Due padroni: quale sbocco a ciò che portiamo dentro
(Mt 6,24-34)
Spesso ci chiediamo se Dio sia davvero partecipe dei nostri dubbi, aspettative e tormenti, o viceversa indifferente.
Talora anche i Salmi sembrano rivolgere all’Eterno accuse blasfeme, che lo imputano di scarsa attenzione alle vicende del giusto.
Anche grandi figure di santi hanno vissuto turbamenti seri; trepidazioni che ci sono stati a lungo nascoste, perché ritenute poco edificanti (in un quadro di serenità conformista).
Invece è del tutto normale - anzi, sano e proficuo - sentir vacillare le vecchie speranze, e accogliere in pieno i fallimenti, le emozioni negative o altre nubi che ci circondano.
Il problema è che fin da piccoli ci accompagna l’istinto della ricerca di sicurezze, e purtroppo in molti casi tentiamo di avere il medesimo atteggiamento anche nel percorso credente.
Invece la vita nello Spirito si stacca dalla vacua vicenda spirituale religiosa istituzionale di massa (che promette molto e non mantiene nulla)… nel di più della Fede e del Mistero, che operano.
Il punto di riferimento non è la cronaca dell’homo faber ipsius fortunae - che non a caso è un motto pagano.
L’anima non resta volentieri in un mondo caratterizzato dall’antagonismo spicciolo, il quale chiede di precipitarsi nel meccanismo temporale azione-reazione.
Gli attriti vanno accolti e rielaborati, perché in essi c’è un segreto intimo della crescita.
[Così ad es. chi ci vuole combattere, ci farà il più grande favore della vita. Ben venga. Sarà l’occasione per sganciarsi dall’immediato, e sviluppare energie alternative - preparatorie - dei nostri impensabili sviluppi].
In questo senso accettiamo il Padre, che senza posa obbliga a spostare lo sguardo - affinché distendiamo le ali e giungiamo altrove, nel punto che non sapevamo prima.
Altrimenti nella cappa dell’affrettarsi ad aggiustare e ribadire, potremmo fidarci d’altro impulso - quello che offre sicurezza (illusoria) e blocca il fluire della vita, rendendola paludosa e prevedibile.
Le certezze di cibo, o ruoli, di guadagno e senso di potere, perfino la mentalità schiava di vacanze (...) poi come ogni idolo, esigono tutto: si diventa lacchè d’un padrone che pretende attenzione.
L’attaccamento o addirittura l’adorazione di mammona [aramaico mamônâ, da ‘aman - appoggiare, fare fondamento] gratifica, certo; ma su due piedi.
Sino a illudere che l’accumulo possa far sperimentare ebbrezza divina. Al massimo, però, concedendo qualche elemosina.
I corifei dell’opulenza materiale tempestiva dicono: “Fidati, l’importante è trattenere per sé e stare nel riscontro pratico” - anche perché proprio nel passo evangelico di oggi, Gesù sembra un ingenuo.
Eppure Cristo insiste nel proporre un rapporto coi beni non servile. In ordine alla pienezza di essere, si guadagna immensamente più ad accogliere la forza provvidente della Vita che Viene.
Nelle immagini agresti, il Signore allude all’esperienza d’Israele peregrinante.
Nell’Esodo, Dio aveva educato il popolo affinché potesse conquistare la terra della libertà e abbandonare quella della schiavitù - rassicurante, non umanizzante.
Nel deserto non si poteva accumulare una proprietà, né piantare tenda stabile; neppure accaparrarsi cibo durevole. Nulla doveva incantare il popolo, se non la mèta stessa.
Certo, l’affanno del povero non è quello del ricco.
Tuttavia, il denaro non elimina le inquietudini - piuttosto guida artificiosamente a un mostruoso dispendio di energie (sempre rinnegando il proprio essere profondo, sognante).
Prima i sacrifici per raggiungere posizioni, poi quelli per difenderle; e nel frattempo, la frustrazione per non aver avanzato oltre.
Ovvero, l’angoscia nel misurare la differenza fra traguardi reali e desideri dell’anima - sia nel senso della totalità che della vocazione specifica.
Gesù suggerisce di affrontare la realtà con cuore nuovo, rispettoso del carattere naturale. In caso contrario, ci ammaleremmo.
Siamo sereni nel Sé eminente che ci appartiene - non nel pettinare il proprio io inferiore.
Per questo ci lasciamo guidare da inclinazioni non artificiose: radicali, innate, germinali - le quali spontaneamente contattano gli strati profondi dell’essenza e destino che ci appartiene.
Lo facciamo non perché creduloni, bensì per istinto profondo, e per il fatto che abbiamo già sperimentato il ciclo “morte e risurrezione”: il dinamismo dell’Amore che ci ha proiettati un po’ fuori del tempo.
Qui le esperienze negative e di limite hanno saputo attivare energie complessive armonizzanti (non subitanee ma propulsive), cosmiche fuori e acutamente divine in noi. Lo faranno ancora.
La Provvidenza è Guida infallibile del mondo interiore e naturale, genuino: deve subentrare il ritmo dell’essere, il passo potente [ma spontaneo] del processo di Fede.
Come dunque evitare di vendersi per un idolo, e non suicidarsi asservendo il respiro dell’anima a qualcosa d’effimero e parziale?
Identificazioni, calcolo d’interessi e beni materiali artificiosi svuotano il Nucleo dell’essere e non ci fanno vedere la soluzione autentica.
L’esperienza di Paternità nella Fede è il luogo sacro che recupera il senso della vita originaria; l’intuizione vitale, di natura, che illumina quanto opportuno perseguire per capovolgere l’esistenza dubbiosa o rattrappita.
Tuttociò, nel sentimento che il creato, la vocazione innata personale e la società umana sono strettamente solidali nel senso profondo e nella crescita. Qui la consapevolezza di accordo con l’ordine naturale innesta altra Linfa.
La visione cosmica e il carattere personale ci aiutano a dirigere le forze che emergono, rivoluzionando le attese, alimentando l’audacia, suggerendo l’orientamento delle vicende, nell’unicità.
In tal guisa, sublimando davvero la stessa qualità di convivenza e persona.
Il figlio che si accorge degli altri e non accumula, non perde nulla - bensì acquista un’altra marcia: sperimenta un Padre che si occupa della propria storia, e dilata la sua vita costruendo persino sui lati oscuri.
Il credente consapevole di essere accompagnato riesce sempre a fare un altro passo. Sa che la natura spontaneamente riempie i vuoti, e lo fa con una sapienza di equilibri misteriosa e suprema.
Solo su questo nuovo territorio che riannoda la cronaca alla storia si diventa solleciti dei grandi temi, ma senza l’affanno che smarrisce.
Accettiamo volentieri persino le precarietà e situazioni di debolezza: nutriti del riposo di Dio - e come nel suo ritmo rurale - sappiamo che i nostri bisogni e difetti nascondono le sorprese più belle del cammino.
La Via proposta da Gesù ha un tono non moralistico, privo di complessi, in vista della dedizione all’oggi missionario e alla crescita armoniosa di una appartenenza nella Fede a vari livelli (tutti da scoprire).
Nella sua potenza tranquilla, ecco lo sbalordimento che non uccide l’anima. E il mondo naturale ha la parola chiave.
«L’uomo è vissuto in uno stato di turbamento e di timore finché non ha scoperto la stabilità delle leggi di natura: fino a quel momento il mondo gli rimaneva estraneo. Le leggi scoperte non sono altro che la percezione dell’armonia regnante tra la ragione, propria all’anima umana, e i fenomeni del mondo. Questo è il legame con il quale l’uomo è unito al mondo in cui vive, ed egli prova una grande gioia quando lo scopre, poiché allora vede e comprende se stesso nelle cose che lo circondano. Comprendere una cosa vuol dire ritrovare in essa qualcosa di nostro, ed è questa scoperta di noi stessi al di fuori di noi a colmarci di gioia» (Rabindranath Tagore).
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Chi è il tuo Signore o padrone? Cosa occupa totalmente il tuo orizzonte? Senti ch’è qualcosa che corrisponde o vende la tua umanità?
Conclusione Inclusione spontanea
Anche la scena degli esempi che Gesù trae dalla natura - eco della vita conciliante sognata per noi dal Padre - introduce alla Felicità che fa consapevoli di esistere in tutta la personale realtà.
Il passo di Vangelo mostra infatti il valore delle cose genuine, silenti, poco eclatanti, le quali però ci abitano - non sono “ombre”. E le percepiamo senza sforzo né impegno cerebrale.
Nel tempo delle scelte epocali, dell’emergenza che sembra metterci in scacco - ma vuole farci meno artificiali - tale consapevolezza può rovesciare il nostro giudizio di sostanza, sul piccolo e il grande.
Infatti, per l’avventura d’amore non c’è contabilità né clamore.
È in Dio e nella realtà il “posto” per ciascuno di noi senza lacerazioni.
L’aldilà non è impreciso.
Non bisogna snaturarsi per avere consenso… tantomeno per il “Cielo” che vince la morte.
Il destino dell’unicità non va in rovina: è prezioso e caro, come lo è in natura.
Bisogna scorgerne la Bellezza, futura e già attuale.
Emarginato il tornaconto immediato - o qualsiasi garanzia sociale che non divori il valore della piccolezza - non ci sarà più bisogno di identificarsi con gli scheletri del pensiero e delle maniere assodati o disincarnati, sofisticati, e alla moda.
Neppure conterà collocarsi sopra o davanti: piuttosto sullo sfondo, già ricchi e perfetti, nel senso intimo della pienezza di essere.
Così non dovremo calpestarci a vicenda (cf. es. Lc 12,1)... anche per incontrare Gesù.
«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra - e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima anche perché non è universale» (Rabindranath Tagore).
«Se una globalizzazione pretende di rendere tutti uguali, come se fosse una sfera, questa globalizzazione distrugge la peculiarità di ciascuna persona e di ciascun popolo».[78] Questo falso sogno universalistico finisce per privare il mondo della varietà dei suoi colori, della sua bellezza e in definitiva della sua umanità. Perché «il futuro non è “monocromatico”, ma, se ne abbiamo il coraggio, è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!» [Fratelli Tutti n.100].
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Ti è capitata una persecuzione che - mentre avresti preferito altri obbiettivi prossimi - ha fatto affiorare proprio l'originalità della tua fisionomia vocazionale?