’essere.
Dialogo ch’espande le pur minime qualità, sublima in Perle i lati ignoti e oscuri della personalità; per dilatare l’onda dell’esistere, senza inseguire le voci del mondo esterno [solo apparentemente vitale].
Così l’Invio e Missione hanno come nucleo il dispiegamento della qualità intensa, della stessa realtà intima e indistruttibile divina: l’Amore.
Unico Fuoco che annienta le potenze logoranti, nelle persone, nelle nazioni, nella storia.
Appunto, a differenza dell’opera scrupolosa ma triste e deviante degli Apostoli [Lc 9 passim], il ritorno dei nuovi evangelizzatori aggregati per Chiamata diretta e senza ritualità intermedie è pieno di gioia e risultati (vv.17-20).
Ricordiamo Tagore: «Se i cristiani fossero come il loro Maestro, avrebbero tutta l’India ai loro piedi».
Sono gli ultimi e diversi - i nuovi protagonisti dell’Annuncio.
Non i più noti e autoreferenziali cooptati riescono a far cadere dal cielo e sostituire i satana-funzionari, nemici dell’umanità e della nostra Gioia democratica (vv.5-6).
Nella prospettiva della Pace-Felicità [Shalôm] da annunciare, quelli che erano sempre sembrati imperfezioni e difetti diventano energie preparatorie, che ci completano, includono e realizzano anche spiritualmente.
Ora la Salvezza [vita da salvati] che fiorisce è a portata di mano di tutti coloro che hanno spirito attento e virtù da famigliari. Non più privilegio di cerchie che si sentono sicure [ma perdono l’unicità].
Ancora Tagore: «Benignamente, volutamente fattoti piccolo, vieni in questa piccola dimora [...] Come amico, come padre, come madre fattoti piccolo, vieni nel mio cuore. Io pure con le mie mani mi farò piccolo davanti al padrone dell’universo; con la mia piccola intelligenza ti conoscerò e ti farò conoscere».
Il Mistero resiste ai «dotti» che fanno professione di alta saggezza (v.21).
Viceversa il Regno si apre ai non imprigionati da idee conformi e interposte - schiavi di pensieri e convenzioni.
Ecco l’Inno di Giubilo (vv.21-24) che introduce il Comandamento dell’Amore (vv.25ss).
Ricordo il mio professore agostiniano di Patristica: insisteva nel ripeterci che uno dei nomignoli conquistati dai primi cristiani era quello di «piccoli cervelli».
Erano persone semplici ma ricolme di attitudini alla pienezza, e di sapienti nuove consapevolezze, che sbalordivano i professori e i filosofi del mondo antico.
Anche noi ci chiediamo: cosa fa tornare vicini a ciò che siamo chiamati a fare?
Ebbene, forse ne abbiamo già contezza: la sufficienza di coloro che fanno professione di dottrina cerebrale - in realtà - conduce solo a precipitare dal cielo.
Annienta l’umile percezione di sé, fa impallidire la capacità di accorgersi; chiude al perdono, all’accoglienza benevolente, all’ascolto dell’anima e degli altri, alla disponibilità. Perfino all’acume dei saperi innati, quelli che ci appartengono e risolverebbero i veri problemi.
Proprio i lati giudicati pazzeschi o materialmente inconcludenti - anche nella trama di piccole cose - farebbero affrontare gli eventi esterni che attanagliano… come occasioni di crescita.
Stanno infatti preparando i nostri nuovi percorsi, e un germe di società alternativa.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa è successo in te quando hai accettato la modesta (e piena) condizione di figlio?
Quali nuove consapevolezze di te stesso e del mondo hai acquisito?
Hai scoperto anche slanci di gratuità, oltre che di gratitudine?
Scienziati e Piccoli
(Lc 10,21-24)
Ciò che rimane vincolato ad antiche costumanze e soliti protagonisti non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.
I capi guardavano la religiosità con scopi d’interesse. I professori di teologia erano abituati a valutare ogni virgola partendo dal proprio sapere, ridicolo ma supponente - estraneo alle vicende reali.
I nuovi inviati vanno sulla strada indifesi.
Il Maestro si rallegra della loro e della sua stessa esperienza, che reca una gioia non epidermica e un insegnamento dallo Spirito - su chi è ben disposto a comprendere le profondità del Regno nelle cose comuni.
Insomma, dopo un primo momento di folle entusiaste, il Maestro approfondisce le tematiche e si ritrova tutti contro, tranne Dio e i minimi: i senza peso, ma con tanta voglia di cominciare da zero.
Barlume del Mistero che lievita la storia - senza farne un possesso.
A conclusione dell’enciclica Fratelli Tutti, Papa Francesco cita la figura e l’esperienza di Charles de Foucauld, il quale - sovvertendo i conformismi - «solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti» (n.287).
In un primo tempo anche Gesù rimane sbalordito per il rifiuto di chi si riteneva già soddisfatto della struttura religiosa ufficiale e non attendeva più nulla che potesse destare abitudini e tornaconto.
Poi comprende, loda e benedice il disegno del Padre.
Comprende che la persona autentica nasce dai bassifondi, comunque da un’altra elaborazione e genesi, che sconvolgono il rapporto religioso consolidato, inerte e rassicurante - mai profondo né decisivo per le sorti umane.
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza.
L’Eterno non è il padrone del creato che si manifesta attraverso le potenze incontenibili della natura.
È Ristoro che rinfranca, perché fa sentire completi e amabili; ci cerca, si fa attento al linguaggio del cuore.
Egli è Custode del mondo, anche dei non istruiti - degli «infanti» (v.21) spontaneamente vuoti di spirito borioso, ossia di coloro che non restano chiusi nella loro sufficiente appartenenza.
Il rapporto Padre-Figlio viene comunicato ai poveri di Dio: coloro che sono dotati di un’attitudine da famigliari (v.22).
Insignificanti e invisibili privi di grandi doti, ma che si abbandonano alle proposte della vita provvidente che viene, come bimbi in braccio a dei genitori.
Spirito di pietas che favorisce chi si lascia colmare, e non procede sulle vie del pensiero o dell’iniziativa calcolante, bensì della Sapienza innata.
Essa trasmette freschezza nella disponibilità a ricevere - accogliere e ritemprare personalmente - sia la Verità come Dono... che l’entusiasmo spontaneo stesso, in grado di realizzarla.
Una preghiera di benedizione semplice e per i semplici - questa di Gesù (v.21) - che ci fa crescere nella stima, calza perfettamente con la nostra esperienza, e va d’accordo con noi stessi.
Ma che stranamente i «dotti» i quali non vivono «lo spirito del vicinato» (FT n.152) però rivendicano posizioni e giocano sempre d’astuzia, non ci hanno voluto trasmettere così volentieri.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa provi quando ti senti dire: «Tu non conti»? Rimane un disprezzo umiliante o la consideri una grande Luce ricevuta, come ha fatto Gesù?
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«And therefore, it is rightly stated that he [st Francis of Assisi] is symbolized in the figure of the angel who rises from the east and bears within him the seal of the living God» (FS 1022)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
This is where the challenge for your life lies! It is here that you can manifest your faith, your hope and your love! [John Paul II at the Tala Leprosarium, Manila]
È qui la sfida per la vostra vita! È qui che potete manifestare la vostra fede, la vostra speranza e il vostro amore! [Giovanni Paolo II al Lebbrosario di Tala, Manila]
The more we do for others, the more we understand and can appropriate the words of Christ: “We are useless servants” (Lk 17:10). We recognize that we are not acting on the basis of any superiority or greater personal efficiency, but because the Lord has graciously enabled us to do so [Pope Benedict, Deus Caritas est n.35]
Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono [Papa Benedetto, Deus Caritas est n.35]
A mustard seed is tiny, yet Jesus says that faith this size, small but true and sincere, suffices to achieve what is humanly impossible, unthinkable (Pope Francis)
Il seme della senape è piccolissimo, però Gesù dice che basta avere una fede così, piccola, ma vera, sincera, per fare cose umanamente impossibili, impensabili (Papa Francesco)
Hypocrisy: indeed, while they display great piety they are exploiting the poor, imposing obligations that they themselves do not observe (Pope Benedict)
Ipocrisia: essi, infatti, mentre ostentano grande religiosità, sfruttano la povera gente imponendo obblighi che loro stessi non osservano (Papa Benedetto)
Each time we celebrate the dedication of a church, an essential truth is recalled: the physical temple made of brick and mortar is a sign of the living Church serving in history (Pope Francis)
Ogni volta che celebriamo la dedicazione di una chiesa, ci viene richiamata una verità essenziale: il tempio materiale fatto di mattoni è segno della Chiesa viva e operante nella storia (Papa Francesco)
As St. Ambrose put it: You are not making a gift of what is yours to the poor man, but you are giving him back what is his (Pope Paul VI, Populorum Progressio n.23)
Non è del tuo avere, afferma sant’Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene (Papa Paolo VI, Populorum Progressio n.23)
Here is the entire Gospel! Here! The whole Gospel, all of Christianity, is here! But make sure that it is not sentiment, it is not being a “do-gooder”! (Pope Francis))
Qui c’è tutto il Vangelo! Qui! Qui c’è tutto il Vangelo, c’è tutto il Cristianesimo! Ma guardate che non è sentimento, non è “buonismo”! (Papa Francesco)
Christianity cannot be, cannot be exempt from the cross; the Christian life cannot even suppose itself without the strong and great weight of duty [Pope Paul VI]
Il Cristianesimo non può essere, non può essere esonerato dalla croce; la vita cristiana non può nemmeno supporsi senza il peso forte e grande del dovere [Papa Paolo VI]
don Giuseppe Nespeca
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