Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Gv 6,1-15 presenta il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Vedendo la grande folla che lo aveva seguito nei pressi del lago di Tiberiade, Gesù si rivolge all’apostolo Filippo e domanda: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (v. 5). I pochi denari che Gesù e gli apostoli possiedono, infatti, non bastano per sfamare quella moltitudine. Ed ecco che Andrea, un altro dei Dodici, conduce da Gesù un ragazzo che mette a disposizione tutto quello che ha: cinque pani e due pesci; ma certo – dice Andrea – sono niente per quella folla (cfr v. 9). Bravo questo ragazzo! Coraggioso. Anche lui vedeva la folla, e vedeva i suoi cinque pani. Dice: “Io ho questo: se serve, sono a disposizione”. Questo ragazzo ci fa pensare… Quel coraggio… I giovani sono così, hanno coraggio. Dobbiamo aiutarli a portare avanti questo coraggio. Eppure Gesù ordina ai discepoli di far sedere la gente, poi prende quei pani e quei pesci, rende grazie al Padre e li distribuisce (cfr v. 11), e tutti possono avere cibo a sazietà. Tutti hanno mangiato quello che volevano.
Con questa pagina evangelica, la liturgia ci induce a non distogliere lo sguardo da quel Gesù che domenica scorsa, nel Vangelo di Marco, vedendo «una grande folla, ebbe compassione di loro» (6,34). Anche quel ragazzo dei cinque pani ha capito questa compassione, e dice: “Povera gente! Io ho questo…”. La compassione lo ha portato a offrire quello che aveva. Oggi infatti Giovanni ci mostra nuovamente Gesù attento ai bisogni primari delle persone. L’episodio scaturisce da un fatto concreto: la gente ha fame e Gesù coinvolge i suoi discepoli perché questa fame venga saziata. Questo è il fatto concreto. Alle folle, Gesù non si è limitato a donare questo – ha offerto la sua Parola, la sua consolazione, la sua salvezza, infine la sua vita –, ma certamente ha fatto anche questo: ha avuto cura del cibo per il corpo. E noi, suoi discepoli, non possiamo far finta di niente. Soltanto ascoltando le più semplici richieste della gente e ponendosi accanto alle loro concrete situazioni esistenziali si potrà essere ascoltati quando si parla di valori superiori.
L’amore di Dio per l’umanità affamata di pane, di libertà, di giustizia, di pace, e soprattutto della sua grazia divina, non viene mai meno. Gesù continua anche oggi a sfamare, a rendersi presenza viva e consolante, e lo fa attraverso di noi. Pertanto, il Vangelo ci invita ad essere disponibili e operosi, come quel ragazzo che si accorge di avere cinque pani e dice: “Io dò questo, poi tu vedrai…”. Di fronte al grido di fame – ogni sorta di “fame” – di tanti fratelli e sorelle in ogni parte del mondo, non possiamo restare spettatori distaccati e tranquilli. L’annuncio di Cristo, pane di vita eterna, richiede un generoso impegno di solidarietà per i poveri, i deboli, gli ultimi, gli indifesi. Questa azione di prossimità e di carità è la migliore verifica della qualità della nostra fede, tanto a livello personale, quanto a livello comunitario.
Poi, alla fine del racconto, Gesù, quando tutti furono saziati, Gesù disse ai discepoli di raccogliere i pezzi avanzati, perché nulla andasse perduto. E io vorrei proporvi questa frase di Gesù: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto» (v. 12). Penso alla gente che ha fame e a quanto cibo avanzato noi buttiamo… Ognuno di noi pensi: il cibo che avanza a pranzo, a cena, dove va? A casa mia, cosa si fa con il cibo avanzato? Si butta? No. Se tu hai questa abitudine, ti dò un consiglio: parla con i tuoi nonni che hanno vissuto il dopoguerra, e chiedi loro che cosa facevano col cibo avanzato. Non buttare mai il cibo avanzato. Si rifà o si dà a chi possa mangiarlo, a chi ha bisogno. Mai buttare il cibo avanzato. Questo è un consiglio e anche un esame di coscienza: cosa si fa a casa col cibo che avanza?
Preghiamo la Vergine Maria, perché nel mondo prevalgano i programmi dedicati allo sviluppo, all’alimentazione, alla solidarietà, e non quelli dell’odio, degli armamenti e della guerra.
[Papa Francesco, Angelus 29 luglio 2018]
1 gennaio 2025 nell’ottava di Natale - Maria SS Madre di Dio
Prima Lettura dal Libro dei Numeri (6,22-27)
*Ti benedica il Signore
Per aprire il nuovo anno solare che segue il calendario civile gregoriano, in uso in quasi tutto il mondo, è stata scelta la bellissima benedizione, che in Israele i sacerdoti, a partire da Aronne e i suoi figli, utilizzavano per benedire il popolo durante le cerimonie liturgiche nel Tempio di Gerusalemme. Si tratta di una formula che fa ormai parte anche del patrimonio cristiano: tratta dal Libro dei Numeri è infatti inclusa tra le benedizioni solenni proposte per la conclusione della messa. Da notare come si chiude questa benedizione: “Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”(v.27). A ben vedere si tratta di un modo di esprimersi, poiché, in realtà, il nome di Dio non viene mai pronunciato per rispetto nei suoi confronti. Il nome rappresenta la persona stessa e pronunciarne il nome è un atto giuridico che implica una presa di possesso, ma anche un impegno di protezione. Ad esempio, quando un guerriero conquista una città, si dice che pronuncia il suo nome su di essa; allo stesso modo, nel giorno del matrimonio ebraico, viene pronunciato il nome del marito sulla moglie anche se lei non porta il nome del marito, e ciò implica appartenenza e promessa di vigilanza. Quando Dio rivela il suo nome si rende accessibile alla preghiera del suo popolo e invocare il nome di Dio costituisce normalmente una garanzia di benedizione. C’è un legame così forte fra Dio e il suo popolo che le offese rivolte al popolo di Dio costituiscono una blasfemia contro il suo nome, sono un insulto personale. Per questo comprendiamo meglio le parole di Gesù: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Con questa benedizione vogliamo allora dire quest’oggi che su tutte le persone che incontreremo durante tutto l’anno che inizia, Dio ha posto il suo nome su di loro e, in ragione di tale benedizione, siamo invitati a guardarle con occhi nuovi.
In merito poi alla benedizione del Libro dei Numeri, ecco alcuni spunti di riflessione:
1. Questa formula di benedizione è al singolare: “Ti benedica il Signore” e non “Vi benedica il Signore”. In realtà, si riferisce all’intero popolo d’Israele ed è quindi un singolare collettivo e, con il tempo, Israele comprese che questa protezione di Dio non era riservata solo a lui, ma all’intera umanità.
2. “Ti benedica il Signore” (v. 24) è al congiuntivo come pure “il Signore faccia risplendere per te il suo volto … Il Signore rivolga a te il suo volto”(v.25,26)). Auspichiamo di essere benedetti ma possiamo chiederci: è mai possibile che il Signore non ci benedica, lui che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, cioè su tutti gli uomini e che ci chiede di amare anche i nostri nemici…? Ovviamente, sappiamo bene che Dio ci benedice continuamente, che ci accompagna e che è con noi in ogni circostanza. Eppure, questo congiuntivo, come tutti i congiuntivi, esprime un desiderio che concerne noi e non lui. Dio ci benedice continuamente, ma siamo liberi di non accogliere la sua benedizione… come il sole che splende anche quando cerchiamo l’ombra e siamo liberi di cercare l’ombra… Allo stesso modo, siamo liberi di sottrarci all’azione benefica di Dio… Chi si mette al riparo dal sole, perde ogni possibilità di beneficiarne della luce e del calore e non per colpa del sole! Quindi, la formula “Ti benedica Dio” è un augurio che ci invita a metterci sotto la sua benedizione. In altri termini, Dio ci offre la sua benedizione, ma sta a noi accoglierla e questo congiuntivo serve a manifestare la nostra libera adesione.
3.In che cosa consiste la benedizione di Dio? Benedire è un termine latino che significa dire bene, quindi Dio dice bene di noi. Non dobbiamo sorprenderci che Dio dica bene di noi perché ci ama e per questo pensa e dice bene di noi. Anzi in noi si ferma a vedere solo ciò che è buono. La sua Parola però è anche azione: “Disse e tutto fu” (Gn 1). Quindi, quando Dio dice bene di noi, egli agisce in noi con la sua parola, ci trasforma, ci fa del bene.E quindi, quando chiediamo la sua benedizione, ci offriamo all’azione trasformante di Dio
4. Attenzione! Questa benedizione non è qualcosa di magico. Essere benedetti significa scegliere di vivere nella grazia di Dio, in armonia con Lui e nella sua alleanza, senza che questo ci risparmi le difficoltà e le prove. Chi vive nella benedizione di Dio attraverserà la fatica della vita sentendo sempre dire Dio a me, come scrive Isaia, “Ti sostengo con la destra vittoriosa”…“ti tengo per la destra e ti dico: Non temere, io ti vengo in aiuto” (Is.41,10-13).
5. Mosè promette al popolo: “Sarai benedetto più di tutti i popoli” (Dt 7,14). Israele quindi è benedetto, ma questo non gli ha impedito di attraversare periodi terribili; tuttavia, in mezzo alle prove, il credente sa che Dio non lo abbandona e anzi lo accompagna con perseverante pazienza. Nell’odierna festa di Maria, Madre di Dio, tutto ciò assume un significato particolare. L’angelo Gabriele, inviato per annunciarle la nascita di Gesù, le disse:“Ti saluto, piena di grazia” (Lc 1,28). Maria è per eccellenza colei sulla quale è stato pronunciato il nome di Dio e rimane sotto la sua dolcissima protezione. Ben a ragione dunque Elisabetta proclamerà: “Benedetta tu fra le donne” (Lc 1,42).
5. Purtroppo, il testo italiano non riesce a rendere tutta la ricchezza della formula originale in ebraico per due ragioni. Innanzitutto, il nome di Dio, YHWH, trascritto qui come “il Signore”, è il nome che Dio ha rivelato a Mosè e di per sé rappresenta una promessa di presenza protettiva, la stessa che ha sempre accompagnato i figli d’Israele dalla loro uscita dall’Egitto. In secondo luogo, tradurre i verbi ebraici con un congiuntivo in italiano è un inevitabile impoverimento. Dato che il sistema verbale ebraico è molto diverso da quello italiano, per maggiore precisione gli esperti suggeriscono di tradurre così: “Ti benedice il Signore e ti custodisce” , cioè, Dio ti benedice e ti custodisce ora e ti benedirà e ti custodirà per sempre». infondo questa è la nostra fede!
Salmo responsoriale 66 (67)
*Il nostro Dio ci benedice
Il Salmo 66 risuona come un’eco alla prima lettura, dove il Libro dei Numeri ci ha offerto la ben nota e splendida formula di benedizione: ”Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto, e ti faccia grazia! Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace!”. Anche qui, ecco solo qualche considerazione:
1 Iniziamo dal significato stesso del termine benedizione. Il profeta Zaccaria dice: “In quei giorni, dieci uomini di ogni lingua e nazione afferreranno un Giudeo per il lembo del suo mantello e gli diranno: “Vogliamo venire con voi, perché abbiamo udito che Dio è con voi” (Zc 8,23). Questa è una interessante definizione di benedizione: dire che Dio ci benedice significa affermare che Dio è con noi, che ci accompagna. Questo, d’altronde, è il significato del Nome stesso di Dio rivelato al Sinai: YHWH, Nome impronunciabile che noi traduciamo con il Signore. Sebbene non sia traducibile alla lettera, gli ebrei lo comprendono come una promessa di presenza costante da parte di Dio accanto al suo popolo.
2. Qui è il popolo a invocare su di sé la benedizione di Dio: “Dio abbia pietà di noi e ci benedica”. A proposito della formula sacerdotale riportata nel Libro dei Numeri, siamo continuamente certi della benedizione di Dio, ma siamo liberi di non accoglierla. Quando il sacerdote dice “Il Signore vi benedica”, non esprime il desiderio che Dio scelga di benedirci perché non potrebbe non benedirci, ma augura che apriamo il cuore alla sua benedizione, affinché possa trasformarci e agire in noi. Il Salmo lo dice chiaramente: “Dio abbia pietà di noi e ci benedica… Dio, il nostro Dio, ci benedice”. Queste due frasi non sono contraddittorie: Dio ci benedice costantemente, questa è una certezza (“Dio, il nostro Dio, ci benedice”, v. 7), ma per accogliere la sua azione, basta che lo desideriamo (“Dio abbia pietà di noi e ci benedica”, v. 2).
3. La certezza di essere esauditi ancor prima di formulare una richiesta è caratteristica della preghiera in Israele. Il credente sa di vivere costantemente immerso nella benedizione, nella presenza benefica di Dio. Gesù stesso dice: «Io sapevo che mi dai sempre ascolto» (Gv 11,42).
4. Il popolo d’Israele non chiede questa benedizione solo per sé e la benedizione pronunciata su Israele si riversa sugli altri popoli: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” disse Dio ad Abramo (Gn 12,3). In questo Salmo ritroviamo, intrecciati come sempre, i due grandi temi: da una parte l’elezione di Israele, dall’altra l’universalità del progetto di Dio. L’opera di salvezza dell’umanità si compie attraverso l’elezione di Israele. L’elezione di Israele è evidente nell’espressione “Dio, il nostro Dio”, che richiama l’Alleanza stipulata da Dio con il popolo che ha scelto. Ma è altrettanto chiaro l’universalismo del progetto divino: “Sulla terra si conosca la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti”, oppure: “Che le nazioni esultino di gioia”. Inoltre, in questo Salmo il ritornello che si ripete due volte prefigura il giorno in cui tutti i popoli accoglieranno la benedizione di Dio: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti”. Israele sa di essere scelto per essere il popolo testimone: la luce che splende su di lui è il riflesso di Colui che Israele deve far conoscere al mondo. Questa comprensione dell’elezione di Israele come vocazione non fu immediata per gli uomini della Bibbia ed è comprensibile: all’inizio della storia biblica, ogni popolo immaginava che le divinità regnassero su territori specifici: c’erano le divinità di Babilonia, quelle dell’Egitto e di ogni altro paese. Solo intorno al VI secolo il popolo d’Israele capì che il Dio con cui aveva stipulato l’Alleanza al Sinai era il Dio dell’intero universo; l’elezione di Israele non veniva annullata, ma acquisiva un significato nuovo come ben mostra il profeta Zaccaria, citato sopra (Zc 8,23). Anche noi siamo un popolo testimone: quando riceviamo la benedizione di Dio, siamo chiamati a diventare il riflesso della luce divina nel mondo ed è questo l’augurio che possiamo farci reciprocamente all’inizio di questo nuovo anno: essere portatori della luce di Dio per tutti coloro che incontreremo
5. ”La terra ha dato il suo frutto; Dio, il nostro Dio, ci benedice”. Poiché la Parola di Dio è azione, essa produce frutto. Dio aveva promesso una terra fertile, dove scorrono latte e miele e ha mantenuto fede a quanto promesso facendo giungere Israele nella terra promessa. A maggior ragione, i cristiani possono leggere questo salmo pensando alla nascita del Salvatore: quando giunse la pienezza dei tempi, la terra portò il suo frutto. Scrive san Giovanni della Croce: “Poiché Egli (Dio) ci ha dato il suo Figlio, che è la sua unica e definitiva Parola, in questa Parola ha detto tutto e non ha più nulla da rivelare” (Salita del Monte Carmelo. Libro II, cap.22, par.3)
Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo ai Galati ( 4, 4-7)
*“Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio”.
In questo breve testo ritroviamo un tema molto caro a san Paolo: il compimento del progetto di Dio. Per i credenti, sia ebrei sia cristiani, questo è un elemento fondamentale della fede: la storia non è un eterno ricominciare, ma un cammino progressivo dell’umanità verso il suo compimento, verso la realizzazione del progetto di amore misericordioso di Dio. Questo tema è centrale nelle lettere di San Paolo e rappresenta una chiave di lettura non solo per comprenderle, ma pure per leggere l’intera Bibbia, a partire dall’Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento viene continuamente sottolineato che la vita, la passione, la morte e la risurrezione di Gesù di Nazareth compiono le Scritture. Paolo afferma davanti ai suoi giudici: “Io non ho detto nulla al di fuori di ciò che Mosè e i profeti avevano predetto” (At 26,22). E l’evangelista Matteo ama ripetere: “Tutto questo avvenne affinché si compisse ciò che era stato detto dal profeta”. Si deve allora pensare che tutto era già scritto in anticipo? Per meglio capire, occorre notare che “affinché” in italiano è una congiunzione subordinante finale con due diversi significati: uno di finalità e uno di conseguenza. Se intendiamo finalità, allora gli eventi si sarebbero verificati secondo un piano predefinito, prestabilito fin dall’eternità. Ma se l’intendiamo come conseguenza, significa che gli eventi si svolgono in un determinato modo e, a posteriori, noi riconosciamo come, attraverso di essi, Dio abbia realizzato il suo progetto. Il progetto di Dio, quindi, non è un programma rigido in cui il ruolo di ciascuno è predeterminato. Dio si assume il rischio della nostra libertà e, nel corso dei secoli, gli uomini hanno spesso ostacolato il suo piano. Per questo i profeti si sono lamentati, ma non hanno mai perso la speranza. Anzi, hanno continuamente promesso che Dio non si sarebbe stancato. Isaia, per esempio, annuncia da parte di Dio: “Io dico: il mio progetto si compirà, e realizzerò tutto ciò che desidero” (Is 46,10). E Geremia aggiunge: “Io conosco i progetti che ho fatto per voi, oracolo del Signore: progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza” (Ger 29,11).
Nel Nuovo Testamento viene sempre contemplato in Gesù il compimento delle promesse di Dio. “Dio mandò il suo Figlio: nato da donna, nato sotto la Legge”. Con poche parole, Paolo racchiude tutto il mistero della persona di Gesù: Figlio di Dio, uomo come gli altri, ebreo come gli altri ebrei. L’espressione “nato da donna”, anzitutto, è comune nella Bibbia e significa semplicemente “un uomo come gli altri”. Per esempio, per evitare ripetizioni del termine uomo in una stessa frase, si utilizza l’espressione “figlio della donna” (cfr. Sir 10,18; Gb 15,14; Gb 25,4). Gesù stesso usa questa espressione parlando di Giovanni Battista: “In verità vi dico: tra i nati da donna non è sorto uno più grande di Giovanni Battista” (Mt 11,11).
L’affermazione “nato sotto la Legge” indica che Gesù ha accettato la condizione degli uomini del suo popolo. Paolo prosegue: “Per riscattare coloro che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”. S’incontra spesso nella Bibbia il termine “riscattare”, che significa liberare, affrancare. Nell’Antico Testamento, il redentore era colui che liberava lo schiavo. Essere sotto la Legge, quindi, non è la stessa cosa che essere nella condizione di figli: c’è perciò un passaggio da compiere. Colui che vive sotto la Legge si comporta da servo, sottomettendosi agli ordini. Il figlio, invece, vive nell’amore e nella fiducia: può obbedire al padre – cioè ascoltare la sua parola – perché si fida di lui e sa che ogni sua parola è dettata dall’amore. Questo significa passare dalla dominazione della Legge all’obbedienza dei figli. Il passaggio verso un atteggiamento filiale e fiducioso è possibile perché “Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abba, Padre”. Questo grido, che chiama il Padre, è l’unico che ci salva in ogni circostanza perché è come il grido disperato e fiducioso del bambino che si fida del papà. Qualunque cosa accada, sappiamo che Dio ci è Padre e che ha solo tenerezza d’amore nei nostri confronti. Questa è l’attitudine filiale che Cristo è venuto a vivere in mezzo a noi, a nostro nome. Paolo conclude: “Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede”. Il termine erede è da intendersi in senso pieno: ciò che appartiene a Dio ci è promesso, ma bisogna avere il coraggio di crederlo. Ed è proprio questo il nostro problema. Quando Gesù ci definisce “gente di poca fede”, forse si riferisce proprio a questo: non osiamo credere che lo Spirito di Dio sia in noi, che la sua forza ci appartenga, che tutto ciò che è suo sia nostro, inclusa la sua capacità di amare. E tutto questo non è per nostro merito! Se siamo eredi, è solo per grazia di Dio. Ecco perché possiamo dire, malgrado la nostra umana fragilità, con santa Teresa del Bambino Gesù: “Tutto è grazia, tutto è dono: tutto ciò che Dio fa è per il nostro bene”( Manoscritto C, 4r della Storia di un’anima)
Vangelo secondo Luca (2,16-21)
Siamo in presenza di un racconto all’apparenza secondario, eppure è in realtà profondamente teologico, il che significa che ogni dettaglio ha il suo peso e per questo vale la pena ripercorrerlo insieme:
1.I pastori, innanzitutto: erano poco considerati, anzi marginali per via del loro lavoro che impediva di frequentare le sinagoghe e di osservare il sabato. Eppure, sono proprio loro i primi ad essere informati dell’evento che cambia la storia dell’umanità: la nascita del Messia atteso. I pastori diventano così i primi apostoli e i primi testimoni: raccontano, vengono ascoltati e suscitano meraviglia. Parlano dell’annuncio straordinario ricevuto nel cuore della notte dagli angeli e il miracolo è che vengono creduti come racconta l’evangelista Luca (Lc 2,8-14). Raccontano tutto ciò che hanno visto e udito con le loro parole e questo richiama alla mente un’espressione di Gesù che spesso viene citata: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10,21; Mt 11,25). Non sono i dotti e i sapienti coloro che Dio sceglie come suoi messaggeri.
2. Tutto l’evento che Luca racconta si svolge a Betlemme. Si sapeva, all’epoca, che il Messia sarebbe nato nella discendenza di Davide proprio lì, eppure l’interesse della gente era per altri eventi e per l’arrivo del Messia, atteso da millenni, nessuno aveva preparato una casa. Giuseppe e Maria trovano rifugio fuori del centro abitato ed è in una povera grotta o una stalla: l’unico dettaglio in merito che il vangelo precisa è questo: “Mentre (Giuseppe e Maria) si trovavano in quel luogo…Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (lc 2,6-7) . Betlemme significa letteralmente “la casa del pane” e il neonato adagiato in una mangiatoia è un’immagine suggestiva di colui che si darà come nutrimento all’umanità. Il legame tra il Natale e l’Eucaristia è evidente.
3.“Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore…, conservava questi fatti e li meditava nel suo cuore” (Lc 2,19). Mentre i pastori, resi loquaci dall’evento, raccontano, Maria contempla e medita nel suo cuore. Luca qui potrebbe voler richiamare un passaggio della visione del Figlio dell’uomo in Daniele, dove si legge: “Io custodii questi pensieri nel mio cuore” (Dn 7,28). Per Luca, sarebbe un modo di delineare già il destino grandioso di quel bambino.
4.”Gli fu messo nome Gesù” ( Lc2,21). Il nome “Gesù” svela il mistero: significa “Dio salva”. Sebbene Luca non ne specifichi l’etimologia come Matteo, pochi versetti prima riporta l’annuncio dell’angelo: “Oggi è nato per voi un Salvatore” (Lc 2,11). Al contempo, Gesù vive in piena solidarietà con il suo popolo: come ogni bambino ebreo, è circonciso l’ottavo giorno. Paolo dirà ai Galati: “Nato da donna, nato sotto laLegge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge” (Gal 4,4). Gli altri Vangeli non menzionano la circoncisione, ma era un atto talmente comune che non c’era bisogno di sottolinearlo. Tuttavia, Luca insiste per mostrare come Maria e Giuseppe rispettino pienamente la Legge mosaica. Non solo: racconta anche la presentazione al Tempio. “Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore” (Lc 2,22). Qui emerge l’intera solidarietà di Gesù con il suo popolo: un tema che culmina nelle sue stesse parole nell’ultima cena: “Bisogna che si compia in me questa parola della Scrittura: ‘Egli è stato annoverato tra gli empi” (Lc 22,37).
5.Un’ultima osservazione: colpisce la discrezione della figura di Maria, nonostante questa festa liturgica sia dedicata a lei come “Maria, Madre di Dio”. Luca si limita a dire: “Maria, da parte sua custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore “. Forse, il suo silenzio è già un messaggio per noi: la gloria di Maria sta nell’aver accettato di essere madre di Dio, mettendosi umilmente al servizio del progetto di salvezza. Non è lei il centro del progetto, ma Gesù, colui il cui nome significa “Dio salva”.
+Giovanni D’Ercole
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Ancora auguri per queste feste natalizie e per il nuovo anno 2025.
Festa della Santa Famiglia [29 Dicembre 2024]
Prima Lettura (1 Sam 1,20... 28)
*La vita è dono di Dio
Samuele è figlio di un miracolo! Siamo intorno al 1200 a.C., un periodo della storia d’Israele di cui si parla raramente. E’ la fine dell’epoca dei Giudici e non c’era ancora un re che regnasse su tutto il popolo. Morto Mosè ed entrato il popolo nella Terra Promessa, le tribù si insediarono nel territorio che conquistarono progressivamente durante circa centocinquant’anni. Non esisteva ancora un’amministrazione centralizzata e le tribù erano guidate da capi chiamati Giudici, nel senso di “governatori”, una sorta di leader militari, politici e religiosi atti a risolvere ogni disputa. Siamo prima dell’epoca della monarchia per cui né Gerusalemme né il Tempio esistevano e l’Arca dell’Alleanza, che aveva accompagnato il popolo durante tutto l’Esodo, stava in un santuario a Silo, al centro del paese, a trenta chilometri circa a nord dell’attuale Gerusalemme. Poiché Silo ospitava l’Arca, la città era diventata un centro di pellegrinaggio annuale e custode di quel santuario era un sacerdote di nome Eli. Nei dintorni di Silo viveva un uomo di nome Elkanà, che aveva due mogli: Anna e Peninna. Anna era la moglie preferita di Elkanà, ma era sterile mentre Peninna aveva figli di cui andava molto fiera e non perdeva occasione per insinuare che la sterilità di Anna fosse una maledizione di Dio. Il momento più difficile dell’anno per Anna era il pellegrinaggio a Silo: Elkanà vi si recava con entrambe le mogli, e tutti potevano notare la tristezza di Anna, che contrastava con la gioia di Peninna che si sentiva madre realizzata. In quei momenti, Anna sentiva ancora più acutamente il peso della sua sterilità. Nel suo dolore e nella sua umiliazione, non poteva fare altro che piangere e sussurrare con le labbra tremanti la sua preghiera, sempre la stessa: Ti prego Signore, fammi dono di un figlio, tanto che il sacerdote Eli, pensando che fosse ubriaca, un giorno la rimproverò: Va’ altrove a smaltire il vino!
Ed è qui che avvenne il miracolo. Dio, che conosce il cuore delle persone, vide le lacrime di Anna e ascoltò la sua preghiera. Qualche mese dopo nacque un bambino, che Anna chiamò Samuele – uno dei significati di questo nome è Dio ascolta, Dio esaudisce. Nel suo dolore, Anna aveva fatto un voto: «Signore onnipotente, se ti degnerai di guardare l’umiliazione della tua serva e mi darai un figlio maschio, lo consacrerò a te per tutti i giorni della sua vita» (1 Samuele 1,11). Quando il bambino fu svezzato, all’età di circa tre anni, Anna lo portò al santuario di Silo e lo affidò al sacerdote Eli, dicendogli: “Io sono quella donna che stava qui vicino a te a pregare il Signore. È per ottenere questo bambino che pregavo, e il Signore me l’ha dato in risposta alla mia richiesta. Ora, a mia volta, lo dono al Signore: egli resterà consacrato al Signore per tutti i giorni della sua vita”. Samuele crebbe a Silo, e lì sentì la chiamata di Dio e in seguito divenne un grande servitore di Israele. Perché questo testo viene proposto in occasione della festa della Santa Famiglia e che legame unisce i due bambini, Gesù e Samuele, le due madri, Maria e Anna, e i due padri, Giuseppe ed Elkanà? Possiamo fare qualche osservazione su queste due famiglie separate l’una dall’altra da più di mille anni. Anzitutto Dio ascolta. Samuele significa Dio ascolta, Dio esaudisce e questa è l’esperienza religiosa fondamentale di Israele: Dio ascolta il grido dei poveri e degli umili. Anna, nel momento della sua più profonda umiliazione, gridò al Signore ed Egli la ascoltò. Il Cantico di Anna, dopo la nascita di Samuele, ricorda molto il Magnificat di Maria, che sgorgò dalle labbra di una giovane umile di Nazareth. In secondo luogo Dio agisce attraverso le famiglie umane. Il progetto di Dio si compie attraverso le vicende umane, attraverso famiglie normali e imperfette e il mistero dell’Incarnazione arriva fino a questo punto: Dio ha la pazienza di accompagnare la nostra maturazione e il nostro cammino. Inoltre si tratta di due nascite miracolose, straordinarie. Gesù nacque da una vergine per la potenza dello Spirito Santo, Samuele da una madre sterile. Nella Bibbia c’è una lunga serie di nascite miracolose: Isacco da Sara, moglie di Abramo, sterile e continuamente umiliata dalla sua rivale Agar, madre di Ismaele. Dio ebbe pietà di Sara, e nacque Isacco; Sansone, Samuele, Giovanni Battista e Gesù. Queste nascite miracolose ricordano che ogni bambino è un miracolo, un dono di Dio ed essere genitori significa trasmettere la vita, senza però poter dire di “dare la vital” perché è solo Dio a poterla dare. Sia la paternità fisica sia quella spirituale, tutti possiamo prestare i nostri corpi e le nostre vite al progetto divino e noi siamo strumenti di questo dono divino
Salmo responsoriale 83 (84), 3. 4. 5-6. 9-10
*Beato chi abita la tua casa
Quando il pellegrino è in cammino verso Gerusalemme, dal profondo della sua devozione e della sua fatica può esclamare: “L’anima anela e desidera gli atri del Signore, il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente”. Il pellegrinaggio è indispensabile per una vita di fede, perché quando siamo in cammino verso Dio possiamo sperimentare che siamo un popolo che va verso una meta e nelle difficoltà del viaggio provare la stanchezza fisica e le esigenze del cuore scoprendo in questa esperienza spesso faticosa le meraviglie della fede. Soltanto quando riconosciamo che le nostre forze non bastano, una forza nuova può impossessarsi di noi, permettendoci di proseguire il cammino fino alla meta. Ma affinché ciò avvenga, il pellegrino, giunto al limite delle sue forze, deve riconoscersi fragile e indifeso come un uccello. Allora gli saranno date nuove ali: “Anche il passero trova una casa e la rondine il nido dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio Re e mio Dio! (v.4)
Nella nostra vita, che è anch’essa un pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste, quante volte si è tentati di abbandonare tutto, scoraggiati dai piccoli sforzi che sembrano inutili. Basta però invocare aiuto, riconoscere la nostra impotenza, e riceviamo una forza nuova, che non è nostra: “Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio” (v.6). E una volta compiuto il pellegrinaggio occorre ripartire affrontando la fatica del ritorno alla vita quotidiana, con le sue difficoltà e l’impossibilità di condividere pienamente l’esperienza spirituale appena vissuta con chi è rimasto indietro. Ed ecco che il pellegrino sogna di non dover mai ripartire: “Beato chi abita nella tua casa: senza fine canta le tue lodi” (v.5). Il riferimento è ai leviti, la cui vita è interamente consacrata al servizio del Tempio di Gerusalemme e anche prima della costruzione del Tempio, come abbiamo visto nella prima lettura, esistevano dei santuari, dove i sacerdoti avevano il privilegio di dimorarvi, come il sacerdote Eli e il giovane Samuele.
In senso più ampio, gli “abitanti della casa di Dio” sono i membri del popolo eletto e i pellegrinaggi sono sempre segnati dalla gratitudine e dalla meraviglia per questa scelta gratuita di Dio a favore del suo popolo. Gli Ebrei sanno che, alla fine, con l’arrivo del Messia, tutti gli uomini saranno chiamati a essere abitanti della casa di Dio e questa dimensione messianica è presente nel salmo: “Guarda o Dio colui che è il nostro scudo, guarda il volto del to consacrato” (v.10). Si intravede qui il sogno dell’ultima salita a Gerusalemme, annunciata dai profeti, quando l’intera umanità sarà riunita nella gioia sulla montagna santa, attorno al Messia. I versetti letti in questa domenica esprimono soprattutto la fatica e la preghiera del pellegrino. In altri versetti si canta invece l’amore per il Tempio, l’amore per Gerusalemme, insieme alla gioia profonda e alla fiducia che abitano il credente. Per due volte Dio è chiamato nostro “scudo”, colui che ci protegge. Ci sono anche due “beatitudini”: “Beato chi abita nella tua casa: senza fine canta le tue lodi” (v.5) e “Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio e ha le tue vie nel suo cuore” (v.6). E l’ultimo versetto del salmo, è ancora una “beatitudine” che oggi non leggiamo: “Signore degli eserciti, beato l’uomo che in te confida” (v.13). È la fortuna dei poveri e degli umili, dei « curvati » (in ebraico anawim), scoprire la sola cosa che conta davvero: il nostro unico vero bene è in Dio.
Gesù lo ripeterà così: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25). Vale proprio la pena, se avete tempo, di rileggere questo salmo per intero:
2 Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti!
3 L’anima mia anela e desidera gli atri del Signore, il mio cuore e la mia carne
esultano nel Dio vivente.
4 Anche il passero trova una casa e la rondine un nido dove porre i suoi piccoli:
presso i tuoi altari, Signore degli eserciti,mio re e mio Dio.
5 Beato chi abita la tua casa: senza fine canta le tue lodi.
6 Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio e ha le tue vie nel suo cuore.
7 Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente; anche la prima pioggia
l’ammanta di benedizioni.
8 Cresce lungo il cammino il suo vigore, finché compare davanti a Dio in Sion.
9 Signore, Dio degli eserciti, ascolta la mia preghiera, porgi l’orecchio, Dio di Giacobbe.
10 Guardai, o Dio, colui che è il nostro scudo, guarda il volto del tuo consacrato.
11 Sì, è meglio un giorno nei tuoi atri che mille nella mia casa; stare sulla soglia della casa del mio Dio, è meglio che abitare nelle tende dei malvagi.
12 Perché sole e scudo è il Signore Dio; il Signore concede grazia e gloria, non rifiuta il bene a chi cammina nell’integrità.
13 Signore degli eserciti, beato l’uomo che in te
Seconda Lettura: dalla prima lettera di San Giovanni apostolo (1, 3,1-2.21-24)
* Saper contemplare
“Carissimi, vedete …”: Giovanni invita alla contemplazione, perché chiave della vita di fede di ogni credente è saper guardare cioè l’intera storia umana è un’educazione dello sguardo dell’uomo. “Hanno occhi ma non vedono”: quante volte ricorre nella Bibbia quest’esclamazione! Ma cosa occorre vedere? San Paolo risponderebbe che occorre contemplare l’amore di Dio per l’umanità, il suo progetto d’infinito amore misericordioso e san Giovanni in fondo di questo soltanto parla nell’odierna seconda lettura. Fermiamoci a riflettere sul tema dello sguardo e sul progetto di Dio che l’apostolo Giovanni contempla. imparare a vedere significa scoprire il volto di Dio che è amore, mentre può succedere il contrario quando lo sguardo si distorce come è avvenuto con Adamo ed Eva nel giardino di Eden. Ben noto è il racconto che inizia descrivendo il giardino con numerosi alberi: “Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli alla vista e buoni da mangiare, l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male” (Gn2,9). L’albero della vita è al centro del giardino, ma non viene precisata la posizione dell’albero della conoscenza e Dio permette di mangiare i frutti di tutti gli alberi, compreso l’albero della vita, tranne quello della conoscenza. Il serpente, con una domanda apparentemente innocente modifica la percezione di Eva: “E’ vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?” (Gn3,1) ed Eva risponde, ma ormai il suo sguardo è già cambiato: è bastato ascoltare il serpente per confondersi per cui vede l’albero proibito al centro del giardino, al posto dell’albero della vita. Da quel momento, il suo sguardo è attratto dal divieto. Il serpente continua: “Non morirete affatto. Anzi Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” (3,5)”. Eva vede che l’albero è buono da mangiare, bello da vedere e desiderabile per acquistare saggezza. Il suo sguardo si è ormai trasformato e la porta a disobbedire. Una volta mangiato il frutto Eva e Adam “si accorsero di essere nudi”, non sono diventati come Dio, ma hanno scoperto la propria vulnerabilità. Che collegamento può avere questo racconto con il testo di Giovanni? Il racconto di Adamo ed Eva spiega il dramma dell’umanità: un’immagine distorta di Dio. Giovanni, al contrario, ci invita a vedere: “Vedete”, cioè imparate a guardare perché Dio non è un rivale dell’uomo, ma amore puro. È questo il tema centrale di Giovanni: “Dio è amore” e la vera vita dell’uomo consiste nel non dubitarne mai. Gesù dice agli apostoli nel cenacolo: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3)
“Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente”: leggiamo questo nel testo odierno di Giovanni. Il battesimo ci ha innestati in Cristo, rendendoci figli di Dio, come scrive l’evangelista nel prologo del IV vangelo: “A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (1,12), ponendoli sotto la guida dello Spirito Santo, che insegna loro a chiamarlo “Abba, Padre!”. Se per i credenti questo è chiaro, per i non credenti è incomprensibile, incredibile o persino scandaloso, come sottolinea san Giovanni. Egli scrive infatti che il mondo non ci riconosce perché non ha conosciuto Dio. Il mondo cioè non ha ancora aperto gli occhi e tocca a noi il compito di rivelare Dio attraverso le nostre parole e la nostra testimonianza. Quando il Figlio di Dio si manifesterà, l’umanità intera sarà trasformata a sua immagine. E allora comprendiamo perché Gesù disse alla Samaritana: “Se tu conoscessi il dono di Dio!” (Gv 4,10), mentre qui san Giovanni invita: “Carissimi, vedete”. Giovanni ci invita alla contemplazione, perché è la chiave della vita di fede: saper guardare; ci invita a rettificare il nostro sguardo su Dio, riconoscendolo come Padre pieno di tenerezza e misericordia e spetta a noi rivelarlo con la nostra vita a chi non lo conosce ancora.
Vangelo ( Lc 2,41-52)
*Come Maria e Giuseppe, chiamati a crescere nella fede
“Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv1,11): questa frase del prologo del vangelo di Giovanni sembra trovare un’illustrazione nel racconto odierno del vangelo di Luca. Un episodio dell’infanzia di Gesù che ci mostra sia la manifestazione del mistero di Cristo, sia l’incomprensione da parte dei suoi familiari. Che la sua famiglia si fosse recata a Gerusalemme per la Pasqua non è sorprendente, né lo è il fatto che vi sia rimasta per otto giorni, poiché le due festività della Pasqua e degli Azzimi, ormai unite, duravano appunto otto giorni. E’ sorprendente che il figlio dodicenne rimane al Tempio senza avvertire i genitori, che ripartono da Gerusalemme con la loro carovana, come ogni anno, senza verificare se fosse con loro. Questa separazione dura tre giorni, un numero che Luca indica intenzionalmente. Quando finalmente si ritrovano, i tre non sono sulla stessa lunghezza d’onda: il rimprovero affettuoso di Maria, ancora scossa dall’angoscia di quei giorni, si scontra con lo stupore sincero di suo figlio: “Perché mi cercavate? Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?”(Lc 2,49).
Vediamo ora in che cosa risiede la manifestazione del mistero di Gesù: innanzitutto, nell’ammirazione di tutti, specialmente dei dottori della Legge, davanti alla luce che lo abita. Risiede anche nella menzione dei tre giorni, che nella Bibbia rappresentano il tempo necessario per incontrare Dio: tre giorni saranno anche quelli tra la sepoltura e la Risurrezione, la vittoria definitiva della vita. Infine, risiede nella straordinaria affermazione di Gesù: “Devo occuparmi delle cose del Padre mio”. Con questa frase, egli si rivela chiaramente come Figlio di Dio. All’Annunciazione, l’angelo Gabriele lo aveva già presentato come “Figlio dell’Altissimo”, un titolo che poteva essere inteso come quello del Messia; ma ora la rivelazione va oltre: il titolo di Figlio, riferito a Gesù, non è solo regale, ma esprime la sua filiazione divina. Non sorprende che questo non sia stato subito compreso! Anche per i suoi genitori è difficile comprendere: e Gesù osa chiedere loro: “Non sapevate?” Persino credenti profondi e ferventi come Giuseppe e Maria rimangono spiazzati di fronte ai misteri di Dio. Questo dovrebbe rassicurarci: non dobbiamo stupirci se anche noi fatichiamo a comprendere! Non dobbiamo mai dimenticare le parole di Isaia: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55, 8-9). Il vangelo fa capire che neppure Maria comprese tutto immediatamente: custodiva ogni cosa nel suo cuore e cercava di comprenderle meditandole. Dopo la visita dei pastori alla grotta di Betlemme, leggiamo già: “Maria custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Luca ci propone qui un esempio da seguire: accettare di non capire tutto subito e lasciare che la meditazione scavi in noi. La fede di Maria, come la nostra, è un cammino non privo di difficoltà. Tutto questo avviene nel Tempio di Gerusalemme, che per i Giudei era il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Per i cristiani, invece, il vero Tempio di Dio è ormai il corpo di Cristo stesso, il luogo per eccellenza della sua presenza. Il racconto di oggi è una delle tappe di questa rivelazione. Luca probabilmente pensa alla profezia di Malachia: “E subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate, l’angelo dell’alleanza che voi sospirate; ecco, viene, dice il Signore degli eserciti” (Ml 3,1).
L’ultima frase del racconto di Luca è significativa: “Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” . Questo indica che Gesù, come ogni bambino, aveva bisogno di crescere. Il mistero dell’Incarnazione arriva fino a questo punto: Gesù è pienamente uomo, e Dio ha pazienza con la nostra crescita spirituale. Per Lui, mille anni sono come un giorno (Sal 89/90). Infine, può sorprendere un’apparente contraddizione: Gesù dice ai suoi genitori “Devo occuparmi delle cose del Padre mio”, ma subito dopo ritorna con loro a Nazaret. Non rimane nel Tempio di pietra, così come non vi rimase Samuele, consacrato al Signore ma poi chiamato a servire il popolo fuori dal Tempio. Anche questo è un insegnamento: “ Occuparsi delle cose del Padre significa dedicare la vita dal servizio degli altri, non necessariamente all’interno delle mura di un tempio. Essere con il Padre significa, prima di tutto, essere al servizio dei suoi figli. Da notare infine, che il vangelo di Luca inizia e si conclude nel Tempio di Gerusalemme: Lì avviene l’annuncio a Zaccaria della nascita di Giovanni Battista (che significa «Dio ha fatto grazia»). È nel Tempio che Simeone, il giorno della Presentazione di Gesù, proclama l’arrivo della salvezza di Dio. Ed è sempre nel Tempio che i discepoli ritornano dopo l’ascensione di Cristo, alla fine del Vangelo di Luca. Una lezione concreta per noi da ritenere con cura. Siamo chiamati, come Maria e Giuseppe, a saper meditare e a crescere nella fede per poterci occupare senza sosta delle cose del Padre celeste. E questo si traduce in pratica nell’impegno di servire gli uomini senza rimanere sempre nel tempio. Infondo è il messaggio che Luca rivelerà nel corso del suo vangelo e cioè saper unire la contemplazione all’azione apostolica, sintesi armoniosa tra fede e vita.
+ Giovanni D’Ercole
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
il 24 dicembre 2024 alle ore 19.00 avrà inizio ufficialmente il Giubileo 2025, con il rito di apertura della Porta Santa della Basilica Papale di San Pietro da parte del Santo Padre. A seguire Francesco presiederà la celebrazione della Santa Messa nella notte del Natale del Signore all’interno della Basilica. Ed ecco il commento dei testi biblici della messa di Natale: quella di Mezzanotte e quella del Giorno con i più cari e sentiti auguri per un santo Natale di Cristo.
Natale di Cristo 2024 Messa di Mezzanotte
Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia 9,1-6
*Un annuncio di salvezza
E’ uno splendido inno messianico dedicato all’Emanuele, il re-messia tanto sperato che viene illuminato con due immagini: la mietitura e la vittoria militare. Come spesso capita, per comprendere il messaggio del testo biblico che la liturgia ci propone, occorre considerarlo nel contesto e qui è bene leggere il versetto che precede questo passo di Isaia: “In un primo momento, il Signore ha coperto di vergogna il paese di Zabulon e il paese di Neftali; ma in seguito, ha coperto di gloria la via del mare, il paese oltre il Giordano e la Galilea delle genti” (Is 8,23). Possiamo così datare le parole del profeta e capire se risalgono al momento stesso degli eventi narrati, o al contrario, se sono state scritte posteriormente e così conoscere con certezza a quale contesto politico si riferisce (anche nel caso che il testo risalga a molto più tardi). In secondo luogo, come ogni parola profetica anche questa è un messaggio che Dio rivolge per ravvivare la speranza del popolo. Vediamo qual è il contesto storico: dopo Davide e Salomone che avevano governato sull’intero Israele, alla morte di Salomone nel 933 a.C., il cosiddetto scisma d’Israele diede origine a due regni spesso in conflitto: a nord, il regno di Israele con capitale Samaria e a sud il regno di Giuda, con capitale Gerusalemme, discendente diretto di Davide e considerato il legittimo portatore delle promesse divine. Isaia predicava nel regno del Sud, ma Zabulon, Neftali, la via del mare, il paese oltre il Giordano e la Galilea sono tutti luoghi del regno del Nord, tutte region conquistate dal re assiro Tiglat-Pileser III nel 732 a.C. Nel 721 a.C., anche la capitale Samaria fu annessa ed ebbe inizio la dominazione assira e poi quella babilonese. E’ in questo quadro che Isaia prevede un cambiamento radicale annunciando che le terre umiliate vedranno la gloria: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa, una luce rifulse”. Il popolo che abitava in terra tenebrosa fa pensare ai molti deportati in Babilonia spesso accecati dai dominatori. Il regno del Sud, con capitale Gerusalemme, non restava indifferente difronte agli eventi del Nord sia perché temeva d’essere occupato e soprattutto perché grande era il desiderio della riunificazione per ricondurre Israele all’unità sotto il trono davidico. Per questo l’arrivo di un nuovo re veniva considerato come l’alba di un nuovo giorno: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio… sarà chiamato Principe della Pace”. Queste espressioni fanno parte del rituale di consacrazione del nuovo re e Isaia afferma con certezza che Dio non abbandonerà il suo popolo alla schiavitù, perché la sua fedeltà è incrollabile e non può rinnegare sé stesso. Aggiunge: “Perché tu hai spezzato il giogo che lo opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino come nel giorno di Madian”. Madian e i Madianiti: il profeta assicura che Dio interverrà per liberare il suo popolo, e cita come esempio la vittoria di Gedeone sui Madianiti quando in piena notte con 300 uomini armati solo di trombe, torce e brocche di terracotta e soprattutto della fede in Dio, sconfisse un esercito immensamente più numeroso (Giudici 7). Chiaro quindi il messaggio del profeta: Non avere paura piccolo gregge perché è nelle tenebre che bisogna credere alla luce. Malgrado le difficoltà che continuano a segnare questi tempi, Isaia invitava a tenere desta la speranza, basata sulla certezza che il Signore, come in passato, non viene mai meno al suo progetto d’amore per l’intera umanità. E proprio allora, quando Isaia formulava tale promessa, il giovane re Achaz di Gerusalemme aveva sacrificato suo figlio, l’erede al trono, a un idolo per paura della guerra. La discendenza davidica sembrava ormai destinata a estinguersi ed è in tale momento che Isaia ridesta la fiducia dicendo che un nuovo erede verrà donato visto che nulla può scoraggiare la fedeltà di Dio il quale realizza ogni sua promessa. Questa certezza riposa sulla memoria di quanto Dio ha fatto per il suo popolo. A tal proposito basta ricordare che Mosè rinnovava spesso a Israele l’invito a “non dimenticare” le meraviglie del Signore perché quando viene meno la nostra fiducia siamo noi che perdiamo. E pure Isaia aveva detto al re Achaz: “se non credete, non potete resistere” (Is 7,9). Ogni tempo ha la sua dose di prove e sofferenze, di tenebre e sventure, ma essere convinti che Dio non viene meno alla sua parola è sempre profezia di vittoria e, per quanto grandi le difficoltà nelle nostre famiglie e comunità, la sfida è mantenere viva la speranza: Dio non rinuncia né abbandona il suo progetto di amore per tutti.
Salmo responsoriale 95/96)
*Proclamare la buona novella sui tetti
Peccato che oggi la liturgia prevede solo sette versetti di questo meraviglioso salmo 95/96, che andrebbe letto intero perché invita all’entusiasmo e alla gioia, e perché in un tempo di grandi difficoltà viene cantato nel Tempio di Gerusalemme. E’ un salmo che comunica il vigore della fede, anzi della speranza; in altre parole la gioia che nasce dalla fede e la speranza che fa credere certo pure ciò che non si possiede. Siamo così proiettati già alla fine del mondo, quando l’umanità tutta intera riconoscerà Dio come l’unico vero Dio e riporrà la sua fiducia solo in Lui. Occorre immaginare con la fantasia la scena che il salmo descrive: a Gerusalemme, anzi nel Tempio s’affollano le nazioni, le razze del mondo, l’esplanade è gremita di teste osannanti che invadono persino i gradini del cortile del Tempio. Ormai Gerusalemme non basta più e dovunque guardi vedi continuare ad arrivare gente d’ogni parte del pianeta. E’ una sinfonia di voci che canta: “Il Signore regna!”, n’ovazione incredibile simile alla gioia per l’incoronazione di un nuovo re. Ora però non è il popolo d’Israele che acclama il suo re, bensì l’intera umanità che gioisce per il suo vero Re: freme di gioia la terra, i mari si uniscono alla sinfonia e gli alberi danzano con le campagne tutte in festa. Si capirà allora che gli uomini si sono lasciati ingannare per lungo tempo, hanno abbandonato il vero Dio per far ricorso agli idoli e che la lotta dei profeti è sempre stata contro l’idolatria. Apparirà allora incredibile che gli uomini abbiano impiegato così tanto tempo per riconoscere il loro Creatore, il loro Padre malgrado cento volte sia risuonato il grido: il Signore è “terribile sopra tutti gli dèi”, è Lui, il Signore e nessun altro ha fatto i cieli. Finalmente arriverà il momento della festa: a Gerusalemme si accorrerà per acclamare Dio avendo ascoltata la buona notizia proclamata per secoli: “giorno dopo giorno Israele ha proclamato la sua salvezza” , ha raccontato l’opera di Dio, le sue meraviglie, cioè la sua incessante opera di liberazione; giorno dopo giorno ha testimoniato che Dio l’ha liberato dall’Egitto e da ogni forma di schiavitù: la più terribile delle schiavitù è riporre la propria fiducia in falsi valori, in falsi dèi, negli idoli che possono solo deludere. A Israele tocca
la sorte e lo traordinario onore di annunciare che Il Signore nostro Dio, l’Eterno, è l’unico Dio, come recita lo Shema Israel: “Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è l’unico Signore”. Il salmo fa riferimento alla vocazione di Israele, già evocata nel libro del Deuteronomio: “Tu sei stato testimone di queste cose, perché tu riconosca che il Signore è Dio: non ce n’è altri fuori di lui ”(Dt 4,35) e arriva il tempo in cui questa notizia sorprendente è ascoltata fino ai confini della terra… e tutti accorrono per entrare nella Casa del Padre di tutti. Siamo qui in piena anticipazione! In attesa che questo sogno si realizzi, il popolo d’Israele fa risuonare questo salmo per rinnovare la sua fede e la sua speranza, e per attingere la forza necessaria a far sentire la buona notizia di cui è depositario.
Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo a Tito (2, 11-14). Questa lettura è presente anche nella Messa dell’aurora (3, 4-7 ).
*Il battesimo c’immerge nella Grazia di Dio
La lettera a Tito contiene i consigli che Paolo, fondatore della comunità, dispensa a Tito che ne assume la responsabilità. Per ragioni di stile e persino di cronologia, molti esperti delle lettere paoline ritengono che la lettera a Tito, come le due a Timoteo, siano state scritte solo alla fine del I secolo, circa trent’anni dopo la morte dell’apostolo, seguendo il suo pensiero e per sostenerne l’opera. In mancanza di certezze, si continua a parlare di san Paolo come l’autore della lettera di cui risulta utile conoscere a chi è diretta: sono gli abitanti di Creta, i Cretesi, che avevano una pessima reputazione al tempo di Paolo, come li descriveva Epimenide di Cnosso,un poeta locale già nel VI secolo a.C.: “Cretesi, bugiardi perenni, bestie malvagie, ventri oziosi”. E Paolo, citandolo, conferma: “Questa testimonianza è vera!”. Tuttavia, fu proprio ai Cretesi pieni di difetti che Paolo annunciò il vangelo e questo non fu facile. Lasciò poi a Tito, rimasto sul posto, il compito di organizzare la giovane comunità cristiana. Indipendentemente dall’epoca in cui la lettera fu scritta, appare chiaro che le difficoltà dei Cretesi persistevano. La lettera a Tito è molto breve, solo tre pagine di cui leggiamo nella messa della Notte la fine del capitolo 2, mentre l’inizio del capitolo 3 è proposto per la Messa dell’Aurora e l’intero brano per la Festa del Battesimo del Signore, anno C. Tutto ciò che precede e segue questo brano consiste in pratiche raccomandazioni dirette ai membri della comunità: anziani e giovani, uomini e donne, padroni e schiavi compresi i responsabili ai quali raccomanda di essere irreprensibili: “Bisogna che il vescovo sia irreprensibile come amministratore di Dio: non arrogante, non violento, non avaro di guadagni illeciti. Deve essere ospitale, amante del bene, ponderato, giusto, santo, padrone di sé, saldo nella Parola”. Insomma non è difficile capire che c’è da lavorare parecchio e da buon pedagogo san Paolo non si azzarda a dare consigli superflui. Da tenere ben presente il legame tra i consigli di ordine morale che dispensa e il passaggio che ci interessa oggi, che è un’esposizione teologica sul mistero della fede. Il messaggio è chiaro: Per Paolo, è il Battesimo che ci rende uomini nuovi e tutti i consigli che dispensa sono giustificati con la sola ragione che “apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro e il suo amore per gli uomini”. Anzi il testo biblico inizia in realtà con “quando” e qualche edizione pone “perché”. Quindi: “quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia”. In altre parole, comportatevi bene, perché la grazia di Dio si è manifestata per la salvezza di tutti gli uomini. Questo significa che la morale cristiana si radica nell’evento centrale della storia del mondo: la nascita di Cristo. Quando Paolo scrive: “è apparsa la grazia di Dio che porta salvezza a tutti gli uomini” vuol dire che Dio si è fatto uomo. E da quel momento, il nostro modo di essere uomini è trasformato “con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo” (3,5). Da quel momento, tutto è cambiato e di conseguenza anche il nostro comportamento deve mutare e occorre lasciarci trasformare perché il mondo attende la nostra testimonianza. Non si tratta di conquistare dei meriti (egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia), ma testimoniare con la vita che Dio vuole la salvezza di tutta l’umanità anche attraverso di noi: “apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro e il suo amore per gli uomini”. Il progetto di Dio, previsto dall’eternità, prevede il riunirsi di tutti attorno a Gesù Cristo sì da diventare una cosa sola con Lui, superando le divisioni, le rivalità, gli odi, facendo di tutti noi in lui un unico uomo. Sicuramente resta ancora un lungo cammino da percorrere e per molti si tratta di un’utopia, ma come credenti sappiamo che ogni promessa di Dio è una certezza. Paolo lo dice chiaramente: “nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” , e l’uso del verbo attendere indica la convinzione che presto o tardi succederà. Nella celebrazione eucaristica il sacerdote lo ripete dopo il Padre Nostro: “Nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo”. E’ un vero atto di fede che si fa speranza: osiamo affermare che l’amore di Cristo avrà l’ultima parola in ogni situazione. Questa certezza e questa attesa sono il cuore pulsante di tutta la liturgia: durante la celebrazione, noi cristiani non abbiamo gli occhi rivolti al passato, ma siamo già in Cristo “un solo uomo” che scruta il futuro e quando giungerà la fine dei tempi chi ci guarda potrà scrivere: “eccoli sono tutti come un solo uomo e quest’uomo è Gesù Cristo”, quel che noi chiamiamo il Cristo totale.
Vangelo secondo Luca ( 2,1-14)
*Nella povertà della mangiatoia sta il segreto dell’Incarnazione
La notte di Betlemme riecheggia di un meraviglioso annuncio: “Pace agli uomini amati dal Signore”, da ben comprendere perché non esistono persone che Dio non ama, e per questo è meglio intendere: “Pace agli uomini perché Dio li ama”. In fondo è il progetto di Dio, espresso ancora una volta: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16) e non c’è nulla da temere. “Non temete “: dicono gli angeli ai pastori e in fondo perché bisogna aver paura quando nasce un bambino? Proviamo a credere che Dio ha probabilmente scelto proprio di farsi neonato per ridestare nel nostro cuore l’amore per lui, abbandonando ogni forma di paura e di vergogna. Come Isaia con Achaz, anche l’angelo annuncia la nascita di un re: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo Signore”. Ecco, è nato finalmente l’atteso da molti secoli e all’epoca era nella mente di tutti la profezia di Natan al re Davide: “Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu riposerai con i tuoi padri, susciterò un tuo discendente, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno” (2 Sam 7,11-12).
Questo è il motivo per cui Luca precisa le origini di Giuseppe, padre del bambino: “Anche Giuseppe dalla Galilea, dalla città di Nazaret, salì in Giudea, alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e della famiglia di Davide”. Inoltre, secondo la profezia di Michea, il Messia doveva nascere a Betlemme: “E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele… Egli si leverà e pascerà con la forza del SIGNORE, con la maestà del nome del Signore suo Dio… ed egli stesso sarà la pace” (Mi 5,1.4).
Dunque gli angeli annunciano ai pastori una buona notizia, una grande gioia e si capisce perché le schiere celesti cantino la gloria di Dio. Sorprende sempre però il contrasto tra la grandezza del destino promesso al Messia e la piccolezza di un bambino, nato nelle più umili e precarie circostanze. “la forza del braccio di Dio”, che libera il suo popolo, di cui parla il Salmo 88/89, sta misteriosamente nelle piccole mani di un bambino nato in una povera famiglia tra tante altre. Quanto straordinaria è la povertà di una mangiatoia! Eppure proprio là si manifesta il segno di Dio: incontriamo Gesù nella quotidianità più semplice, persino nella povertà ed è questo il mistero, anzi il segreto dell’Incarnazione.
“L’erede di tutte le cose”, come leggiamo nella lettera agli Ebrei (1,2), nasce tra i poveri; colui che san Giovanni chiama “la luce del mondo” trova la sua culla nella mangiatoia di una oscura stalla; colui che è la Parola di Dio, che ha creato il mondo, è venuto al mondo come ogni altra creatura e, come tutti, dovrà con il tempo imparare a parlare. Si può allora capire e non meravigliarsi se “i suoi non lo hanno accolto e riconosciuto” e non ci stupisce il fatto che invece siano stati proprio i poveri e i piccoli ad accogliere con più facilità il suo messaggio. E’ il Dio della Misericordia che va incontro a ogni tipo di povertà e nutre compassione della nostra miseria. Questa notte santa c’invita a non avere paura a volgere lo sguardo su una povera mangiatoia perché proprio qui scopriamo la maniera più vera per rassomigliare a Gesù e in tal modo ricevere in dono il potere di “diventare figli di Dio” (Gv 1,12).
La grande gioia del Natale che gli angeli recano ai pastori, gli esclusi della società, da oltre due millenni ormai risuona in ogni angolo del mondo. Dinanzi a tanta gioia e così grande mistero di vita rinnovata tante domande sorgono nel cuore: come mai in alcune parti del mondo dove quest’annuncio è risuonato persiste la divisione e la guerra? Perché tante comunità sembrano stanche di attendere e si ripiegano su altri interessi che portano spesso lontano dall’attesa del Salvatore? Perché lo stupore per la nascita di un bimbo non è più per alcuni il segno d’un amore che si apre alla vita? Tanti perché per un Natale di Cristo che rischia di essere soffocato dal grido chiassoso di una società preoccupata da mille diverse questioni e minacciata dalla tristezza se non talora persino dalla disperazione. La storia della nascita di Cristo trovò allora molti incuranti perché occupati alle questioni d’ogni giorno. Pochi pastori, esclusi e impuri della società, furono i primi e gli unici ad accorrere prontamente. Un segno e un messaggio: il trionfo di un Dio che per amore si fa piccolo bambino è conforto e sostegno per coloro che continuano ad attendere il suo ritorno e sanno che, al di là d’ogni umana previsione, quest’umile re di gloria avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia è il nostro salvatore, Cristo Signore. È dunque una « buona notizia, una grande gioia » quella che gli angeli annunciano ai pastori, ma può trasformarsi in pace solamente nel cuore di chi esce e va a incontrarlo nell’umile stalla di Betlemme.
25 Dicembre Messa del Giorno
Lettura dal libro del profeta Isaia 52,7-10
*ll Signore consola il suo popolo
“Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme”. Il riferimento alle rovine di Gerusalemme permette di collocare in modo preciso il testo di Isaia. Gerusalemme fu devastata dalle truppe di Nabucodonosor nel 587 a.C. che fecero di tutto: saccheggi, distruzioni, violenze, profanazioni. Uomini e le donne validi furono deportati a Babilonia mentre lasciarono dei contadini per nutrire gli occupanti, e l’esilio durò cinquant’anni, un periodo sufficiente per scoraggiarsi e perdere la speranza di rivedere la propria terra. In questo quadro così fosco il profeta annuncia il ritorno, lui che aveva cominciato a predicare così: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio” (Is 40,1) e qui, immaginando di vedere il messaggero che annuncia la grande notizia a Gerusalemme e la sentinella che, dalle colline della città, vede arrivare i deportati, riprende sempre lo stesso verbo consolare: “il Signore ha consolato il suo popolo” volendo significare che il Signore ha già agito e che il ritorno è ormai imminente. Parla di un messaggero a piedi e di una sentinella, due figure scomparse nell’era delle telecomunicazioni e della fibra ottica, ma a quei tempi si affidava il compito di trasmettere notizie a un corridore. L’esempio più famoso è quello della maratona: nel 490 a.C., dopo la vittoria degli Ateniesi sui Persiani a Maratona, un corridore percorse i 42 km fino ad Atene per annunciare la vittoria, esclamò Vittoria! e poi si accasciò. Mentre gli atleti/messaggeri correvano, le sentinelle appostati sulle mura delle città scrutavano l’orizzonte. Qui Isaia immagina una sentinella che appostata sulle mura di Gerusalemme vede il messaggero avvicinarsi da collina a collina e annuncia: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie, che annuncia la salvezza”, e quando arriva il messaggero grida a Sion, la città santa: “Regna il tuo Dio”. Il popolo finalmente è salvo e la città viene ricostruita da coloro che ritornano: ecco perché le rovine di Gerusalemme sono invitate a esultare di gioia. In Israele le sconfitte del popolo erano considerate sconfitte del suo Dio, ma ora il popolo è liberato e il suo Dio ha mostrato la sua potenza, come afferma il profeta: “Il Signore ha snudato il suo santo braccio”. Ha liberato il suo popolo come dall’Egitto, “con mano potente e braccio teso” (Dt 4,34). E non finisce qui la visione del profeta perché dietro il messaggero, la sentinella vede il corteo trionfale e ”il ritorno del Signore a Sion”, il quale cammina in mezzo al suo popolo e sarà di nuovo presente a Gerusalemme. Isaia afferma che il Signore “ha riscattato Gerusalemme”, termine molto forte per descrivere l’azione di Dio. Nella Bibbia, riscattare, redimere significa liberare. Nella tradizione del popolo ebraico, il Go’el è il parente più prossimo che riscatta un familiare caduto in schiavitù o che ha venduto la propria casa per pagare i debiti e il profeta applica questo ruolo a Dio, un modo per sottolineare che il Signore è il parente più prossimo del suo popolo e lo libera, lo riscatta, lo redime. “Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio”. Anche qui va evidenziato qualcosa di molto importante: durante l’esilio babilonese c’è stata una evoluzione importante nella teologia ebraica perché Israele ha capito che Dio ama tutta l’umanità e non solo il popolo che si è scelto. Anzi il suo popolo sa ora che la propria elezione è una missione al servizio della salvezza di tutti. Ascoltiamo questo testo a Natale e le parole del profeta “Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio” assumono per noi un significato nuovo. Anche noi abbiamo la missione di annunciare e testimoniare la pace; siamo messaggeri del vangelo che è per tutti e in questo giorno gridiamo al mondo intero: “Il tuo Dio è re, regna il tuo Dio”.
Salmo responsoriale 97 (98),1-6
*Il Popolo dell’Alleanza
“Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. A cantare è Israele che rivendica il rapporto privilegiato di un piccolo popolo con il Dio dell’universo, ma ha compreso, poco a poco, che la sua missione non è quella di custodire gelosamente questa relazione speciale, bensì di annunciare l’amore di Dio per tutti, affinché l’intera umanità entri gradualmente nell’Alleanza. E’ un salmo che mostra i due amori di Dio: il suo amore per il popolo eletto, Israele, e il suo amore per tutta l’umanità, che il salmista chiama le genti. “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” (v.2) e subito dopo, richiamando l’elezione di Israele, “Egli si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa di Israele” (v.3). Le parole amore (chesed) e fedeltà (emet) richiamano l’Alleanza e sono le stesse con cui il Signore si è fatto conoscere nel deserto al popolo che ha scelto: “Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di amore e fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni” (Es 34,6-7). Qui Dio si definisce con caratteri fondamentali che vale la pena ricordare: misericordioso (rachum); pietoso(chanun), ricco di amore (chesed) e fedeltà (emet). Questa descrizione di Dio “amore e fedeltà” diventa un punto cardine della fede di Israele che si ritrova spesso nei salmi, nei profeti per evidenziare il legame fedele e pieno di amore tra Dio e il suo popolo lungo il cammino nel deserto. Israele è pertanto davvero il popolo eletto, ma la sua elezione non è per un godimento egoistico, bensì per diventare il fratello maggiore dell’umanità. Come diceva André Chouraqui, “il popolo dell’Alleanza è destinato a diventare lo strumento dell’Alleanza tra i popoli”. Uno dei grandi insegnamenti della Bibbia è che Dio ama tutti gli uomini d’ogni razza e cultura, non solo Israele e questo salmo – che abbiamo modo di ritrovare spesso nella liturgia - lo dimostra anche nella sua struttura: i versetti 2 e 3 sono costruiti secondo lo schema dell’inclusione che è una tecnica letteraria usata nella Bibbia. Si fa come una cornice per porre in evidenza il testo centrale che è il versetto riguardante Israele: “Egli si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele”, e le frasi che lo racchiudono parlano delle nazioni: “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia”, tutti i confini della terra- che sostituisce le genti - hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. L’elezione di Israele è centrale, posta in una cornice che sottolinea la missione universale di Israele: essere luce per tutti i popoli del mondo. Quando il popolo di Israele, durante la festa delle Capanne a Gerusalemme, acclama Dio come re, sa già di farlo a nome di tutta l’umanità. Cantando, immagina il giorno in cui Dio sarà riconosciuto come re da tutta la terra.
Qualche ulteriore annotazione. Questo salmo vuole porre in evidenza due temi: il primo è l’insistenza sui due amori di Dio: per Israele, il popolo eletto, e per l’intera umanità; il secondo è la proclamazione della regalità di Dio. Nel Tempio di Gerusalemme si cantava: “Acclami il Signore tutta la terra, gridate, esultate, cantate inni” anche se il verbo cantare è riduttivo: in ebraico, il salmo usa un linguaggio che richiama un grido di vittoria (teru‘ah), come quello che si innalzava sul campo di battaglia dopo una vittoria e il termine “vittoria” appare tre volte nei primi versetti: “Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo”(v.1); “Il Signore ha fatto conoscere la sua vittoria, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia”(v 2); “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”(v 3).
Si evidenzia una duplice vittoria: 1.la liberazione dall’Egitto: “ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo” richiama l’impresa divina della liberazione dalla schiavitù d’Egitto e la traversata del Mar Rosso. Nel Deuteronomio leggiamo: “Il Signore ti ha fatto uscire dall’Egitto con mano forte e braccio teso” (5,15), simbolo della salvezza e anche l’espressione del salmo “ha compiuto meraviglie” (v 1) è un riferimento ai prodigi della liberazione dall’Egitto. 2.La vittoria finale sul male: Il salmo guarda anche alla futura vittoria definitiva, quando Dio trionferà su tutte le forze del male e in quel giorno sarà acclamato re non alla maniera dei re terreni che deludono, perché la sua vittoria sarà definitiva e non deluderà mai. Noi cristiani possiamo acclamare Dio con ancora più vigore, perché i nostri occhi contemplano a Natale il re del mondo, l’Incarnazione del Figlio, e sappiamo che il Regno di Dio, il regno dell’amore, è già iniziato. E contemplando l’inerme Bambinello nel presepe non possiamo non pensare che in questo momento la forza salvifica del braccio di Dio si trova nelle due minuscole mani di un neonato.
Lettura dalla lettera agli Ebrei (1,1-6)
*Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti
“Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti”: grazie a questa frase s’intuisce che i destinatari della Lettera agli Ebrei sono ebrei diventati cristiani perché una caratteristica di Israele è proprio la convinzione che Dio si è rivelato progressivamente al popolo che si è scelto. Non essendo Dio alla portata dell’uomo occorre che lui stesso prenda l’iniziativa di rivelarsi, come percepiamo anche dalla Lettera agli Efesini: “Dio ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà” (Ef 1,9) perché da soli mai avremmo potuto scoprirlo e quindi incontrarlo. E questo è avvenuto in maniera progressiva uguale all’educazione di un bambino al quale i genitori comunicano secondo il suo sviluppo e in maniera graduale come capire la realtà, sé stesso e la società che lo circonda. Allo stesso modo Mosè spiega la pedagogia di Dio nel libro del Deuteronomio: “Come un uomo educa suo figlio, così il Signore, tuo Dio, ti educa” (Dt 8,5). Dio ha affidato quest’educazione progressiva del suo popolo in ogni epoca ai profeti che parlavano a suo nome e utilizzavano una maniera comprensibile alla mentalità delle persone e del tempo perché Dio utilizza con il suo popolo una pedagogia molto graduale parlandogli “molte volte e in diversi modi” (Eb 1,1). I profeti venivano così ritenuti la “bocca di Dio”, come ascoltiamo nella celebrazione della messa: “Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza e per mezzo dei profeti hai insegnato a sperare nella salvezza” (Preghiera Eucaristica IV). L’autore della Lettera agli Ebrei sa che la salvezza si è già compiuta e per tale motivo divide la storia dell’umanità in due periodi: prima di Cristo è tutto ciò che chiama passato; dopo Cristo sono i giorni che stiamo vivendo, il tempo cioè del compimento, poiché in Gesù è già iniziato il nuovo mondo ed è Cristo il compimento del progetto di Dio, che chiamiamo il disegno della benevolenza divina. A partire dalla risurrezione di Cristo, che ha stupito il cuore dei primi credenti, la convinzione dei cristiani delle primitive comunità si è andata formando gradualmente sino a comprendere che Gesù di Nazaret è veramente il Messia atteso dal popolo ebraico anche se in maniera molto diversa dall’idea che in passato si erano fatti. Tutto il Nuovo Testamento ruota su tale sorprendente scoperta: c’era chi aspettava un Messia-re, altri un Messia-profeta, altri ancora un Messia-sacerdote e nella Lettera agli Ebrei, come leggiamo nel passo di oggi, si dice che Gesù Cristo è tutto questo.
il Cristo è dunque veramente Sacerdote, Profeta e Re
1. Gesù, il Messia-Profeta. L’autore della Lettera agli Ebrei afferma: “Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio”. Gesù è il profeta per eccellenza: se i profeti dell’Antico Testamento erano ritenuti la “bocca di Dio”, lui è la Parola stessa di Dio, Parola creatrice “mediante il quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1,2); anzi è “irradiazione della sua gloria”, cioè di Dio (Eb 1,3) come avvenne nell’episodio della Trasfigurazione. Gesù ai discepoli nel cenacolo disse: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9), quindi l’espressione perfetta dell’essere di Dio.
2. Gesù, il Messia-Sacerdote. Il sommo sacerdote aveva il ruolo d’intermediario tra Dio e il popolo peccatore e Gesù, in totale e perfetta relazione filiale d’amore con il Padre, ristabilisce l’Alleanza tra Dio e l’umanità. Egli è dunque il sommo sacerdote per eccellenza, che realizza la “purificazione dei peccati”, purificazione che Gesù ha compiuto, come l’autore spiegherà più avanti nella sua lettera, vivendo tutta la vita in un perfetto dialogo d’amore e obbedienza con il Padre.
3. Gesù, il Messia-Re. Nella Lettera agli Ebrei sono qui attribuiti a Gesù titoli e profezie che riguardavano il Messia: l’immagine del trono regale, “sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli”, e soprattutto “Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato”, il titolo di Figlio di Dio veniva conferito al nuovo re nel giorno della sua consacrazione, espressione che troviamo anche nel salmo numero 2. Il profeta Natan aveva annunciato: “Io sarò per lui un padre, ed egli sarà per me un figlio” (2 Sam 7,14). A differenza dei re della terra, Gesù è re su tutta la creazione, persino sugli angeli: “divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato” (Eb 1,4), e “Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: Lo adorino tutti gli angeli di Dio” (Eb 1,6). L’autore afferma che Cristo è Dio stesso, dato che solamente Dio ha diritto all’adorazione degli angeli.
Questo testo biblico non rivela solo la grandezza di Cristo, ma anche la nostra vocazione: con il battesimo siamo diventati sacerdoti chiamati a vivere in comunione con Dio e a intercedere per il mondo; profeti la cui missione è testimoniare con la vita il vangelo a tutti; re impegnati a regnare sul peccato e a contribuire all’avvento del Regno di Dio. Meditare questa pagina biblica il giorno del Natale di Cristo è un invito a contemplare il mistero della nascita di Cristo e prendere consapevolezza che il bambino adagiato nella mangiatoia è il Verbo eterno, venuto per farci figli e figlie di Dio, sacerdoti, profeti e re, chiamati a partecipare alla gloria del Padre per tutta l’eternità.
Vangelo secondo Giovanni (1,1-18)
*La creazione è il frutto dell’amore
“In principio”. L’evangelista Giovanni riprende di proposito la prima parola della Genesi Bereshit ed è necessario percepirne la profondità perché non è un semplice riferimento cronologico perché “ciò che ha inizio” è “ciò che guida” tutta la storia umana, è cioè l’origine e il fondamento di tutte le cose. “In principio era il Verbo”: tutto è posto sotto il segno della Parola, Parola d’Amore anzi Dialogo e senso della vita: sta qui l’origine e l’inizio di tutte le cose. “E il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio” (v. 2-3): in greco è “pros ton Theon” che letteralmente significa “rivolto verso Dio”, il Verbo era rivolto verso Dio: è l’attitudine del dialogo. Se dico: “Ti amo” sto veramente dialogando con qualcuno, sto faccia a faccia con te, rivolto verso colui con cui parlo; se invece volto le spalle il dialogo è interrotto ed è necessario tornare indietro per ristabilirlo. San Giovanni afferma qualcosa di essenziale: dato che nulla è stato fatto senza il Verbo, tutta la creazione è frutto del dialogo d’amore tra il Padre e il Figlio. Ognuno di noi è stato creato in questo dialogo e per questo dialogo: siamo il frutto di un dialogo d’amore. Generati dall’amore possiamo dire che siamo il frutto dell’amore di Dio e la vocazione dell’umanità, di Adamo, per usare il termine della Genesi, è vivere un perfetto dialogo d’amore con il Padre. La storia dell’umanità dimostra però il contrario come leggiamo nel racconto della caduta di Adamo ed Eva. Il secondo capitolo della Genesi mostra chiaramente che il dialogo è stato interrotto; l’uomo e la donna non si sono fidati di Dio, anzi hanno sospettato che Dio non avesse buone intenzioni nei loro confronti: è l’opposto del dialogo d’amore. Conosciamo per esperienza che quando il sospetto invade le nostre relazioni, il dialogo si avvelena. L’intera storia della relazione personale di ciascuno di noi con Dio potrebbe essere rappresentata così: a volte siamo rivolti verso di Lui, altre volte ci allontaniamo, e allora dobbiamo fare ritorno affinché Egli possa ristabilire il dialogo. Questo è esattamente il significato nella Bibbia della parola conversione “shùv”, che significa ritornare, volgersi indietro, tornare a casa.
Gesù vive questo dialogo nel quotidiano in maniera perfetta e si fa carico di guidare l’umanità: si potrebbe dire che Egli è il “sì” dell’intera umanità e proprio, attraverso di Lui, siamo reinseriti nel dialogo primordiale con Dio: “A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome”. “Diventare figli di Dio” vuol dire ritrovare la relazione filiale, fiduciosa, senza ombre con lui e l’unico scopo di Cristo è far sì che l’umanità intera possa entrare in questo dialogo d’amore; “quelli che credono nel suo nome” sono coloro che si affidano a Cristo e si pongono con fiducia alla sua sequela. Il pensiero va al cenacolo dove Gesù esprime il suo ardente desiderio: “Che tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te. Che anch’essi siano in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato » (Gv 17,21) e mi torna in mente ciò che scrive Kierkegaard: “Il contrario del peccato non è la virtù, il contrario del peccato è la fede”. “Credere” è fidarsi del Padre; è sapere in ogni circostanza, qualunque cosa accada, che Dio mi ama; è non sospettare mai di Lui e mai dubitare del suo amore per noi e per il mondo e di conseguenza riuscire a guardare il mondo con lo sguardo di Dio. Ecco il messaggio che ci viene dal Natale del Verbo fatto carne: osservare il mondo con gli occhi di Dio. “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi: se Lui è venuto per stare qui con noi, non è necessario fuggire dal mondo per incontrare Dio, anzi è nella “carne”, cioè nella realtà di ogni giorno che possiamo leggere e vivere la sua presenza. Come Giovanni Battista, ognuno di noi è mandato a essere testimone di questa presenza. Ogni Natale ci richiama questo dono e ci incoraggia a condividerlo con quante più persone possiamo.
+ Giovanni D’Ercole
Le complessità dell’esistenza.
La vita non è sempre facile e le contrarietà dell’esistenza sono sempre esistite; ci accompagnano lungo il percorso del nostro vivere quotidiano.
Nei tempi passati spesso era il medico di famiglia che le ascoltava e le associava come connesse con la salute dei suoi pazienti e dava loro consigli.
Quando invece le difficoltà erano di ordine etico, le persone si rivolgevano al sacerdote che attraverso l’accompagnamento e la confessione dava suggerimenti sul modo di redimersi.
In seguito con la scoperta della psicologia nelle sue varie forme, ci si è occupati delle problematiche dell’uomo. La figura dello psicologo in senso lato o dello psichiatra si sono aggiunte alle figure precedenti. Per quanto riguardata più specificamente il campo dello psichiatra, le problematicità non sono malattie visibili.
Le persone che sono afflitte da complicazione della vita non sono dei pazienti intesi in senso usuale. Possono essere delle persone normali e produttive - per quanto lo si possa essere nella nostra collettività.
Generalmente queste contrarietà quotidiane possono riguardare i rapporti interpersonali, il modo di lavorare, le questioni legate al rendimento… ma anche il tema del vivere onestamente, in linea con i propri principi e col il credo personale. Ci sono poi le contrarietà della vita pratica, che spesso possono accentuare le altre.
Molto dipende anche dai nostri comportamenti tipici con i quali ci difendiamo o costruiamo il nostro modo di vivere, e che si sono formati in un periodo precoce - imitando inconsapevolmente le persone che hanno avuto significato nella nostra vita (il cosiddetto carattere, molto succintamente).
Jung sostiene che l’inconscio del bambino dipende dall’inconscio genitoriale.
Quasi sempre nella mia lunga pratica professionale ho incontrato questo costrutto, e ho dovuto faticare per far comprendere che erano proprio i genitori a innescare i comportamenti.
Spesso quando incontravo genitori che non volevano accettare certe responsabilità, quest’ultimi ricorrevano a scuse che non reggevano in nessun modo.
Nei rapporti fra gli individui la problematica più fastidiosa riguarda come viviamo i nostri affetti.
Ci sono persone aggressive che cercano persone da dominare. C’è chi sfrutta l’altro (lo sprovveduto); e cosi via.
Nelle relazioni amorose si deve far caso a come ognuno si pone nei confronti dell’altro. Facciamo alcuni esempi.
Una donna che soffre a causa del coniuge che ostacola ogni suo sviluppo (o viceversa) deve capire o farsi aiutare a comprendere che in qualche modo ha cercato questa situazione, e che solo trovando fiducia nelle proprie possibilità e nella capacità di gestirsi che troverà sollievo alle sue pene.
In caso contrario, ossia se non scopre le proprie potenzialità, neanche separandosi risolverà il suoi problemi - perché inconsapevolmente andrà alla ricerca dello stesso tipo di coniuge.
Solo le persone in grado di rispettare i bisogni e gli interessi dell’altro sono capaci di un amore adulto. Spesso infatti confondiamo il nostro desiderio con quello dell’altro.
Quante volte nelle consulenze con le coppie ho incontrato questo.
Nelle difficoltà lavorative troviamo sovente persone che passano da un lavoro all’altro perché non sono soddisfatte dei mancati riconoscimenti. Può ad es. trattarsi di un individuo con idee grandiose sulle sue attitudini e che deve cercare ammirazione nell’ambiente lavorativo .
Vi sono poi persone che fanno un lavoro creativo e che pensano di non produrre come vorrebbero. Qui siamo spesso davanti a un perfezionismo inattuabile. Spesso tali soggetti non riescono ad ammettere di avere dei limiti, e trovarsi di fronte alle loro reali capacità.
Succede poi che molte persone si rivolgono ad un analista poiché pur non presentando una forma di depressione, non sono contenti di sé.
Nella sua Psicoanalisi della società contemporanea, Erich Fromm sostiene che il consumismo ci indirizza ad una “alienazione da se stessi”. Con ‘alienazione’ si intende ciò che in principio appartiene all’uomo e gli diventa poi estraneo - finendo per dominarci.
Dobbiamo essere come gli altri ci vogliono.
La pubblicità e la stessa moda influiscono anche coscientemente, e in tal guisa se non ci conformiamo possiamo sentirci arretrati.
Spesso si entra nel conflitto tra i nostri convincimenti e il bisogno di “piacere” alla gente.
Certo non dobbiamo essere degli isolati, ma anche qui un giusto equilibrio ci “salva” poiché ripudiare alcuni cardini fondamentali del nostro modo di essere, danneggia parecchio.
Che il Natale ormai prossimo ci illumini, ci indichi la via. Non di rado anche qui ci uguagliamo alle tendenze attuali della popolazione, e sovente dimentichiamo il suo vero significato.
Francesco Giovannozzi Psicologo-psicoterapeuta
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Da oggi, 17 al 23 dicembre hanno inizio “le ferie maggiori d’Avvento”, ”ferie privilegiate d’Avvento”, caratterizzate da un elemento distintivo che sono le “Antifone O” recitate o cantate durante i Vespri. Iniziano tutte con l’invocazione “O” seguita da un titolo messianico tratto dalle profezie dell’A.T per esprimere l’attesa del Salvatore: Oggi 17 si proclama “O Sapienza”, il 18 “O Adonai” e così via ogni giorno culminando il 23 dicembre con “O Emmanuele”. In questi giorni la liturgia è più solenne con letture e preghiere specifiche che orientano i fedeli verso la nascita di Cristo. Buona preparazione al Santo Natale di. Cristo!
Per questo periodo ho preparato i commenti per la IV Domenica di Avvento 22 dicembre, per le messe di Natale (la notte e quella del giorno), per la Festa della Santa Famiglia domenica 29 dicembre, per la festa della Madre di Dio, 1 gennaio, per l’Epifania, 6 gennaio, e per la conclusione del tempo di Natale la domenica del battesimo di Gesù 12 gennaio. Oggi invio i commenti del 22 Dicembre 2024 IV Domenica di Avvento
Prima Lettura dal libro del profeta Michea 5, 1-4a
*In certi momenti diventa difficile sperare
I profeti nell’Antico Testamento fanno sempre ricorso a due tipi di linguaggio: quello dei rimproveri e degli avvertimenti per coloro che dimenticano l’Alleanza con Dio e le sue esigenze, perché con le loro stesse mani si preparano una rovina; quello del sostegno a coloro che restano fedeli all’Alleanza perché non si perdano d’animo davanti le contrarietà. La prima lettura quest’oggi richiama chiaramente il linguaggio dell’incoraggiamento e si intuisce che il popolo sta attraversando un periodo critico, quasi sul punto di buttare la spugna perché ha l’impressione di essere stato abbandonato da Dio. Arriva persino a dire che tutte le promesse di felicità rinnovate nei secoli erano solo belle parole, dato che il re ideale preannunciato e promesso non è mai nato e forse mai nascerà. Non si sa bene se autore di questo testo sia il profeta Michea perché non si capisce esattamente in quale periodo storico ci troviamo. Se è Michea, profeta contadino come Amos e discepolo di Isaia, siamo nell’VIII secolo a.C. nella regione di Gerusalemme, in un’epoca in cui l’impero assiro rappresentava una grande minaccia e i re d’Israele non somigliavano per nulla al re-Messia che si stava aspettando: era pertanto facile cadere nella tentazione di sentirsi abbandonati. Per ragioni legate alla lingua, allo stile e al vocabolario, si è propensi a ritenere che si tratti di un testo molto più tardivo e inserito in seguito nel libro di Michea. In tal caso, lo scoraggiamento è motivato dal fatto che, dopo l’esilio babilonese e la dominazione straniera ininterrotta, il trono di Gerusalemme non esisteva più e quindi non c’era più un discendente di Davide. Il profeta riprende la promessa che nascerà dalla discendenza di Davide un re che sarà pastore, regnerà con giustizia e porterà pace; una pace che riguarderà l’intera umanità nel tempo: “Le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” e nello spazio: “Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra”. Quest’accento sull’universalismo (v 3) fa supporre che questa predicazione (inserita nel libro di Michea) non appartiene al profeta Michea, ma a un suo discepolo posteriore dato che l’universalismo del progetto di Dio e il monoteismo rigoroso che lo caratterizza sono stati compresi solo durante l’esilio a Babilonia. A maggior ragione occorreva far memoria delle promesse riguardanti il Messia e il profeta (che sia Michea o un altro non cambia il senso) incoraggia il popolo di Dio dicendo che, pur se vi sentite abbandonati, dovete essere certi che il progetto di Dio si realizzerà; verrà sicuramente “il giorno in cui partorirà colei che deve partorire” perché Dio è fedele alle sue promesse. Parlando di “Colei che deve partorire” insisteva sul fatto che quel momento era solo un tempo di apparente abbandono nel corso della storia umana. Inoltre proclamando: “E tu, Betlemme Efrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà colui che dovrà governare Israele”, il profeta ricordava che il Messia promesso - profezia da Natan a Davide (2Sam,7) - sarebbe stato un vero discendente di Davide, perché a Betlemme il profeta Samuele, su ordine di Dio, andò a scegliere un re tra gli otto figli di Iesse (1Sam,16). Per gli ebrei abituati alle sacre scritture, Betlemme evocava immediatamente la promessa del Messia e il profeta unisce a Betlemme il termine “Efrata” che significa “feconda”, nome di uno dei clan della regione di Betlemme. In seguito tutta Betlemme viene identificata con Efrata e anche così il profeta tiene a far emergere il contrasto fra la grande e superba Gerusalemme e l’umile borgo di Betlemme, “il più piccolo tra i clan di Giuda” perché è nella piccolezza e nella fragilità, che si manifesta la potenza di Dio, il quale sceglie i piccoli per realizzare grandi progetti. Questa profezia di Michea sulla nascita del Messia a Betlemme era ben nota al popolo ebraico come emerge nell’episodio dei Magi che visitano Gesù (Mt 2,6): l’evangelista Matteo racconta che gli scribi citarono al re Erode il passo di Michea per indirizzarli verso Betlemme. All’epoca i contemporanei di Gesù sapevano che era il Nazareno ed era inconcepibile che un galileo fosse il Messia. Anche il quarto evangelista osserva che quando si cominciò a discutere sull’identità di Gesù, alcuni dicevano: “Forse è lui il Cristo”, ma altri rispondevano: “il Cristo non può venire dalla Galilea, Michea lo ha detto chiaramente” (Gv 7,40-43). Il breve testo della prima lettura i chiude così: “Egli stesso sarà la pace”: shalom è la pace che solo il Messia può donare all’umanità
Salmo responsoriale 79 (80) 2ac. 3bc, 15-16, 18-19
*Dio si fa premura della sua vigna
L’accenno ai cherubini, in ebraico Kéroubim (Due cherubini sovrastavano l’arca dell’Alleanza nel Santo dei Santi del Tempio di Gerusalemme), statue di animali alati con testa d’uomo e corpo e zampe di leone, simboleggiano il trono di Dio. “Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome”: siamo in una celebrazione penitenziale e “mai più” costituisce una risoluzione: “Da te mai più ci allontaneremo” significa che il popolo riconosce le proprie infedeltà e ne considera i propri mali come conseguenza. Il resto del salmo dettaglierà queste disgrazie, ma già qui si dice: “Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci”, il che indica un profondo bisogno di essere salvati. Nelle difficoltà il popolo si rivolge al suo Dio che mai l’ha abbandonato e lo supplica invocandolo con due titoli: il pastore d’Israele e il vignaiolo, immagini che evocano sollecitudine, attenzione costante, ispirate alla vita quotidiana in Palestina, dove pastori e vignaioli erano figure centrali nella vita economica. La prima metafora è quella del Pastore di Israele. Nel linguaggio di corte dei paesi dell’antico medio oriente, il titolo di pastore era attribuito ai re; nella Bibbia, invece è prima di tutto attribuito a Dio e chiamavano i re di Israele “pastori del popolo” solo per delega dato che il vero pastore di Israele è Dio. Nel Salmo 22/23 leggiamo: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Nel libro della Genesi, quando Giacobbe benedice suo figlio Giuseppe, invoca “il Dio alla cui presenza hanno camminato i miei padri, Abramo e Isacco, il Dio che è stato il mio pastore da quando esisto fino a oggi” (Gen 48,15). E quando benedice i suoi dodici figli, lo fa “nel nome del Pastore, la Roccia d’Israele” (Gen 49,24). Anche Isaia usa questa immagine: “Ecco il vostro Dio!… Come un pastore, fa pascolare il suo gregge, con il suo braccio raduna gli agnelli, li porta sul petto, conduce dolcemente le pecore madri” (Is 40,9-11). E il popolo di Israele è il gregge di Dio come leggiamo nel Salmo 94/95: “Sì, egli è il nostro Dio e noi siamo il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce con la sua mano”. Si tratta di un salmo che è una meditazione sull’Esodo dove Israele ha fatto la prima esperienza della sollecitudine di Dio perché, senza di lui, non sarebbe sopravvissuto. Dio infatti ha radunato il suo popolo come un pastore raduna il suo gregge, permettendogli di superare ogni ostacolo. E oggi nel salmo responsoriale quando si dice: “Tu, pastore d’Israele, ascolta”, è all’esperienza fondamentale dell’Esodo e della liberazione dall’Egitto che ci si riferisce.
Nella seconda metafora il salmo chiama Dio vignaiolo: “Dio degli eserciti ritorna! Guarda dal cielo e vedi: visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato”. Il salmo si ispira al Canto della vigna di Isaia: ”Voglio cantare per il mio diletto il cantico del mio amato per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva vangata, sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate. Nel mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino” (Is 5,1-2). Si tratta probabilmente di un canto popolare, che s’intonava durante i matrimoni come simbolo della cura del giovane sposo per la sua amata e questo salmo riprende l’ immagine per descrivere la sollecitudine di Dio come leggiamo nei versetti (9-12) non ripresi nel salmo responsoriale: ”Hai sradicato una vigna dall’Egitto, hai scacciato le nazioni per piantarla. Le hai preparato il terreno, l’hai radicata perché riempisse il paese. La sua ombra copriva le montagne, i suoi rami i cedri più alti; estendeva i suoi tralci fino al mare e i suoi germogli fino al Fiume”. L’Esodo, l’ingresso nella Terra Promessa, l’Alleanza con Dio, la conquista della terra e l’espansione sotto il regno di Davide, in tutte queste glorie Israele vi riconosce l’opera di Dio, della sua continua presenza e cura. La crescita di Israele fu talmente straordinaria da poter parlare di un’epoca di gloria: “La sua ombra copriva le montagne, i suoi rami i cedri più alti”, pensando alle conquiste di Davide che estese i confini del regno a livelli mai raggiunti prima.
La luna di miele non è durata a lungo perché già in Isaia il canto raccontava un amore felice all’inizio, finito male per l’infedeltà dell’amata ( cf Is 5, 2-4). E alla fine, il vignaiolo abbandona la sua vigna (cfIs 5, 5-6). Nel salmo di oggi troviamo la stessa avventura di un amore tradito: si parla di Israele e le sue infedeltà sono l’idolatria con ogni tipo di trasgressione alla Legge di Dio che porta delle conseguenze come ben si comprende quando si legge tutto il salmo. Mi limito solo a qualche versetto non presente nel salmo responsoriale. “Perché hai abbattuto la sua siepe? Chiunque passa la saccheggia; il cinghiale della foresta la devasta e gli animali dei campi la brucano” (Sal 80, 13-14). E poco dopo:
“È distrutta, incendiata” (v. 17). E ancora: “Ci hai resi lo scherno dei vicini, i nostri nemici ridono di noi” (v. 7). In altre parole, siamo in un periodo di occupazione straniera e chi siano i nemici, la storia non lo dice; vengono però paragonati agli animali che devastano la vigna — come i cinghiali, ritenuti animali impuri. Israele riconosce la colpa per la quale è stato punito da Dio e il salmo invoca il perdono, dicendo: “Fino a quando resterai adirato contro le preghiere del tuo popolo? Ci hai fatto mangiare un pane di lacrime, ci hai dato da bere lacrime in abbondanza” (v. 5-6). Il salmo riflette lo stato della teologia dell’epoca quando si credeva che tutto, la felicità come la sventura, fossero opera da Dio. Di certo oggi, grazie alla paziente pedagogia divina, c’è stato un progresso nella comprensione della rivelazione e abbiamo compreso che Dio rispetta la libertà dell’uomo e di certo non controlla ogni dettaglio della storia. Questo salmo offre però una magnifica lezione di fede e umiltà: il popolo riconosce le sue infedeltà e prende la ferma risoluzione di non ripeterle più:
“Da te mai più ci allontaneremo” e si rivolge a Dio implorando la forza della conversione:
“Facci vivere e noi invocheremo il tuo nome”.
Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei 10, 5-10
*La disponibilità vale più di tutti i sacrifici
In queste poche righe per due volte ricorre quest’espressione: “Ecco, io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà”, tratta dal Salmo 39/40, un salmo di rendimento di grazie. Breve commento a questo salmo che inizia con il descrivere il pericolo mortale da cui Israele è stato liberato: “Con pazienza ho sperato nel Signore: si è chinato su di me, ha ascoltato il mio grido. Mi ha tratto dalla fossa della morte, dal fango e dalla melma; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi”. Dopo aver ringraziato per la liberazione dall’Egitto, prosegue: “Sulle mie labbra ha posto un canto nuovo, una lode al nostro Dio”; poi: “Non hai voluto né sacrifici né offerte, ma mi hai dato un corpo. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: ‘Ecco, io vengo, mio Dio, per fare la tua volontà”. Chiaro il messaggio: la maniera migliore per ringraziare è offrire a Dio non sacrifici, ma la disponibilità a compiere la sua volontà. La risposta che Dio attende è: “Eccomi”, tipico dei grandi servitori di Dio. Abramo, chiamato da Dio al momento del sacrificio di Isacco, rispose semplicemente: “Eccomi” e la sua disponibilità è esempio per i figli d’Israele (Gen 22): nonostante Isacco non sia stato immolato, la disponibilità vale più di tutti i sacrifici. Mosè risponde “Eccomi” di fronte al roveto ardente e la sua disponibilità trasformò un semplice pastore persino impacciato nel parlare nel grande condottiero d‘Israele. Samuele, secoli dopo, al tempo dei Giudici, con il suo “Eccomi” divenne grande profeta di Israele (1 Sam 3, 1-9) che da adulto ebbe il coraggio di dire al re Saul: “Il Signore gradisce forse gli olocausti e i sacrifici quanto l’obbedienza alla sua parola? No! L’obbedienza vale più del sacrificio, l’ascolto più del grasso degli arieti” (1 Sam 15, 22).
Nella Bibbia, il titolo di «servitore» di Dio è il più grande complimento per un credente, come pure nei primi secoli dell’era cristiana, nei paesi di lingua greca, era comune dare ai figli il nome «Christodule» (Christodoulos), che significa servitore di Cristo. L’insistenza sulla disponibilità diventa per ognuno anzitutto incoraggiante perché Dio chiede solo la nostra disponibilità e tutti, nonostante i limiti umani, possiamo diventare utili per il Regno di Dio. Al tempo stesso quest’insistenza è esigente poiché se Dio ci chiama a servirlo non possiamo accampare scuse come l’incompetenza, l’ignoranza, l’indegnità, la stanchezza, etc…
L’autore della Lettera agli Ebrei applica il Salmo 39/40 a Gesù Cristo, il quale dice: “Non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: ‘Ecco, io vengo per fare,o Dio la tua volontà”. Disponibilità totale che non iniziò la sera del Giovedì Santo, ma abbraccia tutta la vita, giorno dopo giorno, fin dall’inizio perché “entrando nel mondo, Cristo dice… un corpo mi hai preparato …ecco, io vengo” (vv5-7).
Dire che la disponibilità vale più di tutti i sacrifici non significa che i sacrifici vengano aboliti, ma perdono il loro valore quando non sono accompagnati da totale disponibilità al servizio di Dio e degli uomini. Inoltre in Israele, nel contesto della lotta contro le idolatrie, i profeti insistono, sul “sacrificio delle labbra”, preghiera e lode da rivolgere aesclusivamente al Dio d’Israele poiché avveniva che, pur offrendo sacrifici costosi nel tempio di Gerusalemme, alcuni continuavano a rivolgersi anche ad altri dèi. Offrire a Dio il “sacrificio delle labbra” indica la decisione di appartenere a Lui senza riserve e questo, come leggiamo in Osea, valeva più di tutti i sacrifici animali: “Al posto di tori, ti offriremo in sacrificio le parole delle nostre labbra” (Os 14,3). Anche il salmo 49/50 lo ribadisce: “Offri a Dio come sacrificio la lode e sciogli i tuoi voti all’Altissimo… Chi offre la lode come sacrificio, mi glorifica (Sal 49/50,14.23).
Giacobbe è considerato un esempio di disponibilità assoluta a Dio, nonostante le sue malefatte, perché la sua vita testimonia una profonda trasformazione interiore e un’intensa ricerca di Dio. Il percorso di Giacobbe rappresenta il viaggio spirituale di ogni credente: da una vita caratterizzata da inganni e lotte a una vita di fede, di incontro con Dio e di adesione al suo progetto. Queste le malefatte di Giacobbe: fin dalla giovinezza, commette diverse azioni discutibili: inganna il fratello Esaù per ottenere la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie (Gen 25,29-34); truffa suo padre Isacco per ricevere la benedizione che spettava al primogenito, con l’aiuto della madre Rebecca (Gen 27), manipola lo zio Labano per arricchirsi durante il periodo in cui lavora per lui (Gen 30,25-43). Questa la sua disponibilità a Dio: nonostante questi comportamenti, Giacobbe è aperto all’incontro con Dio e mostra una crescente disponibilità a lasciarsi trasformare. La sua storia è scandita da episodi che dimostrano il cambiamento del suo cuore: il sogno di Betel (Gen 28,10-22): dopo aver ingannato il fratello ed essere fuggito, Giacobbe ha una visione di una scala che collega la terra al cielo. In questo sogno, Dio gli rinnova le promesse fatte ad Abramo e Isacco. Qui egli promette: “Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio… allora il Signore sarà il mio Dio” (Gen 28,20-21).
Poi a Peniel (Gen 32,23-32) lotta tutta la notte con un uomo misterioso, che si rivela essere Dio stesso o un suo messaggero e riceve un nuovo nome, Israele, che significa “Colui che lotta con Dio”. È il simbolo di una trasformazione profonda: “Non ti lascerò andare, se non mi avrai benedetto!” (Gen 32,27). Qui emerge la sua disponibilità totale a dipendere da Dio, a riconoscere la sua necessità di essere benedetto e guidato. Segue la riconciliazione con Esaù (Gen 33) e questo dimostra che il cambiamento interiore produce frutti concreti nelle relazioni umane. La sete di Dio: ciò che distingue Giacobbe non è la perfezione morale, ma la sua sete di Dio: lo ha sempre cercato anche quando le sue azioni erano dettate dall’ambizione personale e questa ricerca costante di Dio lo rende un esempio di disponibilità perché appare un uomo che, nonostante le sue debolezze e i suoi errori, ha sempre desiderato la benedizione e la presenza di Dio nella sua vita. La sua storia insegna che: Dio non sceglie i perfetti, ma coloro che sono disposti a lasciarsi trasformare; le nostre imperfezioni non sono un ostacolo alla chiamata di Dio, purché siamo disponibili a camminare con Lui; la disponibilità a Dio è più importante dei sacrifici o delle opere esteriori, perché Dio guarda il cuore e il desiderio di conversione. In sintesi, Giacobbe è un esempio di disponibilità assoluta a Dio perché, nonostante le sue malefatte, ha accolto la chiamata divina, ha lottato per la benedizione di Dio e si è lasciato trasformare da quell’incontro, diventando uno dei patriarchi fondamentali della fede di Israele.
Vangelo secondo Luca 1,39-45
*Tu sei benedetta fra tutte le donne
Nel vangelo di Luca, dopo i due racconti dell’Annunciazione: a Zaccaria per la nascita di Giovanni Battista, e a Maria per la nascita di Gesù, segue il racconto della “Visitazione” che a prima vista appare una semplice scena di famiglia, ma non dobbiamo farci ingannare: Luca scrive un’opera profondamente teologica e per meglio capire occorre dare giusto valore alla frase centrale: “Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce” (Lc 1,41-42). E’ quindi lo Spirito Santo che parla e annuncia fin dall’inizio la grande notizia di tutto il Vangelo di Luca: colui che è stato appena concepito è il “Signore”. Lo Spirito ispira a Elisabetta: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo”: ciò significa che Dio agisce in te e attraverso di te, Dio agisce in tuo Figlio e attraverso tuo Figlio. Come sempre, lo Spirito Santo è colui che ci permette di scoprire, nelle nostre vite e in quelle degli altri, i segni dell’opera di Dio. Luca non ignora che questa frase di Elisabetta ne riprende in parte, una che troviamo nel libro di Giuditta (Gdt 13,18-19): quando dopo aver decapitato il generale Oloferne, Giuditta ritorna dall’accampamento nemico, viene accolta da Ozia che le dice: “Tu sei benedetta fra tutte le donne, e benedetto è il Signore Dio”. Maria è qui paragonata a Giuditta, un parallelismo che suggerisce due cose: l’espressione “Benedetta tu fra tutte le donne” fa capire che Maria è la donna che garantisce all’umanità la vittoria definitiva sul male. Quanto invece alla conclusione della frase (per Giuditta “benedetto è il Signore Dio” mentre per Maria “benedetto il frutto del tuo grembo”), annuncia che il Signore stesso è il frutto del suo grembo: ecco perché il racconto di Luca non è solo un quadretto di gioia familiare, ma qualcosa di ben più profondo. Di fronte al mutismo di Zaccaria, diventato muto perché aveva dubitato delle parole dell’angelo annunciatrici della nascita di Giovanni Battista, appare tutto il contrasto della potenza della parola di Elisabetta piena di Spirito Santo. Giovanni Battista, ancora nel grembo materno, già pieno di Spirito Santo manifesta la sua gioia: Elisabetta dice che “ha sussultato di gioia nel mio grembo” quando ha udito la voce di Maria. Lo aveva preannunciato l’angelo a Zaccaria: “Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita. Tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e lo chiamerai Giovanni. Sarai nella gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita… sarà pieno di Spirito Santo fin dal grembo di sua madre” (Lc 1,13-15).
Riprendiamo le parole di Elisabetta: “A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?” (Lc 1,43). Anche questa frase richiama un episodio dell’Antico Testamento, cioè l’arrivo dell’Arca dell’Alleanza a Gerusalemme (2 Sam 6,2-11). Quando Davide diventato re a Gerusalemme costruì un degno palazzo, decise di trasferire l’Arca dell’Alleanza nella nuova capitale. Pieno di fervore e di timore organizzò una processione festosa con tutti gli uomini migliori d’Israele, circa trentamila, e con tutto il popolo partì per far salire l’Arca di Dio… La trasportarono su un carro nuovo… Davide e tutta la casa d’Israele danzavano davanti al Signore al suono di cetre, arpe, tamburelli, sistri e cembali (cf 2 Sam 6,5). Durante il tragitto, però, un uomo che aveva toccato l’Arca senza esserne autorizzato morì immediatamente e, preso dal timore, Davide esclamò: “Come potrà l’Arca del Signore venire da me?” (2 Sam 6,9). Decise quindi di lasciare l’Arca nella casa di Obed-Edom, dove rimase per tre mesi e poi, poiché si diffuse la voce che la presenza dell’Arca portava benedizione a quella casa, Davide decise di completare il viaggio e così Davide e tutta la casa d’Israele fecero salire l’Arca del Signore tra canti di gioia e al suono del corno (cf 2 Sam 6,15) e pieno di gioia, Davide pure danzava davanti all’Arca “con tutte le sue forze” (cf 2 Sam 6,14).
Molti dettagli accomunano il racconto della Visitazione con il viaggio dell’Arca dell’Alleanza: Entrambi i viaggi, quello dell’Arca e quello di Maria, si svolgono nella stessa regione, le colline di Giudea; l’Arca entra nella casa di Obed-Edom e porta benedizione; Maria entra nella casa di Zaccaria ed Elisabetta e porta gioia; l’Arca rimane tre mesi nella casa di Obed-Edom; Maria resta tre mesi presso Elisabetta; Davide danza davanti all’Arca; Giovanni Battista “esulta di gioia” davanti a Maria che porta in sé il Signore. Poiché tutto questo non è casuale, l’evangelista invita a contemplare Maria come la nuova Arca dell’Alleanza. L’Arca era il luogo della Presenza di Dio, e Maria porta in sé, in modo misterioso, la Presenza divina e da quel momento Dio abita per sempre la nostra umanità: “Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare fra noi” (Gv 1,14).
Man is involved in penance in his totality of body and spirit: the man who has a body in need of food and rest and the man who thinks, plans and prays; the man who appropriates and feeds on things and the man who makes a gift of them; the man who tends to the possession and enjoyment of goods and the man who feels the need for solidarity that binds him to all other men [CEI pastoral note]
Nella penitenza è coinvolto l'uomo nella sua totalità di corpo e di spirito: l'uomo che ha un corpo bisognoso di cibo e di riposo e l'uomo che pensa, progetta e prega; l'uomo che si appropria e si nutre delle cose e l'uomo che fa dono di esse; l'uomo che tende al possesso e al godimento dei beni e l'uomo che avverte l'esigenza di solidarietà che lo lega a tutti gli altri uomini [nota pastorale CEI]
The Cross is the sign of the deepest humiliation of Christ. In the eyes of the people of that time it was the sign of an infamous death. Free men could not be punished with such a death, only slaves, Christ willingly accepts this death, death on the Cross. Yet this death becomes the beginning of the Resurrection. In the Resurrection the crucified Servant of Yahweh is lifted up: he is lifted up before the whole of creation (Pope John Paul II)
La croce è il segno della più profonda umiliazione di Cristo. Agli occhi del popolo di quel tempo costituiva il segno di una morte infamante. Solo gli schiavi potevano essere puniti con una morte simile, non gli uomini liberi. Cristo, invece, accetta volentieri questa morte, la morte sulla croce. Eppure questa morte diviene il principio della risurrezione. Nella risurrezione il servo crocifisso di Jahvè viene innalzato: egli viene innalzato su tutto il creato (Papa Giovanni Paolo II)
St John Chrysostom urged: “Embellish your house with modesty and humility with the practice of prayer. Make your dwelling place shine with the light of justice; adorn its walls with good works, like a lustre of pure gold, and replace walls and precious stones with faith and supernatural magnanimity, putting prayer above all other things, high up in the gables, to give the whole complex decorum. You will thus prepare a worthy dwelling place for the Lord, you will welcome him in a splendid palace. He will grant you to transform your soul into a temple of his presence” (Pope Benedict)
San Giovanni Crisostomo esorta: “Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà con la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina di oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo sopra ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza” (Papa Benedetto)
Only in this friendship are the doors of life opened wide. Only in this friendship is the great potential of human existence truly revealed. Only in this friendship do we experience beauty and liberation (Pope Benedict)
Solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera (Papa Benedetto)
A faith without giving, a faith without gratuitousness is an incomplete faith. It is a weak faith, a faith that is ill. We could compare it to rich and nourishing food that nonetheless lacks flavour, or a more or less well-played game, but without a goal (Pope Francis)
Una fede senza dono, una fede senza gratuità è una fede incompleta (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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