Il “comandamento” grande: l’Amore
(Mc 12,28-34)
«Qual è primo comandamento di tutti? Rispose Gesù […] Primo è: Ascolta Israele. Il Signore nostro Dio è unico Signore, e amerai il Signore Dio tuo da tutto tuo cuore e da tutta tua vita e da tutta tua mente e da tutto tuo molto» (vv.28-30; Dt 6,4-5).
Gesù trasforma in questione cruciale quella che era la più banale delle domande di catechismo: qual è il «grande» comandamento?
Malgrado le diverse scuole teologiche, la risposta era ben nota a tutti: il riposo del sabato, unica prescrizione osservata (persino) da Dio.
La questione posta al Maestro dall’esperto della Legge non era così innocente, ma «per metterlo alla prova» (Mt 22,35; Lc 10,25) - ossia per ribattergli: e allora come mai tu non adempi il precetto del sabato?
Cristo semplifica il groviglio delle dispute, circa l’allargamento o la riduzione delle casistiche teoriche, e va al punto.
Sempre allergico ai bisticci sulle dottrine, Egli fa una proposta di vita come momento unitivo delle esigenze dell’Alleanza.
Tutte le norme hanno un’essenza, altrimenti restano un coacervo dispersivo. Trovano fondamento spontaneo e significato naturale nel dono di sé - però motivato.
Ma qual è il punto solido e il contesto di un simile invito? Un sentimento vago, un’emozione fra le tante, un moto passeggero? Filantropia? O un’esperienza?
Siamo assetati d’affetto e concediamo amicizia a corrente alternata, tanto da far diventare l’amore una fonte di equivoci, radicati nel bisogno di completarsi.
Ecco perché il secondo comandamento appare come una spiegazione del primo, non una sua riduzione [Mt 22,39; Mc 12,31; Lc 10,27].
Nel mondo antico non aveva senso parlare di amore verso Dio, Mistero ineffabile.
Era l’Altissimo che prediligeva qualcuno donandogli fortuna materiale, e costui gli riconosceva un dovere di culto, e sacrifici.
Idem per gli sfortunati, almeno per evitare ritorsioni (e tenerselo buono).
Con Gesù si parla apertamente di gratuità - non semplice gratitudine - come nucleo unificante, sia della persona che della storia della salvezza.
Finisce l’idea dello scambio di favori.
Il Padre non ha bisogno di nulla; non gode di vederci sottomessi e sentirsi riconosciuto [schema della religiosità pagana] come farebbe un sovrano nei confronti dei sudditi.
La Relazione con l’Eterno rimane concreta, ma l’onore verso l’Altissimo si manifesta facendo proprio il suo progetto di bene e di crescita nei confronti dell’uomo, e riconoscendosi in esso.
Il piano di Dio si dispiega... con una esigenza viva. Ma c’è una Partenza, un Centro e un Arrivo. In realtà, una nuova Genesi.
In ogni caso, solo l’iniziativa di Dio estrae da noi il meglio: più talento, più desiderio, più interessi, più capacità inespresse, più inedito - invece di tormenti che fanno male all’anima.
È la differenza tra religiosità che affievolisce la personalità, e Fede.
Per via di Fede scatta una Relazione creativa speciale: quella di colui che accoglie la Chiamata per Nome, nonché le proposte della stessa Fonte dell’essere - onda su onda.
Esse anticipano le nostre iniziative e ci guidano infallibilmente alla perfetta fioritura del personale e altrui Seme.
Soprattutto in Mt (22,38-39) e Mc (12,29-31) è chiaro che l’amore al prossimo deriva dall’esperienza e dalla consapevolezza di essere amati prima e senza condizioni previe da Dio - guardati, accettati, valorizzati, promossi, rallegrati, completati.
Si ama non per sforzo [la forza è una leva dirigista: produce episodi che fanno peggiorare la vita] ma sulla base di quanto ci sentiamo amati - e con immediatezza, ripetutamente, senza condizioni.
Si ama sull’argomento del “a perdere” già sperimentato a proprio favore dalla Provvidenza, che dà senso e valore agli atti umani.
Non per infatuazione di aspettative esterne, indotte, comunque altrui.
Anche in campo spirituale, non pochi comportamenti ritenuti in grado di risolvere problemi, spesso li cronicizzano.
In tal guisa, essi fanno leva su un’idea di permanenza - non sulla dinamica di gratuità vocazionale, sul Dono inimmaginabile, da accogliere.
Dunque il punto è regolarsi secondo risorse che vengono, o la distorsione dei modelli, tipica della mentalità moralista.
Infatti lo schema d’onnipotenza nel bene, paradossalmente, ripiega l’io e le sue forze, e ne distorce lo sguardo.
Ma al di là di tutte le sfumature, siamo rallegrati che primo e secondo comandamento riguardino l’Amore: ciò che più desideriamo fare e ricevere. È un’urgenza della vita.
Eppure bisogna essere sapienti, affinché lo schema dei paradigmi o gli stimoli dell’affetto naturale e delle precipitazioni non travolgano e trascinino via - capovolgendo - ogni buona intenzione.
L’Amore non sopporta l’eccesso di aspettative, perché scaturisce da una esperienza di Perfezione che giunge; offerta, inattesa, imprevedibile. Non già allestita secondo propositi concatenati e normali.
Se autentica, nel tempo sperimenteremo la fioritura; non nell’attesa di un ritorno, ma anzitutto in un Dono fuori del tempo. Perché esso ci ha già saziati e convinti - con stupore contemplativo - e fatti trasalire di gioia.
Così l’Eros vocazionale e fondante continuerà a plasmarci, con la sua virtù perennemente esplorativa e capace di attivare nuove Nascite.
Energia personale - senza i soliti bagagli di tormento, riserve, esteriorità... e (di nuovo) corrucci.
Comandamento Grande: solo la Qualità profonda obbliga
La sola disposizione in cui il Padre si riconosce è l’Amore, a tutto spiano e a tutto tondo; non un qualche precetto particolare.
Per Gesù non vi sono classifiche nelle cose di Dio e dell’uomo - infatti Egli mostrava una spiccata tendenza a riassumere le molte disposizioni - perché solo la Qualità profonda obbliga.
La proposta spirituale del Maestro faceva propria la narrativa del popolo di Dio e la pratica dei Profeti: tutta cuore, piedi, mani - e intelligenza.
L’Amore completo verso Dio deve avvolgere la creatura in ogni decisione [cuore].
Parimenti, in ogni istante e aspetto della sua “vita” concreta, nonché coinvolgere tutte le proprie risorse [forze: cf. Mc 12,30; Lc 10,27].
Dt 6,5 (testo ebraico) recita infatti: «con tutto il tuo “molto”», intendendo una partecipazione concreta sia alla vita cultuale che alla fraternità materiale - provvedendo e aiutando coi propri beni.
Mt non cita esplicitamente quest’ultimo aspetto, forse per sottolineare che il Padre non assorbe energie in nessun modo, bensì le trasmette.
Ma Gesù aggiunge alle sfumature dell’intesa autentica con Dio enumerate nel Primo Testamento un versante inatteso per chi pensa l’amore come sentimento delicato solo emotivo.
Il Signore suggerisce lo studio, il discernimento e la comprensione delle nostre percezioni [Mt 22,37; Mc 12,30; Lc 10,27] accompagnate dall’aspetto mentale e d’intelligenza profonda (escluso in Dt 6).
A prima vista sembra una sfaccettatura secondaria o addirittura un orpello per il balzo qualitativo da un comune senso religioso all’esistenza di Fede saggiamente e personalmente configurata.
È vero l’esatto contrario: siamo figli di un Padre che non ci soppianta, né assorbe le potenzialità o energie, spersonalizzando; neppure sotto il profilo mentale.
È un risvolto capitale della nostra dignità e promozione - anche umana - e discrimine specifico nel discernimento della Fede in Cristo, rispetto a tutte le soluzioni devote alla ricerca dell’Assoluto (qualunque).
La sola praticità rende fragili, poco consapevoli; e quando non siamo convinti neppure saremo affidabili, sempre in balia di mutevoli situazioni e dell’opinione conformista, alla moda, altrui.
Non di rado si fugge il confronto a tutto campo che arricchirebbe ciascuno - proprio per incompetenza.
Ma non siamo dei creduloni unilaterali. Essere attenti e aggiornati, avere capacità di pensiero anche critico è dilatazione richiesta in ordine allo sviluppo della propria vocazione umana, morale, culturale e spirituale.
Banalità, identificazioni, scopiazzature impersonali e ripetizioni assembleari poco vigili intralciano la marea della vita, questa cascata divina di energia perenne che pulsa e non si spegne.
Anzi, essa viene con appelli che smuovono: chiama a spalancarci verso nuove attrattive di relazione e altri interessi, anche intellettuali; perfino denominazionali.
Gesù non parla di amore verso Dio in termini d’intimismo e sentimento, ma di un’affinità totalmente coinvolgente, resa meno incerta proprio dallo sviluppo della nostra misura sapienziale, in merito alle questioni.
La devozione ingoia tutto. Invece, la Fede non si lascia plagiare dalla civiltà locale o dell’esterno: suppone una capacità di entrare in modo competente nelle valutazioni personali o inerenti il dibattito comunitario e d’insieme - storico e aggiornato.
La testimonianza della nostra Speranza non disdegna di lasciarsi fecondare dal dialogo con chi ha maggiore perizia psicologica o biblica, pastorale specialistica e sociale, nonché archeologica, bioetica, economica, scientifica e così via.
Un impegno che dimostra vero interesse al Sacro [certo, tutti aspetti da sottoporre a valutazione non come si trattasse di opzioni scolastiche].
Ma bisogna ammettere che una delle più organiche espressioni della grande teologia cattolica è quella che un tempo si denominava “dottrina” dei sette Doni dello Spirito Santo.
Nell’esistenza d’Amore si riconosceva il primato (anche relazionale) del Dono dello Spirito, che completava le possibilità di espressione “naturale” delle virtù cardinali e teologali, conducendole a pienezza.
Ben quattro dei sette Doni venivano correlati ad un carattere di profondo sapere: Sapienza, Intelletto, Consiglio e Scienza.
Insomma: qui c’è ancora un Appuntamento decisivo per l’Amore a tutto tondo.
Lasciarsi andare a qualche battuta sulla falsariga credente è dominio di tutti [individualista o di cerchia] ma la capacità di entrare in merito è solo di quanti hanno voluto vagliare e vivere le tematiche - perché più interessati a comprendere il Volto di Dio e il suo Disegno sull’umanità che a ribadire finte sicurezze narrative.
Innaturale sarebbe riconoscere un Padrone del Cielo che non Viene incontro; come se ci sovrastasse con un “suo” obbiettivo (a noi estrinseco) e così rendesse tutti marginali.
[Nelle sètte - perfino quelle dall’aspetto bonario - è fatto divieto l’approfondire, per capire: la posizione c’è già, il candidato deve “solo” adeguarsi].
«Come (e perché) te stesso» [senso del testo greco: Mt 22,39; Mc 12,31; Lc 10,27]: è una nuova Nascita di vita, nuova Genesi nello spirito di Dono.
Il paradosso suggerito da Gesù supera la norma antica di Lv 19,18.
Amiamo non solo i figli del nostro popolo, «per il fatto che» abbiamo cura d’incontrarci e vogliamo arricchire noi stessi insieme, dilatando l’io nel Tu.
Il «Comando grande» di Dio investe la vita reale e riguarda non solo la qualità di relazione col mondo e il prossimo, ma il globale riflessivo con sé.
Non bisogna aver paura di altre dottrine e discipline, trascurando sfide analitiche oltre quelle “organiche” - quelle di lungo periodo.
Tutte rimettono in discussione credenze, opere, la propria visione del mondo; linguaggio, stile, e pensiero stesso.
Abbiamo ancora un gran bisogno di allargare la mente e diventare vasti come un panorama. E riarmonizzare gli opposti che ci trasciniamo dentro.
Lati e Perle nascoste cui ancora non abbiamo dato respiro, o visibilità - e forse mai considerato Alleati.
Resta unica la sorte travagliata che accomuna i profeti, ma non sono le certezze (antiche, o sofisticate, alla moda, à la page) il valore aggiunto dell’avventura di Fede nell’Amore - bensì il rischio del mettersi in bilico e la rielaborazione a tutto campo.
Inutile poi lamentarsi, se le realtà ecclesiali che non si aggiornano, e permangono nei luoghi comuni ereditati, lentamente decadono, quindi scompaiono.
A dispetto del loro patrimonio eclatante e dei fiabeschi eventi.
In tal guisa, il «dottore della legge» è forse già vicino [Mc 12,34; Lc 10,28] ma deve ancora tenere d’occhio Gesù, per comprendere in Lui il senso più dilatato del dono totale, nello specifico personalizzante, che non è ingenuo.
Il Signore riporta il senso delle norme alla loro funzione profonda e originaria: farsi viatico di ogni Incontro che solleva accadimenti, persone di qualsiasi estrazione, e il creato.
In conclusione, esperienza e rito hanno il loro fulcro nella reciprocità dell’amore.
La vita in tutte le sue sfaccettature diventa Liturgia più significativa del gesto di culto accreditato; il suo Pane davvero spezzato si fa appello convincente alla Comunione e Missione.
Anche se non fa notizia, termometro autentico del nostro cammino non sarà il volume o il mucchio di cose importanti che facciamo, bensì un pulsare di cuore e mente rigenerati.
Per questo alle note antiche del vero Amore il Figlio di Dio aggiunge la qualità del pensiero: non siamo dei creduloni, sprovveduti, unilaterali.
Le nostre mani tese sono frutto di scelta libera e consapevole. Nessuna arrendevolezza forzata.
«Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» [Giovanni Paolo II].
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cos’è Grande per te? Titoli? Avere, potere, apparire?
Qual è nella tua esperienza dell’Amore il punto di Partenza, il Centro e l’Arrivo?
Ti documenti e aggiorni per poter corrispondere meglio alla Chiamata di Dio?
Relazione profonda
Cari fratelli e sorelle!
Il Vangelo di questa domenica (Mc 12,28-34) ci ripropone l’insegnamento di Gesù sul più grande comandamento: il comandamento dell’amore, che è duplice: amare Dio e amare il prossimo. I Santi, che abbiamo da poco celebrato tutti insieme in un’unica festa solenne, sono proprio coloro che, confidando nella grazia di Dio, cercano di vivere secondo questa legge fondamentale. In effetti, il comandamento dell’amore lo può mettere in pratica pienamente chi vive in una relazione profonda con Dio, proprio come il bambino diventa capace di amare a partire da una buona relazione con la madre e il padre. San Giovanni d’Avila, che ho da poco proclamato Dottore della Chiesa, così scrive all’inizio del suo Trattato dell’amore di Dio: «La causa - dice - che maggiormente spinge il nostro cuore all’amore di Dio è considerare profondamente l’amore che Egli ha avuto per noi… Questo, più dei benefici, spinge il cuore ad amare; perché colui che rende ad un altro un beneficio, gli dà qualcosa che possiede; ma colui che ama, dà se stesso con tutto ciò che ha, senza che gli resti altro da dare» (n. 1). Prima di essere un comando - l’amore non è un comando - è un dono, una realtà che Dio ci fa conoscere e sperimentare, così che, come un seme, possa germogliare anche dentro di noi e svilupparsi nella nostra vita.
Se l’amore di Dio ha messo radici profonde in una persona, questa è in grado di amare anche chi non lo merita, come appunto fa Dio verso di noi. Il padre e la madre non amano i figli solo quando lo meritano: li amano sempre, anche se naturalmente fanno loro capire quando sbagliano. Da Dio noi impariamo a volere sempre e solo il bene e mai il male. Impariamo a guardare l’altro non solamente con i nostri occhi, ma con lo sguardo di Dio, che è lo sguardo di Gesù Cristo. Uno sguardo che parte dal cuore e non si ferma alla superficie, va al di là delle apparenze e riesce a cogliere le attese profonde dell’altro: attese di essere ascoltato, di un’attenzione gratuita; in una parola: di amore. Ma si verifica anche il percorso inverso: che aprendomi all’altro così com’è, andandogli incontro, rendendomi disponibile, io mi apro anche a conoscere Dio, a sentire che Egli c’è ed è buono. Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili e stanno in rapporto reciproco. Gesù non ha inventato né l’uno né l’altro, ma ha rivelato che essi sono, in fondo, un unico comandamento, e lo ha fatto non solo con la parola, ma soprattutto con la sua testimonianza: la Persona stessa di Gesù e tutto il suo mistero incarnano l’unità dell’amore di Dio e del prossimo, come i due bracci della Croce, verticale e orizzontale. Nell’Eucaristia Egli ci dona questo duplice amore, donandoci Se stesso, perché, nutriti di questo Pane, ci amiamo gli uni gli altri come Lui ci ha amato.
Cari amici, per intercessione della Vergine Maria, preghiamo affinché ogni cristiano sappia mostrare la sua fede nell’unico vero Dio con una limpida testimonianza di amore verso il prossimo.
(Papa Benedetto, Angelus 4 novembre 2012)