Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Con gli auguri ancora freschi per questo nuovo anno, ecco il commento delle letture della solennità dell’Epifania
Epifania del Signore [6 gennaio 2025]
*Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia (60,1-6)
Il richiamo ai simboli dell’oro, incenso e mirra, presente in questo testo del profeta Isaia, l’hanno fatto scegliere per l’odierna festa dell’Epifania del Signore con evidente connessione ai doni dei Magi, ma c’è molto di più. Da notare tutte le espressioni di luce che sono in questo passaggio: “Rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te”…(come sorge il sole) su di te risplende il Signore , la sua gloria appare su di te… cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere”. Insomma la tua luce, lo splendore della tua aurora ti renderà radiosa. Contrariamente a quel che si può immaginare, come spesso capita con i profeti che coltivano la speranza, dobbiamo dedurre immediatamente che l’umore generale in quel momento era piuttosto cupo. Perché l’umore generale era cupo, e che cosa suggerisce il profeta per invitare il popolo alla speranza? Per quanto riguarda l’umore, guardiamo al contesto: questo testo fa parte degli ultimi capitoli del libro di Isaia; siamo negli anni 525-520 a.C., cioè circa quindici o vent’anni dopo il ritorno dall’esilio a Babilonia. I deportati erano tornati in patria, e si credeva che la felicità si sarebbe stabilita, ma questo ritorno tanto atteso non ha soddisfatto tutte le aspettative. C’erano quelli che, rimasti nel paese, avevano vissuto il periodo di guerra e occupazione; gli esuli tornati dall’esilio speravano di ritrovare il loro posto e i loro beni. Poiché l’esilio durò cinquant’anni, coloro che erano partiti erano morti là e i superstiti rientrati in patria erano i loro figli o nipoti. Questo non doveva semplificare le riunioni, tanto più che coloro che tornavano non potevano pretendere di recuperare l’eredità dei loro genitori perché, proprio a causa del lungo periodo di cinquant’anni, i beni degli assenti e degli esiliati erano stati occupati e altri se ne erano impossessati. Inoltre molti stranieri si erano stabiliti nella città di Gerusalemme e in tutto il paese e vi avevano introdotto altre usanze, altre religioni. Appare evidente che quest’ammasso di persone tanto diverse non costituiva un clima ideale per vivere insieme. Prima causa di disaccordo fu la ricostruzione del Tempio. Fin dal ritorno dall’esilio, autorizzato nel 538 dal re Ciro, i primi rientrati, che formavano la cosiddetta “comunità del ritorno”, avevano ristabilito l’antico altare del Tempio di Gerusalemme e avevano ripreso a celebrare il culto come in passato. Si volle al tempo stesso cominciare la ricostruzione del Tempio, ma alcune persone considerate eretiche vollero intervenire. Si tratta di un miscuglio di ebrei rimasti nel paese e di popolazioni straniere pagane insediate lì dall’occupante mescolate insieme persino attraverso dei matrimoni che avevano preso abitudini giudicate eretiche dagli ebrei che tornavano dall’Esilio e per questo motivo la “comunità del ritorno” rifiutò che il Tempio del Dio unico fosse costruito da persone che poi vi avrebbero celebrato altri culti. Questo rifiuto fu mal accolto e coloro che erano stati respinti si opposero con tutti i mezzi: il risultato fu l’arresto dei lavori e il tramonto del sogno di ricostruire il Tempio. Con il passare degli anni crebbe e si diffuse lo scoraggiamento. La tristezza e lo sconforto non sono però degni del popolo portatore delle promesse di Dio e per questo Isaia insieme al profeta Aggeo decisero di risvegliare i loro compatrioti invitandoli a non piangersi addosso e a mettersi al lavoro per ricostruire il Tempio. Conoscendo questo contesto, il linguaggio quasi trionfante d’Isaia ci sorprende, ma è il linguaggio abituale nei profeti. Se promettono tutta questa luce è perché il popolo è moralmente a terra e ci si trova nella notte più cupa. Tuttavia è proprio durante la notte che si scrutano i segni del sorgere del giorno e il ruolo del profeta è ridare coraggio annunciando l’alba del nuovo giorno. E’ chiaro: più il profeta insiste sul tema della luce più vuol dire che il popolo è oppresso dal buio dello scoramento. Per risollevarne il morale Isaia e Aggeo insistono su un solo argomento fondamentale per gli ebrei: Gerusalemme è la Città santa, scelta da Dio per farvi dimorare il segno della sua presenza. Dio stesso si è impegnato con il re Salomone, decidendo che “qui sarà il mio Nome”. Possiamo così sintetizzare e attualizzare il messaggio di Isaia: “Vi sentite in un tunnel, nel buio più profondo, ma alla fine del tunnel vi attende la luce. Ricardatevi la promessa: giunge il Giorno in cui tutti riconosceranno in Gerusalemme la Città santa”. E allora non lasciatevi abbattere e mettetevi al lavoro, dedicate tutte le vostre forze a ricostruire il Tempio come avete promesso. In ogni tempo quando ci si sente scoraggiati dalle difficoltà e si brancola nel buio dell’incertezza occorrono profeti che ridestano il coraggio della speranza. Isaia lo fa capire con determinazione e questo è il suo ragionamento: quando si è credenti, anche il buio più oscuro non riesce a soffocare la speranza. E qui non si tratta di promessa legata a un trionfo politico, ma della promessa di Dio: un giorno l’intera umanità sarà finalmente riunita in un’armonia perfetta nella Città santa.
*Salmo Responsoriale (71/72)
Questo salmo ci fa assistere all’incoronazione di un nuovo re, quando i sacerdoti pronunciano su di lui preghiere che raccolgono i desideri e i sogni del popolo all’inizio di ogni nuovo regno. Si auspica la potenza politica per il re, la pace e la giustizia, la felicità, la ricchezza e prosperità per tutti e il popolo eletto ha il vantaggio di sapere che questi sogni degli uomini coincidono con il progetto stesso di Dio. L’ultima strofa del salmo, che non fa parte dell’odierna liturgia, cambia però tono: non si parla più del re terreno, ma di Dio: “Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele, lui solo compie meraviglie! Benedetto sia per sempre il suo nome glorioso, tutta la terra sia piena della sua gloria! Amen! Amen!”. Ed è proprio quest’ultima strofa a offrire la chiave per capire l’intero salmo composto e cantato dopo l’esilio a Babilonia (quindi tra il 500 e il 100 a.C.), in un’epoca in cui non c’era più un re in Israele. I voti e le preghiere non riguardano quindi un re in carne e ossa, ma il futuro re promesso da Dio, il re-messia. E poiché si tratta di una promessa di Dio, si può essere certi che si realizzerà. L’intera Bibbia è attraversata da questa speranza indistruttibile: la storia umana ha un fine, un senso dove il termine “senso” significa due cose: sia “significato” che “direzione”. Dio ha un unico progetto che ispira tutte le vicende della Bibbia e assume nomi diversi secondo i diversi autori: è il “Giorno di Dio” per i profeti, il “regno dei cieli” per l’evangelista Matteo, il “disegno della sua benevolenza (eudokia) ” per san Paolo (Ef1,9-10). Dio ama l’umanità e ripropone instancabilmente il suo progetto di felicità. Progetto che sarà realizzato dal messia che viene invocato ogni qualvolta si cantano i salmi nel Tempio di Gerusalemme.
Il salmo 71 è la descrizione del re ideale, che Israele attende da secoli: quando nasce Gesù, sono passati circa 1000 anni da quando il profeta Natan si recò dal re Davide da parte di Dio e gli fece la promessa di cui parla il nostro salmo. (cf 2 Sam 7,12-16). Di secolo in secolo, la promessa è stata ribadita e meglio precisata. La certezza della fedeltà di Dio alle sue promesse ha permesso di scoprire a poco a poco tutta la sua ricchezza e le sue conseguenze; se questo re meritava davvero il titolo di figlio di Dio, allora sarebbe stato a immagine di Dio, re di giustizia e di pace. A ogni incoronazione di un nuovo re, la promessa veniva ripetuta su di lui e si tornava a sognare, ma il popolo ebraico attende ancora, e bisogna riconoscere che il regno ideale non ha ancora visto la luce sulla terra. Si finirebbe quasi per credere che sia solo un’utopia. I credenti però sanno che non si tratta di un’utopia ma di una promessa di Dio, quindi di una certezza. E l’intera Bibbia è attraversata da questa certezza, speranza invincibile che il progetto di Dio si realizzerà. È il miracolo della fede: di fronte a questa promessa ogni volta delusa, due diverse reazioni sono possibili: il non credente dice “ve l’avevo detto, non accadrà mai”; il credente afferma risolutamente “pazienza, poiché Dio l’ha promesso, non può rinnegare se stesso”, come ricorda san Paolo (2 Tm 2,13). Oggi, il popolo ebraico canta questo salmo nell’attesa del re-messia e in certe sinagoghe gli ebrei manifestano la loro impazienza di vedere il messia recitando questa professione di fede di Mosè Maimonide, filosofo, medico e giurista ebreo (1135-1204) di Toledo in Spagna: “Credo con fede certa che il messia verrà, e anche se tarda a venire, nonostante tutto, io aspetterò fino al giorno del suo arrivo”. Noi, cristiani, lo applichiamo a Gesù Cristo e ci sembra che i magi venuti dall’Oriente abbiano iniziato a realizzare la promessa: “I re di Tarsis e delle isole porteranno doni, i re di Saba e di Seba offriranno tributi… Tutti i re si prostreranno davanti a lui, tutte le nazioni lo serviranno”. E non è lontano il giorno in cui tutta l’umanità accoglierà il Cristo e si realizzerà il regno del suo amore.
*Seconda Lettura, dalla lettera di san Paolo Apostolo agli Efesini (3,2-6)
Questo testo è tratto dal capitolo terzo della Lettera agli Efesini, e nel primo capitolo Paolo ha usato la famosa espressione “il disegno d’amore della sua volontà” (v.5), “facendoci conoscere il mistero della sua volontà” (v 9). Ritroviamo qui la parola “mistero” che per san Paolo non è un segreto che Dio custodisce gelosamente; al contrario, è la sua intimità, nella quale ci fa entrare. Paolo spiega meglio affermando: “Per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero”: il mistero è il disegno di amore che Dio rivela progressivamente. Tutta la storia biblica è una lunga, lenta e paziente pedagogia che Dio utilizza per introdurre il suo popolo in questo suo mistero, nella sua intimità. L’esperienza mostra che non si può insegnare a un bambino tutto in una volta; va educato con pazienza, giorno per giorno e a seconda delle circostanze. Non si possono dare lezioni teoriche in anticipo su vita, morte, matrimonio o famiglia. Il bambino scopre la famiglia vivendo con i genitori, i nonni e i fratelli e sorelle: quando la famiglia celebra un matrimonio o una nascita, quando affronta un lutto, il bambino vive questi eventi con i parenti i quali, pian piano, lo accompagnano nella scoperta della vita. Dio ha usato la stessa pedagogia con il suo popolo rivelandosi progressivamente. Questa rivelazione con Cristo ha compiuto un passo decisivo per cui la storia si divide in due periodi, prima di Cristo e dopo Cristo e spiega l’apostolo che questo mistero “non é stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito” e chiarisce ancor più che il mistero di cui parla è Cristo stesso, il centro del mondo e della storia e l’universo intero sarà un giorno riunito in lui, come le membra sono unite al capo. Nella frase “ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose” (1,10), la parola greca che traduciamo con capo significa proprio la testa. Si tratta inoltre davvero dell’universo intero e Paolo precisa che “le genti sono chiamate in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del vangelo”. In altre parole si può dire che l’eredità è Cristo, la Promessa è Cristo, il Corpo èCristo, Il disegno di amore di Dio è che Cristo sia il centro del mondo e che l’universo intero sia riunito in lui. Quando nel Padre Nostro diciamo “sia fatta la tua volontà”, parliamo proprio di questo progetto divino e, ripetendo quest’invocazione, ci impregniamo sempre di più del desiderio del Giorno in cui tale progetto sarà pienamente realizzato. Paolo spiega che questo progetto riguarda l’umanità intera, non solo il popolo ebreo: è l’universalismo del piano di Dio, dimensione universale scoperta progressivamente nella Bibbia e ben radicata nel popolo di Israele, visto che si fa risalire ad Abramo la promessa della benedizione di tutta l’umanità: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,3). Il passaggio di Isaia che leggiamo nella prima lettura della festa dell’Epifania è esattamente su questa linea. Ovviamente, se un profeta come Isaia ha ritenuto opportuno insistervi, è perché si tendeva a dimenticarlo. Allo stesso modo, al tempo di Cristo, se Paolo precisa che “le genti sono chiamate in Cristo Gesù a condividere a la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del vangelo” è perché ciò non era scontato. Dobbiamo fare uno sforzo d’immaginazione: non ci troviamo affatto nella stessa situazione dei contemporanei di Paolo; per noi, nel ventunesimo secolo, questa è un’evidenza: la gran parte di noi non sono di origine ebraica e trovano normale il fatto che tutti noi partecipiamo alla salvezza recata dal Messia. Dopo duemila anni di cristianesimo, sappiamo che Israele rimane il popolo eletto, perché, come dice altrove san Paolo, “Dio non può rinnegare sé stesso”, ma crediamo di essere anche noi in questo piano chiamati a testimoniare il vangelo nel mondo. Al tempo di Cristo, però, la situazione era diversa. Gesù è nato all’interno del popolo ebraico: questa era la logica del piano di Dio e dell’elezione di Israele. I Giudei erano il popolo eletto, scelto da Dio per essere apostoli, testimoni e strumenti della salvezza di tutta l’umanità. I giudei diventati cristiani hanno avuto difficoltà, talvolta, ad accettare l’ammissione di ex pagani nelle loro comunità e san Paolo ricorda loro che anche i pagani, ormai, possono essere apostoli e testimoni della salvezza. Del resto, l’episodio dei Magi, narrato da Matteo nel Vangelo dell’Epifania, ci dice esattamente la stessa cosa. Le ultime parole di questa seconda lettura risuonano come un invito: “le genti sono chiamate in Cristo Gesù a condividere a la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del vangelo”. Certamente Dio attende la nostra collaborazione al suo disegno d’amore: i Magi allora hanno visto una stella e si sono messi in cammino. Per tanti nostri contemporanei, non ci sarà una stella nel cielo, ma siamo noi i testimoni di Cristo e per questo bisognosi di diventare pieni di luce e di gioia.
*Dal Vangelo secondo Matteo ( 2,1-12)
Innanzitutto un’osservazione storica: l’episodio dei Magi narrato dall’evangelista Matteo ci dà uno dei rari indizi sulla data di nascita esatta di Gesù. La data della morte di Erode il Grande è certa: 4 a.C. (visse dal 73 al 4 a.C.) e, poiché fece uccidere tutti i bambini di età inferiore ai due anni, si trattava di bambini nati tra il 6 e il 4 a.C. Quindi, Gesù nacque probabilmente tra il 6 e il 5 a.C. L’errore di calcolo avvenne nel VI secolo, quando un monaco, Dionigi il Piccolo, stabilì, a giusto titolo, di contare gli anni a partire dalla nascita di Gesù, e non più dalla fondazione di Roma. All’epoca, come si desume anche da altre fonti storiche,
molto viva era l’attesa del Messia e se ne parlava dappertutto. Tutti pregavano Dio affinché affrettasse la sua venuta e alcuni Giudei pensavano che sarebbe stato un re: un discendente di Davide che avrebbe regnato sul trono di Gerusalemme, dopo ver scacciato i Romani e stabilito definitivamente pace, giustizia e fraternità in Israele. Altri con più ottimismo speravano persino che questa felicità si sarebbe estesa al mondo intero. In questo senso, si citavano diverse profezie convergenti dell’Antico Testamento: innanzitutto, quella di Balaam nel Libro dei Numeri. La ricordo: nel momento in cui le tribù d’Israele si avvicinavano alla Terra Promessa sotto la guida di Mosè, attraversando le pianure di Moab (oggi in Giordania), il re di Moab, Balak, aveva convocato Balaam (profeta e indovino pagano) affinché maledicesse questi invasori. Ma, ispirato da Dio, Balaam, anziché maledire, aveva pronunciato profezie di felicità e gloria per Israele, dicendo in particolare: “Io lo vedo, lo contemplo: da Giacobbe spunta una stella, da Israele si alza uno scettro” (Num 24,17). Il re di Moab si era infuriato, perché aveva interpretato questa profezia come l’annuncio della sua futura sconfitta contro Israele. Ma in Israele, nei secoli successivi, questa bella promessa era stata trasmessa con cura, arrivando a pensare che il regno del Messia sarebbe stato annunciato dall’apparizione di una stella. Ecco perché il re Erode, consultato dai Magi riguardo a una stella, prese la questione molto seriamente. Un’altra profezia riguardante il Messia è quella di Michea: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo tra i capoluoghi di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Una profezia perfettamente in linea con la promessa fatta da Dio a Davide, secondo cui la sua dinastia non si sarebbe mai estinta e avrebbe portato al paese la felicità tanto attesa.
I Magi, probabilmente, non sapevano tutte queste cose: erano astrologi e si erano messi in cammino semplicemente perché avevano visto sorgere una nuova stella. Arrivati a Gerusalemme, si informarono presso le autorità locali. Ed è qui che incontriamo la prima sorpresa del racconto di Matteo: da una parte, i Magi, pagani che non hanno preconcetti, sono alla ricerca del Messia e alla fine lo troveranno guardando l’astro visibile a tutti. Dall’altra parte, ci sono quelli che conoscono le Scritture, gli scribi d’Israele che possono citarle senza errori e possono rivelarne il significato… a condizione, però, che essi stessi si lascino guidare dalle Scritture, ma purtroppo non muovono un dito; non si spingeranno nemmeno da Gerusalemme a Betlemme e quindi non incontreranno il Bambino nella mangiatoia. E’ davvero una provocazione: coloro che attendevano il Messia come gli scribi non riescono a vedere e quindi non incontrano il Messia, mentre i magi estranei alle scritture si lasciano guidare dalla stella , che tutti vedevano, e arrivano all’incontro con Gesù. Quanto a Erode, è tutta un’altra storia. Mettiamoci nei suoi panni: è il re dei Giudei, riconosciuto come tale dal potere romano. È molto fiero del suo titolo e ferocemente geloso di chiunque possa offuscarlo. Non dimentichiamo che ha fatto assassinare diversi membri della sua famiglia, compresi i suoi stessi figli. Ogni volta che qualcuno diventava un po’ troppo popolare, Erode lo faceva eliminare per gelosia. E ora si diffonde una voce in città: degli astrologi stranieri hanno compiuto un lungo viaggio e dicono: “Abbiamo visto sorgere una stella del tutto eccezionale; sappiamo che annuncia la nascita di un bambino-re… altrettanto eccezionale. Sicuramente è nato il vero re dei Giudei!”. Possiamo immaginare la furia e l’angoscia di Erode. Così, quando san Matteo dice: “Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme”, si tratta sicuramente di un modo molto delicato di esprimersi. Ovviamente, Erode non poteva mostrare la sua rabbia; doveva saper manovrare: il suo obiettivo era ottenere qualche informazione su questo bambino, un potenziale rivale da eliminare. Perciò si informa prima di tutto sul luogo. Matteo scrive che convocò i capi dei sacerdoti e gli scribi per chiedere loro dove sarebbe nato il Messia. Ed è qui che interviene la profezia di Michea: il Messia sarebbe nato a Betlemme. Erode si informa inoltre sull’età del bambino, perché aveva già in mente un piano per eliminarlo. Convocò i Magi per chiedere loro il momento preciso in cui era apparsa la stella. Non conosciamo la loro risposta, ma gli eventi successivi ci permettono di dedurla: Erode ordinò di uccidere tutti i bambini di età inferiore ai due anni, prendendo così un ampio margine. Molto probabilmente, nel racconto della visita dei Magi, Matteo ci offre già un riassunto di tutta la vita di Gesù: sin dall’inizio, a Betlemme, incontrò l’ostilità e la collera delle autorità politiche e religiose. Non lo riconoscono come il Messia, lo trattano da impostore e alla fine lo eliminano crocifiggendolo come un malfattore . Eppure, era davvero il Messia. Grande lezione di fede per tutti! E’ proprio vero: solamente chi cerca Dio con sincerità e senza preconcetti arriva, come i Magi, a incontrarlo e a entrare nel piano della sua Misericordia infinita
N.B. Unisco questa preghiera tratta dal libretto di preghiere del santuario Santissima Trinità Misericordia di Maccio – Como
PREGHIERA ALLA SS. TRINITÀ PER IL DONO DELLA FEDE
Signore, sostieni la mia Fede!
O Mio Signor, o Mio Dio,
con fede profondissima son qui prostrato a Te.
Tu sei Speranza Certa in cui son fatto salvo!
Tu sei Misericordia che in Te tutto m’attiri!
Tu sei la Carità, Tu Tutto a me donato!
Tu sei l’Amore Eterno in cui il mio cuor s’acqueta!
Per questo Dono immenso,
di Te che Tutto sei e a me Tutto Ti doni,
del buio de la mia notte la Luce il velo squarcia,
e canto e prego e grido, con quanta fede io possa:
Io credo, io credo, io credo,
in te Dio Uno e Trino, mio Unico Signore!
Tu, Padre, Tu, Principio, che d’essa sei la Fonte;
Tu, Figlio, Eterno Verbo, per Cui essa s’accresce;
Tu, Spirito Divino, che in essa me confermi.
Tu, Trinità Santissima, Mistero impenetrabile di Te Unico Dio,
nel Sacrificio Santo del Dio che si fa Figlio,
fa’ che io trovi ognora Cibo, Conforto e Forza
e l’Acqua che purifica,
per render più salda e santa,
in Te che sei la Via, La Verità e la Vita,
per la sicura mano de la Virgo Purissima
che a Te, e da Te per me, Tu Amor, Madre facesti,
fermo e sicur restando
nel seno della tua Santa ed Amata Sposa,
la Fede che, nel Figlio, mi unisce e fa’ dono a Te!
+ Giovanni D’Ercole