don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 30 Giugno 2025 08:45

14a Domenica T.O. (anno C)

XIV Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [6 luglio 2025]

Iddio ci benedica e la Vergine ci protegga! Anche se entriamo nel tempo delle vacanze continuerò a farvi avere i commenti ai testi biblici di ogni domenica

 

*Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia (66, 10-14)

Quando un profeta parla tanto di consolazione, significa che le cose vanno molto male per cui avverte il bisogno di consolare e tener viva la speranza: questo testo è dunque stato scritto in un momento difficile. L’autore, il Terzo Isaia, è uno dei lontani discepoli del grande Isaia e sta predicando agli esuli tornati dall’esilio babilonese verso il 535 a.C. Il loro ritorno, tanto sognato, si è rivelato deludente sotto ogni aspetto perché dopo 50 anni tutto era cambiato. Gerusalemme portava le cicatrici della catastrofe del 587 quando fu distrutta da Nabucodonosor; il Tempio era in rovina come buona parte della città e gli esuli non avevano ricevuto l’accoglienza trionfale come speravano.  Il profeta parla di lutto e di consolazione, ma a fronte dello scoraggiamento dominante, non si accontenta di parole di conforto, ma osa persino un discorso quasi trionfale: “Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto” (v10). Da dove trarre quest’ottimismo? La risposta è semplice: dalla fede, o meglio dall’esperienza d’Israele che continua a sperare in ogni epoca perché ha certezza che Dio è sempre presente e, anche quando tutto sembra perduto, sa che nulla è impossibile a Dio. Già nei tempi di forte scoraggiamento durante l’Esodo si proclamava: “il braccio del Signore si è forse raccorciato?  (Nm 11,23), immagine  che ricorre più volte  nel libro di Isaia. Durante l’esilio, quando vacillava la speranza, il Secondo Isaia comunicava a nome di Dio: “È forse troppo corta la mia mano per liberare?» (Is 50,2) e dopo il ritorno, in un periodo di forte preoccupazione, il Terzo Isaia, che leggiamo oggi, riprende due volte la stessa immagine sia nel capitolo 59,1 sia nell’ultimo versetto dell’odierna lettura: “La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi” (v.14). Dio che ha liberato il suo popolo tante volte in passato, mai l’abbandonerà. Anche da solo il termine “mano” è un’allusione all’uscita dall’Egitto, quando Dio intervenne con mano potente e braccio teso. Il versetto 11 dell’odierno testo: “Sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni” richiama la terribile prova di fede che il popolo visse nel deserto quando ebbe fame e sete, e anche allora Dio gli assicurò ciò che era necessario.  Questo richiamo al libro dell’Esodo offre due lezioni: da una parte, Dio ci vuole liberi e sostiene tutti i nostri sforzi per instaurare la giustizia e la libertà; ma d’altra parte è importante e necessaria la nostra collaborazione. Il popolo è uscito dall’Egitto grazie all’intervento di Dio e questo Israele non lo dimentica mai, ma ha dovuto camminare verso la terra promessa a volte con grande fatica. Quando poi al versetto 13 Isaia promette da parte di Dio: “Io farò scorrere verso di essa come un fiume la pace” non significa che la pace si instaurerà magicamente. Il Signore è sempre fedele alle sue promesse: occorre continuare a credere che egli resta ed opera al nostro fianco in ogni situazione. Al tempo stesso è indispensabile che noi agiamo perché la pace, la giustizia, la felicità hanno bisogno del nostro apporto convinto e generoso. 

 

*Salmo responsoriale (65/66, 1-3a, 4-5, 6-7a, 16.20)

 Come spesso accade, l’ultimo versetto dà il senso di tutto il salmo: “Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia” (v.20). Il vocabolario impiegato mostra che questo salmo è un canto di ringraziamento: “Acclamate, cantate, dategli gloria… a te si prostri tutta la terra… narrerò quanto per me ha fatto” composto probabilmente per accompagnare i sacrifici nel Tempio di Gerusalemme e a parlare non è un individuo, bensì l’intero popolo che rende grazie a Dio. Israele ringrazia come sempre per la liberazione dall’Egitto con cenni molto chiari: “Egli cambiò il mare in terraferma… passarono a piedi il fiume”; oppure: “Venite e vedete le opere di Dio, terribile nel suo agire sugli uomini”. Anche l’espressione “le opere di Dio” nella Bibbia, indica sempre la liberazione dall’Egitto. Colpisce, del resto, la somiglianza tra questo salmo e il cantico di Mosè dopo il passaggio del Mar Rosso (Es 15), evento che illumina l’intera storia di Israele: l’opera di Dio per il suo popolo non ha altro scopo che liberarlo da ogni forma di schiavitù. Questo è il senso del capitolo 66 di  Isaia che leggiamo questa domenica nella prima lettura: in un’epoca molto buia della storia di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese, il messaggio è chiaro: Dio vi consolerà. Non si sa se questo salmo sia stato composto nella stessa epoca, in ogni caso il contesto è lo stesso perché è scritto per essere cantato nel Tempio di Gerusalemme e i fedeli che vi affluiscono per il pellegrinaggio prefigurano l’umanità intera che salirà a Gerusalemme alla fine dei tempi. E se il testo di Isaia annuncia la nuova Gerusalemme dove affluiranno tutte le nazioni, il salmo risponde: “Acclamate Dio, voi tutti tutta della terra… a te si prostri tutta la terra…a te canti inni al tuo nome”. La gioia promessa è il tema centrale di questi due testi: quando i tempi sono duri, occorre ricordarsi che Dio non vuole altro che la nostra felicità e un giorno la sua gioia riempirà tutta la terra, come scrive Isaia a cui il salmo risponde in eco: “Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio e narrerò quanto per me ha fatto” (vv16.20). I testi del profeta Isaia e del salmista sono immersi nella stessa atmosfera, ma non si trovano sullo stesso registro: il profeta esprime la rivelazione di Dio, mentre il salmo è la preghiera dell’uomo. Quando Dio parla si preoccupa della gloria e della felicità di Gerusalemme. Quando il popolo, attraverso la voce del salmista, parla rende a Dio la gloria che a lui solo spetta: “Acclamate Dio, voi tutti della terra, cantate la gloria del suo nome, dategli gloria con la lode” (vv1-3). Infine il salmo diventa voce di tutto Israele: “Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera, non mi ha negato la sua misericordia” (v.20). Un modo meraviglioso per dire che sarà l’amore ad avere l’ultima parola

 

*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Galati (6, 14-18)

“Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce “. Il fatto che Paolo insiste sulla croce come unico vanto, lascia intuire che c’è un problema. In effetti la lettera ai Galati inizia con un forte rimprovero perché molto in fretta i credenti erano passati da Cristo a un altro vangelo e alcuni seminavano confusione volendo capovolgere il vangelo di Cristo. A seminare zizzania erano ebrei convertiti al cristianesimo (giudeo-cristiani) che volevano obbligare tutti a praticare tutte le prescrizioni della religione ebraica, compresa la circoncisione. Paolo allora li mette in guardia perché teme che dietro la discussione sul sì o no alla circoncisione  si nasconda una vera eresia dato che ci salva solo la fede in Cristo concretizzata dal Battesimo e  imporre la circoncisione equivarrebbe a negarlo, ritenendo la croce di Cristo non  sufficiente. Per questo ricorda ai Galati che il loro unico vanto è la croce di Cristo. Ma, per comprendere Paolo, bisogna precisare che per lui la croce è un evento e non si concentra solo sulle sofferenze di Gesù: per lui è l’evento centrale della storia del mondo. La croce –cioè  Cristo crocifisso e risorto - ha riconciliato Dio e l’umanità, e ha riconciliato gli uomini tra loro. Scrivendo che per mezzo della croce di Cristo, “il mondo per me è stato crocifisso” intende dire che a a partire dall’evento della croce il mondo è definitivamente trasformato e nulla sarà più come prima, come scrive anche nella lettera ai Colossesi (Col 1, 19-20). La prova che la croce è l’evento decisivo della storia è che la morte è stata vinta: Cristo è risorto. Per Paolo, croce e risurrezione sono inseparabili trattandosi di un solo medesimo evento. Dalla croce è nata la creazione nuova, contrapposta al mondo antico.  In tutta questa lettera, Paolo ha contrapposto il regime della Legge mosaica con il regime della fede; la vita secondo la carne e la vita secondo lo Spirito; l’antica schiavitù e la libertà che riceviamo da Gesù Cristo. Aderendo per fede a Cristo, diventiamo liberi di vivere secondo lo Spirito. Il mondo antico è in guerra e l’umanità non crede che Dio sia amore misericordioso e di conseguenza, disobbedendo ai suoi comandamenti, crea rivalità e guerre per il potere e per il denaro. La creazione nuova, al contrario, è l’obbedienza del Figlio, la sua fiducia totale, il perdono ai suoi carnefici, la sua guancia tesa a chi gli strappa la barba, come scrive Isaia. La Passione di Cristo è stata un culmine di odio e di ingiustizia perpetrati in nome di Dio; Cristo però ne ha fatto un culmine di non-violenza, di dolcezza, di perdono. E noi, a nostra volta, innestati nel Figlio, siamo resi capaci della stessa obbedienza e dello stesso amore. Questa conversione straordinaria, che è opera dello Spirito di Dio, ispira a Paolo una formula particolarmente incisiva: Per mezzo della croce, il mondo è crocifisso per me e io per il mondo che vuol dire: Il modo di vivere secondo il mondo è abolito, ormai viviamo secondo lo Spirito e questo diventa  motivo di vanto per i cristiani. Proclamare la croce di Cristo non è facile e quando dice: “io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo” allude alle persecuzioni che egli stesso ha subito per aver annunciato il vangelo. Un’annotazione finale: questo è l’unico scritto paolino che termina con la parola “fratelli”. Dopo aver dibattuto polemicamente con i Galati alla fine Paolo ritrova nella sua comunità la fraternità che lega evangelizzatori a evangelizzati e l’unica sorgente dell’amore ritrovato è “nella grazia del Signore nostro Gesù Cristo” (v.18). 

 

*Dal vangelo secondo Luca (10, 1- 20)

 Questa pagina del vangelo presenta Gesù mentre si dirige verso Gerusalemme. Dopo aver superato tutte le tentazioni e aver vinto il principe di questo mondo, gli resta da trasmettere il testimone ai suoi discepoli che a loro volta dovranno consegnarlo ai loro successori. La missione è troppo importante e preziosa e va condivisa. In primo luogo c’è l’invito a pregare “il signore della messe perché mandi operai nella sua messe” (v.2).  Dio conosce tutto ma c’invita a pregare perché ci lasciamo illuminare da Lui. La preghiera non mira mai a informare Dio: sarebbe ben presuntuoso da parte nostra, ma ci prepara a lasciarci trasformare da lui. Invia così il folto gruppo dei discepoli in missione fornendo loro tutti i consigli necessari per affrontare prove e ostacoli a lui ben noti. Quando saranno rifiutati, come Gesù ha sperimentato in Samaria, non dovranno scoraggiarsi ma partendo annunceranno a tutti: “E’ vicino a voi il Regno di Dio” (v.9).  E aggiungeranno: «Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi” (v.11).  Ecco inoltre alcune specifiche consegne per i discepoli. “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (v.3) e questo indica che occorre restare sempre miti come agnelli essendo la missione del discepolo recare la pace: “in qualsiasi casa entriate, dite prima: Pace a questa casa. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui” (vv.5-6). Bisogna cioè credere a tutti i costi nel potere contagioso della pace perché quando auguriamo sinceramente la pace, realmente la pace cresce. E se qualcuno non vi accetta non lasciatevi appesantire dagli insuccessi e dai rifiuti. Ogni discepolo avrà vita difficile perché, se Gesù stesso non aveva dove posare il capo, questo toccherà pure ai suoi discepoli. E per questo dovranno imparare a vivere giorno per giorno senza preoccuparsi del domani, accontentandosi di mangiare e bere quello che sarà servito, come nel deserto il popolo di Dio poteva raccogliere la manna solo per il giorno stesso. Per evangelizzare porteranno con sé solo l’essenziale: “senza borsa, né sacca, né sandali” (v.4) e non passate di casa in casa.” (v.7). Ci saranno spesso scelte dolorose da compiere a causa dell’urgenza della missione e sarà importante resistere alla tentazione della vanità del successo:  ”Non rallegratevi perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli” (v.20). Da sempre il desiderio di notorietà insidia i discepoli, ma i veri apostoli non sono necessariamente i più famosi. Si può pensare che i settantadue discepoli abbiano superato bene la prova  perché al ritorno, Gesù potrà dire: “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore” (v.18).  Intraprendendo la sua ultima marcia verso Gerusalemme, Gesù sente per questo un grande conforto; tanto che subito dopo Luca ci dice: “In quello stesso istante, esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.”

+Giovanni D’Ercole

Lunedì, 30 Giugno 2025 04:46

Attività ambulante, Vocazione, Preghiera

(Mt 9,32-38)

 

Nei Vangeli i recuperi dalle malattie descrivono e manifestano un’esperienza di Fede.

Le prime forme comunitarie [qui in Mt, di Galilea e Siria] sono cresciute per attività instancabile di riscatto e reinserimento delle persone, persino dal punto di vista ideale.

In un mondo brutalmente competitivo, spietato e sconfortante, la vita di comunione in Cristo consentiva un recupero da qualsiasi situazione di avvilimento personale e abbandono sociale.

All’origine della Missione c’è sia la Compassione di Gesù che l’orazione del discepolo (affinché superi le delusioni, liberamente stabilisca se stesso su una buona disposizione, e non cerchi altro).

La Preghiera non convince il Padre, bensì trasforma il discepolo. Suscita le coscienze a percepire, accorgersi, ascoltare, accogliere, e smuoversi - in qualsiasi condizione esterna.

La Preghiera consente ai figli di rinascere dal cuore - nel piccolo, nel malfermo, nel bambino, nell’adolescente, nell’adulto, nella natura, nella storia, in se stessi, e in Dio.

 

In una situazione di collasso sociale e sfruttamento economico, persino la religione ufficiale inculcava l’idea che le benedizioni materiali fossero un segno di rango spirituale, e viceversa.

La coscienza della gente era soffocata anche dal sentimento di esclusione (e castigo per colpa) che accentuava la disistima.

La novità incredibile delle prime realtà fraterne di Fede si distaccava da ogni “gara”: emergeva la capacità di ristabilire concretamente le persone scoraggiate, e ritessere sia la qualità di vita che le relazioni.

Le guide ufficiali, disinteressate alla vita reale della gente, difendevano con malizia le loro posizioni e tentavano di esorcizzare l’ammirazione del popolo nei confronti degli amici di Gesù - con le solite fandonie sul male.

Ecco scaturire la Preghiera, che veniva rivolta al Padre affinché aiutasse tutti i figli nella loro opera irradiante, di sostegno, per la nascita di una nuova e urgente consapevolezza vitale, e di legami - per bontà verso i bisognosi.

 

La pedagogia di Dio si trasmette nell’ascolto disponibile, nell’orazione contemplativa, eppure non è astratta.

L’idea e l’opera della Fede si distaccano dal mondo della spiritualità sofisticata, o vuota, omologante.

È quella del lievito che fermenta la massa: salva gli uomini per mezzo di uomini - a partire dallo sguardo dell’anima [lucida, che vince l’affanno].

Per una sapiente ricomposizione dell’essere, il Maestro invita proprio alla Preghiera (v.38) - prima forma d’impegno dei discepoli.

L’accesso a diverse sintonie nello Spirito c’insegna a stimolare lo sguardo dell’anima, a valorizzare e capire tutto e tutti.

Insomma, ci si riconosce e si diventa non ignari delle cose attraverso la Preghiera-presentimento, unitiva.

La Missione cresce a partire da una dimensione piccola ma sconfinata - quella della percezione intima, che si accorge delle necessità e del Mistero d’una Presenza favorevole.

Nuove configurazioni in spirito: scoperte appieno solo nell’orazione profonda (v.38). Incarnata.

 

 

[Martedì 14.a sett. T.O.  8 luglio 2025]

Lunedì, 30 Giugno 2025 04:43

Attività ambulante, Vocazione, Preghiera

In favore degli oppressi

(Mt 9,32-38)

 

 

Nei Vangeli i recuperi dalle malattie descrivono e manifestano un’esperienza di Fede.

Le prime forme comunitarie [qui in Mt, di Galilea e Siria] non sono cresciute per miracolo, bensì per attività instancabile di riscatto e reinserimento delle persone, persino dal punto di vista ideale.

In un mondo brutalmente competitivo, spietato e sconfortante, la vita di comunione in Cristo consentiva ai membri di chiesa un recupero da qualsiasi situazione di avvilimento personale e abbandono sociale.

All’origine della Missione c’è sia la Compassione di Gesù che l’orazione del discepolo (affinché superi le delusioni, liberamente stabilisca se stesso su una buona disposizione, e non cerchi altro).

La Preghiera non convince il Padre, bensì trasforma il discepolo. Suscita le coscienze a percepire, accorgersi, ascoltare, accogliere, e smuoversi - in qualsiasi condizione esterna.

La Preghiera consente ai figli di rinascere dal cuore - nel piccolo, nel malfermo, nel bambino, nell’adolescente, nell’adulto, nella natura, nella storia, in se stessi, e in Dio.

 

In una situazione di collasso sociale e sfruttamento economico, persino la religione ufficiale inculcava l’idea che le benedizioni materiali fossero un segno di rango spirituale, e viceversa.

La coscienza della gente era soffocata anche dal sentimento di esclusione (e castigo per colpa) che accentuava la disistima.

Facendo leva sul senso d’indegnità dei senza voce, i maestri di spirito non si lasciavano sfuggire occasione per plagiare le coscienze, tallonare i deboli, e approfittare delle loro vicende, monetizzando.

La novità incredibile delle prime realtà fraterne di Fede si distaccava dalla “gara” della religione antica: emergeva la capacità di ristabilire concretamente le persone scoraggiate e ritessere sia la qualità di vita che le relazioni.

Le guide ufficiali, irresponsabili e totalmente disinteressate alla vita reale della gente, difendevano con malizia le loro posizioni e tentavano di esorcizzare l’ammirazione del popolo nei confronti degli amici di Gesù - con le solite fandonie sul male.

Ecco scaturire la Preghiera degli intimi, che veniva rivolta al Padre affinché aiutasse tutti i figli nella loro opera irradiante, di sostegno; per la nascita di una nuova, urgente consapevolezza vitale, e di legami - per bontà verso i bisognosi.

Insomma, la pedagogia di Dio si trasmette nell’ascolto disponibile, nell’orazione contemplativa, eppure non è astratta.

L’idea e l’opera della Fede si distaccano dal mondo della spiritualità sofisticata, o vuota, omologante.

È quella del lievito che fermenta la massa: salva gli uomini per mezzo di uomini - a partire dallo sguardo dell’anima (lucida, che vince l’affanno).

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Di fronte alle emergenze umane e sociali, cosa attendi e come ti ristori dalla stanchezza e dalle opposizioni? Vince l’affanno o la lucidità?

 

 

 

«Il Buon Pastore “vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore”, e disse: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai. Pregate, dunque, il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe!” (Mt 9,36-38).

L’arte di promuovere e di curare le vocazioni trova un luminoso punto di riferimento nelle pagine del Vangelo in cui Gesù chiama i suoi discepoli a seguirlo e li educa con amore e premura. Oggetto particolare della nostra attenzione è il modo in cui Gesù ha chiamato i suoi più stretti collaboratori ad annunciare il Regno di Dio (cfr Lc 10,9). Innanzitutto, appare chiaro che il primo atto è stata la preghiera per loro: prima di chiamarli, Gesù passò la notte da solo, in orazione ed in ascolto della volontà del Padre (cfr Lc 6,12), in un’ascesa interiore al di sopra delle cose di tutti i giorni. La vocazione dei discepoli nasce proprio nel colloquio intimo di Gesù con il Padre. Le vocazioni al ministero sacerdotale e alla vita consacrata sono primariamente frutto di un costante contatto con il Dio vivente e di un'insistente preghiera che si eleva al “Padrone della messe” sia nelle comunità parrocchiali, sia nelle famiglie cristiane, sia nei cenacoli vocazionali».

(Papa Benedetto, dal Messaggio per la 48.a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 15 maggio 2011)

 

 

 

Preghiera-presentimento, unitiva. Per non perdere la magia del Mistero

 

Gratuitamente: il Regno vicino e la Preghiera Incarnata

(Mt 9,35-10,1.6-8)

 

Gesù si distingue dai Rabbi del suo tempo, perché non attende che sia la gente spossata e prostrata (v.36) ad andare da lui: la cerca.

E il gruppo dei suoi dev’essere partecipe, sia nelle opere di guarigione che di liberazione - fraternità motivata da disinteresse luminoso.

Entra nelle assemblee di preghiera con ansia pastorale: per insegnare, non per disquisire. Non fa lezioni di analisi logica, ma lascia emergere Chi lo abita.

Proclama un Regno totalmente diverso da come veniva inculcato dai manipolatori delle coscienze (stracolmo di convinzioni dettagliate) - i quali non esercitavano certo in modo gratuito.

 

Le dottrine antiche e i suoi protagonisti smorzavano ogni dissonanza e producevano il peggio: intima coercizione, anonimato, solitudine, passività.

Inculcavano che fosse decisivo acquisire le loro piatte sicurezze, non certo aprirsi al Mistero personale, al carattere innato - fecondamente non conforme al contesto.

Di fatto, cercavano di disturbare i viaggi dell’anima, che talora vaga per ritrovarsi, e che al solito modo di vedere - paludoso, stagnante - preferisce nuovi scorci.

Non ammettevano che in ciascun fedele potesse dimorare una opzione fondamentale non omologata alla loro ideologia e maniera di scendere in campo.

Tutto della vita altrui doveva funzionare alla perfezione, secondo i loro obbiettivi. Quindi non predicavano turbamenti, ma staticità.

Nulla di nuovo doveva capitare, che potesse mettere in dubbio gli equilibri sociali, il loro influsso autoritario… e i loro proventi.

Nulla di diverso doveva esserci da esplorare e trovare.

Eppure, ieri come oggi, dentro ciascuna donna e uomo risiede un vulcano di energie potenziali - le quali secondo l’ideologia dominante dovevano solo essere soffocate e allineate.

 

Per tutto questo che ancora si trascina cerchiamo viceversa un Dio da sperimentare, amabile, non costruito “ad arte”… né invisibile o lontano dalla nostra condizione.

Vogliamo Colui che doni respiro, e ci comprenda.

Lo si coglie nitidamente: ciò che coviamo non è una misera illusione, da spegnere in favore di equilibri esterni.

Infatti l’Evangelo (v.35) annuncia Grazia: il volto del Padre - che non vuole nulla per sé, bensì dona tutto per trasmetterci la sua stessa Vita. E lo fa non per mortificare la nostra intima energia.

La Lieta Novella proclama un Amico che Viene, che non costringe a “salire” [in astratto] né imprigiona dentro sensi di colpa, sfiancando le creature già sottomesse - rendendole ancor più desolate di prima.

Qui si rivela un Cielo che fa sentire adeguati, non castiga e neppure impressiona, bensì promuove e mette tutti a proprio agio; un Misericordioso non solo buono: esclusivamente buono.

Il Padre prodigo accoglie le persone come fa il Figlio nei Vangeli - così come sono; non indagando. Piuttosto dilatando.

Anche la sua Parola-evento non solo riattiva: reintegra gli squilibri e li valorizza in prospettiva di percorsi da persona reale - senza giudicare o disperdere, né spezzare nulla.

 

Per una tale opera di sapiente ricomposizione dell’essere, il Maestro invita alla Preghiera (v.38) - prima forma d’impegno dei discepoli.

L’accesso a diverse sintonie nello Spirito c’insegna a stimolare lo sguardo dell’anima, a valorizzare e capire tutto e tutti.

Quindi - dopo averli resi meno ignari - Gesù invita i suoi a coinvolgersi nell’opera missionaria; non a fare i dotti o lezioni di morale.

Sarebbero sceneggiate senza premure, che fanno sentire i malfermi ancor più sperduti.

La Missione cresce a partire da una dimensione piccola ma sconfinata - quella della percezione intima, che si accorge delle necessità e del mistero d’una Presenza favorevole.

Nuove configurazioni d’intesa, in spirito: scoperte appieno solo nell’orazione profonda (v.38). Preghiera Incarnata.

Essa non vuole distoglierci dalla realizzazione interiore; al contrario, fa da guida, e ricolloca l’anima dispersa nelle tante pratiche comuni da svolgere, al proprio centro.

Ci fa provare lo struggimento del desiderio e del capire la condizione perfetta: il Padre non intende assorbire le nostre attitudini, bensì potenziarle. Perché ciascuno ha un intimo progetto, una Chiamata per Nome, un proprio posto nel mondo.

Sembra paradossale, ma la Chiesa in uscita - quella che non specula, né impegnata in proselitismi di massa per impressionare il mainstream - è anzitutto un problema di formazione e coscienza interna.

 

Insomma, ci si riconosce e si diventa non ignari delle cose attraverso la Preghiera-presentimento, unitiva.

In Cristo essa non è prestazione o espressione devota, bensì intesa e anzitutto Ascolto del Dio che in mille forme sottili si rivela e chiama.

L’impegno per sanare il mondo non si vince senza consapevolezze di vocazione, né lasciandosi plagiare e andando a casaccio.

Piuttosto, acuendo lo sguardo, e reinvestendo la virtù e il carattere anche dei nostri stessi lati ancora in ombra.

Né poi rimane essenziale valicare sempre ogni confine (Mt 10,5-6) con una logica di fuga.

Perché non di rado - purtroppo - solo chi ama la forza comincia dal troppo scostato da sé [dal tanto remoto e fuori mano].

Le “pecore” perdute e stanche di provare e riprovare - gli esclusi, i considerati persi, gli emarginati - non mancano. Sono a portata di mano, e non c’è urgenza di estraniarsi immediatamente. Quasi per volersi esonerare dai più prossimi.

L’orizzonte si espande da solo, se si è convinti e non si amano maschere o sotterfugi.

Il senso di prossimità a se stessi, agli altri e alla realtà è un portato autentico del Regno che si rivela: quello Vicino.

Intesa la natura delle creature e conformandovisi in modo crescente, tutti vengono ispirati a mutare e completarsi, arricchendo anche la sclerosi culturale, senza forzature alienanti.

Esercitando una pratica di bontà anche con se stessi.

 

Alcuni fra i più citati aforismi tratti dalla cultura del Tao recitano: “La via del fare è l’essere”; “chi conosce gli altri è sapiente, chi conosce se stesso è illuminato”; “un lungo viaggio di mille miglia inizia da un solo passo”; “il maestro osserva il mondo, ma si fida della sua visione interiore”; “se correggi la mente, il resto della tua vita andrà a posto”; “quando si accetta se stessi, il mondo intero ti accetta”.

 

Così nella lotta contro le infermità (Mt 9,35-10,1): ci si ristabilisce e si vince acuendo lo sguardo e reinvestendo l’energia e il carattere anche dei nostri stessi lati ancora offuscati.

Tutto il Gratis (Mt 10,8) che potrà scaturirne per edificare la vita in favore dei fratelli, sprizzerà non come puerile contraccambio [isterico] o ingaggio.

Sarà Dialogo d’Amore spontaneo, solido e allietante, perché privo di quegli squilibri che covano sotto la cenere dei condizionamenti di facciata.

 

Il senso di prossimità (v.7) a se stessi, agli altri e alla realtà sarà un portato autentico - non programmatico, né alienato - del Regno che si rivela: Accanto.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

La Preghiera in Cristo scuote la tua coscienza?

Quale consolazione attendi dal Dio che Viene?

Forse un compenso?

O una gratuità che innesca - qui e ora - il vero Amore-intesa, attento ai richiami di ogni Voce sottile?

 

 

 

La fiaccola della missione: Prossimità

 

Il nostro Dio è il Dio della vicinanza, è un Dio vicino, che cammina con il suo popolo. Quell’immagine nel deserto, nell’Esodo: la nube e la colonna di fuoco per proteggere il popolo: cammina con il suo popolo. Non è un Dio che lascia le prescrizioni scritte e dice: “Vai avanti”. Fa le prescrizioni, le scrive con le proprie mani sulla pietra, le dà a Mosè, le consegna a Mosè, ma non lascia le prescrizioni e se ne va: cammina, è vicino. “Quale nazione ha un Dio così vicino?”. È la vicinanza. Il nostro è un Dio della vicinanza.

E la prima risposta dell’uomo, nelle prime pagine della Bibbia, sono due atteggiamenti di non-vicinanza. La nostra risposta è sempre di allontanarci, ci allontaniamo da Dio. Lui si fa vicino e noi ci allontaniamo. Quelle due prime pagine. Il primo atteggiamento di Adamo con la moglie è nascondersi: si nascondono dalla vicinanza di Dio, hanno vergogna, perché hanno peccato, e il peccato ci porta a nascondersi, a non volere la vicinanza (cfr Gen 3,8-10). E tante volte, [porta] a fare una teologia pensata soltanto su un Dio giudice; e per questo mi nascondo, ho paura. Il secondo atteggiamento, umano, davanti alla proposta di questa vicinanza di Dio è uccidere. Uccidere il fratello. “Io non sono il custode di mio fratello” (cfr Gen 4,9).

Due atteggiamenti che cancellano ogni vicinanza. L’uomo rifiuta la vicinanza di Dio, lui vuole essere padrone dei rapporti e la vicinanza porta sempre con sé qualche debolezza. Il “Dio vicino” si fa debole, e quanto più vicino si fa, più debole sembra. Quando viene da noi, ad abitare con noi, si fa uomo, uno di noi: si fa debole e porta la debolezza fino alla morte e la morte più crudele, la morte degli assassini, la morte dei peccatori più grandi. La vicinanza umilia Dio. Lui si umilia per essere con noi, per camminare con noi, per aiutare noi.

Il “Dio vicino” ci parla di umiltà. Non è un “grande Dio”, no. È vicino. È di casa. E questo lo vediamo in Gesù, Dio fatto uomo, vicino fino alla morte. Con i suoi discepoli: li accompagna, insegna loro, li corregge con amore… Pensiamo, per esempio, alla vicinanza di Gesù ai discepoli angosciati di Emmaus: erano angosciati, erano sconfitti e Lui si avvicina lentamente, per far loro capire il messaggio di vita, di resurrezione (cfr Lc 24,13-32).

Il nostro Dio è vicino e chiede a noi di essere vicini, l’uno all’altro, di non allontanarci tra noi. E in questo momento di crisi per la pandemia che stiamo vivendo, questa vicinanza ci chiede di manifestarla di più, di farla vedere di più. Noi non possiamo, forse, avvicinarci fisicamente per la paura del contagio, ma possiamo risvegliare in noi un atteggiamento di vicinanza tra noi: con la preghiera, con l’aiuto, tanti modi di vicinanza. E perché noi dobbiamo essere vicini l’uno all’altro? Perché il nostro Dio è vicino, ha voluto accompagnarci nella vita. È il Dio della prossimità. Per questo, noi non siamo persone isolate: siamo prossimi, perché l’eredità che abbiamo ricevuto dal Signore è la prossimità, cioè il gesto della vicinanza.

Chiediamo al Signore la grazia di essere vicini, l’uno all’altro; non nascondersi l’uno all’altro; non lavarsi le mani, come ha fatto Caino, del problema altrui, no. Vicini. Prossimità. Vicinanza. «Infatti, quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che Lo invochiamo?».

(Papa Francesco, omelia s. Marta 18 marzo 2020)

Lunedì, 30 Giugno 2025 04:40

Vocazioni

La XLVIII Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, che sarà celebrata il 15 maggio 2011, quarta Domenica di Pasqua, ci invita a riflettere sul tema: “Proporre le vocazioni nella Chiesa locale”. Settant’anni fa, il Venerabile Pio XII istituì la Pontifìcia Opera per le Vocazioni Sacerdotali. In seguito, opere simili sono state fondate dai Vescovi in molte diocesi, animate da sacerdoti e da laici, in risposta all'invito del Buon Pastore, il quale, “vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore”, e disse: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai. Pregate, dunque, il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe!” (Mt 9,36-38).

L’arte di promuovere e di curare le vocazioni trova un luminoso punto di riferimento nelle pagine del Vangelo in cui Gesù chiama i suoi discepoli a seguirlo e li educa con amore e premura. Oggetto particolare della nostra attenzione è il modo in cui Gesù ha chiamato i suoi più stretti collaboratori ad annunciare il Regno di Dio (cfr Lc 10,9). Innanzitutto, appare chiaro che il primo atto è stata la preghiera per loro: prima di chiamarli, Gesù passò la notte da solo, in orazione ed in ascolto della volontà del Padre (cfr Lc 6,12), in un’ascesa interiore al di sopra delle cose di tutti i giorni. La vocazione dei discepoli nasce proprio nel colloquio intimo di Gesù con il Padre. Le vocazioni al ministero sacerdotale e alla vita consacrata sono primariamente frutto di un costante contatto con il Dio vivente e di un'insistente preghiera che si eleva al “Padrone della messe” sia nelle comunità parrocchiali, sia nelle famiglie cristiane, sia nei cenacoli vocazionali.

Il Signore, all’inizio della sua vita pubblica, ha chiamato alcuni pescatori, intenti a lavorare sulle rive del lago di Galilea: “Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini” (Mt 4,19). Ha mostrato loro la sua missione messianica con numerosi “segni” che indicavano il suo amore per gli uomini e il dono della misericordia del Padre; li ha educati con la parola e con la vita affinché fossero pronti ad essere continuatori della sua opera di salvezza; infine, “sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre” (Gv 13,1), ha affidato loro il memoriale della sua morte e risurrezione, e prima di essere elevato al Cielo li ha inviati in tutto il mondo con il comando: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19).

È una proposta, impegnativa ed esaltante, quella che Gesù fa a coloro a cui dice “Seguimi!”: li invita ad entrare nella sua amicizia, ad ascoltare da vicino la sua Parola e a vivere con Lui; insegna loro la dedizione totale a Dio e alla diffusione del suo Regno secondo la legge del Vangelo: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24); li invita ad uscire dalla loro volontà chiusa, dalla loro idea di autorealizzazione, per immergersi in un’altra volontà, quella di Dio e lasciarsi guidare da essa; fa vivere loro una fraternità, che nasce da questa disponibilità totale a Dio (cfr Mt 12,49-50), e che diventa il tratto distintivo della comunità di Gesù: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).

Anche oggi, la sequela di Cristo è impegnativa; vuol dire imparare a tenere lo sguardo su Gesù, a conoscerlo intimamente, ad ascoltarlo nella Parola e a incontrarlo nei Sacramenti; vuol dire imparare a conformare la propria volontà alla Sua. Si tratta di una vera e propria scuola di formazione per quanti si preparano al ministero sacerdotale ed alla vita consacrata, sotto la guida delle competenti autorità ecclesiali. Il Signore non manca di chiamare, in tutte le stagioni della vita, a condividere la sua missione e a servire la Chiesa nel ministero ordinato e nella vita consacrata, e la Chiesa “è chiamata a custodire questo dono, a stimarlo e ad amarlo: essa è responsabile della nascita e della maturazione delle vocazioni sacerdotali” (Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis, 41). Specialmente in questo nostro tempo in cui la voce del Signore sembra soffocata da “altre voci” e la proposta di seguirlo donando la propria vita può apparire troppo difficile, ogni comunità cristiana, ogni fedele, dovrebbe assumere con consapevolezza l’impegno di promuovere le vocazioni. È importante incoraggiare e sostenere coloro che mostrano chiari segni della chiamata alla vita sacerdotale e alla consacrazione religiosa, perché sentano il calore dell’intera comunità nel dire il loro “sì” a Dio e alla Chiesa. Io stesso li incoraggio come ho fatto con coloro che si sono decisi ad entrare in Seminario e ai quali ho scritto: “Avete fatto bene a farlo. Perché gli uomini avranno sempre bisogno di Dio, anche nell’epoca del dominio tecnico del mondo e della globalizzazione: del Dio che ci si è mostrato in Gesù Cristo e che ci raduna nella Chiesa universale, per imparare con Lui e per mezzo di Lui la vera vita e per tenere presenti e rendere efficaci i criteri della vera umanità” (Lettera ai Seminaristi, 18 ottobre 2010).

Occorre che ogni Chiesa locale si renda sempre più sensibile e attenta alla pastorale vocazionale, educando ai vari livelli, familiare, parrocchiale, associativo, soprattutto i ragazzi, le ragazze e i giovani - come Gesù fece con i discepoli – a maturare una genuina e affettuosa amicizia con il Signore, coltivata nella preghiera personale e liturgica; ad imparare l’ascolto attento e fruttuoso della Parola di Dio, mediante una crescente familiarità con le Sacre Scritture; a comprendere che entrare nella volontà di Dio non annienta e non distrugge la persona, ma permette di scoprire e seguire la verità più profonda su se stessi; a vivere la gratuità e la fraternità nei rapporti con gli altri, perché è solo aprendosi all’amore di Dio che si trova la vera gioia e la piena realizzazione delle proprie aspirazioni. “Proporre le vocazioni nella Chiesa locale”, significa avere il coraggio di indicare, attraverso una pastorale vocazionale attenta e adeguata, questa via impegnativa della sequela di Cristo, che, in quanto ricca di senso, è capace di coinvolgere tutta la vita.

Mi rivolgo particolarmente a voi, cari Confratelli nell’Episcopato. Per dare continuità e diffusione alla vostra missione di salvezza in Cristo, è importante “incrementare il più che sia possibile le vocazioni sacerdotali e religiose, e in modo particolare quelle missionarie” (Decr. Christus Dominus, 15). Il Signore ha bisogno della vostra collaborazione perché le sue chiamate possano raggiungere i cuori di chi ha scelto. Abbiate cura nella scelta degli operatori per il Centro Diocesano Vocazioni, strumento prezioso di promozione e organizzazione della pastorale vocazionale e della preghiera che la sostiene e ne garantisce l’efficacia. Vorrei anche ricordarvi, cari Confratelli Vescovi, la sollecitudine della Chiesa universale per un’equa distribuzione dei sacerdoti nel mondo. La vostra disponibilità verso diocesi con scarsità di vocazioni, diventa una benedizione di Dio per le vostre comunità ed è per i fedeli la testimonianza di un servizio sacerdotale che si apre generosamente alle necessità dell’intera Chiesa.

Il Concilio Vaticano II ha ricordato esplicitamente che “il dovere di dare incremento alle vocazioni sacerdotali spetta a tutta la comunità cristiana, che è tenuta ad assolvere questo compito anzitutto con una vita perfettamente cristiana” (Decr. Optatam totius, 2). Desidero indirizzare quindi un fraterno e speciale saluto ed incoraggiamento a quanti collaborano in vario modo nelle parrocchie con i sacerdoti. In particolare, mi rivolgo a coloro che possono offrire il proprio contributo alla pastorale delle vocazioni: i sacerdoti, le famiglie, i catechisti, gli animatori. Ai sacerdoti raccomando di essere capaci di dare una testimonianza di comunione con il Vescovo e con gli altri confratelli, per garantire l’humus vitale ai nuovi germogli di vocazioni sacerdotali. Le famiglie siano “animate da spirito di fede, di carità e di pietà” (ibid.), capaci di aiutare i figli e le fìglie ad accogliere con generosità la chiamata al sacerdozio ed alla vita consacrata. I catechisti e gli animatori delle associazioni cattoliche e dei movimenti ecclesiali, convinti della loro missione educativa, cerchino “di coltivare gli adolescenti a loro affidati in maniera di essere in grado di scoprire la vocazione divina e di seguirla di buon grado” (ibid.).

Cari fratelli e sorelle, il vostro impegno nella promozione e nella cura delle vocazioni acquista pienezza di senso e di efficacia pastorale quando si realizza nell’unità della Chiesa ed è indirizzato al servizio della comunione. È per questo che ogni momento della vita della comunità ecclesiale - la catechesi, gli incontri di formazione, la preghiera liturgica, i pellegrinaggi ai santuari - è una preziosa opportunità per suscitare nel Popolo di Dio, in particolare nei più piccoli e nei giovani, il senso di appartenenza alla Chiesa e la responsabilità della risposta alla chiamata al sacerdozio ed alla vita consacrata, compiuta con libera e consapevole scelta.

La capacità di coltivare le vocazioni è segno caratteristico della vitalità di una Chiesa locale. Invochiamo con fiducia ed insistenza l’aiuto della Vergine Maria, perché, con l’esempio della sua accoglienza del piano divino della salvezza e con la sua efficace intercessione, si possa diffondere all’interno di ogni comunità la disponibilità a dire “sì” al Signore, che chiama sempre nuovi operai per la sua messe. Con questo auspicio, imparto di cuore a tutti la mia Apostolica Benedizione.

Dal Vaticano, 15 novembre 2010

[Papa Benedetto, dal Messaggio per la 48.a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 15 maggio 2011]

Lunedì, 30 Giugno 2025 04:37

Prima di tutto, pregare

E' la prima volta che il nuovo Papa si rivolge a voi in occasione della celebrazione della Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni.

Innanzitutto il mio e vostro ricordo affettuoso, pieno di riconoscenza, vada al compianto Papa Paolo VI. Riconoscenza, perché egli, durante il Concilio, ha istituito questa Giornata di preghiera per tutte le vocazioni di speciale consacrazione a Dio e alla Chiesa. Riconoscenza, perché ogni anno, per quindici anni, egli ha illuminato questa Giornata con la sua parola di Maestro e ci ha incoraggiati con il suo cuore di Pastore.

Seguendo il suo esempio, ora mi rivolgo a voi in questa sedicesima Giornata Mondiale per confidarvi alcune cose che mi stanno molto a cuore, quasi tre parole d'ordine: pregare - chiamare - rispondere.

1. Prima di tutto, pregare.

E' certamente grande lo scopo per cui dobbiamo pregare, se Cristo stesso ci ha comandato di farlo: «Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe» (Mt 9, 38). Sia questa Giornata una pubblica testimonianza di fede e di obbedienza al comando del Signore. Celebratela dunque nelle vostre cattedrali: il Vescovo insieme al clero, i religiosi, le religiose, i missionari, gli aspiranti al sacerdozio e alla vita consacrata, il popolo, i giovani, molti giovani. Celebratela nelle parrocchie, nelle comunità, nei santuari, nei collegi e nei luoghi dove sono persone che soffrono. Si innalzi in ogni parte del mondo questo assalto al cielo, per chiedere al Padre ciò che Cristo ha voluto che noi domandiamo.

Sia una Giornata piena di speranza. Ci trovi riuniti, come in un cenacolo universale: «Perseveravano concordi nella preghiera . . . con Maria, la Madre di Gesù» (At 1, 14), nell'attesa fiduciosa dei doni dello Spirito Santo. Infatti, sull'altare del sacrificio eucaristico, attorno al quale ci stringiamo pregando, c'è lo stesso Cristo che prega con noi e per noi e ci assicura che otterremo ciò che chiediamo: «Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 19ss). Noi siamo molti riuniti nel suo nome e chiediamo soltanto ciò che lui vuole. Di fronte alla sua solenne promessa, com'è possibile non pregare con animo pieno di speranza?

Sia questa Giornata un centro di irradiazione spirituale. La nostra preghiera si diffonda e continui nelle chiese, nelle comunità, nelle famiglie, nei cuori credenti, come in un monastero invisibile, da cui salga al Signore una invocazione perenne.

[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la 16.a Giornata Mondiale per le Vocazioni, 6 gennaio 1979]

Lunedì, 30 Giugno 2025 04:29

La fiaccola della missione: Prossimità

Il nostro Dio è il Dio della vicinanza, è un Dio vicino, che cammina con il suo popolo. Quell’immagine nel deserto, nell’Esodo: la nube e la colonna di fuoco per proteggere il popolo: cammina con il suo popolo. Non è un Dio che lascia le prescrizioni scritte e dice: “Vai avanti”. Fa le prescrizioni, le scrive con le proprie mani sulla pietra, le dà a Mosè, le consegna a Mosè, ma non lascia le prescrizioni e se ne va: cammina, è vicino. “Quale nazione ha un Dio così vicino?”. È la vicinanza. Il nostro è un Dio della vicinanza.

E la prima risposta dell’uomo, nelle prime pagine della Bibbia, sono due atteggiamenti di non-vicinanza. La nostra risposta è sempre di allontanarci, ci allontaniamo da Dio. Lui si fa vicino e noi ci allontaniamo. Quelle due prime pagine. Il primo atteggiamento di Adamo con la moglie è nascondersi: si nascondono dalla vicinanza di Dio, hanno vergogna, perché hanno peccato, e il peccato ci porta a nascondersi, a non volere la vicinanza (cfr Gen 3,8-10). E tante volte, [porta] a fare una teologia pensata soltanto su un Dio giudice; e per questo mi nascondo, ho paura. Il secondo atteggiamento, umano, davanti alla proposta di questa vicinanza di Dio è uccidere. Uccidere il fratello. “Io non sono il custode di mio fratello” (cfr Gen 4,9).

Due atteggiamenti che cancellano ogni vicinanza. L’uomo rifiuta la vicinanza di Dio, lui vuole essere padrone dei rapporti e la vicinanza porta sempre con sé qualche debolezza. Il “Dio vicino” si fa debole, e quanto più vicino si fa, più debole sembra. Quando viene da noi, ad abitare con noi, si fa uomo, uno di noi: si fa debole e porta la debolezza fino alla morte e la morte più crudele, la morte degli assassini, la morte dei peccatori più grandi. La vicinanza umilia Dio. Lui si umilia per essere con noi, per camminare con noi, per aiutare noi.

Il “Dio vicino” ci parla di umiltà. Non è un “grande Dio”, no. È vicino. È di casa. E questo lo vediamo in Gesù, Dio fatto uomo, vicino fino alla morte. Con i suoi discepoli: li accompagna, insegna loro, li corregge con amore… Pensiamo, per esempio, alla vicinanza di Gesù ai discepoli angosciati di Emmaus: erano angosciati, erano sconfitti e Lui si avvicina lentamente, per far loro capire il messaggio di vita, di resurrezione (cfr Lc 24,13-32).

Il nostro Dio è vicino e chiede a noi di essere vicini, l’uno all’altro, di non allontanarci tra noi. E in questo momento di crisi per la pandemia che stiamo vivendo, questa vicinanza ci chiede di manifestarla di più, di farla vedere di più. Noi non possiamo, forse, avvicinarci fisicamente per la paura del contagio, ma possiamo risvegliare in noi un atteggiamento di vicinanza tra noi: con la preghiera, con l’aiuto, tanti modi di vicinanza. E perché noi dobbiamo essere vicini l’uno all’altro? Perché il nostro Dio è vicino, ha voluto accompagnarci nella vita. È il Dio della prossimità. Per questo, noi non siamo persone isolate: siamo prossimi, perché l’eredità che abbiamo ricevuto dal Signore è la prossimità, cioè il gesto della vicinanza.

Chiediamo al Signore la grazia di essere vicini, l’uno all’altro; non nascondersi l’uno all’altro; non lavarsi le mani, come ha fatto Caino, del problema altrui, no. Vicini. Prossimità. Vicinanza. «Infatti, quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che Lo invochiamo?».

[Papa Francesco, omelia s. Marta 18 marzo 2020]

Mercoledì, 25 Giugno 2025 09:16

Santi Pietro e Paolo apostoli

Festa dei Santi Pietro e Paolo apostoli [29 giugno 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Un ricordo particolare in questa domenica per Papa Leone XIV e per il suo ministero non facile in questo tempo di gravi crisi umane e spirituali nel mondo

 

*Prima lettura dagli Atti degli Apostoli (12, 1–11)

Gesù fu probabilmente giustiziato nell’aprile del 30. All’inizio, i suoi discepoli erano pochissimi e non davano fastidio, ma la situazione si complica quando iniziano a operare guarigioni e miracoli. Pietro fu imprigionato due volte dalle autorità religiose: la prima con Giovanni e si concluse con una comparizione davanti al tribunale e con minacce; la seconda con altri apostoli che Luca non nomina, liberati in modo miracoloso da un angelo (At 5, 17-20). In seguito le autorità religiose fanno uccidere Stefano e scatenano una vera persecuzione che spinge i più minacciati tra i cristiani chiamati “ellenisti” a lasciare Gerusalemme per la Samaria e la costa mediterranea. Giacomo, Pietro e Giovanni e l’insieme dei Dodici rimasero a Gerusalemme. Nell’episodio odierno il potere politico fa imprigionare Pietro sotto Erode Agrippa che regnò dal 41 al 44 d.C. Nipote di Erode il Grande, che regnava al momento della nascita di Gesù, Erode Agrippa era attento a non scontentare né il potere romano, né gli ebrei, tanto che si diceva che era romano a Cesarea e giudeo a Gerusalemme. Cercando però di piacere agli uni o agli altri, non poteva che essere nemico dei cristiani ed è in tale contesto che per farsi benvolere dagli ebrei, fece giustiziare Giacomo (figlio di Zebedeo) e imprigionò Pietro. Pietro scampa ancora miracolosamente, ma ciò che interessa a Luca, molto più del destino personale di Pietro, è la missione di evangelizzazione: se gli angeli vengono a liberare gli apostoli è perché il mondo ha bisogno di loro e Dio non permetterà che un potere ostacoli l’annuncio del vangelo. Una nota storica: Gli ebrei, ridotti in schiavitù e minacciati da un vero e proprio genocidio, vennero più volte liberati miracolosamente e nel corso dei secoli hanno annunciato al mondo che questa liberazione è sempre opera di Dio. Purtroppo, in un misterioso rovesciamento, può capitare che coloro che sono incaricati di annunciare e compiere essi stessi l’opera liberatrice di Dio, finiscano per farsi complici di una nuova forma di dominio, come avvenne per Gesù, vittima della perversione del potere religioso del suo tempo.  Luca, nel racconto della sua morte e resurrezione, mise bene in luce questo paradosso: fu nel contesto della Pasqua ebraica, memoriale del Dio liberatore, che il Figlio di Dio venne soppresso dai difensori di Dio. Tuttavia l’amore e il perdono del Dio “mite e umile di cuore” ebbero l’ultima parola: Gesù è risorto. Ed ecco che, a sua volta, la giovane Chiesa si trova ad affrontare la persecuzione dei poteri religiosi e politici, proprio come Gesù e anche questa volta, avviene nel contesto della Pasqua ebraica, a Gerusalemme. Pietro fu arrestato durante la settimana di Pasqua che inizia con il pasto pasquale e continua con la settimana degli Azzimi. Le parole che l’angelo dice a Pietro somigliano agli ordini dati al popolo la notte dell’uscita dall’Egitto (Es 12, 11): “Alzati in fretta! Mettiti la cintura, e legati i sandali” . Luca fa capire che Dio prosegue la sua opera di liberazione e l’intero racconto di questo miracolo è scritto sul modello e con il vocabolario della passione e resurrezione di Cristo. Simili gli scenari: è notte, c’è la prigione, ci sono i soldati, Pietro dorme a differenza di Gesù, ma per entrambi si leva nella notte la luce di Dio che agisce. Nell’oscurità della prova non viene meno la promessa di Cristo a Pietro perché le forze della morte e del male non prevarranno. La Chiesa nel travaglio della storia ripete spesso con Pietro la sua professione di fede: “Ora so veramente che il Signore ha mandato un angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode” (v.11)

 

*Salmo responsoriale (33/34, 2-9)

“L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono, e li libera”. Cantiamo questo salmo dopo aver ascoltato il racconto della liberazione di Pietro e sappiamo che tutta la giovane Chiesa era in preghiera per lui. “Questo povero grida; il Signore lo ascolta”: la fede è gridare a Dio e sapere che ci ascolta, come ascoltò il grido della comunità, e Pietro fu liberato. Gesù però sulla croce non è sfuggito alla morte e anche Pietro di nuovo prigioniero a Roma sarà ucciso. Si dice spesso che con la preghiera tutto si risolverà e invece non è così perché anche chi prega e fa novene e pellegrinaggi non sempre ottiene la grazia domandata. Dunque Dio a volte non ascolta oppure, quando non veniamo esauditi come vorremmo è perché abbiamo pregato male o non abbastanza? La risposta sta in tre punti: 1. Sì,Dio ascolta sempre il nostro grido; 2. risponde donandoci il suo Spirito; 3. suscita accanto a noi dei fratelli. 1.Dio sempre ascolta il nostro grido. Nell’episodio del roveto ardente (Es 3) leggiamo: “Dio disse a Mosè: Sì, davvero, ho visto la miseria del mio popolo in Egitto, e ho udito il suo grido sotto i colpi dei suoi sorveglianti. Sì, conosco le sue sofferenze”. Il vero credente sa che il Signore ci è vicino nella sofferenza perché è “dalla nostra parte”, come leggiamo  qui nel salmo 33/34: Ho cercato il Signore: mi ha risposto…mi ha liberato…ascolta…salva… il suo angelo si accampa attorno e libera quelli che lo temono, è un rifugio. 2. Dio ci risponde donandoci il suo Spirito come si capisce quando si ascolta ciò che Gesù dice nel vangelo di Luca: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto. Chiunque infatti chiede, riceve; chi cerca, trova; e a chi bussa, sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà invece un serpente? O se chiede un uovo, gli darà forse uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono. » (Lc 11, 9-13). Dio non fa sparire ogni preoccupazione per magia, ma ci riempie del suo Spirito e la preghiera ci apre all’azione dello Spirito  che suscita in noi la forza per modificare la situazione e superare la prova. Non siamo più soli: leggiamo nel salmo responsoriale che “Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce… Ho cercato il Signore, mi ha risposto e da ogni paura mi ha liberato” (vv. 6-7). Credere che il Signore ci ascolta fa spegnere la paura e svanire l’angoscia. 3.Dio suscita accanto a noi dei fratelli. Quando nell’episodio del roveto ardente Dio dice che ha visto la miseria del popolo in Egitto e udito il suo grido, suscita in Mosè l’impulso a liberare il popolo: “E ora, poiché il grido degli Israeliti è giunto fino a me… va’ dunque; io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo” (Es 3, 9-10). Quante volte nell’esperienza dalla sofferenza, Dio ha suscitato i profeti e i capi di cui il popolo aveva bisogno per prendere in mano il proprio destino. Infondo il salmo responsoriale esprime l’esperienza storica di Israele dove la fede appare come un duplice grido: l’uomo grida la sua angoscia come Giobbe e sempre Dio ascolta e lo libera. L’uomo poi prega rendendo grazie come Israele che, pur fra mille vicissitudini, mai ha perso la speranza cantando: “Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino!”(vv. 2-3)

 

*Seconda lettura dalla seconda Lettera di san Paolo a Timoteo (4, 6 -8.17-18)

Si pensa che le due lettere a Timoteo furono forse scritte qualche anno dopo da un discepolo di Paolo, invece tutti concordano nel riconoscere che è suo il testo che oggi leggiamo; anzi rappresenta il suo testamento e l’ultimo saluto a Timoteo. Prigioniero a Roma, Paolo è consapevole che sarà giustiziato ed è arrivato il momento della grande partenza, certo di dover comparire davanti a Dio. Guarda quindi retrospettivamente al passato da quando sulla via di Damasco Cristo l’ha impugnato come una spada e traccia un bilancio utilizzando in flashback quattro immagini che ben disegnano l’itinerario della sua missione. 1. La prima immagine è legata al culto: “Io sto già per essere versato in offerta” (v.6), allude a un’antica usanza cultuale chiamata libazione che consisteva nel versare un liquido (vino, olio, acqua latte o miele) come offerta sacra, simbolo del dono totale della vita alla divinità. Paolo usa quest’immagine per dire che la sua esistenza è un totale sacrificio a Cristo. 2. La seconda immagine é legata alla navigazione: “è giunto il momento che io lasci questa vita” (v.6). Paolo sa che il suo viaggio è quasi giunto al porto dopo tempeste e problemi d’ogni genere. Ha scelto la parola greca “analusis” (scioglimento, liberazione) usata in ambito nautico e militare sia per indicare lo scioglimento delle corde che tengono la nave ancorata per salpare verso mare aperto; sia in ambito militare per indicare lo smontaggio delle tende di un accampamento quando i soldati partono per una nuova missione. Paolo vuol dire che la sua vita sta per essere liberata dai legami terreni per salpare verso la patria, la casa del Padre. 3. La terza immagine è legata alla lotta, non violenta ma interiore e spirituale, per evangelizzare: “Ho combattuto la buona battaglia” (v.7). La sua vita è segnata da combattimenti, persecuzioni, aspri confronti e tradimenti, eppure, come scrive più avanti, è sempre stata liberato “dalla bocca del leone” (v.17).  4.La quarta immagine è connessa allo sport: “Ho terminato la corsa” (v.7). La corsa praticata negli stadi nell’antichità è simbolo del cristiano che mai abbandona il percorso missionario e al termine, se conserva la fede, riceve la “corona” che il Signore riserva ai veri discepoli di Cristo. Questa corsa non è competizione fra atleti perché ognuno al suo ritmo avanza verso Cristo e “la sua manifestazione”. Ed allora, come Gesù e Stefano, al momento dell’esecuzione, Paolo perdona coloro che lo hanno abbandonato certo della forza del Signore liberatrice da ogni male. E il pericolo vero da cui Dio lo ha preservato è quello di rinunciare alla sua missione fino alla morte. Non è però questo un motivo di vanto perché sa che Dio l’ha salvato e per questo  intona il canto di gloria mentre nasce alla vera vita: “A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.”

 

*Dal Vangelo secondo Matteo (16, 13 –19)

Questo episodio segna una svolta nella vita di Gesù e di Pietro perché appena Simone proclama chi è Gesù, riceve da lui la missione per la Chiesa. Cristo costruisce la sua Chiesa su un uomo la cui unica virtù è quella di aver proclamato ciò che il Padre gli ha rivelato: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”(v16) . Questo significa che l’unico vero pilastro della Chiesa è sua la fede in Cristo, il quale subito risponde: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (v.18). Questo celebre testo “petrino” è costruito su tre simboli: Il primo è la “pietra” che si lega al nome aramaico Kefa: “Tu sei Pietro”. In greco: “Σ ε Πέτρος (Petros)” significa “tu sei Pietra” o “Roccia”. Gesù cambia il nome di Simone in Pietro, dandogli una missione e un’identità nuova. In ambito semitico cambiare il nome indica cambiamento del destino e della realtà della persona. Simone diventa così la roccia sulla quale Cristo pone la base della Chiesa che resta sua e di cui è per sempre la “pietra angolare” insostituibile. Nell’antichità, la pietra era simbolo di stabilità e sicurezza per cui edificare sulla pietra significa costruire su un fondamento saldo e inamovibile e su Pietro il Signore inizia a dare una forma visibile alla sua comunità. Promette che la sua Chiesa, fondata su questa pietra-  la fede e la sua missione di Pietro(v. 6),- resisterà alle forze del male e Pietro diventa così il primo pastore visibile della comunità, anche se il vero fondamento ed eterno Pastore è Cristo (cfr. 1 Cor 3,11). Secondo simbolo, le chiavi: “A te darò le chiavi del regno dei cieli”. Le chiavi, segno di autorità e responsabilità su una casa, rendono un’immagine efficace della potestà che Cristo trasmette a Pietro. Affidare le chiavi equivale a conferire il potere di aprire e chiudere, di permettere o vietare l’accesso. Pietro non è il fondatore e il sovrano di un regno, ma il responsabile immediato che esercita il potere in modo delegato guidando la comunità dei credenti, insegnando e prendendo decisioni vincolanti in materia di fede e di morale. Il terzo simbolo s’esprime nel binomio legare e sciogliere: “Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto in cielo” (v19). Le espressioni “legare” e “sciogliere” erano comuni nel linguaggio rabbinico e indicavano il potere di dichiarare qualcosa lecito o illecito, di permettere o proibire determinate azioni. Applicate a Pietro, sottolineano la sua autorità nel prendere decisioni dottrinali e disciplinari in piena fedeltà alla parola di Dio (Gv 20,23), autorità che condivide nella Chiesa con gli altri apostoli (Mt. 18,18), anche se Pietro conserva un ruolo di unico e preminente rilievo. Infine Gesù dice: “Io edificherò la mia Chiesa”: è dunque lui che costruisce e guida la Chiesa che resta per sempre sua, per cui possiamo camminare sicuri perché “le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.” (v.18)

+ Giovanni D’Ercole

Domenica, 22 Giugno 2025 19:25

Ss. Pietro, Paolo, e Francesco

Domenica, 22 Giugno 2025 19:15

Ss. Pietro e Paolo, Apostoli

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Isn’t the family just what the world needs? Doesn’t it need the love of father and mother, the love between parents and children, between husband and wife? Don’t we need love for life, the joy of life? (Pope Benedict)
Non ha forse il mondo bisogno proprio della famiglia? Non ha forse bisogno dell’amore paterno e materno, dell’amore tra genitori e figli, tra uomo e donna? Non abbiamo noi bisogno dell’amore della vita, bisogno della gioia di vivere? (Papa Benedetto)
Thus in communion with Christ, in a faith that creates charity, the entire Law is fulfilled. We become just by entering into communion with Christ who is Love (Pope Benedict)
Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore (Papa Benedetto)
From a human point of view, he thinks that there should be distance between the sinner and the Holy One. In truth, his very condition as a sinner requires that the Lord not distance Himself from him, in the same way that a doctor cannot distance himself from those who are sick (Pope Francis))
Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato (Papa Francesco)
The life of the Church in the Third Millennium will certainly not be lacking in new and surprising manifestations of "the feminine genius" (Pope John Paul II)
Il futuro della Chiesa nel terzo millennio non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del « genio femminile » (Papa Giovanni Paolo II)
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
E non basta che tu appartenga al Figlio di Dio, ma devi essere in lui, come le membra sono nel loro capo. Tutto ciò che è in te deve essere incorporato in lui e da lui ricevere vita e guida (Giovanni Eudes)
This transition from the 'old' to the 'new' characterises the entire teaching of the 'Prophet' of Nazareth [John Paul II]
Questo passaggio dal “vecchio” al “nuovo” caratterizza l’intero insegnamento del “Profeta” di Nazaret [Giovanni Paolo II]
The Lord does not intend to give a lesson on etiquette or on the hierarchy of the different authorities […] A deeper meaning of this parable also makes us think of the position of the human being in relation to God. The "lowest place" can in fact represent the condition of humanity (Pope Benedict)
Il Signore non intende dare una lezione sul galateo, né sulla gerarchia tra le diverse autorità […] Questa parabola, in un significato più profondo, fa anche pensare alla posizione dell’uomo in rapporto a Dio. L’"ultimo posto" può infatti rappresentare la condizione dell’umanità (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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