Fratello, nei fratelli tutti
(Gv 1,29-34)
Nel quarto Vangelo il Battista non è «il precursore», bensì un «testimone» della Luce Agnello che suscita interrogativi di fondo.
Allarmate, le autorità lo mettono sotto inchiesta.
Ma non è lui che spazza via «il peccato» ossia l’umiliazione delle distanze incolmabili - e l’incapacità di corrispondere alla Vocazione personale, per la Vita senza limite.
Impaccio addirittura sottolineato dalla logica «del mondo»: dal falso insegnamento, dalla struttura stessa dell’istituzione ufficiale antica, così legata all’intreccio fra religione e potere.
Condannato a «mezzogiorno» [culmine e piena luce] della vigilia di Pasqua, Gesù incrocia il suo volgere terreno con l’ora in cui i sacerdoti del Tempio iniziavano a immolare gli agnelli della propiziazione [in origine, un sacrificio apotropaico che precedeva la transumanza].
Come per l’Agnello dei padri in terra estranea, che li aveva risparmiati dall’eccidio - il suo Sangue dona impulso per valicare il paese delle aride schiavitù, privo di tepore e intima consonanza.
Come noto, l’effigie dell’Agnello appartiene al filone teologico sacrificale, scaturito dal celebre testo di Isaia 53 e da tutto l’immaginario sacrale dell’oriente antico [che aveva elaborato una letteratura e un pensiero diffuso sul Re Messia].
Secondo la concezione biblica, il sovrano riuniva in sé e rappresentava l’intero popolo. L’Unto avrebbe avuto il compito ideale di trascinar via ed espiare le iniquità umane.
Ma Gesù non “espia” bensì «estirpa». Neppure “propizia”: il Padre non rifiuta la condizione precaria delle sue creature.
In Cristo che «sostiene e toglie» tutte le nostre vergogne e debolezze, l’Azione del Padre si fa intima - per questo decisiva.
Egli non annienta le trasgressioni con una sorta di amnistia, addirittura vicaria: non sarebbe autentica salvezza toccare solo le periferie e non il Nucleo, per riattivarci.
Un abito esterno non ci appartiene e non sarà mai nostro; non è assimilato, né diventa vita reale. Le sanatorie non educano, tutt’altro.
È vero che un agnellino in un mondo di lupi astuti non ha scampo. Presentarlo, significa vederlo perire, ma non come vittima designata: era l’unico modo affinché le belve che si credono persone capissero di essere ancora solo delle bestie.
Il Risorto introduce nel mondo una forza nuova, un dinamismo diverso, un modo d’istruire l’anima che si fa processo consapevole.
Solo educandoci, l’Altissimo-vicino annienta e vince l’istinto delle belve che si pappano a vicenda, credendosi esseri umani veri - addirittura spirituali.
Una terza allusione alla figura dell’Agnello insiste sull’icona votiva e categoria archetipa, associata al sacrificio di Abramo, ove Dio stesso provvede la vittima (Gn 22).
Certo che provvede: non ci ha creati angelici, bensì malfermi, transitori. Eppure, ogni Dono divino passa per la nostra ‘condizione’ traballante - che non è peccato, né colpa, bensì dato; nutrimento, e risorsa.
Siamo Perfetti nella molteplicità dei nostri versanti creaturali, persino nel limite: una bestemmia per l’uomo religioso antico… una realtà per l’uomo di Fede.
L’Agnello autentico non è solo rimando [morale]: la mansuetudine di chi è chiamato a donare tutto di sé, persino la pelle.
È immagine del ‘confine’ palese di coloro che non ce la farebbero mai a rendere geniale la vita, quindi ‘si lasciano trovare’ e caricare sulle spalle.
In tal guisa, nessun delirio decisionista.
Sarà l’Amico del nostro nucleo vocazionale a trasmettere forza e ideare la strada per farci tornare alla Casa ch’è davvero nostra: la Tenda che ricuce le vicende disperse.
Dimora che riannoda tutto l’essere che avremmo dovuto - e forse anche potuto - portare a frutto.
Incarnazione qui significa che l’Agnello è raffigurazione d’una globalità accolta - inusuale - del Volto divino negli uomini.
Totalità finalmente salda - paradossale, conciliata - che recupera il suo opposto innocente, naturale, spontaneo, incapace di miracolo.
Differenza tra religiosità e Fede.
[Feria propria del 3 gennaio]